lunedì 30 dicembre 2013

Anagrammi di rumeni - 30 dicembre 2013

Strano titolo per chiudere l’anno, che spiegherò in coda (al solito). Tanto più che invece (e come sbagliarsi) si parla di luoghi e di viaggi. Intanto Firenze e Pisa, per rendere anche omaggio al bel giro toscano appena concluso. E poi Parigi, che in parafrasi, val sempre un viaggio. Chiudendo un omaggio allo scomparso Tabucchi ed ai suoi appunti in giro per il mondo, sempre dolendosi che troppo presto ci ha lasciato. Ma sempre pensando agli insegnamenti, di vita, di scrittura, di viaggio che porteremo comunque con noi.
Vanni Santoni “Se fossi foco, arderei Firenze” Laterza euro 10
[A: 21/06/2013– I: 25/07/2013 – T: 28/07/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 148; anno 2011]
Un progetto riuscito a metà, anche se al solito con un discreto livello di interesse (mi ripeto? La collana ControMano è sempre da seguire, non sempre ai massimi livelli, ma piena di spunti interessanti). Non conosco Santoni (anche se ho visto in libreria un libro da lui spinto in pubblicazione come parto dell’autore collettivo SIC – Scrittura Industriale Collettiva; interessante), e mi si dice un promettente scriba tosco. Qui, nel rispetto del dettame massimo della collana che propugna la conoscenza di luoghi e gesta, più che una guida ragionata, o sentimentale, si è imbarcato nell’impresa di una guida-romanzo. Ha imbastito una storia “alla Schnitzler” per farci toccare con mano (e con altri sensi) tutta una geografia fiorentina. Che sebbene centrata nelle fauci fiorentine tra Piazza Strozzi, Piazza della Signoria e Piazza Santa Croce, si estende e si espande ad est verso San Miniato al Monte, a sud sino a Porta Romana, ad Ovest sino a Villa Strozzi e a nord, tra il nordovest di Porta a Prato ed il nordest del Cimitero degli Inglesi. Già quest’elenco fa venire l’acquolina in bocca a noi peripatetici viaggiatori. Ma su questo tessuto urbano Santoni mette in scena una serie di storie in apparenza autonome ma in realtà intrecciate, in cui personaggi più variegati si muovono sullo sfondo dei vicoli rinascimentali di Firenze. Dicevo a mo’ di girotondo austriaco, che cominciamo (è un classico) con l’arrivo di uno studente fuori sede su Piazzale Michelangelo. Il suo chiedere informazioni ad una ragazza, con relativo tentativo di abbordaggio. E da qui, i personaggi si intrecciano, Sylvie, Maddalena, Girolamo, Bekko, ed altri senza nome, e con tante facce. Fighetti, alternativi, studenti campagnoli e studenti urbanizzati, americane (ma quante sono quelle che vivono a Firenze?), sfigati e brillanti, artisti e aspiranti, scrittori bravi e falliti, nostalgici, viaggiatori veri e finti, immigrati, esteti, tamarri, coppie in crisi, genitori, ex-discotecari, matti, pusher, rinsaviti e mondane: nella Firenze ardente c’è di tutto, ci sono tutti. Ci sono clan che si conoscono e riconoscono, altri che s’ignorano. Come gli autori collettivi (anche loro?) di una rivista intitolata “il maniaco”. Amori che si intrecciano, personaggi improbabili, che seppur ad ogni passo ci narrano delle pietre (e Vanni sembra conoscerne ad una ad una), presentandoci il passato della città, l’interrogativo di fondo è piuttosto sul suo futuro. Vale la pena rimanere in questa città? Offre ancora spunti artistici, culturali, sociali, degni di nota? E' possibile produrre arte, cultura, civiltà in quella che sempre di più appare un museo a cielo aperto fatto su misura per il turistame? Le statue dei fiorentini famosi che adornano il corridoio degli Uffizi saranno mai sostituite da qualche nome più recente? Certo, si sente il peso della storia, vivendo in Firenze. Abitare in un museo a cielo aperto deve essere una sfida epocale. Ed oltre a girare (i ragazzi di Vanni) ed a leggere (noi, ardenti amanti di Firenze), tutti condiamo il nostro essere con i sapori forti: le leccornie dei trippai o i panini coi lampredotti, in giro per San Lorenzo, o tra le cantine in Piazza della Passera, districandosi tra San Frediano e Santa Trinita. Con quel passaggio in flashback che resuscita sul campo di calcio Roberto Baggio appena passato dalla Fiorentina alla Juve, e si sente la sua malinconia, quando si rifiuta di tirare il rigore contro la sua ex-squadra. Ma se è tutto così, non c’è niente per cui vale la pena restare. Anzi, magari ci si deve giustificare se si rimane e non si parte. Come si chiede Annabel. Come fa Diego che sperava di tornare cambiato dal Sudamerica, ma tutti lo legano all’immagine storica che hanno di lui. Avrei preferito qualcosa di più forte, sia sul fronte guida che sul fronte romanzo. Anche se mi è piaciuto. Anche se mi sono innamorato della copertina. E se l’ho letto durante un ritorno dal Portogallo, fianco a fianco con il mio amico Leo (fiorentino puro sangue). Anch’io, alla fine, brucerei Firenze. Purtroppo, però, ne sono innamorato (non come la mia Roma, ma …).
