Ebbene sì, ci salva la luna della
Mastrocola, in questa settimana di metà Dicembre. Forse un po’ il primo libro
di Penelope Lively, di tutt’altro livello rispetto al secondo, veramente poco
piacente. Certo, qualcosa c’è sempre da salvare (o quasi sempre), anche nella
tela del ragno. E sicuramente gradevole, piacevole ed inconsueto il libro
persiano. Ma poi c’è lei, la nostra scrittrice torinese, non ai livelli della
barca, ma sempre con qualcosa. Quello che ci spinge, sempre, a cercare il
meglio di noi, per noi e spesso in noi (anche quando non lo sappiamo
ammettere).
Penelope Lively “Un posto perfetto” TEA euro 9
[A: 10/11/2012– I: 29/05/2013
– T: 31/05/2013]
[tit. or.: Family Album; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2009]
Cominciamo
subito a toglierci il sassolino dalla scarpa, che ritengo al solito fuorviante il
cambiamento del titolo. L’album di famiglia ben più calzante avrebbe reso
l’idea di questa cavalcata nei ricordi di una sana (sana?) famiglia inglese,
cresciuta in un “posto perfetto” come Allersmead (la prateria di Allers,
credo). Una casa, solida, di famiglia, dove nasce e cresce la famiglia Harper.
Questa è la storia che ci racconta Penelope Lively, autrice che ho già
incontrato (sempre per caso) in un suo scritto ambientato in Egitto (dove
nacque, pur inglese) a suo tempo vincitore di un prestigioso premio (il Booker
Prize). Ed è un’autrice che a me piace per il modo di scrivere, per i
cambiamenti di prospettiva (i suoi romanzi sembrano spesso un’opera collettiva)
dove cambiando soggettività aumenta il risalto a tutto tondo dell’opera in sé.
Attenta ai cambiamenti sociali, ed alla società inglese in particolare, in
questo album di famiglia ci porta su e giù nel tempo per farci conoscere una
complessa vicenda familiare. Quella appunto della famiglia Harper. Il padre
Charles, erede di una rendita che lo rende autonomo dalla necessità di lavorare
quotidianamente, studioso eclettico e poliedrico, che passa il tempo a scrivere
libri di divulgazione varia (quello che percorre la maggior parte del libro, è
un testo sui riti di iniziazione dei giovani nelle varie tribù primitive). La
madre Allison, vera matrona britannica, che decide di avere una grande famiglia
(e farà una vagonata di figli), e di gestire in prima persona la tribù di
Allersmead. Ingrid, la tata svedese, entrata nella famiglia quando il primogenito
ha un anno e dove rimane tutta la vita, anche perché… E poi i figli. Paul, il
primo, un po’ ribelle un po’ viziato da Allison, ma soprattutto senza mai un vero
obiettivo, tanto che sarà l’ultimo a lasciare la casa. Gina, la più determinata
a contrastare la sapienza paterna, che narra e racconta e che finisce reporter
televisiva. Sandra, la bella, che legge Vanity Fair, farà la modella,
l’arredatrice, indipendente e trasferitasi in Italia. I due “piccoli” Roger e
Katie, che sono i più uniti tra loro, e che si trasferiscono lui in Canada a
fare il pediatra e lei negli Stati Uniti. Ed ultima Clare, che per buona parte
del romanzo ci chiediamo sia figlia di Allison o di Ingrid, che segue la sua
vocazione di danzatrice in giro per l’Europa. È soprattutto con gli occhi
indagatori di Gina (e spesso nelle sue conversazioni con l’amato Philip) che
ricostruiamo le vicende della famiglia. Le feste di compleanno, le ricorrenze
(natali e altro) dove Allison dà il meglio di sé, nell’organizzazione e nella
preparazione del cibo. Le discussioni a tavola, dove Charles fa cadere
dall’alto i suoi sarcasmi, ma dove altresì è sempre Charles che si astrae come
se facesse parte di altro. I giochi dei sei fratelli Harper, soprattutto quelli
in cantina, loro rifugio esclusivo, dove inscenano vive familiari che
ripercorrono la vita come vorrebbero che si svolgesse. Ingrid che sembra ad un
certo punto voler andar via, ma che non può far altro che tornare, troppo forti
i legami con la famiglia. I primi amori di Sandra. Le sbandate di Paul con
piccoli episodi di droghe leggere. Emblematica di tutta la storia l’immagine
che mi salta agli occhi quando, dietro ad una duna Sandra si dà in effusioni
con un suo amorazzo estivo, e Charles, camminando sulla cresta della stessa,
immerso nei suoi pensieri, neanche li vede. O se li vede non li riconosce. È
tutto qui il gioco di esserci e non esserci allo stesso punto. Di attraversare
la vita concentrati sul proprio ombelico (alcuni degli Harper) o aperti al
mondo (gli altri Harper). Ma questa tribù cresce con tutti i pregi ed i difetti
di questa continua lotta. E non è un caso che quasi nessuno dei figli Harper metta
al mondo altri figli. Troppo piena Allison della sua matronità, troppo
pervasiva. Come se i genitori fossero esempi troppo alti (nella maternità o
nella conoscenza) che i figli non possono arrivare. Quindi fanno altro. O non
fanno nulla, come Paul. Filo colorato che unisce molta parte, è poi la domanda
di chi sia figlia Clare. E la comprensione che, forse, non è importante. Ma
come non rimanere io colpito dal bellissimo capitolo sulle vacanze al mare, che
tanto mi ricorda le mie tribù estive, i traslochi da giugno a settembre. Con
mia zia-generale ad organizzare la vita di ognuno. E mio padre che pensa ad inventare
giochi che ci terranno occupati per settimane. Si arriverà anche alla fine di
Allersmead, che dovrà, per una serie di avvenimenti, essere abbandonata.
