Ma non è una trama dedicata ai
viaggi, ma grandi città come teatro di azioni più o meno violente, portate con
mano abbastanza ferma da quattro autori italiani, nuovi e vecchi. C’è la Milano
di Colaprico, anche se poi ci si muove per tutta la penisola, e c’è la Firenze
di Vichi. Ma c’è anche la Roma di Foschi e l’interessante puntata a Parigi di
Pandiani. Storie violente, come detto, ma anche storie di vita, e storie di
persone.
Enrico Pandiani “Les Italiens” Instar euro 9
[A: 04/10/2012 – I: 01/03/2013 – T: 02/03/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 301;
anno: 2012]
Un
esordio (nella mia libreria) interessante e da incoraggiare. Dopo un tedesco
che scrive di poliziotti italiani a Trieste, ecco nascere un italiano che parla
di una brigata di gendarmi italo-francesi a Parigi. Spero che venga (o sia
stato) tradotto in francese, che lo merita. Perché unisce un tocco di
francesità a molto hard-boiled americano. Un Luc Besson alla Nikita,
risciacquato con un Tarantino doc. Narrato in prima persona dal responsabile
della brigata detta “Les Italiens”, dato che è composta tutta da oriundi (di
diverse generazioni), la narrazione e l’azione entra subito nel vivo, sin dalle
prime righe. Una sparatoria che colpisce il Quai des Orfevres, decima la
brigata, facendo fuori 2 gendarmi e mandando all’ospedale un terzo, nonché una
donna innocente. Si entra subito nel vivo, e con un bel ritmo. E si rimane su
questo filo senza fiato, quando il suddetto narratore viene incaricato dal capo
della polizia di indagare su un probabile tentativo di furto a carico di una
persona che (guarda caso) assomiglia alla donna morta per caso. E tuttavia non
è una donna, ma un trans. Questo è un bel colpo di genio dell’autore, che
infila anche tematiche sociali e personali nel bel mezzo di questa corsa verso
(ancora) non si sa cosa. La
bella Moët (o il bel Thomas a seconda di quale parte si
privilegia) si dedica alla pittura, ed ha un discreto successo con tutti i generi
(maschili e femminili). Lo studio è devastato, e così anche la casa, che si
trova in periferia (bella la gita in auto verso gli stagni di Saint – Claude).
Non solo, ma lì i nostri due eroi in fuga si trovano assaliti da una banda, tra
cui c’è anche un poliziotto. Il mistero si infittisce, non si sa chi è amico e
chi no. Il nostro decide di potersi fidare di due persone soltanto: la ricca Ocèane , dal cui
attico partirono i colpi che hanno dato origine alla vicenda, ed il resto della
sua brigata, con a capo ora André Serandoni (rigorosamente con l’accento sulla
i). Continuano a fioccare morti e sangue. Muore l’avvocatessa di Moët. E si
passa una serata hard tutti a casa di Ocèane. Intanto cominciano a diradarsi
alcune nebbie: il nostro trans è stato adottata (difficile utilizzare desinenze
maschili e femminili in questo caso…), ed il suo amante – amica – avvocato
(appena dal trans mollato) per tornare alla carica aveva deciso di scoprire i
veri genitori di Moët. Che però avevano chiesto il segreto, che l’avvocato
riesce comunque a sapere che siano, che sono in una posizione pericolosa per
Moët e per “les Italiens”. Nonostante tutto, i nostri italiani decidono di
procedere a spron battuto, aiutati dalla tribù di immigrati: il padre ed i
parenti di Serandoni, dalla brigata fluviale, alla brigata motorizzata. Che i
cattivi hanno una bella struttura delinquenziale a loro supporto (e si capirà
alla fine i veri motivi di tutto ciò), ramificata in molte strutture della
Pubblica Amministrazione francese, polizia in primis. Ed allora proseguiamo con
gli inseguimenti, le agnizioni, le morti violente (alla fine credo di averne
contate una ventina), i tentativi di incastrare il nostro narratore (di cui
però fino alla fine non veniamo a conoscenza del nome) uccidendo persone a
destra e a manca con il suo coltello o le sue pistole. Il nostro comincia
inoltre non solo a capire Moët, ma ad esserne attratto, ed è interessante il
percorso di denudamento dei sentimenti dei personaggi principali. Alla fine, si
chiariranno i misteri: l’origine di Moët – Thomas, la rabbia del narratore, il
suo pencolare verso Ocèane, ed il chiarimento finale (che non vi anticipo) tra
tutti i protagonisti, che metterà ognuno ad un posto congruo, ma che apre
(credo) le porte ad una successiva puntata. Insomma, una scrittura
interessante, degna erede di Chandler, forse con qualche ingenuità, ma, in
definitiva, uno dei prodotti più interessanti dell’ultimo periodo. Bravo
Enrico! E grazie del piccolo ricordo – cammeo con il gelato da Berthillon nell’Ile-Saint-Louis!