Marco Malvaldi “Scacco alla torre” Felici Editore euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 07/03/2013– I: 10/08/2013 – T: 12/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 157; anno 2013]
Un libro che non avrebbe sfigurato nella collana di Laterza, ma che ben volentieri vediamo uscire in una casa editrice poco nota (di quella da “PLPL” di dicembre per chi mi capisce). Una cavalcata dentro Pisa (e qualche dintorno, visto che si parla anche di San Rossore), guidati dall’ottimo scrittore pisano Marco Malvaldi. Che parte dall’assunto che, purtroppo, non siano ancora molti a pensare che a Pisa non ci sia solo la Torre da visitare. Un libretto che racconta quindi un po’ di storia, bellezze, aneddoti, personaggi e contrasti intercalando ricordi di una città dal passato prestigioso. Con il piglio umoristico del Malvaldi migliore, tralasciando i vecchietti, quello di “Pioggia giapponese” ad esempio. Andiamo in giro con Marco, con la stessa amicalità con cui io porto i miei amici foresti per Roma. Con le mie spigolature da trivial di campagna. Il lampadario osservato nel Duomo da Galileo per studiare la legge del pendolo è ancora lì? No, è nel Camposanto. La dicitura Piazza dei Miracoli non è quella originale della piazza, ma è stata coniata da D’Annunzio. La guida parte descrivendo i lungarni e non si sottrae ad un’aspra critica alle piste ciclabili, una roulette russa per le due ruote. Poi ci spiega come arrivare alla Piazza ed alla Torre, quale strada sia meglio fare, per arrivarci da pisani e non da turisti. E quale altre non turistiche mete frequentare. Così notiamo sulla destra, di là dell’Arno,  la Chiesa di Santa Maria della Spina, una delle più belle chiese gotiche d’Europa, che fino al 1870 sorgeva direttamente sul greto del fiume. E guardiamo con ammirazione i palazzi dai colori sgargianti. Il più vistoso di questi, Palazzo Blu, è stato ultimato da pochissimi anni, e oltre ad essere piuttosto soddisfacente dal punto di vista cromatico ospita spesso delle mostre notevoli. Sulla riva sinistra il palazzo Agostini Veronesi Della Seta, uno dei pochi rimasti su questo lato dopo i bombardamenti del 1943 e 1944, si riconosce dall’elaborata facciata in cotto, ornata da bifore triforate. Potremo anche scoprire che la scritta “Alla Giornata” sopra l’arco dell’ingresso del palazzo Lanfreducci, che ospita gli uffici del Rettorato dell’Università di Pisa, deriva dal fatto che Lanfreducci reduce da una lunga prigionia ad Algeri, era aduso ad una vita poco incline alle lunghe programmazioni. E poi incontriamo le tante meraviglie: la Cittadella, il Giardino Scotto, l'Orto Botanico (l'orto universitario più antico al mondo) e l'Università (tra  cui la Scuola Normale Superiore ed il Sant’Anna; senza scordare, per la gioia delle matricole falcidiate dopo il primo anno, che la facoltà di Ingegneria si trova in via Diotisalvi), Piazza dei Cavalieri e la Torre della Fame. Per l’anima pisana, si ricorre poi alla squadra di calcio, ma non l’attuale, ma quella del mitico presidente Romeo Anconetani. Ed all’Arena Garibaldi, che ben si vede da in cima alla Torre. Romeo è il presidente del Pisa in serie A, dei grandi campioni sudamericani alla Dunga, anche se con qualche acquisto sballato, come il povero Jorge Francisco Caraballo, che veniva salutato allo stadio dal ritornello: “Caraballo, Caraballo, gioca bene nell’intervallo”. Non mancano poi i riferimenti agli eventi del Giugno Pisano: la Luminaria, le regate storiche ed il Gioco del Ponte. Un Gioco aspramente criticato da Malvaldi, e che si svolge sul Ponte di Mezzo, dove le squadre di qua e di lì dell’Arno si sfidano ad una specie di tiro alla fune, dove la fune è sostituita da un carrello da far rotolare nella parte avversa. Verso la fine abbiamo qualche ulteriore spigolatura. Triste, come la scritta “Grande Mauro” sulla spalletta dell’Arno, che ricorda Mauro Baccelli il campione di canottaggio morto in un incidente d’auto a 28 anni nel 2008. Ironiche, come la scritta al monumento ai caduti eretto in località Calci, che recita “Calci ai Caduti” (scritta ora tolta). E prima di entrare nei bar (ovvio pallino dell’autore), la grande musica che si ascolta alla Normale (dove il 12 settembre 2001, invece della Messa di Mozart, per l’ovvio non arrivo dei solisti, ovvio guardando la data, si ripiegò su un insolito, ma per me ed anche per Malvaldi, bellissimo Arvo Part). Finiamo quindi anche noi, sorseggiando un caffè al Bar di Enrico, che serve da modello per il nostro amato BarLume. A volte Malvaldi si dilunga un po’, divaga e non morde. Ma come non essere con lui, ad odiare i turisti americani in infradito, che arrivano, vedono la Torre, e se ne vanno a Firenze?
