E questa settimana, in attesa di
capire quando si riuscirà a partire per un nuovo viaggio, facciamo viaggiare un
po’ la mente. Sperando che il corpo lo segua. In Tibet con Osborne, o in
Australia con Sonego o in Senegal con Giorgi o nella Scozia di McCall Smith. I
primi sono viaggi veri e propri, anche troppo nel caso di Giorgi. L’ultimo è
forse più un’attesa, ma è anche il solito viaggio interiore verso la nostra
etica, tanto bistrattata.
Lawrence Osborne “Shangri-La” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato a
4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 08/01/2013 – T: 08/01/2013]
[tit. or.: Shangri-La; ling. or.: inglese; pagine: 52;
anno 2008]
Un
gradevole racconto di viaggio, pieno di spunti e di possibili approfondimenti,
che magari sono solo accennati, ma che mi hanno legato alle scarse pagine con
l’attenzione di chi segue una fiaba narrata per l’altrove. Non a caso, il
consiglio di lettura mi arriva dalla rivista “Qui Touring” (quando si parla di
viaggi… anche se troppo statici). Osborne è un inglese trapiantato a New York,
che scrive un po’ di tutto, ma che ha la capacità di cogliere essenzialmente i
profumi dei viaggi. In Italia è uscito un suo bel libro su Bangkok, poi ne ha
scritti su Parigi, l’Italia, ed anche sul vino e l’andar per vigne. Queste
scarne pagine invece (scarne per numero non per densità) ci portano in Tibet.
Nel Tibet che 60 anni fa fu occupato dalla Cina (costringendo all’esilio il
Dalai Lama). Nel Tibet non sulle orme di “Orizzonte perduto” di Hilton, ma
degli articoli che (insieme alle narrazioni di alcuni monaci missionari
cristiani) diedero ad Hilton l’idea di Shangri-La. Siamo quindi sulle tracce di
uno strano botanico austro-americano, Joseph Rock, che dopo aver studiato negli
anni ’10 la flora hawaiana, si trasferisce negli anni ’20 in Asia. E scrive per
National Geographic e manda anche piante “nuove e rarissime” in Occidente. Le
sue “innamorate” descrizioni dei mondi tibetani oltre i 5000 metri d’altezza,
le foto dei locali, folcloristici e buddisti, con la loro aria di quiete e soddisfazione
(sarà stata vera?), incendiano le fantasie. E fanno costruire ad Hilton un
cumulo di sciocchezze, che però raggiungono un risultato affascinante:
Shangri-La diviene un topos simbolico, un luogo inesistente ma reale, se non
sede dell’eterna giovinezza, almeno di calma e saggezza. Ora noi non ci
addentriamo negli scritti di Hilton, ma seguiamo le tracce di Rock. La sua casa
a Lijiang nell’attuale Yunnan cinese ed il suo percorso attraverso i monti.
Osborne lo fa con una jeep guidata dal tibetano La ed accompagnato da due
interpreti cinesi: Shiny l’ortodossa e Mary la cattolica. Già nello scontro tra
le tre “ideologie” si avverte lo stridore del luogo. Ed Osborne riesce a
portare alla luce con brevi frasi questi contrasti epocali: il tè al burro,
simbolo dell’ospitalità tibetana da un lato (e ne ricordo, io che non sono,
ancora, andato in Tibet, una bevuta efficacemente disgustosa in un ristorante
tibetano a Parigi), e gli hotel superlussosi e cafoni dei nuovi ricchi cinesi e
dei loro sodali coreani e indonesiani. C’è tutto l’orrore, che ho ben provato,
della ricerca del lusso a modo loro dei cinesi, che costruiscono case,
abbattano, fanno e disfanno, ma con una capacità di creare le cose più brutte
nei posti più belli. Fortunatamente, ogni tanto Osborne ci svela anche che
dietro questi obbrobri ci sono mondi autentici benché arretrati. Ci sono
monasteri buddisti, ci sono ruote di preghiera giganti, ma anche minuscole, che
vecchine colorate fanno girare incessantemente, ci sono candele puzzolenti, ci
sono palazzi grandiosi, come il mini Potlala. E soprattutto ci sono i naxi e la