Paolo Foschi “Il castigo di Attila” E/O euro 13 (in realtà, scontato
11,18 euro)
[A: 14/03/2013 – I: 25/03/2013 – T: 27/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167;
anno 2012]
Secondo
episodio delle indagini del commissario Igor Attila, ex-pugile e capo della
squadra speciale della polizia dedicata ai crimini sportivi. Foschi (anche lui
del Corriere della Sera, come il da poco letto Ruggeri sul versante asiatico
dei viaggi) migliora la scrittura rispetto al primo libro. Almeno per quanto
riguarda la storia e l’intreccio. Forse non tanto per i personaggi in sé, sui
quali ritornerò. Nel delitto alle Olimpiadi, probabilmente anche nell’ansia
della presentazione dei personaggi e delle situazioni, la storia “gialla”
rimane un po’ risibile rispetto al resto, nonché con quella forzatura di
prevedere due atleti bianchi sul podio in una finale degli 800 metri piani
(cosa che non succede alle Olimpiadi dal lontano 1980 con gli inglesi Ovett e
Coe). Qui invece ha un suo spessore autonomo. Anche perché si passa a parlare
di calcio. E quando si parla di calcio, ovvio il collegamento al calcio
scommesse ed alla malavita organizzata. Con un po’ di cattiveria (o masochismo)
il romano Foschi fa perno della vicenda il portiere della Roma, Rocco Graziano,
che dopo essere diventato l’idolo delle folle per aver parato il rigore
decisivo della finale di Champions tra Roma e Liverpool (e ben ricordiamo la
“vera” partita tra le due squadre, quella del maggio del 1984, quando molto
venne deciso dall’errore dal dischetto di Ciccio Graziani, qualche rimando,
Foschi?) viene ucciso a colpi di pistola. Attila viene subito attivato e non
impiega molto a scoprire tutti gli altarini del portierone, che da ragazzo di
provincia assurge alle prime pagine, alla gloria, agli onori. E scopre le sue
molteplici vite: il denaro, e quindi i collegamenti con gente poco raccomandabile,
le scommesse, le partite truccate o pilotate (Foschi sfondi porte aperte su
questo terreno, anche se dolorose) e le donne, tante, e soprattutto tutte molto
ingannate. Che il buon Rocco pensava (solo?) a sesso facile e senza pensieri.
Ma le sue donne? Ovvio il rapporto ufficiale con la velina di turno. Ma ovvi
anche i passaggi per altre e meno conclamate belle ragazze. Il nostro commissario
segue così la doppia pista: vendetta di malavitosi che hanno perso soldi per la
parata finale di Rocco o vendetta di una qualche fidanzata (troppo) ingannata.
