domenica 8 dicembre 2013

St. Ambrose - 08 dicembre 13

Che c’entra il santo con le trame della settimana? Forse poco, ma, in questo giorno milano-festivo abbiamo un piccolo campionario di scrittori di lingua inglese. Da cui il titolo. E da cui cominciare, con il bellissimo libro di Barnes. Le trame centrali sono inglesi non inglesi, che una viene dalla lontana India (interessante, forse un po’ complicata) ed una dalla vicina Irlanda (semplice, godibile, lineare, forse troppo). E per finire si torna di là dell’Oceano, con un libro che poteva essere più efficace, anche se ben scritto e piacevolmente letto.
Julian Barnes “Il senso di una fine” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 01/07/2013– I: 30/07/2013 – T: 01/08/2013]
[tit. or.: The Sense of an Ending; ling. or.: inglese; pagine: 150; anno 2011]
In genere i miei amici lettori sanno che io sono, fondamentalmente, ottimista. Penso sempre che ci sia del buono in qualsiasi scrittura. Anche quando stronco, cerco comunque di trovare possibili appigli di salvataggio. Ed invito sempre quanto meno ad ipotizzare di leggere anche i libri meno riusciti. Qui no. Qui non sarò possibilista, ma assolutamente categorico. DOVETE leggerlo. È un libro stupendo, scritto con capacità e bravura. Insomma, se fossi capace di iperboli, qui ne consumerei un sacco. E non entro nelle polemiche tra chi ne vede un capolavoro e chi (e ce ne sono di autorevoli) lo giudica un libro un po’ furbetto. Per me è un libro magistralmente scritto (e ben tradotto da Susanna Basso, con il che mi redimo da tutte le volte che parlo male dei traduttori). Che usa con maestria diversi registri (il ricordo, l’umoristico, la riflessione, il dialogo, l’incognito) dove pur raccontando una storia (che una storia ben c’è) è di altro che vuole parlare. O almeno parlarne a me. Del ricordo, delle cose che viviamo, di come le abbiamo vissute, di come le ricordiamo (e le riviviamo) ora, di quanto ne abbiamo capito. Il protagonista in soggettiva, narrandoci due spaccati della sua vita (non a caso, il libro si divide in due parti), ci fa toccare con mano come lui abbia vissuto quei momenti. E come lui, alla fine, non ne abbia capito molto. Nella prima Tony, il narratore, ci parla della sua adolescenza, dell’amicizia con Adrian, ragazzo che lui reputa più intelligente, e della nascita e fine della loro amicizia. Il primo punto di discussione forte lo hanno quando un loro coetaneo si impicca dopo aver messo incinta una ragazza, e loro si interrogano sulla difficoltà filosofica di sapere esattamente cosa sia successo. Poi Università diverse, Tony si mette con Veronica, e ci narra un difficile week-end trascorso con lei, che porta alla fine della loro storia. E prima della laurea, Adrian gli scrive che si è messo lui con Veronica. Ma Tony non risponde. Alcuni mesi dopo viene a sapere che Adrian si è suicidato. Nella seconda parte Tony, sessantenne e verso la fine dei suoi interessi vitali, divorziato e con una figlia poco presente, riceve una lettera della madre di Veronica che, morendo, gli lascia il diario di Adrian. Ciò lo porta a riprendere contatto con Veronica, e, parlando e scontrandosi con lei, comincia a riprendere in considerazione tutta la storia narrata nella prima parte. Questi incontri e la lettura del diario lo portano a comprendere fino in fondo quanto Veronica gli dice sin dal primo momento (“Tu non hai mai capito nulla di quello che succede”). Ed alla fine gli si parerà dinanzi non la verità, ma un’interpretazione dei fatti diversa, esplicativa, sorprendente. Come ci passa davanti tutta la vita pensando di aver compreso, e poi capiamo che abbiamo interpretato tutto in maniera errata. Non è un caso che il titolo del libro, Barnes lo riprende da un saggio del 1967 di Frank Kermode, dove il critico inglese attraverso la disamina di opere letterarie aveva l’obiettivo di scoprire come “dare un senso ai modi in cui cerchiamo di dare un senso alla nostra vita”. Barnes esemplifica questa frase con queste 150 pagine in cui abbiamo modo di leggere nel capitolo “Uno” (di 50 pagine) come Tony interpretasse il proprio mondo. E poi di capire nel capitolo “Due” (lungo il doppio) come tutto quello che aveva interpretato Tony era altro. Ma questo avrebbe cambiato la vita di Tony? O di Adrian? O di Veronica? Questo l’assillo che mi ha tormentato per tutto il libro. E che, con tutta sincerità, tormenta sempre i miei pensieri. Quanto quello che capiamo della nostra vita, ha un senso per sé. E come ci condiziona nella nostra vita e nei rapporti con gli altri. Un bel libro, che ti scatena la voglia di parlare. Ma forse è meglio fermarsi qui. Buona lettura.
