Strano titolo per chiudere l’anno,
che spiegherò in coda (al solito). Tanto più che invece (e come sbagliarsi) si
parla di luoghi e di viaggi. Intanto Firenze e Pisa, per rendere anche omaggio
al bel giro toscano appena concluso. E poi Parigi, che in parafrasi, val sempre
un viaggio. Chiudendo un omaggio allo scomparso Tabucchi ed ai suoi appunti in
giro per il mondo, sempre dolendosi che troppo presto ci ha lasciato. Ma sempre
pensando agli insegnamenti, di vita, di scrittura, di viaggio che porteremo
comunque con noi.
Vanni Santoni “Se fossi foco, arderei Firenze” Laterza euro 10
[A: 21/06/2013– I: 25/07/2013 – T: 28/07/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 148;
anno 2011]
Un
progetto riuscito a metà, anche se al solito con un discreto livello di interesse
(mi ripeto? La collana ControMano è sempre da seguire, non sempre ai massimi
livelli, ma piena di spunti interessanti). Non conosco Santoni (anche se ho
visto in libreria un libro da lui spinto in pubblicazione come parto
dell’autore collettivo SIC – Scrittura Industriale Collettiva; interessante), e
mi si dice un promettente scriba tosco. Qui, nel rispetto del dettame massimo
della collana che propugna la conoscenza di luoghi e gesta, più che una guida
ragionata, o sentimentale, si è imbarcato nell’impresa di una guida-romanzo. Ha
imbastito una storia “alla Schnitzler” per farci toccare con mano (e con altri
sensi) tutta una geografia fiorentina. Che sebbene centrata nelle fauci
fiorentine tra Piazza Strozzi, Piazza della Signoria e Piazza Santa Croce, si
estende e si espande ad est verso San Miniato al Monte, a sud sino a Porta
Romana, ad Ovest sino a Villa Strozzi e a nord, tra il nordovest di Porta a
Prato ed il nordest del Cimitero degli Inglesi. Già quest’elenco fa venire l’acquolina
in bocca a noi peripatetici viaggiatori. Ma su questo tessuto urbano Santoni mette
in scena una serie di storie in apparenza autonome ma in realtà intrecciate, in
cui personaggi più variegati si muovono sullo sfondo dei vicoli rinascimentali
di Firenze. Dicevo a mo’ di girotondo austriaco, che cominciamo (è un classico)
con l’arrivo di uno studente fuori sede su Piazzale Michelangelo. Il suo
chiedere informazioni ad una ragazza, con relativo tentativo di abbordaggio. E
da qui, i personaggi si intrecciano, Sylvie, Maddalena, Girolamo, Bekko, ed
altri senza nome, e con tante facce. Fighetti, alternativi, studenti campagnoli
e studenti urbanizzati, americane (ma quante sono quelle che vivono a Firenze?),
sfigati e brillanti, artisti e aspiranti, scrittori bravi e falliti,
nostalgici, viaggiatori veri e finti, immigrati, esteti, tamarri, coppie in
crisi, genitori, ex-discotecari, matti, pusher, rinsaviti e mondane: nella
Firenze ardente c’è di tutto, ci sono tutti. Ci sono clan che si conoscono e
riconoscono, altri che s’ignorano. Come gli autori collettivi (anche loro?) di una
rivista intitolata “il maniaco”. Amori che si intrecciano, personaggi
improbabili, che seppur ad ogni passo ci narrano delle pietre (e Vanni sembra
conoscerne ad una ad una), presentandoci il passato della città,
l’interrogativo di fondo è piuttosto sul suo futuro. Vale la pena rimanere in
questa città? Offre ancora spunti artistici, culturali, sociali, degni di nota?
E' possibile produrre arte, cultura, civiltà in quella che sempre di più appare
un museo a cielo aperto fatto su misura per il turistame? Le statue dei
fiorentini famosi che adornano il corridoio degli Uffizi saranno mai sostituite
da qualche nome più recente? Certo, si sente il peso della storia, vivendo in Firenze.
