Edizione speciale delle trame,
per festeggiare un lieto Natale, con le letture degli ultimi viaggi. Come molti
sanno, tendo sempre a cercare qualche libro “in loco” durante i miei viaggi.
Possibilmente in lingua locale. Ovviamente, qui non è stato possibile. Ma
abbiamo un decente giallo islandese (con qualche sguardo sui costumi isolani),
un interessante e poliedrico romanzo portoghese, un dolente andare tra le dune
marocchine ed un “action thriller” ovviamente nella caotica Bangkok.
Yrsa Sigurdardóttir “My Soul to Take” Hodder euro 12,75
[A: 13/07/2013– I: 22/08/2013 – T: 25/08/2013]
[tit. or.: Sèr grefur gröf; ling. or.: islandese; pagine: 456; anno 2006]
Comprato
a Reykjavik l’ultimo giorno della bellissima vacanza islandese, perché l’ottima
libreria del centro non aveva gli ultimi di Indriðason che cercavo. E siccome
sapete la mia mania di avere qualcosa di scritto dei posti che frequento, e
siccome anche potete immaginare che non sia proprio fluente in islandese, ho
ripiegato su questo che veniva pubblicizzato come un interessante thriller
delle nuove leve di scrittori dell’isola. Anzi, dato il cognome, possiamo
subito dire, di una promettente scrittrice. Anche se la titolazione risente
anche qui della voglia di attirare il lettore distratto. Infatti, l’originale
sarebbe (se il translator non tradisce) qualcosa tipo “La fame scava la tomba”.
Invece il titolo inglese (che riprende una preghiera citata nel prologo) indica
appunto una preghiera presente nel primo libro di preghiere protestanti per
fanciulli. Sfortunatamente, questo è il secondo con protagonista Thóra
Gudmundsdóttir, per cui qualcosa si perde. Ma la trama è ben delineata (anche
se impiega un po’ a decollare). Ma sopratutto mi ha attirato il fatto che si
svolge principalmente in un hotel-spa situato nella penisola di Snæfellsnes,
penisola che abbiamo visitato nel giro islandese. Thóra viene convocata lì dal
proprietario, Jonas Juliusson, che vuole rinegoziare l’acquisto sostenendo che
l’albergo è infestato da fantasmi. Thóra, molto pragmatica, comincia ad
indagare e scopre che i venditori (fratello e sorella) hanno lasciato delle
casse nel seminterrato dell'hotel. Ed in queste Thóra trova vecchi documenti
sulla storia della famiglia, risalenti alla seconda guerra mondiale. Intanto
viene assassinata Birna l’architetto dell’albergo e Thóra, incuriosita da
possibili collegamenti, comincia anche ad indagare su questa morte. Aiutata dal
ritrovamento del diario di Birna, che lei non comunica alla polizia, e che
contiene spunti sia sul passato che su possibili moventi del reato. Da qui si
sviluppa la parte “mistery” del romanzo, coinvolgendo anche alcuni ospiti
dell’albergo, che non hanno atteggiamenti così lineari come sembra in un primo
tempo. Ma anche la vita privata di Thóra viene coinvolta. Per una vacanza
arriva Matthew, un tedesco che ha una relazione con Thóra e che rimane ad
aiutarla nelle indagini. Hannes, l’ex-marito di Thóra dovrebbe intanto badare
ai loro due figli. Cosa che non fa (come al solito, e forse la spiegazione sta
nel primo romanzo). E i due scompaiono, impensierendo Thóra sia per la piccola
che ha solo 6 anni, sia per il maggiore che, sebbene sedicenne, ha una
fidanzata che sta per partorire. Questo crea ovviamente ulteriore ansia al
nostro avvocato. Ulteriore trama, che parte dai documenti e dal diario, è la
storia della regione e dei suoi abitanti. Alla fine Thóra riesce a collegare
tutti i pezzi del romanzo. La storia che viene dalla seconda guerra mondiale (e
che coinvolge anche una cellula nazista insediatasi nell’isola a quel tempo),
la storia delle morti, nonché le sue storie personali, sia verso i figli che
verso l’amato Matthew (anche se questo è un po’ passivo per quasi tutto il
romanzo). La scrittrice usa sapientemente diversi registri, anche con toni
umoristici che non sono male. Dandoci inoltre una bella visuale sullo stile di
vita familiare di Thóra, quasi emblema del modo di vivere islandese, con i
conflitti tra l’amore materno e l’esasperazione verso i modi di adolescenti e
bambini che non fanno che complicare la pur non semplice vita degli adulti.