“Era un cauto somaro non dotato dell’inventiva indispensabile alla vera ignoranza.” (7)
“Un’altra delle nostre paure: che la Vita potesse rivelarsi diversa dalla Letteratura. Prendi i nostri genitori, erano forse materiale letterario? Tutt’al più, potevano ambire al ruolo di astanti, di spettatori, far parte di un fondale umano contro il quale avvenivano le cose reali, quelle che contano davvero.” (16)
“La storia … è fatta dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori, né a quella dei vinti.” (58)
“Il ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato.” (65)
“All’improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri.” (82)
“[Dopo che sarò morto] non pensate male di me, ricordatemi con favore. Dite in giro che mi volevate bene, che vi piacevo, che non ero un bastardo. Anche se, magari, niente di tutto questo è vero.” (108)
Vikram Chandra “Giochi sacri” Mondadori s.p. (regalo di Silvia)
[A: 07/05/2013– I: 22/06/2013 – T: 07/08/2013]
[tit. or.: Sacred Games; ling. or.: inglese; pagine: 1162; anno 2006]
Se guardate il numero di pagine di questo che non può considerarsi un “agile volumetto”, e riflettete che durante la sua lettura ho passato due settimane in Islanda e due in Portogallo, non vi stupirete certo che, benché di veloce lettura nel contenuto, abbia impiegato un mese e mezzo a digerirlo. Anche perché, e lo dico subito, non mi ha conquistato come credevo. Certo, è affascinante, intrigante, intrecciato, ma di quell’intreccio che una volta sciolto, non mi ha lasciato un sapore deciso in bocca. Uno spaccato indiano, ben inserito nella realtà locale, ed in particolare nell’India dell’oggi. Mi ha tuttavia lasciato perplesso il senso generale di tutto ciò. Da un lato una storia quasi “all’americana”: un poliziotto che cerca di arrestare un capo della criminalità, per poi (essendo morto il secondo ma in maniera anomala), ripercorrere le loro storie (e quelle dei personaggi a loro legati) un po’ all’indietro. Andando su e giù, alternando i capitoli in flashback sulla storia della vita di Ganesh Gaitonde (il criminale) e quelli in presa diretta su Sartaj Singh (il poliziotto). Volendo riassumere il lato “occidentale” della vicenda, tutto si ridurrebbe alla storia del boss Gaitonde. Capo di una banda di criminalità organizzata con ramificazioni internazionali, collaboratore di un programma dell’antiterrorismo in funzione contraria al Pakistan, seguace di un guru che ha intenzione di destabilizzare la scena politica con una strategia della tensione fondata su un ordigno nucleare che se esplodesse risulterebbe un attentato della parte avversa. Gaitonde ha per tutta la vita inseguito il potere e la violenza: ha lanciato una diva del cinema  e ne ha assecondato i desideri per coltivare il proprio tornaconto; tratta con un’ex-stellina televisiva di nome Jojo, che gli procura amanti a pagamento; ha costruito un rifugio antiatomico e, per la disperazione di non ritrovare il suo guru entrato in clandestinità, dopo avere ucciso Jojo che gli denuda il suo vero io (e che noi abbiamo seguito per la sua parte di millanta pagine), si suicida. È il momento dove, a causa di una soffiata, il commissario Sartaj lo stana. Forse era impazzito, ma forse le trame oscure erano reali e verranno mese a tacere dai servizi segreti con cui Sartaj coadiuva: quest’ultimo, per ottenere informazioni, denuncia il suo capo che finirà anch’egli suicida. Ma la capacità di Chandra è quella di strutturare questa vicenda occidentale come fosse un mandala buddista. Perché se inizia seguendo i canoni sopra descritti come fosse una trita “crime