Abitare in un museo a cielo aperto deve essere una sfida epocale. Ed oltre a
girare (i ragazzi di Vanni) ed a leggere (noi, ardenti amanti di Firenze),
tutti condiamo il nostro essere con i sapori forti: le leccornie dei trippai o
i panini coi lampredotti, in giro per San Lorenzo, o tra le cantine in Piazza
della Passera, districandosi tra San Frediano e Santa Trinita. Con quel
passaggio in flashback che resuscita sul campo di calcio Roberto Baggio appena
passato dalla Fiorentina alla Juve, e si sente la sua malinconia, quando si
rifiuta di tirare il rigore contro la sua ex-squadra. Ma se è tutto così, non
c’è niente per cui vale la pena restare. Anzi, magari ci si deve giustificare
se si rimane e non si parte. Come si chiede Annabel. Come fa Diego che sperava
di tornare cambiato dal Sudamerica, ma tutti lo legano all’immagine storica che
hanno di lui. Avrei preferito qualcosa di più forte, sia sul fronte guida che
sul fronte romanzo. Anche se mi è piaciuto. Anche se mi sono innamorato della
copertina. E se l’ho letto durante un ritorno dal Portogallo, fianco a fianco
con il mio amico Leo (fiorentino puro sangue). Anch’io, alla fine, brucerei
Firenze. Purtroppo, però, ne sono innamorato (non come la mia Roma, ma …).
Marco Malvaldi “Scacco alla torre” Felici Editore euro 10 (in realtà,
scontato a 8,50 euro)
[A: 07/03/2013– I: 10/08/2013 – T: 12/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 157;
anno 2013]
Un
libro che non avrebbe sfigurato nella collana di Laterza, ma che ben volentieri
vediamo uscire in una casa editrice poco nota (di quella da “PLPL” di dicembre
per chi mi capisce). Una cavalcata dentro Pisa (e qualche dintorno, visto che
si parla anche di San Rossore), guidati dall’ottimo scrittore pisano Marco
Malvaldi. Che parte dall’assunto che, purtroppo, non siano ancora molti a pensare
che a Pisa non ci sia solo la Torre da visitare. Un libretto che racconta
quindi un po’ di storia, bellezze, aneddoti, personaggi e contrasti
intercalando ricordi di una città dal passato prestigioso. Con il piglio umoristico
del Malvaldi migliore, tralasciando i vecchietti, quello di “Pioggia giapponese”
ad esempio. Andiamo in giro con Marco, con la stessa amicalità con cui io porto
i miei amici foresti per Roma. Con le mie spigolature da trivial di campagna. Il
lampadario osservato nel Duomo da Galileo per studiare la legge del pendolo è
ancora lì? No, è nel Camposanto. La dicitura Piazza dei Miracoli non è quella
originale della piazza, ma è stata coniata da D’Annunzio. La guida parte
descrivendo i lungarni e non si sottrae ad un’aspra critica alle piste
ciclabili, una roulette russa per le due ruote. Poi ci spiega come arrivare
alla Piazza ed alla Torre, quale strada sia meglio fare, per arrivarci da
pisani e non da turisti. E quale altre non turistiche mete frequentare. Così
notiamo sulla destra, di là dell’Arno, la Chiesa di Santa Maria della Spina, una
delle più belle chiese gotiche d’Europa, che fino al 1870 sorgeva direttamente
sul greto del fiume. E guardiamo con ammirazione i palazzi dai colori
sgargianti. Il più vistoso di questi, Palazzo Blu, è stato ultimato da
pochissimi anni, e oltre ad essere piuttosto soddisfacente dal punto di vista
cromatico ospita spesso delle mostre notevoli. Sulla riva sinistra il palazzo
Agostini Veronesi Della Seta, uno dei pochi rimasti su questo lato dopo i
bombardamenti del 1943 e 1944, si riconosce dall’elaborata facciata in cotto,
ornata da bifore triforate. Potremo anche scoprire che la scritta “Alla
Giornata” sopra l’arco dell’ingresso del palazzo Lanfreducci, che ospita gli
uffici del Rettorato dell’Università di Pisa, deriva dal fatto che Lanfreducci reduce
da una lunga prigionia ad Algeri, era aduso ad una vita poco incline alle
lunghe programmazioni. E poi incontriamo le tante meraviglie: la Cittadella, il
Giardino Scotto, l'Orto Botanico (l'orto universitario più antico al mondo) e