Forse è un filo troppo lungo, motivo per cui (dati anche i molteplici
personaggi presenti) a volte si perde la trama per andare a ritrovare chi è il
personaggio di cui si parla, cosa ha fatto, e com’è collegato alla vicenda.
Insomma, da salvare sicuramente per la parte in cui mi ha restituito il feeling
con l’Islanda, meno per il resto. D’altra parte non sarà facile leggerne
ancora, che niente è stato pubblicato in italiano.
“Even if people listen, they don’t necessarily hear.” [Anche se
la gente ascolta, non necessariamente sente (cioè comprende)] (241)
Inês Pedrosa “Nas tuas mãos”
Leya euro 5,95
[A: 27/07/2013– I: 26/08/2013 – T: 02/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: portoghese; pagine: 207;
anno 1997]
Devo
dire che questa volta, la lettura portoghese è stata più impegnativa delle
precedenti. Ovvio che non sono un lusofono, ma nella scrittura normalmente
narrativa, per assonanze e sovrapposizioni, si riesce a seguire discretamente
bene uno scritto portoghese. Qui, l’autrice usa dei modi narrativi meno
diretti, non solo, ma infarcisce soprattutto la prima parte di nomi e
nomignoli, cosa che mi ha fatto perdere tempo per potermi muovere più a mio
agio. La prossima volta che decido di seguire uno scrittore in lingua, mi sa
che è meglio qualcosa di più avventuroso. Ma torniamo alla nostra scrittrice,
qui al suo secondo romanzo, vincitore di premi in patria (non so se tradotto in
Italia, se lo trovate vale la pena di leggerlo). Inês Pedrosa nasce giornalista,
per poi dedicarsi una ventina di anni fa pienamente alla scrittura, senza
dimenticare (e lo si sente negli scritti) l’impegno a favore dei diritti delle
donne. Qui ci porta in una lunga carrellata attraverso molta storia del suo
paese, ed attraverso soprattutto la figura di tre donne: Jenny, la nonna,
Camila, la madre, e Natália, la figlia. Ed attraverso tre diversi modi di
scrivere. Perché il romanzo è diviso appunto in tre parti: il diario
dell’anziana Jenny, la descrizione di Camila delle sue fotografie, le lettere
di Natália a Jenny. Sono tre diverse scritture, ma che rendono pienamente la
vita di questo spaccato portoghese. Che comincia ai tempi dell’ascesa di
Salazar, per poi proseguire durante la guerra mondiale, il periodo oscuro della
repressione fascista, le lotte di liberazione nelle colonie africane, la
rivoluzione dei garofani ed il tempo presente, libero ma ancora pieno di
difficoltà. E di saudade. Quel sentimento che si legge in faccia ai portoghesi
quando andiamo per le varie città. Quella triste allegria, di chi poi, dentro,
ha comunque dei pesi di cui non si libera. È la tristezza del fado (e non a
caso, mai qui si parla del portoghese allegro, per me simboleggiato dai
brasiliani d’oltre oceano). Alla fine, depurata dalla sarabanda dei nomi di cui
dicevo prima, la storia delle tre donne è comunque una storia di tentativi di
emancipazione. Di tentativi di uscire fuori dai sentieri tracciati per vivere e
viversi la propria vita. Come inizia Jenny, che porta un nome inglese che la
madre era affascinante dalla cultura anglosassone e che sposa il bellissimo
António, vivendo con lui un’intensissima storia d’amore. D’amore, ma non di
sesso. Che António ama, riamato, l’intellettuale Pedro. E loro tre mettono su
quella casa, che sarà il teatro di tutte le vicende. La Casa degli Scacchi. Con
tante stanze, e con dei giardini curati in modo maniacale da António, fino alla
sua morte (poi decadranno, anche se il nome rimarrà sempre). E questo strano
menage a tre sopravviverà per 60 anni, sopravviverà alle maldicenze del popolo,
sopravviverà a quando Pedro si innamora della francese Danielle. Un’attivista
anti-fascista con cui Pedro fa una figlia, Camila. Che poi decide di tornare in