Francesco Forlani “Parigi, senza passare dal via” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 07/03/2013– I: 06/09/2013 – T: 11/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2011]
Una solita buona prova di una delle mie collane preferite, la ControMano di Laterza. Anche se con degli alti e bassi, per cui ero indeciso su che livello di gradimento collocarlo. Perché la scrittura non sempre mi è piaciuta, anche se è sempre molto partecipativa. Soprattutto alcuni inserti in franco-italo-casertano che mi hanno lasciato freddino. Ed alcuni compiacimenti, quel modo di citare persone e situazioni, quasi en passant, quasi a farci partecipi di una grande famiglia che in realtà non siamo. Ma il gradimento è poi tirato su, di molto, dalle comunque intense vicende anche umane di questo espatriato in cerca di futuro (e quanta Luana leggo tra le righe). Ed ovviamente da Parigi. Sia in quanto città che in ogni caso amo, sia nell’aggirarsi in luogo ed angoli, anche nascosti, che ho visto, che ho nel cuore. Quando, come se fosse un caso, Forlani passa per le “Fer à Cheval”, a me si apre il cuore. Uno dei bar che ho amato dal primo giorno che sono stato a Parigi, che ho sempre ri-visitato ogni volta che ci torno. Certo, alcuni posti del bar sono cambiati, che non tutti sono ormai come le vecchie panchine del Metro (l’ultima volta ne rimanevano un paio). Ma rimarrà sempre la mitica toilette in ghisa auto-pulente. Per cui alla fine non posso che far lievitare il giudizio su questo “diario parigino”, dove il nostro autore, mescolando tempi e spazi, ci narra la vicenda del suo stare parigino, del suo lavoro, all’inizio molto precario, poi sempre più stabile, di insegnante di italiano per i locali, della nascita e dell’uscita di una rivista intorno alla quale si coagulano espatriati di ogni paese ed artisti locali. L’idea di base poi era quella di narrare la nascita di una rivista d’avanguardia: “La Bête étrangère”, per poi trasformare il quasi-diario in una sorta di monopoli francese. Dove si saltabecca da un arrondissement all’altro, senza una vera logica, solo per assonanze e situazioni. Usando Imprevisti e Probabilità, come nel vero Monopoli, per collegare capitoli e situazioni. Ma senza passare dal via, che gli espatriati sono sempre squattrinati e non riescono ad accumulare i 20 euro di ogni giro. Certo, mi domando e domando a Forlani perché abbia saltato il 2^, visto che dedica almeno un capitolo ad ogni arrondissement. Così seguiamo Francesco sia nei suoi giri ad insegnare italiano (e rimarcabile il paragrafo sui “falsi amici”, quelle parole che sembrano dire cose simili ma sono ben diverse, come “morbide” che in francese non significa morbido ma morboso). Con l’amico Massimo, con cui divide un minuscolo appartamento con un bagno improbabile. Con la presenza saltuaria del bandito Roger K. Ma soprattutto con la pletora di artisti di diverso genere ed estrazione. Il fisarmonicista, la bella greca, il libraio iraniano, e tutti gli altri che troppo lungo sarebbe elencarli, ma che riempiono le pagine del libro e la vita dell’autore. Una lunga cavalcata da Monopoli, quindi, con lo scopo forte di “non finire in prigione” (cioè di andare fuori gioco), e con il tentativo di farci vedere (e ci riesce) la voglia di vivere e di realizzare qualcosa quando si ha un sogno dentro. Ed anche quando incontriamo momenti duri e difficili (come il passaggio per l’oncologia pediatrica). E se tanti sono gli spunti, anche seri, altrettanti sono i momenti comici, ironici, e pieni di quei rimandi che citavo all’inizio. Perché non c’è solo il Fer à Cheval della rue Vielle-du-Temple, ma c’è il Louvre e le tele di Van Gogh (dove io rimando sempre al Jeu de Pomme prima e meglio che al Museo d’Orsay), c’è il Cafè Maure della Moschea, i grandi boulevards (dove io