l'Università (tra cui la Scuola Normale
Superiore ed il Sant’Anna; senza scordare, per la gioia delle matricole
falcidiate dopo il primo anno, che la facoltà di Ingegneria si trova in via
Diotisalvi), Piazza dei Cavalieri e la Torre della Fame. Per l’anima pisana, si
ricorre poi alla squadra di calcio, ma non l’attuale, ma quella del mitico
presidente Romeo Anconetani. Ed all’Arena Garibaldi, che ben si vede da in cima
alla Torre. Romeo è il presidente del Pisa in serie A, dei grandi campioni
sudamericani alla Dunga, anche se con qualche acquisto sballato, come il povero
Jorge Francisco Caraballo, che veniva salutato allo stadio dal ritornello:
“Caraballo, Caraballo, gioca bene nell’intervallo”. Non mancano poi i
riferimenti agli eventi del Giugno Pisano: la Luminaria, le regate storiche ed
il Gioco del Ponte. Un Gioco aspramente criticato da Malvaldi, e che si svolge
sul Ponte di Mezzo, dove le squadre di qua e di lì dell’Arno si sfidano ad una
specie di tiro alla fune, dove la fune è sostituita da un carrello da far
rotolare nella parte avversa. Verso la fine abbiamo qualche ulteriore
spigolatura. Triste, come la scritta “Grande Mauro” sulla spalletta dell’Arno,
che ricorda Mauro Baccelli il campione di canottaggio morto in un incidente
d’auto a 28 anni nel 2008. Ironiche, come la scritta al monumento ai caduti
eretto in località Calci, che recita “Calci ai Caduti” (scritta ora tolta). E
prima di entrare nei bar (ovvio pallino dell’autore), la grande musica che si
ascolta alla Normale (dove il 12 settembre 2001, invece della Messa di Mozart,
per l’ovvio non arrivo dei solisti, ovvio guardando la data, si ripiegò su un
insolito, ma per me ed anche per Malvaldi, bellissimo Arvo Part). Finiamo
quindi anche noi, sorseggiando un caffè al Bar di Enrico, che serve da modello
per il nostro amato BarLume. A volte Malvaldi si dilunga un po’, divaga e non
morde. Ma come non essere con lui, ad odiare i turisti americani in infradito,
che arrivano, vedono la Torre, e se ne vanno a Firenze?
Francesco Forlani “Parigi, senza passare dal via” Laterza euro 12 (in
realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 07/03/2013– I: 06/09/2013 – T: 11/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167;
anno 2011]
Una
solita buona prova di una delle mie collane preferite, la ControMano di
Laterza. Anche se con degli alti e bassi, per cui ero indeciso su che livello
di gradimento collocarlo. Perché la scrittura non sempre mi è piaciuta, anche
se è sempre molto partecipativa. Soprattutto alcuni inserti in franco-italo-casertano
che mi hanno lasciato freddino. Ed alcuni compiacimenti, quel modo di citare
persone e situazioni, quasi en passant, quasi a farci partecipi di una grande famiglia
che in realtà non siamo. Ma il gradimento è poi tirato su, di molto, dalle
comunque intense vicende anche umane di questo espatriato in cerca di futuro (e
quanta Luana leggo tra le righe). Ed ovviamente da Parigi. Sia in quanto città
che in ogni caso amo, sia nell’aggirarsi in luogo ed angoli, anche nascosti,
che ho visto, che ho nel cuore. Quando, come se fosse un caso, Forlani passa
per le “Fer à Cheval”, a me si apre il cuore. Uno dei bar che ho amato dal
primo giorno che sono stato a Parigi, che ho sempre ri-visitato ogni volta che
ci torno. Certo, alcuni posti del bar sono cambiati, che non tutti sono ormai
come le vecchie panchine del Metro (l’ultima volta ne rimanevano un paio). Ma
rimarrà sempre la mitica toilette in ghisa auto-pulente. Per cui alla fine non
posso che far lievitare il giudizio su questo “diario parigino”, dove il nostro
autore, mescolando tempi e spazi, ci narra la vicenda del suo stare parigino,
del suo lavoro, all’inizio molto precario, poi sempre più stabile, di
insegnante di italiano per i locali, della nascita e dell’uscita di una rivista
intorno alla quale si coagulano espatriati di ogni paese ed artisti locali.