scrittura pittografica dongba. Sì perché in questa zona, più che tibetani puri,
vive questa etnia che (purtroppo) va scomparendo. Un’etnia pre-buddista, che
predica l’armonia tra l’uomo e la natura, sostenendo che questi due siano
fratellastri nati da due madri diverse e da uno stesso padre. Motivo per cui
pur antagonisti a volte, devono ricercare l’armonia. E la scrittura
pittografica, unica al mondo. Secondo studi linguistici internazionali, ci sono
soltanto 60 persone che sanno leggere e scrivere questa scrittura, e solo 3
sono sotto i 30 anni. È una scrittura che sembra derivare dai geroglifici
egiziani (nell’idea) ma che si sviluppa, orientaleggiando, in modo che le frasi
si generano come dei rebus sulla carta. Tanto che, secondo l’organizzazione
mondiale del “Writing Systems and Languages”, a causa della sua complessità, ci
vogliono più di 15 anni per diventare “abili” nello scrivere in Dongba. Non
sarà nelle nostre corde, noi torniamo in Tibet con Osborne, ci meravigliamo
delle ingenuità cinesi, che ribattezzano metà dei luoghi con il nome
Shangri-La, o la sua trasformazione in un cinese da operetta in Xianggelila
(terribile!!). Ma ci estasiamo alle bellezze naturali, ed a quanto, ottanta
anni fa, vide e descrisse Rock (inviandogli un sentito grazie, a lui come a
tutti i meravigliosi occidentali che ci fecero scoprire con occhi nuovi questi
mondi: penso al grande Giuseppe Tucci ed al suo discepolo Fosco Maraini, sì il
padre di Dacia, ma questa è tutta un’altra storia). Lo scritto è purtroppo
breve, e ben presto ci lascia, mettendoci ancora una volta la voglia di partire
(senza bere però quanto sotto descritto dall’autore).
“Aveva versato due tazze di vino zhang [vino
di riso fatto con infusi di erbe medicinali e lasciato invecchiare] … quello di
venti anni. Sapeva di sherry andato a male, con un retrogusto di arsenico. … Ho
sentito una fitta al cuore e ho sputato quella che secondo me era una lingua di
fuoco … L’ultima cosa che ricordo è che
… sono stramazzato al suolo … atterrando in un morbido fango … che sembrava
burro calpestato da una mandria di yak.” (30)
Rodolfo Sonego “Diario australiano” Adelphi euro 5,50 (in realtà,
scontato 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 18/01/2013 – T: 21/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 105;
anno: 2007]
Anche questo è uno dei tanti
suggerimenti usciti fuori dal cappello del supplemento “Libri” di Repubblica,
quella “Terza” che proponeva uscite minori, ma con momenti di fascino. Come
questo piccolo assaggio del diario di un grande sceneggiatore che io
personalmente poco conoscevo in realtà. Certo, si dice Sonego e si pensa subito
a “Il sorpasso”. Oppure a tutta la produzione degli ultimi trenta anni di
Albero Sordi. Dietro c’è sempre lui, questo personaggio (oserei dire, più che
sceneggiatore), nato nel ’21, partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale,
grande affabulatore e ottimo disegnatore, tanto che i suoi scritti sono (pare,
che io non li conosco) punteggiati da immagini. Che dopo la guerra, si
trasferisce a Roma, e con le sue doti di narratore di piccoli e grandi fatti,
entra nel giro “artistico” della Roma degli anni Cinquanta. Con questa sua aria
strampalata, che gli fa decidere di prendere un aereo, catapultarsi in qualsiasi
parte del mondo, e tirarne fuori piccole o grandi storie. Come ben apprendiamo
dall’ottima (e quando ci vogliono lodi, facciamole) post-fazione di Tatti
Sanguineti. Quando va in Svezia, ed imbastisce un paio di film che inaugurano
il mito della scandinava dal sesso facile. Ma anche quando va a Marcinelle in
Belgio a scrivere in loco il primo copione per un film sui disastri in miniera.