novel”, ben presto, preso nei meandri delle descrizioni e delle narrazioni, biforcando come detto sempre più le storie tra l’ispettore ed il capomafia, comincia ad incastrare nella trama tante altre storie. Che diventano il punto di interesse del libro. Storie lontane nello spazio e nel tempo, ma sempre collegate a Bombay (anzi a Mumbai come si dice nell’India moderna, e dove sarebbe il caso di tornare). Ed è infatti Mumbai che alla fine diventa il punto centrale del libro. Città di una bellezza sfolgorante, quasi terrificante, continuamente rovinata dalle intemperie umane: inquinamento, aria fetida, povertà assoluta e diffusa, corruzione dilagante, criminalità spietata, intrecci perversi tra politici, imprenditori, mafiosi e star di Bollywood. Una città crivellata dal crimine, fino a marcire. Una metropoli moderna attraversata da frizioni religiose insanabili. Le persone che sono stanche di Bombay sono stanche della vita, e viceversa. E Mumbai non rappresenta altro che un paradigma dell’India di oggi. E come dicono quelli che parlano di economia, India significa “estremo occidente”: violenza, economia liberista, sviluppo, espansione ed involuzioni fondamentaliste. Le storie, ed è ovvio, partano sempre dai due fulcri narrativi, per poi biforcarsi quasi verso proprie vite. Così l’ispettore Sartaj cerca di ricomporre la sua vita relazionale distrutta dal divorzio, di trovare una composizione tra la sua malinconica solitudine ed il suo innato romanticismo, di non soccombere alla corruzione stritolante. Il boss Gaitonde cerca rimedi su Internet per aumentare i centimetri del suo pene, mentre gradualmente acquisisce la consapevolezza tragica ed epica della sua figura; criminali in grado di rivoltare intere città si costruiscono universi morali di dubbia consistenza per fronteggiare la morte che tutto recide; puttanelle sfrontate giungono a Bombay in cerca di gloria, pronte ad arrampicarsi sulla scala del successo bollywoodiano; spie fanno il doppio ed il triplo gioco; poveri istruiti si danno alla lotta armata, votandosi ad una rivoluzione impossibile, destinata ad essere tradita dai suoi adepti. Troviamo politici senza scrupoli (politici nazionalisti si accordano con la criminalità organizzata); poliziotti che ricevono bustarelle regolarmente; malviventi affondati nel lusso; gente di campagna; persone della borghesia medio - alta che agiscono per interesse personale; abitanti di quartieri-ghetto. Diversi personaggi sono divorziati; quasi tutti sono insoddisfatti. Sembra che le modalità tradizionali della vita associativa siano saltate in un’India che cambia con rapidità. Ci si trova in un mondo in cui il denaro crea la morale (e non parlo qui dell’Italia). Ma un libro post-2001, ambientato in un’India in continuo conflitto con il Pakistan vicino, non può scordare il fondamentalismo religioso (interno ed esterno). Qui poi messo in risalto dall’ambigua guida spirituale di Gaitonde che cerca di creare un subbuglio atomico. L’intimidazione della bomba (questione evidentemente sentita in un paese che possiede l’atomica ed è a sua volta circondato da paesi che la possiedono), lo smantellamento totale della civiltà costituita arriva a scuotere persino Gaitonde. Poi anche il libro finisce, cercando di chiudere i mille rivoli aperti nelle prime pagine. Non sempre ci riesce, ma Chandra, in ogni caso, dimostra di non scordarsi molto del suo narrato (anche dopo aver passato le mille pagine). Belle e forti le pagine sulla criminalità, basate su di un’inchiesta svolta in loco dallo stesso Chandra. Un po’ meno coinvolgenti le miriadi di citazioni in lingua locale (massimamente indù, ma anche altro), non sempre supportate dal glossario finale, che molti termini tralascia. Sempre a me care le parti dedicate alla cucina (un popolo è, anche, quello che mangia!). Un fiume fatto di mille ruscelli, che lottano tra loro, per poi ricomporsi nel placido Gange che tutti porterà verso la pace finale. Anche se i collanti tradizionali spariscono (religione, famiglia, istituzioni), qualcosa rimarrà nell’etica personale. Insomma, buone idee, fantasia sfrenata, ma la mole diluisce l’impatto.  