La verità, o meglio, il vero andamento della vicenda lo lascio scoprire a chi
avrà voglia di leggere le veloci pagine del nostro giornalista. Quello che piace
e che Attila ha una coscienza, e farà in modo, in ogni caso, che i cattivi,
ovunque essi siano ricevano una più o meno giusta punizione. Quello che
convince meno è l’insistere su alcune
tematiche dei personaggi. Soprattutto, il tormentone di Attila per la perdita
di Titta. Ogni due pagine il buon poliziotto si lamenta, si rammarica, si fa
percorsi mentali assurdi, che alla lunga stancano. Anche perché noi già
sappiamo una parte della storia, avendo letto il primo romanzo, e queste
lungaggini sono veramente troppo reiterate. Come troppo insistito il ritorno
all’incontro di boxe con il quale Attila perse la medaglia d’oro alle Olimpiadi
di Seoul per una combine degli arbitri a favore di un coreano (e di cui ho già
parlato tramando il primo libro del commissario). Insomma ci sarebbe bisogno di
un po’ di freschezza in queste parti. Che potrebbe venire dai sottoposti di
Attila alla squadra speciale, ma non quagliano. Come non arriva dall’agente
speciale Celeste Quinteri, di cui io personalmente faccio il tifo ma che il
nostro autore non fa sbocciare come potrebbe. In definitiva, un libro discreto
che ben ha accompagnato le giornate al sole delle isole thailandesi (come
avrebbe fatto anche in altro sole). Insomma, un libro da spiaggia e non molto
di più, anche se scorrevole.
Piero Colaprico “La donna del campione” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 27/08/2012– I: 15/05/2013 – T: 17/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 395;
anno 2007]
In
attesa di leggere i gialli a quattro mani di Colaprico e Valpreda, che
finalmente sono entrati nella mia libreria, finalmente ho tra le mani un
romanzo intero del giornalista di Repubblica. Di lui, oltre agli articoli sul
giornale, ho letto racconti, brevi o lunghi, ma è la prima volta che mi imbarco
in un romanzo completo. Ed anche discretamente complesso. Ma che, da bravo
utilizzatore della penna, riesce a gestire sufficientemente bene, anche se,
complessivamente, forse mi aspettavo qualcosa in più. Se non altro sul lato del
coinvolgimento, della suspense, insomma di quelle caratteristiche che, negli
articoli giornalistici sono presenti in dosi diverse, ma che, nel tempo mi
hanno fatto apprezzare il suo modo di scrivere. Qui siamo in una vicenda
pienamente italiana, pienamente attuale, con la dovuta attenzione a tutti quei
personaggi “in margine” che riempiono continuamente la vita di tutti i giorni.
Colaprico, per darci uno spaccato della vita milanese (che quella è la cifra
costante di tutti i suoi romanzi, per quanto non so), decide di affrontare la
vicenda centrale (il rapimento di un ricco e giovane affarista sportivo, legato
al mondo della Formula1) utilizzando tre punti di vista (anche se sempre in
oggettiva). Come li battezza lui: il consulente, il poliziotto e il killer. Il
consulente è un ex-poliziotto, uscito ricco ed indenne da storie ai limiti
della legge, e riciclatosi con successo come investigatore. Viene assunto dalla
super bonazza moglie del rapito per liberarlo prima del Gran Premio d’Italia
del 18 settembre. E Corrado, saputo chi tiene l’ostaggio in custodia, organizza
un contro-rapimento ricatto. Rapisce i parenti dei rapitori, e propone uno
scambio, con un bonus di qualche milione di euro. Il poliziotto è invece un
amico di Corrado che rimane al di qua della legge, e, sebbene con modalità a volte
al limite, è uno che ragiona (e molto) e soprattutto entra in empatia con i
casi che affronta. Ora ha per le mani una ragazza trovata bruciata, ma morta
prima di botte. Con l’osservazione ed il ragionamento, riesce a ricostruire la
vita di Valentina, da quando fugge di casa sino alla sua entrata in un centro
massaggi, altro nome (come da cronache attuali) di un centro di prostituzione