Film che non verrà fatto, perché troppo “comunista”. Così come lo era, da
sempre, Sonego. E ne faceva filtrare momenti in tutti i suoi copioni. Che poi
registi alla moda interpretavano, tagliavano, rimaneggiavano. Ma Sonego era già
oltre, ad altri momenti, ad altri racconti (che lui parlava, e la moglie
Allegra passava alla macchina da scrivere). Era comunque ben amato dai
produttori, che il massimo che chiedeva per partire era un biglietto aereo e le
spese (tutto il contrario dello star system di sempre, che chiedeva sempre
mirabolanti spese per andare a giro). Dodici anni fa muore, e la moglie mette a
disposizione le carte, e ne sono tante, rimaste nei suoi girovagare per il
mondo. Qui ne assaporiamo un piccolo esempio. Quando nel 1970 decide di andare
a visitare l’Australia. Per trovare delle radici (anche il padre ne era stato
un immigrato per qualche anno), e per visitare la sorella colà trasferitasi da
18 anni. Ed in queste poche pagine, a volte in modo solo accennato, il buon
Rodolfo butta giù impressioni che lo colgono mentre va in giro. Prima nelle
varie tappe d’avvicinamento, Bangkok e Giacarta su tutte. Poi nell’Australia e
nelle sue immensità. Ricorderò sempre le cinque ore d’aereo che impiegai per
farne la traversata da Nord a Sud (ed io che pensavo già di essere arrivato).
Le diversità tra la caotica Sidney e l’austera Adelaide. Gli animali strani. Il
lungo treno che in 36 ore lo porta sino a Perth. Ma soprattutto le storie
italiane che incontra. Perché nel suo viaggio di memoria, va alla ricerca di
momenti italiani, di luoghi dove sono presenti questi nostri connazionali
andati laggiù in cerca di fortuna. E quasi mai trovandola. Con i siciliani
chiusi ed isolati e tesi a non sprecare un centesimo. Ed i nordici che sentono
nostalgia di casa, che non si integrano, che si sposano per corrispondenza con
qualche (forse) bellezza rimasta in patria. Leggiamo quaranta anni dopo momenti
che ora potremmo vedere applicati ai tanti immigrati qui in Italia da tanti
posti poveri del mondo, come se appunto qui ci fossero soldi e lavoro per
tutti. Non ce ne sono. Come non erano lì, in quei posti sconfinati, dove
parlavano una lingua altra. Tante sono le piccole macchiette che schizza in
pochi tratti di penna (purtroppo senza disegni, ma si nota il gusto pittorico).
Il tassista, il barista, il tuttofare dell’albergo, ma anche il magnaccia, il
giocatore incallito (in un gioco che viene indicato come two-up, ma che non è
altro che una variante di testa o croce). Piacevole questo scorrazzare di
parole, dove si sente sempre l’empatia verso i diseredati che Sonego mostra in
tutta la sua vita e la sua produzione. Poi Sanguineti ci dice che queste note
di viaggio diventano un copione cui dà titolo “Carmela”, dal nome della bella
indotta a trasferirsi in Australia da un conterraneo che millanta soldi. E noi
sappiamo che il regista Luigi Zampa prende il copione e lo trasforma, con Alberto
Sordi, nel film “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana
illibata”. Grazie di avermi fatto conoscere Sonego, e grazie ancora alle belle
note finali di Sanguineti.
“I giovani architetti! ... Come tutti noi pensano, sognano un mondo bello
per tutti e creano poche isole di sogno per pochi. Generalmente dicono che
bisogna cominciare creando delle isole di sogno per pochi e poi sarà tutta
un’isola di sogno. Mah!” (67)
Carlo Giorgi “Vado in Senegal” Terre di Mezzo euro 7,50 (in realtà,
scontato 6 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 04/02/2013 – T: 05/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 139;
anno: 2008]
Una buona operazione ed una
lettura discreta, anche se pensavo (o speravo) qualcosa di più. Uno dei
suggerimenti di lettura di viaggio contenuti nella rivista del Touring
(ultimamente purtroppo diminuiti e meno interessanti) che ho ben accolto per
una serie lunga di motivi: l’editore, quel “Terre di Mezzo” che pubblica libri
di culture diverse e che ne affida la distribuzione e la vendita a venditori di