Purtroppo Flaubert viene troppo spesso dimenticato. Così come lo dimentico io, non riuscendo a chiudere in meno parole un libro così po(n)deroso. Buona lettura a chi avrà il coraggio di porlo sul comodino (ma prima rinforzatelo, che il libro pesa…).
“Come proviamo piacere a volte nel pensare quanto male vanno le cose … e poi a immaginare come non potranno che andare peggio.” (122)
“Veniva affascinato da una cosa astrusa, da un oscuro procedimento che non interessava neppure a venti persone al mondo, e doveva scoprire tutto su di esso.” (455)
“Non sempre la persona di cui ci si innamora ci va a genio.” (674)
“La coppia di sposi venne spedita in luna di miele per una settimana in una villetta a Koh Samui.” (729) [ah, il mare tailandese…]
“A volte con gli scrittori bisogna fare così, bisogna chiudergli la bocca. Si lasciano conquistare dalla lingua, dalle storie e dalle regole tanto da non riuscire più a vedere la realtà dei fatti.” (851)
Brendan O’Carroll “Agnes Browne mamma” Beat euro 9 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 23/05/2013– I: 16/08/2013 – T: 18/08/2013]
[tit. or.: The Mammy; ling. or.: inglese; pagine: 170; anno 1994]
È uno di quei libricini che stavano segnati nel mio quadernetto dei libri possibili. Lo avevo visto in libreria, insieme agli altri della saga (ne dovrebbero essere usciti tre o quattro), ma non mi risolvevo all’acquisto. Approfittando di una campagna primaverile di sconti, spinto anche dal nome (non a caso mia mamma si chiama Agnese) eccolo entrato e ben presto letto. E devo dire, discretamente piaciuto. Intanto mi sta simpatico l’autore, un attore irlandese, ben noto in patria ma non da noi, che ha fatto del suo retroterra giovanile l’humus su cui coltivare le proprie storie. Discretamente autodidatta, con famiglia numerosa intorno, industriatosi in mille mestieri, e poi approdato al teatro, utilizza (e con capacità) questo materiale per tirar fuori le sue storie “di vita”. Una vita trascorsa e descritta in una Dublino di periferia, di là dal fiume, tra case popolari e mercati rionali. Ben lontano dalle vetrine colorate di Grafton Street (che ben conosciamo). In questa terra dove si muoveva, ambienta i suoi racconti, facendoli cominciare nel marzo del 1967 (lui era dodicenne all’epoca, tanto che lo vedo bene immedesimarsi in uno dei figli), e facendoli ruotare intorno alla figura di Agnes Browne, la “Mummy” del titolo. Ogni mattina Agnes, popolana, sgrammaticata, ma di buon cuore, esce di casa alle cinque per incontrare l’amica Marion e iniziare insieme la giornata, in allegria, e il venerdì si gioca a bingo, per poi finire al pub di fronte a una pinta di birra e a un bicchiere di sidro. Non una gran vita, a parte le risate con Marion e le altre, al mercato. Finché, un bel giorno, il marito muore, lei rimane sola e comincia a godersi davvero l’esistenza, anche se deve gestire i suoi sette figli. E ben sappiamo, per esperienze famigliari, cosa vuol dire avere un esercito in casa. Ci vuole un generale (come mia nonna) o un maresciallo (come Agnes) che non