domenica 28 aprile 2013

Viaggiamondo - 28 aprile 2013


E questa settimana, in attesa di capire quando si riuscirà a partire per un nuovo viaggio, facciamo viaggiare un po’ la mente. Sperando che il corpo lo segua. In Tibet con Osborne, o in Australia con Sonego o in Senegal con Giorgi o nella Scozia di McCall Smith. I primi sono viaggi veri e propri, anche troppo nel caso di Giorgi. L’ultimo è forse più un’attesa, ma è anche il solito viaggio interiore verso la nostra etica, tanto bistrattata.
Lawrence Osborne “Shangri-La” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 08/01/2013 – T: 08/01/2013]
[tit. or.: Shangri-La; ling. or.: inglese; pagine: 52; anno 2008]
Un gradevole racconto di viaggio, pieno di spunti e di possibili approfondimenti, che magari sono solo accennati, ma che mi hanno legato alle scarse pagine con l’attenzione di chi segue una fiaba narrata per l’altrove. Non a caso, il consiglio di lettura mi arriva dalla rivista “Qui Touring” (quando si parla di viaggi… anche se troppo statici). Osborne è un inglese trapiantato a New York, che scrive un po’ di tutto, ma che ha la capacità di cogliere essenzialmente i profumi dei viaggi. In Italia è uscito un suo bel libro su Bangkok, poi ne ha scritti su Parigi, l’Italia, ed anche sul vino e l’andar per vigne. Queste scarne pagine invece (scarne per numero non per densità) ci portano in Tibet. Nel Tibet che 60 anni fa fu occupato dalla Cina (costringendo all’esilio il Dalai Lama). Nel Tibet non sulle orme di “Orizzonte perduto” di Hilton, ma degli articoli che (insieme alle narrazioni di alcuni monaci missionari cristiani) diedero ad Hilton l’idea di Shangri-La. Siamo quindi sulle tracce di uno strano botanico austro-americano, Joseph Rock, che dopo aver studiato negli anni ’10 la flora hawaiana, si trasferisce negli anni ’20 in Asia. E scrive per National Geographic e manda anche piante “nuove e rarissime” in Occidente. Le sue “innamorate” descrizioni dei mondi tibetani oltre i 5000 metri d’altezza, le foto dei locali, folcloristici e buddisti, con la loro aria di quiete e soddisfazione (sarà stata vera?), incendiano le fantasie. E fanno costruire ad Hilton un cumulo di sciocchezze, che però raggiungono un risultato affascinante: Shangri-La diviene un topos simbolico, un luogo inesistente ma reale, se non sede dell’eterna giovinezza, almeno di calma e saggezza. Ora noi non ci addentriamo negli scritti di Hilton, ma seguiamo le tracce di Rock. La sua casa a Lijiang nell’attuale Yunnan cinese ed il suo percorso attraverso i monti. Osborne lo fa con una jeep guidata dal tibetano La ed accompagnato da due interpreti cinesi: Shiny l’ortodossa e Mary la cattolica. Già nello scontro tra le tre “ideologie” si avverte lo stridore del luogo. Ed Osborne riesce a portare alla luce con brevi frasi questi contrasti epocali: il tè al burro, simbolo dell’ospitalità tibetana da un lato (e ne ricordo, io che non sono, ancora, andato in Tibet, una bevuta efficacemente disgustosa in un ristorante tibetano a Parigi), e gli hotel superlussosi e cafoni dei nuovi ricchi cinesi e dei loro sodali coreani e indonesiani. C’è tutto l’orrore, che ho ben provato, della ricerca del lusso a modo loro dei cinesi, che costruiscono case, abbattano, fanno e disfanno, ma con una capacità di creare le cose più brutte nei posti più belli. Fortunatamente, ogni tanto Osborne ci svela anche che dietro questi obbrobri ci sono mondi autentici benché arretrati. Ci sono monasteri buddisti, ci sono ruote di preghiera giganti, ma anche minuscole, che vecchine colorate fanno girare incessantemente, ci sono candele puzzolenti, ci sono palazzi grandiosi, come il mini Potlala. E soprattutto ci sono i naxi e la scrittura pittografica