L’idea di base poi era quella di narrare la nascita di una rivista
d’avanguardia: “La Bête étrangère”, per poi trasformare il quasi-diario in una
sorta di monopoli francese. Dove si saltabecca da un arrondissement all’altro,
senza una vera logica, solo per assonanze e situazioni. Usando Imprevisti e
Probabilità, come nel vero Monopoli, per collegare capitoli e situazioni. Ma
senza passare dal via, che gli espatriati sono sempre squattrinati e non
riescono ad accumulare i 20 euro di ogni giro. Certo, mi domando e domando a
Forlani perché abbia saltato il 2^, visto che dedica almeno un capitolo ad ogni
arrondissement. Così seguiamo Francesco sia nei suoi giri ad insegnare italiano
(e rimarcabile il paragrafo sui “falsi amici”, quelle parole che sembrano dire
cose simili ma sono ben diverse, come “morbide” che in francese non significa
morbido ma morboso). Con l’amico Massimo, con cui divide un minuscolo appartamento
con un bagno improbabile. Con la presenza saltuaria del bandito Roger K. Ma
soprattutto con la pletora di artisti di diverso genere ed estrazione. Il
fisarmonicista, la bella greca, il libraio iraniano, e tutti gli altri che
troppo lungo sarebbe elencarli, ma che riempiono le pagine del libro e la vita
dell’autore. Una lunga cavalcata da Monopoli, quindi, con lo scopo forte di
“non finire in prigione” (cioè di andare fuori gioco), e con il tentativo di
farci vedere (e ci riesce) la voglia di vivere e di realizzare qualcosa quando
si ha un sogno dentro. Ed anche quando incontriamo momenti duri e difficili
(come il passaggio per l’oncologia pediatrica). E se tanti sono gli spunti,
anche seri, altrettanti sono i momenti comici, ironici, e pieni di quei rimandi
che citavo all’inizio. Perché non c’è solo il Fer à Cheval della rue
Vielle-du-Temple, ma c’è il Louvre e le tele di Van Gogh (dove io rimando
sempre al Jeu de Pomme prima e meglio che al Museo d’Orsay), c’è il Cafè Maure
della Moschea, i grandi boulevards (dove io mi perdevo tra le Galeries
Lafayette e Monoprix), la ricerca del primo bar che faceva caffè italiano
espresso (negli anni ’80 con Segafredo), l’Ile Saint-Louis, la Shakespeare
& Company sul Lungo Senna nel 5^ (ma io mi sposto un po’ oltre, prima verso
Square Viviani, poi alla “Fourmie Ailée"), gli skate sul sagrato di Nôtre
Dame. Per tacere del Père-Lachaise che porto sempre nel cuore. Mi verrebbe di
citare tanto, e altro, ma mi rimane la voglia di due cenni soltanto, uno
interno ed uno esterno. Forlani insegna come base in una scuola vicino alla
Gare St. Lazare. Ed io lì, passai i primi tempi di studio, lì imparai il
francese che so, lì sedicenne, comincia a capire la bellezza dell’altrove.