Francia dove morirà, lasciando Camila a Jenny. E per lei sarà la figlia non
avuta, non potuta avere. Solo leggendo il diario di Jenny, dopo la sua morte,
Camila capirà tutta la storia. E si farà una ragione della sua difficoltà di
manifestare sentimenti, tanto che si nasconderà sempre e comunque dietro una
macchina fotografica, con la quale darà vita al suo mondo. Alle sue ribellioni,
quando viene presa e torturata dalla polizia senza che gli aristocratici amici
della presunta madre vogliano fare nulla. Tanto che fuggirà, in Mozambico, dove
avrà una brevissima ed intensissima storia d’amore con Xavier. Da cui nasce
Natália, che tutti accettano poi in patria come figlia e nipote, pur avendo un
difficile color ambrato da portare sulla pelle. E Natália, unica veramente ad
accettare tutto quello che succede, nel rapporto unidirezionale con la nonna
Jenny, arriverà a comprendere il passato e farne la base per il futuro di
tutti. Della morte serena di Jenny. Della distanza con Camila. Del suo difficile
rapporto con gli altri, condizionato sempre dalla sua bellezza, laddove anche
Leonor se ne innamora. Riuscirà a dire alla fine al suo amato Álvaro di non
aver paura? Chissà. In tanto abbiamo seguito la storia di questa famiglia
portoghese, e la storia del Portogallo di Pedrosa, a volte contraddittorio, ma
sempre pieno di sentimenti. Un ultimo cenno personale, come riporto in basso.
Come non voler bene ad una scrittrice che fa prendere un aperitivo alle sue
donne al “Pavilhao Chines”? Perché chi lo ha visto, non può non ricordarsene e
volergli ancora bene.
“Uma
das vantagens do envelhecimento è conseguirmos esquecer aquilo que nao nos
apetece recordar.” [Uno dei vantaggi dell’invecchiamento è che possiamo
dimenticare quello che non ci piace ricordare.] (24)
“Tudo
està escrito nos espaços brancos que ficam entra una palavra e a seguiente.” [Tutto
sta scritto negli spazi bianchi tra due parole.] (131)
Mahi Binebine « Les funérailles du lait » Fennec euro 2
[A: 26/08/2013– I: 02/09/2013 – T: 03/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 117;
anno 2012]
Passeggiando
per la strada pedonale del centro di Casablanca, cerco rifugio dall’asfissiante
umidità in una (almeno dall’esterno) simpatica libreria. Impressione confermata
anche dentro, con buone selezioni di libri. Parlo con il gestore, sempre alla
ricerca di un ricordo di carta dei luoghi visitati. E mi si consiglia questo
autore non solo maghrebino, ma intensamente di Marrakech. Dove è nato 54 anni
fa, e dove ora è tornato a vivere, per sfruttare al meglio le sue passioni (la
pittura e la scrittura), dopo aver vissuto anni ed anni a Parigi. Lì si era
laureato ed aveva insegnato per una decina d’anni la sua materia. Che guarda il
caso strano (e già me lo ha reso subito simpatico) è la matematica. Ed anche in
questo romanzo breve, le passioni escono tutte. Tanto per ribadire che non è
mai un caso che siamo quello che siamo. Un ordine interno, quasi una geometrica
descrizione ci fa seguire la storia di Mamaya, tra ricordi del presente e del
passato. Non è un caso, ma gli anziani sembrano sempre ricordare, anche quando
vivono e raccontano storie presenti. Una sensazione di luce e di spazi, che
solo chi sa tenere in mano un pennello riesce a dare, nel descrivere. E non
solo luoghi fisici, ma anche dell’anima. Mescolando il tutto nel calderone
della vita. Attraverso poi una scrittura senza troppi voli aulici, con delle
solide radici terrene. Libro poi scritto in francese e non tradotto dall’arabo.
Binebine riesce con questa sua scrittura docile a portarci dentro il Marocco,
non nelle grandi città, ma ai loro margini, forse anche in campagna. Ma
soprattutto a farci fare un viaggio nel tempo (mentale e fisico) di Mamaya.