scorda nessun elemento della vita, anche se spesso “non ce la fa”. È l’inizio di un carosello di vicende altalenanti, in genere alle prese con i figli che le propinano dilemmi adolescenziali, obbligandola a improvvisarsi consigliera (con grande spasso dei pargoli) o a vestire i panni dell’angelo vendicatore. Insomma, senza quella palla di marito attorno, la nostra Agnes pare tornata la ragazza dublinese che è stata, tanto che non le manca uno spasimante, un affascinante bell’imbusto francese ignaro degli equivoci della (e sulla) lingua. Certo è, come si dice, un libro “fresco” (anche se ormai ha quasi 20 anni), con un buon piglio nelle invenzioni dei dialoghi (d’altra parte l’autore attore si fa sentire molto qui). Utilizza anche una lingua bassa, “volgare” si direbbe (e con qualche volgarità qua e là) anche se la traduzione non riesce a rendere in pieno la travolgente “bassa lingua” gaelica a volte utilizzata. E questa modalità, è anche una delle cifre del successo del libro. Volendo cercare un po’ di critica costruttiva, probabilmente il libro manca un po’ di sospensione dell’attenzione, che dove ci sta qualche intoppo, l’autore-dio interviene e risolve le situazioni. Un figlio non vuole continuare a studiare e vuole andare a lavorare? Ecco che spunta un personaggio che gli offre una scuola di falegnameria dove coniugare le due cose. La protagonista vorrebbe tanto andare a sentire un concerto di Cliff Richard, cantante molto in voga all’epoca, ma non trova i biglietti? I figli casualmente lo incontrano, ci fanno amicizia e gli lasciano anche il loro indirizzo. E ne presagiamo un gustoso finale, che, guarda caso, si svolge nel Natale dello stesso anno. Non ha neanche introspezioni psicologiche sul decadimento delle condizioni urbane, sulla vita del proletariato dublinese, e via discorrendo. Ma è un libro di intrattenimento, forse un po’ lento da entrare in sintonia all’inizio. Alla fine, però, mi ha fatto tornare ancora una volta a Dublino, senza troppi pensieri intorno. E forse pensando di leggerne ancora (e di tornare in Irlanda).
Jamie Ford “Il gusto proibito dello zenzero” Garzanti euro 9,90
[A: 15/04/2013– I: 28/08/2013 – T: 29/08/2013]
[tit. or.: Hotel on the corner of Bitter and Sweet; ling. or.: inglese; pagine: 372; anno 2009]
Un libro che non pensavo di leggere, ma che ho preso dietro un molto antico suggerimento di Maria. Lettura gradita, anche se devo dire che alla fine, pur trovandolo agile e con spunti interessanti, non è esattamente il libro che mi aspettavo. Pensavo a qualcosa di più duro ed incisivo, dato l’argomento di cui si tratta. Invece, alla fine non dico sia sul versante Casati Modignani (cattiveria infinita) ma certo un po’ Cary Grant e Deborah Kerr nel finale di “Un amore splendido”. Intanto, però, diamo atto che l’ambientazione a Seattle mi è piaciuta, soprattutto come città che non conosco ancora, e che Ford ci descrive e ci fa vivere egregiamente. Come ci prende per mano, ed attraverso il racconto di Henry Lee, ci fa viaggiare tra la città degli anni ’40 e quella degli anni quasi ’90. Henry Lee è un cinese di seconda generazione, cioè nato in America da genitori cinesi. Quindi americano, ma con una forte contrapposizione (sia nel bene che nel male) con i genitori, che sono invece ancora e completamente cinesi. Andando nel passato Henry ci racconta della sua vita da tredicenne, dilaniato tra le due culture, inserito in una scuola tutta “all american”, e per questo oggetto di tutte le angherie possibili. Solo rifugio, il jazz del suo amico negro, sassofonista di strada. Fino a che, nella stessa scuola