di alto livello. Il killer è invece un ex-bandito alla Vallanzasca, ritiratosi
da Milano nella Puglia natia, ma che non può tirarsi indietro se “gli amici”
gli chiedono qualche lavoro. Che gli frutta fior di quattrini. Peccato che ora
venga ingaggiato dai siciliani per eliminare Iole la Santa, sua ex compagna di
rapine, passata a collaboratrice di giustizia. Le tre storie si dipanano,
fortunatamente non a capitoli alterni, come da malcostume di scrittori di
thriller di secondo piano. Ogni storia ha un suo respiro, prende tempo, a volte
forse Colaprico si dilunga un po’. Ci inzeppa scopate a destra e sinistra, tra
Corrado e Maretta la moglie del rapito, tra Francesco il poliziotto ed il
sostituto procuratore, benché Iva sia sposata e lui fidanzato, tra il killer e
la sua fidanzata alle soglie della laurea. L’abilità di Colaprico consiste invece
nel portarci, passo dopo passo, alla convergenza di tutte le storie. Che
Corrado e Francesco sono amici. Così arriviamo a scoprire che il rapito è
sparito nel centro massaggi dove lavora Valentina, che forse il capo di
Valentina è in accordo con i rapitori, e sicuramente ha messo lo zampino nella
morte della ragazza, che Corrado utilizza Iole per il contro-rapimento di cui sopra,
che Iole organizza una sua esposizione per far finta di cadere in trappola e
prendere in trappola il killer, che il porta valori (quello che procura i soldi
del riscatto) è padre di una ragazza che si è uccisa qualche mese prima, e che
ha uno strano rapporto con Maretta. Che la fidanzata del killer è meno stupida
di quanto sembra. Che il rapito non è proprio una pasta d’uomo, anzi è un gran
… Colaprico cerca in questo modo di fare un bel castello, dove alla fine tutti
i pezzi vanno al loro posto. Molti cattivi (ma non vi dico quali) pagano il fio
delle loro colpe. Ma anche molti buoni ci vanno di mezzo. Insomma, l’autore ci
vuole mostrare la vita com’è, un gran casino, dove non sempre tutto riesce.
Anzi, qui sembra che non riesca proprio nulla. Dopo aver messo tanta carne al
fuoco, il finale si fa un po’ affettato, che stiamo già vicino alle 400 pagine,
ed il lettore non riesce a tenere più il filo di tutto. E purtroppo, questo il
vero punto negativo, anche Colaprico non ci accompagna per mano verso una
spiegazione globale, così come ci avevano insegnato i Nero Wolfe o i Maigret.
Ed è un peccato per un noir italiano di fattura decisamente migliore di
analoghe prove. Un’ultima nota personale. Quando Maretta scappa, Corrado la va
a ritrovare in un luogo che Colaprico non menziona, indicando solo la presenza
del “Giardino dei Tarocchi”: cioè per noi, Capalbio e Niki de Saint-Phalle.
“Era una coppia che restava insieme perché
era troppo difficile ricominciare da qualche altra parte.” (42)
“Ci sono amicizie finite che si trascinano
nel tempo per una serie di obblighi.” (150)
Marco Vichi “Morte a Firenze” TEA euro 9
[A: 15/07/2012– I: 23/05/2013 – T: 24/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 359;
anno 2009]
Come
sua modalità di scrittura che abbiamo ormai imparato a conoscere, Vichi mescola
insieme una serie di storie, a volte quasi non legate le une alle altre, se non
per il vincolo temporale. E come riconosce il commentatore di TTL de La Stampa,
questo è il meno noir dei romanzi imperniati sul commissario Bordelli. Certo,
il nucleo centrale è la scomparsa e poi l’uccisione di un ragazzo di 13 anni (e
questa è una delle parti che nei noir degli ultimi anni mi mette più a disagio,
che non riesco a seguire bene, talmente mi fa orrore l’idea; le tre cose che
più mi colpiscono, infatti, sono la violenza sulle donne, la violenza sui
ragazzi e la pedofilia in generale). L’indagine di Bordelli percorre tutto il romanzo,
ma non si sviluppa in modo lineare, non aggredisce, non propone piste anche a
noi lettori. Riprende quel filone da “procedural thriller” che avevo illustrato
parlando dell’opera di Ed McBain, ma non si riesce ad entrare in sintonia con