mi perdevo tra le Galeries Lafayette e Monoprix), la ricerca del primo bar che faceva caffè italiano espresso (negli anni ’80 con Segafredo), l’Ile Saint-Louis, la Shakespeare & Company sul Lungo Senna nel 5^ (ma io mi sposto un po’ oltre, prima verso Square Viviani, poi alla “Fourmie Ailée"), gli skate sul sagrato di Nôtre Dame. Per tacere del Père-Lachaise che porto sempre nel cuore. Mi verrebbe di citare tanto, e altro, ma mi rimane la voglia di due cenni soltanto, uno interno ed uno esterno. Forlani insegna come base in una scuola vicino alla Gare St. Lazare. Ed io lì, passai i primi tempi di studio, lì imparai il francese che so, lì sedicenne, comincia a capire la bellezza dell’altrove. Quello esterno, invece riguarda il momento comico del ricordo dei juke-box che a Scauri rimandavano, strofa dopo strofa, tutto il “Teorema” di Marco Ferradini. E la mia mente vola a quella stessa gag, ripresa da Aldo, Giovanni e Giacomo in “Chiedimi se sono felice”, con quel reiterato “fuori dal letto, nessuna pietà”. Forse mi sono fatto trasportare troppo dai ricordi, ma se un libro ne suscita, ben venga il libro e chi l’ha scritto.
Antonio Tabucchi “Viaggi e altri viaggi” Feltrinelli s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 03/12/2013 – T: 05/12/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266; anno 2010]
Un libro che stava viaggiando su livelli di sicura eccellenza, ma che non mantiene il massimo dei voti per un’ultima parte leggermente inferiore. Oltre al fatto che non posso non rimproverare a Tabucchi di averci lasciato così presto, orfani di quel suo modo garbato di essere e di scrivere. Questo libro è in gran parte una collazione di scritti altrove pubblicati, in gran parte sul “Corriere della Sera” e sulla rivista “Grazia Casa”. Ma qui sono sapientemente incastrati secondo un gustoso filo logico, sia dall’autore, ma soprattutto dal curatore, Paolo Di Paolo, dei cui scritti ho ampiamente parlato recentemente, e che qui si rivela un sapiente solutore di rompicapi. A parte, forse, quell’ultimo capitolo, dove sono inzeppati un po’ di testi forse meno in linea con l’assunto generale. Quello di parlare di viaggi, ma non per scrivere di viaggi, ma prendendo spunti dal muoversi nello spazio dell’autore. Ed in molti dove, qua e là per il mondo, i suoi appunti ci portano a viaggiare con lui, avendo a mente quella bella frase di pagina 17  che riporto sotto. Il passo della scrittura di Tabucchi è sempre misurato: non corre, non si affretta, coglie il dettaglio minimo. Ed il suo occhio si posa sulle cose, sui paesaggi, sugli uomini, con la stessa delicatezza e curiosità con cui si poserebbe il mio, se ne fossi capace di scrivere. Coglie quelle minuzie delle grandi cose, che per assonanze, suoni e rimandi, lo collegano e ci collegano con tutto quanto vale la pena di vivere. Quando parla di luoghi che conosco, mi sembra di camminare con lui, mio alter ego importante. Quando parla di altro, mi viene voglio di andarci, di vedere subito quella cosa, quel posto, quell’angolo di mondo. Con quella capacità sorretta da un’onesta curiosità ed una grande cultura, di partire dal poco ed arrivare a comunicare molto. Ed eccomi allora passeggiare con Antonio, a Parigi, in quella bellissima e dimenticata place de Furstenberg. Pensavo di ricordarla solo io, girando dietro rue Jacob, ed affacciandosi sulla piazzetta, piccola, squadrata, con l’albero al centro. Ed invece, ecco che Tabucchi mi ci riporta. Anche a vedere i Delacroix, e mentre parla di Marianna, io vado con la testa a Géricault e alla Medusa. Già questo solo ricordo, mi avrebbe fatto amare lo scritto. Ma poi che dire della bellezza quando descrive Kyoto, dove riesce in due righe a rimandare tutta l’anima del rispetto giapponese verso le cose (il regalo dell’amico giapponese non