dongba. Sì perché in questa zona, più che tibetani puri, vive questa etnia che (purtroppo) va scomparendo. Un’etnia pre-buddista, che predica l’armonia tra l’uomo e la natura, sostenendo che questi due siano fratellastri nati da due madri diverse e da uno stesso padre. Motivo per cui pur antagonisti a volte, devono ricercare l’armonia. E la scrittura pittografica, unica al mondo. Secondo studi linguistici internazionali, ci sono soltanto 60 persone che sanno leggere e scrivere questa scrittura, e solo 3 sono sotto i 30 anni. È una scrittura che sembra derivare dai geroglifici egiziani (nell’idea) ma che si sviluppa, orientaleggiando, in modo che le frasi si generano come dei rebus sulla carta. Tanto che, secondo l’organizzazione mondiale del “Writing Systems and Languages”, a causa della sua complessità, ci vogliono più di 15 anni per diventare “abili” nello scrivere in Dongba. Non sarà nelle nostre corde, noi torniamo in Tibet con Osborne, ci meravigliamo delle ingenuità cinesi, che ribattezzano metà dei luoghi con il nome Shangri-La, o la sua trasformazione in un cinese da operetta in Xianggelila (terribile!!). Ma ci estasiamo alle bellezze naturali, ed a quanto, ottanta anni fa, vide e descrisse Rock (inviandogli un sentito grazie, a lui come a tutti i meravigliosi occidentali che ci fecero scoprire con occhi nuovi questi mondi: penso al grande Giuseppe Tucci ed al suo discepolo Fosco Maraini, sì il padre di Dacia, ma questa è tutta un’altra storia). Lo scritto è purtroppo breve, e ben presto ci lascia, mettendoci ancora una volta la voglia di partire (senza bere però quanto sotto descritto dall’autore).
“Aveva versato due tazze di vino zhang [vino di riso fatto con infusi di erbe medicinali e lasciato invecchiare] … quello di venti anni. Sapeva di sherry andato a male, con un retrogusto di arsenico. … Ho sentito una fitta al cuore e ho sputato quella che secondo me era una lingua di fuoco …  L’ultima cosa che ricordo è che … sono stramazzato al suolo … atterrando in un morbido fango … che sembrava burro calpestato da una mandria di yak.” (30)
Rodolfo Sonego “Diario australiano” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 18/01/2013 – T: 21/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 105; anno: 2007]
Anche questo è uno dei tanti suggerimenti usciti fuori dal cappello del supplemento “Libri” di Repubblica, quella “Terza” che proponeva uscite minori, ma con momenti di fascino. Come questo piccolo assaggio del diario di un grande sceneggiatore che io personalmente poco conoscevo in realtà. Certo, si dice Sonego e si pensa subito a “Il sorpasso”. Oppure a tutta la produzione degli ultimi trenta anni di Albero Sordi. Dietro c’è sempre lui, questo personaggio (oserei dire, più che sceneggiatore), nato nel ’21, partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale, grande affabulatore e ottimo disegnatore, tanto che i suoi scritti sono (pare, che io non li conosco) punteggiati da immagini. Che dopo la guerra, si trasferisce a Roma, e con le sue doti di narratore di piccoli e grandi fatti, entra nel giro “artistico” della Roma degli anni Cinquanta. Con questa sua aria strampalata, che gli fa decidere di prendere un aereo, catapultarsi in qualsiasi parte del mondo, e tirarne fuori piccole o grandi storie. Come ben apprendiamo dall’ottima (e quando ci vogliono lodi, facciamole) post-fazione di Tatti Sanguineti. Quando va in Svezia, ed imbastisce un paio di film che inaugurano il mito della scandinava dal sesso facile. Ma anche quando va a Marcinelle in Belgio a scrivere in loco il primo copione per un film sui disastri in miniera. Film che non verrà fatto, perché troppo “comunista”. Così come lo era, da sempre, Sonego. E ne faceva