strada; l’autore, giornalista sì ma soprattutto conoscitore del mondo del
turismo responsabile; il posto, che rimane nel retro del pensiero in quel
viaggio ormai lontano nel tempo in quel del “Sunugal”. Facendo, proprio come in
un certo senso “non” suggerisce Giorgi, il giro lungo, da Ziguinchor a Dakar
passando per il Parco Nazionale di Niokolo Koba, scendendo per Tambacounda,
lentamente fino a Thies (con il mitico incontro della stazione ferroviaria), ed
arrivando al Plateau di Dakar e al grande mare. Un ricordo costellato di
piccoli e grandi episodi: i tentativi linguistici di Giansimone, la gita nel
parco con il camion in panne, la passeggiata (un po’ a rischio) tra serpenti e
termitai, la gente alla stazione di Thies (- Cosa fate qui? chiedo, -
Aspettiamo il treno per Bamako, - E a che ora arriva?, insisto, - Tra due
giorni, mi risponde. Favoloso), i pesci e l’onda lunga dell’Oceano. Tutte
sensazioni che ritrovo nelle parole di Giorgi. Trovandoci anche qualche cosa in
più e qualche cosa in meno. Sono passati almeno 10 anni tra i nostri due viaggi
(ed il mio non era responsabile, allora), ma si sente l’allegrezza piena della
gente del Senegal, anche se ormai stemperata nell’avanzare della miseria e
dell’emigrazione. Ma proprio questa dà anche dei tocchi magici di contatto. Con
tanti senegalesi in Europa ed in Italia, e tanti emigrati di ritorno, non si
parla solo wolof o altri dialetti locali, ma molte lingue europee. Capita, come
a Giorgi, di passare una serata multietnica parlando in italiano. E con Giorgi
ci muoviamo, a Dakar e nelle sue mille sfaccettature, passando all’Università
dove ci sono classi di italiano, e dove trova la sua guida, che lo porterà in
giro per il paese citando Leopardi. Poi nei taxi, nei mezzi pubblici, nel treno,
a contatto con la gente, sempre pronta a raccontare la sua storia, a farsi in
mezzo, a parlare. Nel parco alla ricerca dei leoni (che non trova lui come non
trovammo noi). Nelle magiche spiagge di Ziguinchor, a veder tornare le barche
cariche di pesci, a giocare con i bambini sulle onde lunghe del (mio, ma anche
di Giorgi) primo bagno nell’Oceano. Nei contatti con le mille organizzazioni
umanitarie, con le centinaia di ong, e tutte le altre strutture (radio
comprese) alla ricerca appunto come dice il sottotitolo, di un turismo
responsabile. A cui viene poi dedicata tutta l’ultima parte, con i 16 itinerari
per capire il paese, ognuno costellato di utili indirizzi e contatti. E tuttavia
mi aspettavo qualcosa in più. Forse Giorgi rimane, per quanto riesce ad esprimere,
un filo al di qua di quella linea di empatia che rende una narrazione di
viaggio partecipata e coinvolgente. Ecco, se dovessi dire la sensazione finale,
benché si parli, si dica, si narri, e si citi una serie si persone e situazioni
che sarebbe bello incontrare, sembra sempre di essere fuori dal cerchio magico
della condivisione. Non so se sia la scrittura, a dare questa sensazione, ma
non mi ha dato quel tocco che immaginavo. Quella voglia di dire, ma perché non
prendo anch’io quell’aereo per Las Palmas per poi tornare al sole caldo di
quell’Africa, ancora non toccata (fortunatamente) dal montare dell’integralismo
che poco più a Sud sta sconvolgendo Mali e Mauritania. Peccato. Ah, un ultimo
monito: perché mio caro viaggiatore avere la sensazione di rimpiangere la
cucina di casa? Mai, sottolineo, mai andare in un ristorante italiano, che
italiano si mangia a casa propria. Per le grandi terre, si mangia quello che
mangiano gli abitanti, fossero scorpioni fritti in Cina o vermi degli alberi in
Namibia.
Alexander McCall Smith “Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico”
TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 02/03/2013
– T: 04/03/2013]
[tit. or.: The Comfort of Saturdays; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 2008]
Anche
se non è un viaggio, per una serie di motivi, l’ho inserito nella quaterna dei
viaggiatori. Perché l’autore è sempre in bilico tra Scozia e Botswana. Perché
ogni volta che ne leggo mi ritrovo in Scozia (dove spero presto si andrà).