Chiudendosi nella mia mente con un’ultima visione della grande casa, da dove,
finalmente tutti possono allontanarsi e seguire quello che sono diventati. Gina
forse capirà che è stato tutto necessario per essere quello che siamo. Come lo
riconosco io, per la buona scrittura della Lively, tutto serve a qualcosa. Bisogna
farlo proprio, comprenderlo, ed andare avanti senza rinnegare, mai, se stessi.
Un’altra buona lettura di questa fine di maggio.
“La vita interiore di ciascuno è abbastanza
oscura, a modo suo; non c’è bisogno di esibirla agli altri.” (210)
“Tu hai l’impressione di conoscerli, i tuoi
genitori?” (228)
Louise Soraya Black “Il cielo color melograno” 66th A 2nd s.p. (regalo
di Alessandra)
[A: 07/05/2013– I: 09/06/2013 – T: 10/06/2013]
[tit. or.: Pomegranate Sky; ling. or.: inglese; pagine: 252;
anno 2012]
Decisamente
una buona lettura ed un buon regalo che mi ha consentito la scoperta di una giovane
autrice interessante, e di entrare per la prima volta nella moderna realtà
persiana. Un Iran da sempre amato-odiato e forse poco capito (da me). Dai
racconti di Nino quando tornava da Teheran carico di caviale e notizie, alle
parlate in arabo con i profughi farsi che (ovviamente) non capivano una parola.
Un lungo viaggio questo mio da Khomeini ad Ahmadinejad, senza tuttavia (ad ora)
essere riuscito ad organizzare un viaggio in loco. Ed allora immergiamoci pure
in questo racconto che forse ci dà solo una scarsa visione politica della
situazione iraniana, ma che lo fa con una grande partecipazione. E dalla parte
delle donne, che (purtroppo) sono sempre state vittime. Prima, durante e dopo
la rivoluzione. Intanto anche l’autrice è donna, ed anche mix (padre iraniano,
madre inglese). E come alcune delle protagoniste, spesso va su e giù tra
Occidente ed Iran. Quindi qualcosa sa, anche se, come detto sopra, non spinge
molto né analisi né riflessioni sul piano politico. Ma già il piano emozionale
è forte e, comunque, ne esce fuori discretamente (per chi ne sa leggere) un
ritratto di un mondo quanto meno problematico. Per chi ne sa leggere dicevo, ed
allora vediamo come la nostra scrittrice abbia come nome persiano Soraya,
quello della seconda e più nota moglie dello Shah Reza Pahlavi, l’ultimo Shah
di Persia. E come un ruolo centrale abbiano i pasdaran, i guardiani della
rivoluzione khomeinista, una sorta di piccoli inquisitori emuli dei
“familiares” di Torquemada. La Black usa sapientemente i flashback per narrare
la storia in modo da seguire un suo filone “presente” che si svolge nel 2001, e
riandando nel tempo quando la situazione richiede spiegazioni e rivelazioni. La
storia è poi narrata dal punto di vista di Layla, una ragazza di ventiquattro
anni (nata quindi lo stesso anno dell’autrice), che vive in un’interessante
famiglia cosmopolita. E che lo è diventata negli anni, dal 1971 quando
l’inglese Nelly viene ad insegnare inglese a Teheran e si innamora di Mammad,
un giornalista indipendente sia nel periodo dello Shah ma, soprattutto, nel
periodo post 1979. Mammad è lo zio di Layla, e padre di Roxanne, che si è
trasferita a Londra. La terza sorella è Myriam, un tempo sposata al persiano
Farazi, che però viene ucciso come spia dello Shah (ma se ne dubita fortemente)
nei primi giorni della rivoluzione. Motivo per cui Myriam fugge in America e
partorisce Sara, che non saprà mai di essere iraniana pura e non sangue misto.