filtrare momenti in tutti i suoi copioni. Che poi registi alla moda interpretavano, tagliavano, rimaneggiavano. Ma Sonego era già oltre, ad altri momenti, ad altri racconti (che lui parlava, e la moglie Allegra passava alla macchina da scrivere). Era comunque ben amato dai produttori, che il massimo che chiedeva per partire era un biglietto aereo e le spese (tutto il contrario dello star system di sempre, che chiedeva sempre mirabolanti spese per andare a giro). Dodici anni fa muore, e la moglie mette a disposizione le carte, e ne sono tante, rimaste nei suoi girovagare per il mondo. Qui ne assaporiamo un piccolo esempio. Quando nel 1970 decide di andare a visitare l’Australia. Per trovare delle radici (anche il padre ne era stato un immigrato per qualche anno), e per visitare la sorella colà trasferitasi da 18 anni. Ed in queste poche pagine, a volte in modo solo accennato, il buon Rodolfo butta giù impressioni che lo colgono mentre va in giro. Prima nelle varie tappe d’avvicinamento, Bangkok e Giacarta su tutte. Poi nell’Australia e nelle sue immensità. Ricorderò sempre le cinque ore d’aereo che impiegai per farne la traversata da Nord a Sud (ed io che pensavo già di essere arrivato). Le diversità tra la caotica Sidney e l’austera Adelaide. Gli animali strani. Il lungo treno che in 36 ore lo porta sino a Perth. Ma soprattutto le storie italiane che incontra. Perché nel suo viaggio di memoria, va alla ricerca di momenti italiani, di luoghi dove sono presenti questi nostri connazionali andati laggiù in cerca di fortuna. E quasi mai trovandola. Con i siciliani chiusi ed isolati e tesi a non sprecare un centesimo. Ed i nordici che sentono nostalgia di casa, che non si integrano, che si sposano per corrispondenza con qualche (forse) bellezza rimasta in patria. Leggiamo quaranta anni dopo momenti che ora potremmo vedere applicati ai tanti immigrati qui in Italia da tanti posti poveri del mondo, come se appunto qui ci fossero soldi e lavoro per tutti. Non ce ne sono. Come non erano lì, in quei posti sconfinati, dove parlavano una lingua altra. Tante sono le piccole macchiette che schizza in pochi tratti di penna (purtroppo senza disegni, ma si nota il gusto pittorico). Il tassista, il barista, il tuttofare dell’albergo, ma anche il magnaccia, il giocatore incallito (in un gioco che viene indicato come two-up, ma che non è altro che una variante di testa o croce). Piacevole questo scorrazzare di parole, dove si sente sempre l’empatia verso i diseredati che Sonego mostra in tutta la sua vita e la sua produzione. Poi Sanguineti ci dice che queste note di viaggio diventano un copione cui dà titolo “Carmela”, dal nome della bella indotta a trasferirsi in Australia da un conterraneo che millanta soldi. E noi sappiamo che il regista Luigi Zampa prende il copione e lo trasforma, con Alberto Sordi, nel film “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata”. Grazie di avermi fatto conoscere Sonego, e grazie ancora alle belle note finali di Sanguineti.
“I giovani architetti! ... Come tutti noi pensano, sognano un mondo bello per tutti e creano poche isole di sogno per pochi. Generalmente dicono che bisogna cominciare creando delle isole di sogno per pochi e poi sarà tutta un’isola di sogno. Mah!” (67)
Carlo Giorgi “Vado in Senegal” Terre di Mezzo euro 7,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 04/02/2013 – T: 05/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 139; anno: 2008]