Quello esterno, invece riguarda il momento comico del ricordo dei juke-box che
a Scauri rimandavano, strofa dopo strofa, tutto il “Teorema” di Marco
Ferradini. E la mia mente vola a quella stessa gag, ripresa da Aldo, Giovanni e
Giacomo in “Chiedimi se sono felice”, con quel reiterato “fuori dal letto,
nessuna pietà”. Forse mi sono fatto trasportare troppo dai ricordi, ma se un
libro ne suscita, ben venga il libro e chi l’ha scritto.
Antonio Tabucchi “Viaggi e altri viaggi” Feltrinelli s.p. (regalo
collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 03/12/2013 – T: 05/12/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266;
anno 2010]
Un
libro che stava viaggiando su livelli di sicura eccellenza, ma che non mantiene
il massimo dei voti per un’ultima parte leggermente inferiore. Oltre al fatto
che non posso non rimproverare a Tabucchi di averci lasciato così presto,
orfani di quel suo modo garbato di essere e di scrivere. Questo libro è in gran
parte una collazione di scritti altrove pubblicati, in gran parte sul “Corriere
della Sera” e sulla rivista “Grazia Casa”. Ma qui sono sapientemente incastrati
secondo un gustoso filo logico, sia dall’autore, ma soprattutto dal curatore,
Paolo Di Paolo, dei cui scritti ho ampiamente parlato recentemente, e che qui
si rivela un sapiente solutore di rompicapi. A parte, forse, quell’ultimo
capitolo, dove sono inzeppati un po’ di testi forse meno in linea con l’assunto
generale. Quello di parlare di viaggi, ma non per scrivere di viaggi, ma
prendendo spunti dal muoversi nello spazio dell’autore. Ed in molti dove, qua e
là per il mondo, i suoi appunti ci portano a viaggiare con lui, avendo a mente
quella bella frase di pagina 17 che
riporto sotto. Il passo della scrittura di Tabucchi è sempre misurato: non
corre, non si affretta, coglie il dettaglio minimo. Ed il suo occhio si posa
sulle cose, sui paesaggi, sugli uomini, con la stessa delicatezza e curiosità
con cui si poserebbe il mio, se ne fossi capace di scrivere. Coglie quelle
minuzie delle grandi cose, che per assonanze, suoni e rimandi, lo collegano e
ci collegano con tutto quanto vale la pena di vivere. Quando parla di luoghi
che conosco, mi sembra di camminare con lui, mio alter ego importante. Quando
parla di altro, mi viene voglio di andarci, di vedere subito quella cosa, quel
posto, quell’angolo di mondo. Con quella capacità sorretta da un’onesta
curiosità ed una grande cultura, di partire dal poco ed arrivare a comunicare
molto. Ed eccomi allora passeggiare con Antonio, a Parigi, in quella bellissima
e dimenticata place de Furstenberg. Pensavo di ricordarla solo io, girando
dietro rue Jacob, ed affacciandosi sulla piazzetta, piccola, squadrata, con
l’albero al centro. Ed invece, ecco che Tabucchi mi ci riporta. Anche a vedere
i Delacroix, e mentre parla di Marianna, io vado con la testa a Géricault e
alla Medusa. Già questo solo ricordo, mi avrebbe fatto amare lo scritto. Ma poi
che dire della bellezza quando descrive Kyoto, dove riesce in due righe a rimandare
tutta l’anima del rispetto giapponese verso le cose (il regalo dell’amico
giapponese non è cosa c’è dentro la scatola, ma la scatola ed il suo
incartamento, divino). O Madrid passeggiando verso il Prado. O a Barcellona,
nei posti di Gaudì oltre Gaudì stesso (tralasciando la sopravvalutata Sagrada).