Layla cresce in questo mondo claustrofobico, dove però le donne, tra di loro, o
dal parrucchiere, si tolgono i veli e sfoggiano le mise più alla moda. Certo il
mondo di Layla è di quelli che erano protetti sotto lo Shah, e che si sono in
qualche modo salvati dalle oppressioni più dure, anche se Mammad è stato a
lungo in carcere, minandosi la salute. Ed è indipendente Layla, non vuole
sottostare a matrimoni combinati come vorrebbe la madre. Vuole lavorare, in un
mondo in cui questo non è ben visto per le donne. E si innamora del povero
Keyvan, un pittore dalle scarse fortune e dal grande fascino. Il racconto precipita
quando improvvisamente muore Mammad, e per i funerali tornano in patria Roxanne
e Sara. Non sono abituate a queste restrizioni, per cui la donna non può uscire
con un uomo se questo non è suo parente, deve restare vergine sino al
matrimonio (ed i pasdaran possono chiedere i test di verginità), deve avere i capelli
coperti, eccetera, eccetera, eccetera. Sara rimarrà intrappolata in questi
meandri di oscurità, e Layla avrà modo di capire il sottile filo che separa
verità e menzogna, amore e odio. Sara ne uscirà bene, Layla forse un po’ meno,
ma certo molto più consapevole, e, disamorata della patria che pur ha amato
tanto (e belle e toccanti sono le descrizioni dei monti innevati, della natura
in fiore, e dei melograni, emblemi primi del mondo e della cucina iraniana), si
avvia anche lei ad un probabile esilio in compagnia della cugina Roxanne. Ecco,
tutte queste parti “dure” verso la donna sono descritte con mano ferma anche
se, leggendone tra le righe, se ne intuisce una ferocità devastante. Meno bene
altre parti, forse con qualche compiacimento di troppo verso l’ancien règime,
anche se ne vengono sottolineate le stoltezze e le ruberie (questa l’ho già
sentita…). Tuttavia un romanzo che chi non conosce l’Iran dovrebbe leggere come
primo passo. Che poi si avrà tempo di discutere sul ruolo della donna
nell’Islam. Ma ci vorrebbe più spazio e capacità, anche se prima o poi ci
torneremo.
Paola Mastrocola “Più lontana della luna” Guanda s.p. (compreso nel
pacco regalo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 14/07/2013 – T: 15/07/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 296;
anno 2007]
Non
direi letto, ma veramente divorato. Al ritorno dalla fredda Islanda, in vista
del caldo portoghese, avevo bisogno di parole che mi facessero sciogliere le
ruggini del cervello. E Mastrocola c’è riuscita. Anche se meno convincente de
“Una barca nel bosco”, è, come quello, un romanzo di formazione. Ed un po’ mi
ha ricordato quel bellissimo testo del mio caro Maalouf “Un amour de loin”. Qui
seguiamo venti anni nella vita di Lidia, che incontriamo quindicenne nel 1970,
costretta ad abbandonare la scuola per problemi economici. Aiuta la madre al mercato,
bada al cavallo Pino (abitano in un’ex-scuderia a Stupinigi). Ed ha il suo
momento di “folgorazione” quando, nell’enciclopedia comprata per farla studiare
(ma non servirà) incontra Bernart de Ventadorn, trovatore provenzale del sec.