è cosa c’è dentro la scatola, ma la scatola ed il suo incartamento, divino). O Madrid passeggiando verso il Prado. O a Barcellona, nei posti di Gaudì oltre Gaudì stesso (tralasciando la sopravvalutata Sagrada). Mirabile l’elenco delle tipologie di peperoncino messicano (chi mai si scorderà dell’Habanero). Da scandire parola dopo parola l’invettiva contro il turismo cialtrone nei resort di lusso. Ho gustato capitolo dopo capitolo, poi, le due parti maggiori. L’India, dove sono tornato a Mumbai, la “boa baia” portoghese, ho dormito una notte nell’ala nuova del Taj Mahal hotel, ho rivisto le pire di Varanasi ed i poveri dell’Ospedale di Madre Teresa a Kalkata. Ecco, la grandezza di uno scrittore mi coglie al volo, quando in un gesto, in una parola, riesce a dire cose che altri non riescono a spiegare in pagine e pagine. Il cadavere avvolto nel lenzuolo bianco e trasportato con una Vespa modificata a tuk-tuk verso la pira è capace di farci srotolare dentro un saggio su tutta l’India possibile. Ed ovviamente il Portogallo ed il mistero della saudade portoghese. Quell’allegria dalla faccia triste che ho sempre scorto nei volti lusitani, e che Antonio mi rimanda come memoria del futuro. Impagabile. Ed è quindi con moto rapito che allora da lui mi faccio trasportare in luoghi non ancora visti, dai Carpazi a Creta, da Goa (e chissà se un giorno riuscirò a portare avanti il progetto sull’abate Faria) ai deserti australiani, dalle pampas argentine fino alla ferita nella terra che è ancora il Brasile (dall’Amazzonia alle miniere di Minas Gerais). Sono contento che sia esistita una persona di tal fatta, e sono contento di aver avuto il piacere di leggerne. Spero di riuscire a vivere quello che non ho ancora visto. Aumentando di poco la piccola conoscenza che ho del mondo (magari aggiungendovi qualcosa sulla cucina, che se la lettura ed il viaggio sono forme di conoscenza, il mangiar del luogo è entrare in questa conoscenza e farla propria).
“Il viaggio trova senso solo in sé stesso, nell’essere viaggio (Kavafis).” (10)
“La letteratura … è la dimostrazione che la vita non basta … è una forma di conoscenza in più. È come il viaggio.” (14)
“Sono un viaggiatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull’amore.” (17)
“A ciascuno sarebbe piaciuto avere avuto un’altra vita da vivere. Peccato che la vita sia una sola.” (65)
“Secondo la filosofia del [Bard] College un biologo o un ingegnere che conoscono Tolstoj o Mozart … hanno un cervello che funziona meglio dei corrispettivi professionisti che non li conoscono.” (86)
“(Dice Pessoa) se dopo la mia morte qualcuno volesse scrivere la mia biografia, bastano due date, quella della mia nascita e quella della mia morte: fra l’una e l’altra tutti i giorni sono miei.” (172)
“Tutti i giorni la laidezza del mondo ci perseguita, è di casa nello schermo televisivo, e ad essa ci siamo assuefatti. Invece la bellezza può fare ammalare.” (234)
“Gerusalemme … è la città dove tutti ricordano di aver dimenticato qualcosa.” (236)
“Quale è lo spazio … di un attore? … [Heidegger dice] che il vuoto … è quel luogo in cui si fondano i luoghi … e in quello spazio gli attori ricreano il mondo e lo reinventano.” (217)
Riprendendo il titolo, ed omaggiando l’amico Ennio ed i suoi infiniti giochi, non son rumeni ma numeri (anagramma). Questo è la trama numero 42 (4+2=6) di questo 2013 (2+0+1+3=6), che è anche il sesto anno che utilizzo questa testata come messaggio da me a voi. Inoltre, no possiamo non pensare al giorno odierno, ultimo e per molto tempo anagramma di numeri 30/12/2013 (30/12 anagramma 2013, ed ovviamente 3+0+1+2=6). Quindi chiudiamo l’anno con questa trama che vi ricorda che io pur cambiando sono sempre lo stesso viaggiatore numerico. Buon anno a tutti

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