Certo la vediamo per la maggior parte del tempo in una poltrona. Ma seguiamo i
suoi pensieri, le voci del medico e della governante. In un’altalena nel tempo,
cullata dal ritmo del caldo e della pioggia (poca), risaliamo indietro. Sino
all’incontro di sua madre Maman-le-bled (la mamma del deserto – anche se bled
in francese è usato più come indicazione di luogo sperduto generico) con il bel
militare. Le avances della madre, e la sua determinazione. E poi la nascita
della grande famiglia. Mamaya che va a scuola, con la sua intelligenza, la
prontezza, la capacità di apprendere. Quando si innamora del bel francesino
della classe accanto. La scoperta dei primi piaceri. L’impossibilità di un
futuro in quella direzione (siamo pur sempre ancora prima della liberazione dal
giogo francese). Ed allora lo sposarsi per convenienza con l’interprete locale,
potente al momento, ma poi in disgrazia nell’ora dell’autonomia (non servono
più gli interpreti arabo-francofoni). I figli che nascono. I figli che crescono.
E, lui, il primo figlio, non a caso di nome Adam, cui Mamaya rivolge molte
cure. Soprattutto quando, Adam militare, il figlio comincia a prendere
coscienza della crudeltà del potere, anche se ora in mano ai potenti locali. La
sua ribellione, il suo incarceramento. E la sua sparizione. Da quel momento,
diventa l’assente. Ma è l’assente più presente per Mamaya. A lui ora vanno i
suoi pensieri. E quando (come dolorosamente succede) viene colpita dal cancro
al seno, che ne porterà l’ablazione (ahi quanti ricordi porta questa
descrizione), è a questo seno mancante che si rivolgono i pensieri di Mamaya.
Le sue cure, il conservarlo per poter celebrare, ora che si avvicina la fine,
il funerale del titolo. Ed è andando alla tomba di famiglia, dove riposano
Maman e il buon babbo, accanto ad un locale marabut, che si compie il cerchio
della geometria di Binebine. Fino ad ora ha sperato in un ritorno. Ora non più.
E seppellendo il seno nella tomba di famiglia, seppellisce anche Adam che ormai
sa non rivedrà più. Guardando, con gli occhi che solo gi anziani riescono ad avere,
il luogo dove presto anche lei andrà a riposare. La matita dell’autore, poi, ci
lascia in copertina un fumetto della madre, con l’iqbal e con le rughe che si
vanno accumulando intorno agli occhi. Da un certo punto di vista, nei pensieri
che contornano ogni libro che vado leggendo, questa copertina, con il volto di
Maman e con il titolo sarebbe già più che sufficiente a far capire le seguenti
117 pagine. Non ci sarebbe necessità quasi di leggerlo. Anche se, e con
piacere, la sua lettura, mi ha riportato a quest’ultimo viaggio marocchino, ed
agli altri fatti ed a quelli futuri. In un ricordo di viaggio come fossi
anch’io un anziano seduto accanto a Mamaya.
“Qui
pourra jamais lui dérober, à elle, sa mère, les premiers cris de son bébé, ou
ses premiers sourires?” [Chi potrà mai rubarle, a lei, sua madre, i
primi vagiti del suo bambino, o il suo primo sorriso?] (70)
John Burdett “Bangkok
Tattoo” Corgi Books euro 10
[A: 28/03/2013– I:
04/10/2013 – T: 09/10/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 429;
anno 2005]
L’avevo
lasciato da parte, pur avendolo comperato in occasione di un viaggio, come
molti libri in lingua. Si era alla fine del “Tutto Thai Breve”, ed aspettando
la partenza all’aeroporto di Bangkok, ricordando la prima avventura del
detective Sonchai, l’ho preso pensando di leggerlo presto. Poi, invece, vicende
alterne di lettura hanno fatto sì che solo dopo sette mesi lo riprendessi in
mano. Ma mi ha subito riportato in Asia e nella sua caotica città degli Angeli
(che vi ricordo essere il vero nome di Bangkok). Devo dire subito che, pur ripetendo
l’interessante modo visuale sull’Asia ed avendo quindi una sua ragion d’essere,
mi ha convinto meno del primo libro. Ricordo, infatti, che si tratta di una
saga, le avventure che si estendono su cinque libri con al centro il detective
filosofo buddista thailandese Sonchai Jitpleecheep e le sue meditazioni.