XII, figlio di una fornaia e cantore dell’amore da lontano. Quei versi (ed i
versi delle poesie in genere, che parlano all’anima come se fossero scritti per
te) si scolpiranno nella testa. “Aver la lingua e non poter parlare”, sarà da
quel momento una specie di motto della sua vita. Prima nella frequentazione con
gli ambienti sinistrosi della Torino dei primi anni ’70, che non capirà per le
parole astruse ed i comportamenti altri (chi parla di rivoluzione, poi ha la
casa in montagna, ed alla fine si sposerà e metterà su famiglia). Poi nella
smania di voler far sposare. Un istante prima della caduta nel “baratro” del matrimonio,
Lidia fugge con Pino. E da quel momento andrà in giro per l’Italia. Continuando
ad incontrare gente, facendo mille mestieri, innamorandosi spesso delle persone
sbagliate. Come Glauco, che però è sposato. Ma lì in Toscana incontra anche
Ghitti, una donna che le dà i punti di riferimento che le mancavano. E che
capisce quel suo cercare. E, per casualità, le fa conoscere Micael. Un
illusionista tedesco-olandese, con cui ha subito (e per sempre) una comunità di
ideali. Quel che si dice due menti che ruotano all’unisono. Anche se Micael è
molto più grande (e forse le dà per questo della sicurezza che non trova in
altro). Micael che non prende in giro la sua mania di modellare il pongo. E che
parte per le sue tournée, riuscendo ad essere quell’amore lontano che cercava.
Trovato un primo passo di pace, torna dopo quasi dieci anni a Torino. Rivede i
genitori invecchiati, che di lì a poco, uno dopo l’altro, muoiono. Allora vende
tutto, e con i pochi soldi si trasferisce nelle Alpi Apuane (ahi, ancora un po’
di Pietrasanta…). Dove il marmo le dà quelle sensazioni di comunicare con
l’esterno che le parole non riuscivano a trovare incamminandosi verso la
lingua. Alla fine, oramai sui trentacinque anni, diventa lei, quasi, un
riferimento per i giovani. Ed alla morte, ed è ovvio che sia così, di Micael,
riesce a superare le sue mancanze. E per una donna che non conosce, che le
chiede un’opera funeraria, fa un busto di angelo in cui riesce a trasportare
quello che lei sentiva per Micael. E così finisce la formazione della nostra
Lidia. Sapremo forse nelle ultime pagine chi sia la donna. Penseremo forse che
il giovane apprendista diventerà qualcosa in più anche per lei, ora che ha
vissuto fino in fondo e superato, l’amore da lontano. Ha trovato la sua
vocazione e la sua strada, anche se rimarrà sempre atipica ed estranea alle
mode imperanti. Paola Mastrocola riesce comunque a comunicarci fino in fondo la
necessità di guardare il mondo con i propri occhi, con il proprio stupore e con
la propria ingenuità (così come nella barca). Usando e sfruttando quei talenti
che comunque sono presenti in noi (fosse il giardinaggio come nel primo, la
scultura in questo, o la cucina in altro che non ha scritto). Per diventare un
“noi” che, in ogni caso, è e sarà unico.
“Saperti amante e non poterti avere / star
lontano da te quando in cor m’ardi / aver la lingua e non poter parlare. …
Quella poesia mi faceva pensare a cose cui non avrei mai pensato: ad esempio
che voler parlare con una persona, che però è lontana, è come non aver la
lingua.” (77)
“Pensai che non bisogna sempre chiarire
tutto, che molto deve rimanere non detto, forse nemmeno pensato fino in fondo.”
(169)
“Un amore fermo, che non aveva un tempo e
dunque non nasceva e non moriva, da tenere soltanto nella mente, da coltivare
intatto come un sempreverde”. (231)
“Facciamo tutti l’errore di chiedere che gli
altri ci amino per quel che siamo, pensiamo di essere chissacché, e invece non
siamo niente, vogliamo solo che gli altri perdonino i nostri difetti.” (225)
Penelope Lively “Appunti per uno studio del cuore umano” TEA euro 10
(in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 03/08/2013– I: 09/12/2013 – T: 12/12/2013]
[tit. or.: Spiderweb; ling. or.: inglese; pagine: 244;
anno 1998]
Sono
rimasto decisamente deluso da questa nuova lettura della Lively, scrittrice che
mi era piaciuta discretamente nella prova egiziana ed era decisamente sopra
media nella poco tempo fa letta prova di “famiglia”. Qui c’è un romanzo di
media lunghezza, che però non decolla mai. Solo alla fine, comunque, mi sono
accorto che era precedente agli altri, uno scritto di 15 anni fa. E si sente.