Perché è anche un viaggio interiore, sull’orma dei pensieri filosofici che la nostra Isabella ci
instilla ad ogni piè sospinto. Intanto, qualcuno mi deve spiegare come fare a
mischiare “la comodità del sabato” con l’ignobile titolo italiano. Che al solito
prefigura parte della trama, ma con intenti subdoli, e ben diversi da quelli
dell’autore. Il nostro Alexander, infatti, cercava di ruotare intorno ad un
giorno di quasi riposo per dare un tono rilassante ad uno squarcio della vita
dei nostri personaggi scozzesi. Abbiamo ovviamente Isabella in prima linea, con
l’approccio etico ad ogni questione del vivere, fosse anche quella di decidere
se riprendere un pezzo di formaggio non gradito dal cliente. In ombra, ma in
crescita, il figlio Charlie, che si avvia al primo anno di vita e comincia a
dar segni di esistenza. Con loro, Jamie, il giovane controfagottista – amante –
padre – quasi sposo, sul cui rapporto Isabella si interroga a pagine alterne. È
amore? Ci sono troppi anni di differenza tra loro (dieci per l’esattezza)? E se
Jamie la lascia? Un misto di apprensione etica generalizzata (pane quotidiano
per Isabella) e gelosia. Piccolo cameo per la nipote Cat , con il suo
negozio, il commesso, i rapporti sempre sfortunati con l’altro sesso, nonché la
vacanza in Sri Lanka. Come dimenticare poi la “Rivista di filosofia applicata”,
unica vera occupazione di Isabella insieme alla cura della famiglia Jamie &
Charlie. Con l’ovvio collegamento agli scritti da pubblicare, ed in particolare
al poco incisivo ma difficile da rifiutare scritto del poco simpatico professor
Dove, imperniato sul dilemma del binario ferroviario. Ci si interroga sulla
questione etica legata ad una locomotiva che senza freni procede per un binario
dove sta per falciare cinque persone. C’è un bivio poco prima, azionando il quale
la locomotiva si incanala su una diversa via uccidendo una sola persona. Da qui
il dilemma filosofico: che fare? Chi salvare? E come e se prescindere dalle
persone stesse? Se sappiamo che i cinque sono cattivi e l’uno buono, azionare o
meno la deviazione? Ben si vede, problemi ch tutti quanti affrontiamo centinaia
di volte al giorno. Ma forse più di quanto si pensi, dato che il nucleo
centrale della storia è poi una variante di questo tema, imperniato sui sensi
di colpa di un medico che (per errore? calcolo? sbadataggine?) ha male
interpretato i risultati di una ricerca farmaceutica, permettendo ad un nuovo
farmaco di entrare in commercio. Peccato che abbia causata la morte di una
persona proprio per la diversa interpretazione di quei risultati. Ed il medico
si è ritirato dalla vita attiva per la vergogna. Isabella, da amici comuni,
viene coinvolta nell’esame del caso, trovando possibili soluzioni: un
assistente nipote del medico che potrebbe aver falsificato i risultati per
vendicare una zia mal trattata dal medico stesso, la casa farmaceutica che
potrebbe aver fatto lo stesso per non ritardare il commercio del farmaco
stesso, il medico stesso, perché no, desideroso di salvare vite umane senza
curarsi di conseguenze “marginali”. Come la morte collaterale di qualcuno, cosa
che ci riconduce al dilemma del binario. Pagine scritte senza tanti fronzoli,
idee etiche che salgono qua e là, fino a condensarsi nel risultato di capire
cosa è successo al medico ed al farmaco, ed a Jamie ed a Cat. Insomma, ricostruzione
e riconciliazione delle situazioni, nel più puro stile di McCall Smith. In
fondo non particolarmente eccelso, ripeto, come dissi altrove, da leggere in
inglese che dà spunti linguistici interessanti. Ma in fondo, c’è sempre qualche
domanda etica che compare. E non dispiace ragionarci su. Noi lo facciamo, e
continueremo a farlo. Piccola nota culinaria: si parla ad un certo punto di
“differenze tra astaci e aragoste”. Credo sia un refuso che astaci sono i
gamberi facilmente riconoscibili dalle aragoste, e ben diverso se si trattasse
di astici, invece decapodi molto simili. Bisognerebbe vedere l’originale (o
chiedere all’autore).
“La vita consiste anche nel rifiutarci di
fare quel che non dovremmo.” (66)
“Sappiamo sempre più cose, e al tempo stesso
sempre di meno.” (160)
Finisco di scrivere queste note
mentre succede confusione davanti ai Palazzi del Potere. Credo, spero siano
solo sussulti di squilibrati. Che altro mi viene in mente, di anni
(fortunatamente) passati, e sono convinto non ripercorribili. Pensiamo
positivo
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