non entra Keiko, giapponese della seconda generazione. Subito, tra i due emarginati, si stabilisce una specie di mutuo soccorso, di ricerca di aiuto, anche se lei non gira per Chinatown e lui ha difficoltà a passeggiare sereno per Nihonmachi (la Nippon Town di Seattle). Il tutto aggravato dal fatto che il padre di Henry è un feroce anti-giapponese, avendo i nipponici invaso la Cina, dove infuria una feroce guerra civile (anche se il padre pende dalle parti di Chang-Kai Scheck piuttosto che di Mao). Pearl Harbour e la guerra nippo-americana fanno precipitare il tutto. I giapponesi (anche quelli di seconda generazione, anche quelli dediti allo studio) vengono visti come nemici, a poco a poco emarginati, nonché alla fine deportati in campi di concentramento ante-litteram. Ford ce li descrive, e ne capiamo la crudezza, anche se non sono né potranno essere mai Auschwitz o Guantanamo. Henry è combattuto allora tra il nascente amore per Keiko e la fedeltà al padre ed alle cineserie tradizionali. Ma l’amore è sempre più forte. E dà la forza ad Henry di sfidare il padre, con il quale non parlerà più per quasi dieci anni, di andare a trovare, insieme all’amico negro, Keiko nei campi di concentramento, di far nascere il primo forte sentimento. Poi i giapponesi vengono spostati qua e là per il paese, si scrivono, ma inevitabilmente si perderanno di vista. A questa parte d’antan, Ford controbilancia il (quasi) presente. Henry si avvia alla sessantina, l’amata moglie Esther è da poco morta di cancro, e lui ha un conflitto di crescita con il figlio, cinese di terza generazione (come un po’ ripercorrere le storie, generazione dopo generazione). L’elemento scatenante è il ritrovamento presso un Hotel chiuso da decenni di effetti personali di giapponesi coinvolti nella diaspora della guerra. Henry si intrufola, cerca, trova tracce di Keiko e del nero Sheldon (cui tra l’altro è rimasto sempre vicino). Le tracce del presente servono ad Henry per aprirsi con il figlio che ovviamente rimane basito dall’altro aspetto del padre, che lui aveva visto sempre “ligio al dovere ed alle istituzioni”. C’è un forte riavvicinamento, anche per merito della fidanzata americana del figlio (che sa cucinare piatti orientali come pochi). Ed è l’unione degli sforzi dei due giovani che permette il ritrovamento di tracce dell’altrettanto matura Keiko, anch’essa vedova, anche se da qualche anno in più. La morte di Sheldon farà da catarsi per arrivare ad un finale che non vi descrivo, ma che ricorda molto quando Cary toglie la coperta dalla poltrona su cui è seduta Deborah. Ecco, pur essendo ben descritti i moti dell’animo di questi neo-americani, sono vicende d’amore in minore, che non è che coinvolgano tantissimo. Come non riporta tutto l’orrore possibile la descrizione delle deportazioni nipponiche. Devo dire che una pagina di Fosco Maraini sul suo internamento quando era in Giappone dopo l’8 settembre 1943, descritta nel bellissimo “Ore Giapponesi” rende mille volte meglio e con più crudezza quanto posso essere accaduto al tempo. Per questo ripeto mi aspettavo qualcosa di più forte dal libro. Anche se, e qui lo ripeto e ribadisco, l’aver sollevato l’argomento dei rapporti inter-razziali è sempre e comunque un elemento di completa positività.
Ohibò, e già si avvicina il Natale, dove ricorda il mio amico Pietro, “tutti l’angiol metton l’ale”. Noi sarà un Natale di tranquillità (l’anacoluto è voluto). Qualcosa sulle note di Puccini, e molto sulle note familiari. Si aspetterà il nuovo anno per nuove e (speriamo) mirabolanti avventure. 

Nessun commento:

Posta un commento