la questura di Firenze. Sarà forse perché viene praticamente emarginato
l’alter-ego di Bordelli, quel giovane Piras che nelle altre prove serviva da
rimbalzo ed approfondimento dei ragionamenti del commissario. Intanto, il
romanzo si riempie d’altro: in maniera totale, dell’alluvione di Firenze del
’66, che, infatti, la storia si svolge proprio tra ottobre e novembre di
quell’anno. Da un punto di vista filologico e di rievocazione storica,
l’alluvione è ben rappresentata: la pioggia, gli argini, le comunicazioni interrotte,
l’acqua che sale, travolge e uccide, le autorità in parata (mi sembra di vedere
un lungo filo che la unisce a L’Aquila). Ed i ricordi personali di aver
lavorato, allora tredicenne, alla pulizia dei manoscritti dal fango (e dovrei
ancora avere un attestato del Ministro Taviani). Ma non riesce a dare né un
senso al romanzo, né a costituire quel sottofondo che penso volesse dargli
l’autore. L’altro tessuto di connessione è l’ossessione di Bordelli per le
donne, le sue paturnie da quasi sessantenne sia per gli amori passati, sia per
quelli a venire, con un’insistenza che, a mio avviso, è particolarmente
ridondante. Ne bastava meno, per darne un’idea. Invece lì che insiste, e
rimugina, e poi si innamora di una che potrebbe essere sua nipote, piuttosto
che sua figlia. E le ossessioni del commissario, questa, e quella più
insistente ed altrettanto inutile sul fumo, quasi ripercorresse dei passi di
Zeno, ma senza la loro profondità. Come sempre ci sono atre parti, slegate dal
filo della trama, che invece comunque piace leggere, soprattutto quando poi
l’autore, nella postfazione, ne spiega la nascita. Tutti quei ricordi sulla
guerra, sui partigiani e sulle battaglie tra i monti, vengono dai ricordi del
padre dell’autore, che trova così un modo per lasciarne una traccia, per non
farli cadere nell’oblio. Tra tutto questo la trama va avanti, legata ad una
bolletta della SIP trovata non lontano dal cadavere. E scava che ti scava,
collega che ti collega, accumulando notevoli dosi di colpi fortunati, Bordelli
comincia ad intravedere una trama. Un gruppo di pervertiti, di diversa natura,
i cui giochi osceni questa volta hanno passato il limite. Ma non riesce a
trovare prove per sostanziare queste intuizioni. Prove concrete non miseri
indizi. Allora fa quello che farebbe un eroe d’oltreoceano, ma di cui Bordelli
non sembra avere le caratteristiche. Non dico che cerca la giustizia personale,
questo andrebbe fuori le righe del personaggio. Cerca tuttavia, come una
squadra in difficoltà, di indurre l’avversario ad un errore. Che faccia un
fallo, che faccia una mossa falsa. Allora lui potrebbe… Ma non ha le giuste
intuizioni. Ed il potere corrotto che lo circonda è sicuramente più forte di
lui. Chissà perché alla fine mi viene in mente il re dell’Epiro? Lettura quindi
scorrevole, ma troppo intervallata da letture altre, che ne rallentano il
filone principale. Non mi ha soddisfatto. Alla fine mi torvo davanti il libro
chiuso con quel sentimento ambivalente che dicevo prima, ed un bilancio finale
più sul meno che sul più. Un ultimo punto, ho controllato, le canzoni dei Rokes
di Shapiro che sono citate sono entrambe del ’66, quindi in linea con la trama.
Anche se “E la pioggia che va” (tra l’altro un mio vecchio cavallo di
battaglia) è proprio di Ottobre di quell’anno. Forse un po’ troppo fresca per
essere cantata quasi a sottolinearne i punti salienti (“e noi che stiamo
correndo, avanzeremo di più”…). Ma sono canzoni che adoro e quindi va bene anche
così.
“Non voleva pensare alle donne che aveva
perso, ma a quelle che dovevano ancora arrivare.” (64)
E visto
che si parla di grandi città, non possiamo che chiudere citando l’assenza
(praticamente) di città cui vado incontro nel mio prossimo e confermato viaggio
per l’Islanda. Curioso di questa terra di ghiacci, parto tra pochi giorni,
lasciandovi probabilmente con qualche trama in meno per questo luglio
autunnale.