Come si sente, riprendendo quanto detto all’inizio del precedente, la poca cura
del titolo italiano. La tela di ragno del titolo inglese rende a perfezione
come si debba sentire l’antropologa in pensione Stella Brentwood nel suo buon
ritiro della campagna inglese. E se pur è vero che nel corso della narrazione
si parla di sentimenti e di rapporti, il titolo falsamente antropologico non
rende giustizia. La Lively tenta, utilizzando molta narrazione ma anche altri elementi
(giornali, citazioni, interventi esterni), di dar corpo ad una problematica non
banale: un’antropologa va in pensione dopo aver girato il mondo in lungo ed in
largo, aver dormito nelle capanne di fango africane, vissuto con aborigeni
neo-zelandesi, ma anche discusso di legami familiari con maltesi o con
originari delle isole Orcadi. Andando in pensione pensa di ritirarsi nella
campagna inglese, di mettere radici, come dice lei. Ma uno non può dimenticarsi
cosa ha fatto e come ha vissuto per quaranta o cinquanta anni. Così anche lì, comincia
a guardare il mondo delle sue possibili radici con l’occhio della studiosa. Ed
in questo modo, analogamente a quanto aveva fatto per il corso della sua vita,
rimane esterna, non si mescola. Certo capisce forse meglio i meccanismi dei
rapporti sociali, ma non potrà mai “mollare i freni”. Anche perché, nel piccolo
mondo campagnolo, oltre alla tela di ragno che si intreccia nella vita
quotidiana degli abitanti, si mescolano alcune vicende direi private o che
vengono da lontano. Lì in campagna ritrova Richard, il marito della sua grande
amica Nadine ormai defunta. E questo dà la stura ad un continuo flash-back di
ricordi giovanili, delle speranze, delle diverse strade, del diverso modo di
affrontare la vita delle due amiche. Nadine che vuole solo sposarsi e mettere
su famiglia. Stella che vuole avere una chiave di lettura dei meccanismi
sociali che governano il mondo. Nadine ottiene quello che vuole, ma muore
presto di cancro. Stella si domanda se lei ha ottenuto quello che vuole. E lì
in campagna la viene a trovare l’amica di maturità, Judith l’omosessuale.
Conosciutesi a Malta, con Judith archeologa che scavava resti vari. Simpatia di
pelle, continuata negli anni, con Stella che segue il susseguirsi degli amori
di Judith, che però poi rimane sempre sola. Ma che con queste rivisitazioni, dà
la stura ai ricordi di Stella verso i suoi amori, o presunti tali. Dan con cui
ha avuto la più lunga relazione, ma che poi si trasferisce in America e lei no.
Alan che vorrebbe lei si fermasse nelle isole al nord della Scozia, e vorrebbe
anche sposarla. Ma lei no, e fugge via. Significativo è tutto il rimuginare che
fa sul ruolo di un antropologo donna inserito nelle comunità che deve studiare,
e le interazioni che ne possono seguire. Ma se tutto è facile nel Delta del
Nilo, poco lo è in Cornovaglia. Poi c’è appunto la comunità campagnola in cui
Stella vorrebbe entrare, ma che non riesce a scalfire. Fa una conferenza delle
sue esperienze, ma si vede come, pur partecipata, lei ed i locali viaggiano su
lunghezze d’onda diverse. Non riesce ad interagire con i tremendi vicini di
casa, che hanno due figli quindicenni pestiferi e disadattati. Che non trovano
di meglio, per sfogare il loro malessere verso una madre insopportabile ed un
padre assente, di prendere a fucilate il cane di Stella. La morte del cane fa
finalmente fermare Stella a pensare. E contemporaneamente, Richard le chiede di
unire le loro solitudini e Judith, lasciato l’ultimo amore, le chiede di
condividere le loro aspettative intellettuali. Cosa farà Stella? È forse ben
chiaro, ma lo lascio scoprire a voi, se volete. Io ribadisco la scarsa fluidità
del testo, e la poca presa emotiva verso di me. Anche se le tematiche potevano
essere più interessanti. Forse nel precedente libro che ho descritto,
pubblicato dieci anni dopo, questi pensieri sono più maturi, ed arrivano a
quelle conclusioni che ho sopra riportato e continuo a condividere.
“Il loro era il legame precario di chi ha
trascorso assieme la giovinezza per poi avviarsi su strade separate, pur
rimanendo irrazionalmente uniti da quegli anni condivisi.” (49)
“Il futuro è implicito nel presente, se solo
lo si sapesse leggere. I segnali ci sono già, ma non siamo capaci di leggerli.”
(85)
“Il matrimonio … rende incapaci di vivere da
soli. Io non ne avevo tenuto conto.” (193)
Come
detto anche in altri contesti, una settimana bella e impegnativa, quella
passata. E che prefigura un prossimo futuro pieno di scadenze. Forse poche per
me, ma molte per l’appena giunto Tommaso, cui diamo il nostro caloroso
benvenuto. E speriamo poche anche per chi si è ritrovato involontariamente all’ospedale.
Ne usciremo tutti, e bene.
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