Una buona operazione ed una lettura discreta, anche se pensavo (o speravo) qualcosa di più. Uno dei suggerimenti di lettura di viaggio contenuti nella rivista del Touring (ultimamente purtroppo diminuiti e meno interessanti) che ho ben accolto per una serie lunga di motivi: l’editore, quel “Terre di Mezzo” che pubblica libri di culture diverse e che ne affida la distribuzione e la vendita a venditori di strada; l’autore, giornalista sì ma soprattutto conoscitore del mondo del turismo responsabile; il posto, che rimane nel retro del pensiero in quel viaggio ormai lontano nel tempo in quel del “Sunugal”. Facendo, proprio come in un certo senso “non” suggerisce Giorgi, il giro lungo, da Ziguinchor a Dakar passando per il Parco Nazionale di Niokolo Koba, scendendo per Tambacounda, lentamente fino a Thies (con il mitico incontro della stazione ferroviaria), ed arrivando al Plateau di Dakar e al grande mare. Un ricordo costellato di piccoli e grandi episodi: i tentativi linguistici di Giansimone, la gita nel parco con il camion in panne, la passeggiata (un po’ a rischio) tra serpenti e termitai, la gente alla stazione di Thies (- Cosa fate qui? chiedo, - Aspettiamo il treno per Bamako, - E a che ora arriva?, insisto, - Tra due giorni, mi risponde. Favoloso), i pesci e l’onda lunga dell’Oceano. Tutte sensazioni che ritrovo nelle parole di Giorgi. Trovandoci anche qualche cosa in più e qualche cosa in meno. Sono passati almeno 10 anni tra i nostri due viaggi (ed il mio non era responsabile, allora), ma si sente l’allegrezza piena della gente del Senegal, anche se ormai stemperata nell’avanzare della miseria e dell’emigrazione. Ma proprio questa dà anche dei tocchi magici di contatto. Con tanti senegalesi in Europa ed in Italia, e tanti emigrati di ritorno, non si parla solo wolof o altri dialetti locali, ma molte lingue europee. Capita, come a Giorgi, di passare una serata multietnica parlando in italiano. E con Giorgi ci muoviamo, a Dakar e nelle sue mille sfaccettature, passando all’Università dove ci sono classi di italiano, e dove trova la sua guida, che lo porterà in giro per il paese citando Leopardi. Poi nei taxi, nei mezzi pubblici, nel treno, a contatto con la gente, sempre pronta a raccontare la sua storia, a farsi in mezzo, a parlare. Nel parco alla ricerca dei leoni (che non trova lui come non trovammo noi). Nelle magiche spiagge di Ziguinchor, a veder tornare le barche cariche di pesci, a giocare con i bambini sulle onde lunghe del (mio, ma anche di Giorgi) primo bagno nell’Oceano. Nei contatti con le mille organizzazioni umanitarie, con le centinaia di ong, e tutte le altre strutture (radio comprese) alla ricerca appunto come dice il sottotitolo, di un turismo responsabile. A cui viene poi dedicata tutta l’ultima parte, con i 16 itinerari per capire il paese, ognuno costellato di utili indirizzi e contatti. E tuttavia mi aspettavo qualcosa in più. Forse Giorgi rimane, per quanto riesce ad esprimere, un filo al di qua di quella linea di empatia che rende una narrazione di viaggio partecipata e coinvolgente. Ecco, se dovessi dire la sensazione finale, benché si parli, si dica, si narri, e si citi una serie si persone e situazioni che sarebbe bello incontrare, sembra sempre di essere fuori dal cerchio magico della condivisione. Non so se sia la scrittura, a dare questa sensazione, ma non mi ha dato quel tocco che immaginavo. Quella voglia di dire, ma perché non prendo anch’io quell’aereo per Las Palmas per poi tornare al sole caldo di quell’Africa, ancora non toccata (fortunatamente) dal montare dell’integralismo che poco più a Sud sta sconvolgendo Mali e Mauritania. Peccato. Ah, un ultimo monito: perché mio caro viaggiatore avere la sensazione di rimpiangere la cucina di casa? Mai, sottolineo, mai andare in un ristorante italiano, che italiano si mangia a casa propria. Per le grandi terre, si mangia quello che mangiano gli abitanti, fossero scorpioni fritti in Cina o vermi degli alberi in Namibia.