Sonchai è un meticcio, figlio di una “moglie-in-affitto” (uno dei livelli della
prostituzione Thai) e di un “farang” (straniero, da “foreigner”), un militare
americano. I romanzi sono ambientati nel mondo dell’industria del sesso ed uno
degli elementi costitutivi è proprio il conflitto tra le norme ed i costumi
Thai e Occidentali. Sonchai è un devoto buddista, che i monaci forzano ad
entrare nella polizia per farne un esempio (ha commesso un qualche peccato in
gioventù). Durante la sua vita religiosa Sonchai diventa esperto nel camminare
sul confine tra bene e male. Sentiero che persegue anche ora, da detective,
anche se spesso si trova in conflitto con il suo capo, il colonnello Vikorn, da
sempre coinvolto in una lunga guerriglia con un altro militare. Il romanzo
prende le mosse all’interno del “The Old Man’s Club” un bordello gestito dalla
madre di Sonchai e dal colonnello, e dove un farang viene ucciso, pare dalla
più bella prostituta del Club, Chanya (di cui Sonchai è innamorato). Le cose si
complicano quando si scopre che non solo il tizio è morto, ma è stato scuoiato
ed è un membro della CIA. Per complicare il tutto, il colonnello inventa una
messa in scena che coinvolge Al Qaeda e che si svolge nel sud della Thailandia
al confine con la Malesia. Lì vola Sonchai, poi altri agenti della CIA che
incasinano il tutto. Convergendo poi anche in un traffico di droga che li
riporta tutti a Bangkok. Dove Sonchai ha le confidenze (finalmente) di Chanya,
che ben conosceva il morto, tale Mitch Taylor. Il quale è un agente bipolare (soprattutto
sotto effetti alcolici). Inoltre si scopre che tutti gli interessati hanno il
corpo tatuato da un misterioso tatuatore giapponese, in fuga dalla mafia. Ed è,
infatti, la mafia all’origine di tutte le morti con conseguenti scuoiamenti.
Sarà Sonchai, con l’aiuto dei musulmani malesi, che riuscirà a sbrogliare le
matasse, ed anche a salvare Chanya da morte sicura. Ma non è tanto la storia,
ripeto, quello che più interessa. Vedete bene che è una storia non solo
complessa, ma a volte talmente ingarbugliata che non riesco quasi a semplificarla
in queste righe. È un libro per chi conosce o vuole conoscere la Thailandia.
Questo, e gli altri di Sonchai, sono un ottimo punto di partenza, anche per i
frequenti commenti di Burdett che aiuta noi lettori farang a capire come i modi
di vita farang siano così lontani dal punto di vista asiatico considerato come
“umano – centrico”. Ed anche le divagazioni sul diverso modo di essere delle
donne, asiatiche ed occidentali, sono interessanti, pur dovendo scontare il fatto
di essere scritti da un uomo. Insomma un po’ di interesse intellettuale, meno,
purtroppo, sul piano narrativo. Non credo che penserò ad altre letture (ma se
poi si ripartisse per l’Asia…).
“I would have preferred the age of sail [instead of e-mail] when letters
took months to travel from one continent to another and one might easily have
died of cholera or heart stroke before knowing how one’s heart had been treated
by the special correspondent on the other side of the world.” [Preferisco
l'età dei viaggi per nave (invece dell’età dell’e-mail) quando le lettere
impiegavano mesi per viaggiare da un continente all'altro e uno potrebbe
facilmente essere morto di colera o di un attacco di cuore prima di sapere come
il proprio cuore venga trattato dal suo corrispondente dall'altra parte del
mondo.] (94)
“[Now the Opium tour on the North of Thai is called] Adventure … You get
elephant trek through the jungle, the bamboo raft on the river, all the ganja
you can smoke – and a couple of very special nights in one of those flimsy
bamboo shacks you see so much of in Vietnam movies.” [Adesso il tour
dell’Oppio nel nord della Thailandia si chiama] Avventure ... Si comincia con
un trekking su elefanti attraverso la giungla, poi la zattera di bambù sul
fiume, e tutta la ‘maria’ che si può fumare – oltre ad un paio di notti molto
speciali in una di quelle fragili baracche di bambù che si vedono tanto nei
film ambientati in Vietnam.] (362)
Come
i miei amici viaggiatori sanno, dovrei andare una settimana in Marocco a gennaio,
tanto per cominciare anche il 2014 con qualche buon proposito viaggiante. Ho
quasi finito lo studio preliminare sulla Transiberiana, ed ogni nuova proposta
è ben accetta.
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