Mirabile l’elenco delle tipologie di peperoncino messicano (chi mai si scorderà
dell’Habanero). Da scandire parola dopo parola l’invettiva contro il turismo
cialtrone nei resort di lusso. Ho gustato capitolo dopo capitolo, poi, le due
parti maggiori. L’India, dove sono tornato a Mumbai, la “boa baia” portoghese,
ho dormito una notte nell’ala nuova del Taj Mahal hotel, ho rivisto le pire di
Varanasi ed i poveri dell’Ospedale di Madre Teresa a Kalkata. Ecco, la
grandezza di uno scrittore mi coglie al volo, quando in un gesto, in una
parola, riesce a dire cose che altri non riescono a spiegare in pagine e
pagine. Il cadavere avvolto nel lenzuolo bianco e trasportato con una Vespa
modificata a tuk-tuk verso la pira è capace di farci srotolare dentro un saggio
su tutta l’India possibile. Ed ovviamente il Portogallo ed il mistero della
saudade portoghese. Quell’allegria dalla faccia triste che ho sempre scorto nei
volti lusitani, e che Antonio mi rimanda come memoria del futuro. Impagabile.
Ed è quindi con moto rapito che allora da lui mi faccio trasportare in luoghi
non ancora visti, dai Carpazi a Creta, da Goa (e chissà se un giorno riuscirò a
portare avanti il progetto sull’abate Faria) ai deserti australiani, dalle
pampas argentine fino alla ferita nella terra che è ancora il Brasile
(dall’Amazzonia alle miniere di Minas Gerais). Sono contento che sia esistita
una persona di tal fatta, e sono contento di aver avuto il piacere di leggerne.
Spero di riuscire a vivere quello che non ho ancora visto. Aumentando di poco
la piccola conoscenza che ho del mondo (magari aggiungendovi qualcosa sulla cucina,
che se la lettura ed il viaggio sono forme di conoscenza, il mangiar del luogo
è entrare in questa conoscenza e farla propria).
“Il viaggio trova senso solo in sé stesso,
nell’essere viaggio (Kavafis).” (10)
“La letteratura … è la dimostrazione che la
vita non basta … è una forma di conoscenza in più. È come il viaggio.” (14)
“Sono un viaggiatore che non ha mai fatto
viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno
volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull’amore.” (17)
“A ciascuno sarebbe piaciuto avere avuto
un’altra vita da vivere. Peccato che la vita sia una sola.” (65)
“Secondo la filosofia del [Bard] College un
biologo o un ingegnere che conoscono Tolstoj o Mozart … hanno un cervello che
funziona meglio dei corrispettivi professionisti che non li conoscono.” (86)
“(Dice Pessoa) se dopo la mia morte qualcuno
volesse scrivere la mia biografia, bastano due date, quella della mia nascita e
quella della mia morte: fra l’una e l’altra tutti i giorni sono miei.” (172)
“Tutti i giorni la laidezza del mondo ci
perseguita, è di casa nello schermo televisivo, e ad essa ci siamo assuefatti.
Invece la bellezza può fare ammalare.” (234)
“Gerusalemme … è la città dove tutti
ricordano di aver dimenticato qualcosa.” (236)
“Quale è lo spazio … di un attore? …
[Heidegger dice] che il vuoto … è quel luogo in cui si fondano i luoghi … e in
quello spazio gli attori ricreano il mondo e lo reinventano.” (217)
Riprendendo
il titolo, ed omaggiando l’amico Ennio ed i suoi infiniti giochi, non son
rumeni ma numeri (anagramma). Questo è la trama numero 42 (4+2=6) di questo
2013 (2+0+1+3=6), che è anche il sesto anno che utilizzo questa testata come
messaggio da me a voi. Inoltre, no possiamo non pensare al giorno odierno,
ultimo e per molto tempo anagramma di numeri 30/12/2013 (30/12 anagramma 2013,
ed ovviamente 3+0+1+2=6). Quindi chiudiamo l’anno con questa trama che vi ricorda
che io pur cambiando sono sempre lo stesso viaggiatore numerico. Buon anno a tutti
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