Alexander McCall Smith “Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 02/03/2013 – T: 04/03/2013]
[tit. or.: The Comfort of Saturdays; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 2008]
Anche se non è un viaggio, per una serie di motivi, l’ho inserito nella quaterna dei viaggiatori. Perché l’autore è sempre in bilico tra Scozia e Botswana. Perché ogni volta che ne leggo mi ritrovo in Scozia (dove spero presto si andrà). Perché è anche un viaggio interiore, sull’orma dei pensieri filosofici che la nostra Isabella ci instilla ad ogni piè sospinto. Intanto, qualcuno mi deve spiegare come fare a mischiare “la comodità del sabato” con l’ignobile titolo italiano. Che al solito prefigura parte della trama, ma con intenti subdoli, e ben diversi da quelli dell’autore. Il nostro Alexander, infatti, cercava di ruotare intorno ad un giorno di quasi riposo per dare un tono rilassante ad uno squarcio della vita dei nostri personaggi scozzesi. Abbiamo ovviamente Isabella in prima linea, con l’approccio etico ad ogni questione del vivere, fosse anche quella di decidere se riprendere un pezzo di formaggio non gradito dal cliente. In ombra, ma in crescita, il figlio Charlie, che si avvia al primo anno di vita e comincia a dar segni di esistenza. Con loro, Jamie, il giovane controfagottista – amante – padre – quasi sposo, sul cui rapporto Isabella si interroga a pagine alterne. È amore? Ci sono troppi anni di differenza tra loro (dieci per l’esattezza)? E se Jamie la lascia? Un misto di apprensione etica generalizzata (pane quotidiano per Isabella) e gelosia. Piccolo cameo per la nipote Cat, con il suo negozio, il commesso, i rapporti sempre sfortunati con l’altro sesso, nonché la vacanza in Sri Lanka. Come dimenticare poi la “Rivista di filosofia applicata”, unica vera occupazione di Isabella insieme alla cura della famiglia Jamie & Charlie. Con l’ovvio collegamento agli scritti da pubblicare, ed in particolare al poco incisivo ma difficile da rifiutare scritto del poco simpatico professor Dove, imperniato sul dilemma del binario ferroviario. Ci si interroga sulla questione etica legata ad una locomotiva che senza freni procede per un binario dove sta per falciare cinque persone. C’è un bivio poco prima, azionando il quale la locomotiva si incanala su una diversa via uccidendo una sola persona. Da qui il dilemma filosofico: che fare? Chi salvare? E come e se prescindere dalle persone stesse? Se sappiamo che i cinque sono cattivi e l’uno buono, azionare o meno la deviazione? Ben si vede, problemi ch tutti quanti affrontiamo centinaia di volte al giorno. Ma forse più di quanto si pensi, dato che il nucleo centrale della storia è poi una variante di questo tema, imperniato sui sensi di colpa di un medico che (per errore? calcolo? sbadataggine?) ha male interpretato i risultati di una ricerca farmaceutica, permettendo ad un nuovo farmaco di entrare in commercio. Peccato che abbia causata la morte di una persona proprio per la diversa interpretazione di quei risultati. Ed il medico si è ritirato dalla vita attiva per la vergogna. Isabella, da amici comuni, viene coinvolta nell’esame del caso, trovando possibili soluzioni: un assistente nipote del medico che potrebbe aver falsificato i risultati per vendicare una zia mal trattata dal medico stesso, la casa farmaceutica che potrebbe aver fatto lo stesso per non ritardare il commercio del farmaco stesso, il medico stesso, perché no, desideroso di salvare vite umane senza curarsi di conseguenze “marginali”. Come la morte collaterale di qualcuno, cosa che ci riconduce al dilemma del binario. Pagine scritte senza tanti fronzoli, idee etiche che salgono qua e là, fino a condensarsi nel risultato di capire cosa è successo al medico ed al farmaco, ed a Jamie ed a Cat. Insomma, ricostruzione e riconciliazione delle situazioni, nel più puro stile di McCall Smith. In fondo non particolarmente eccelso, ripeto, come dissi altrove, da leggere in inglese che dà spunti linguistici interessanti. Ma in fondo, c’è sempre qualche domanda etica che compare. E non dispiace ragionarci su. Noi lo facciamo, e continueremo a farlo. Piccola nota culinaria: si parla ad un certo punto di “differenze tra astaci e aragoste”. Credo sia un refuso che astaci sono i gamberi facilmente riconoscibili dalle aragoste, e ben diverso se si trattasse di astici, invece decapodi molto simili. Bisognerebbe vedere l’originale (o chiedere all’autore).
“La vita consiste anche nel rifiutarci di fare quel che non dovremmo.” (66)
“Sappiamo sempre più cose, e al tempo stesso sempre di meno.” (160)
Finisco di scrivere queste note mentre succede confusione davanti ai Palazzi del Potere. Credo, spero siano solo sussulti di squilibrati. Che altro mi viene in mente, di anni (fortunatamente) passati, e sono convinto non ripercorribili. Pensiamo positivo

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