domenica 22 dicembre 2013

Isole - 22 dicembre 2013

Dall’Islanda alla Sardegna, donne isolane che ci accompagnano con idee, storie ed altro ancora. Anche se, pur partendo ed arrivando su isole, poi passiamo per la Parigi della de Vigan (un’isola nella mia memoria d’adolescente) e per l’isolato posto mortifero della Seminara. Forse non amo la Sardegna come meriterebbe (anche se Fois mi fece recedere da alcuni luoghi comuni nel bellissimo “In Sardegna non c’è il mare”) ma amo Milena Agus; di converso sono più legato all’Islanda che alla Ólafsdóttir, ma forse se ne leggerà ancora. Comunque è l’isola l’immagine che mi è venuta in mente nella rilettura di queste trame. Ed avvicinandosi l’isola di felicità delle feste nataline, vi lascio la lettura.
Auður Ava Ólafsdóttir “Rosa candida” Einaudi euro 11,50 (in realtà, scontato a 8,63 euro)
[A: 01/07/2013– I: 15/07/2013 – T: 16/07/2013]
[tit. or.: Aflegjarinn; ling. or.: islandese; pagine: 206; anno 2007]
Un libro cui mi lega la sua curiosa storia di come l’ho preso, l’ho letto, l’ho perso, l’ho ripreso e l’ho riletto. A parte la selva di passati prossimi da far impallidire Gadda, avevo visto spesso questo libro con un neonato in copertina, e mi aveva sempre frenato l’idea che parlasse di bimbi e di terrore (chissà perché, poi). Dovendo andare in Islanda, forte del mio retroterra asfaltato dalle letture di Indriðason, ho deciso di comprarlo e portarlo. Leggendone in loco, ho cominciato ad apprezzarne come dire, l’islandesità. Poi una tremenda mattina nell’ostello di  Egilsstaðir, assillato dal tempo, l’ho lasciato sotto il piumone. Ma non avendolo finito, appena in Italia, l’ho ricomprato, riletto da capo, ed apprezzato pienamente. Prima di tutto perché, essendo narrato da un poco più che ventenne in prima persona, parla come se fosse un ventenne. Senza che l’autrice (che non solo non è ventenne, ma è anche una donna e, come dice il nome, figlia di Olaf) intervenga mettendogli in testa pensieri da persona più matura di quello che è. No, Lobbi (il protagonista) ha 22 anni, una madre morta da poca e fantastica nel curare le piante, un padre perso dietro al quaderno di ricette della moglie morta (e che lo chiama in ogni parte del mondo per sapere la sua interpretazione delle ricette), un fratello gemello autistico. Non sta bene in patria, con il freddo, la lava, e tutte quelle cose che noi viaggiatori in terra d’Islanda abbiamo imparato a conoscere (ma come si fa poi a non star bene se si mangia Kyr?). Decide quindi di accettare il posto di giardiniere in un roseto di un monastero del Nord Europa. E lascia tutti. E soprattutto lascia Flóra Sól, la figlia di sette mesi avuta dopo una sola notte d'amore (anzi, precisa lui, «un quinto di notte») con Anna. Mi piace molto la descrizione dell’imbranato viaggio verso il monastero, la malattia, gli incontri fuggevoli, e poi l’incontro con padre Thomas, un monaco cinefilo che ha un film-rimedio per ogni situazione. Il cuore triste di Lobbi tra la pace del luogo, il monaco e la cura del roseto riacquista un suo equilibrio. Ma sarà soprattutto l'arrivo di Anna e Flóra Sól in quell'angolo fatato di mondo a provocare i cambiamenti più profondi e imprevisti nell'animo del ragazzo. Perché, per la prima volta, Lobbi scopre in sé un desiderio nuovo, che non è solo amore per la figlia e attrazione per Anna: è il desiderio di una famiglia, quella che in realtà non aveva mai avuto. Ci saranno momenti delicati, momenti tristi, e risvolti allegri. Verso una fine per nulla consolatoria, ma in sintonia con quello che è successo nel libro. Ed in sintonia con il fatto che Lobbi sta diventando adulto. Alla fine, sono sicuro di aver avuto tra le mani un gioiellino, un libro minimo, ma che a volte comunica più di altri ben più acclamati e sbandierati. Mi ha conquistato la sua semplicità, che non diventa mai semplificazione. Anche quando le cose della vita portano Lobbi a riflettere, a porsi domande difficili sulla morte e sulla vita. E sebbene poco si svolga in Islanda, trasmette pienamente il senso dell’isola. Dei suoi modi di vivere, dei rapporti umani. Della facilità con cui lì si può nascere fuori dal matrimonio, e della possibilità di crescere anche senza congelarsi in vincoli esteriori. Parla anche molto di piante e giardini, argomento che non mi trova sempre in sintonia, io che faccio morire anche le piante grasse. Ma affascina il rapporto tra Lobbi ed il giardinaggio (già mi ricorda qualcosa). E soprattutto con la pianta cara alla madre, la varietà di rosa a otto petali chiamata “Rosa candida”. Quella del titolo, che però, più correttamente, avrebbe avuto senso lasciare nella traduzione originale. Che significa “bivio, svolta”. Un bivio, una svolta che è quella che Lobbi dà alla sua vita, e sulla quale ci fa piacevolmente riflettere per tutte le pagine. Da leggere assolutamente.
“- Tu le racconti le bugie? … - No, ma forse non dico tutto quello che penso.” (153)
Delphine de Vigan « No et Moi » Livre de Poche euro 6,80
[A: 21/06/2013– I: 01/08/2013 – T: 06/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 249; anno 2007]
Comprato a Roma alla Libreria Francese, perché facevano una promozione per i 60 anni delle edizioni “Livre de Poche” e non potevo esimermi, dato il co-genetliaco. Inoltre, andavo un po’ in controtendenza, dato che in genere i libri in lingua li compro all’estero, ma può essere utile non essere prevedibile. Quindi un po’ al buio, ed è tuttavia risultato un libro di interesse. Perché non conoscevo l’autrice e volevo leggerne. Perché mi ha intrigato la trama, anche se la fine l’ho trovata un po’ irrisolta. E non è un caso che abbia vinto un premio (il Prix des libraires nel 2008) esattamente l’anno dopo di quel libro per me ugualmente irrisolto che è “L’eleganza del riccio”. La storia è raccontata in soggettiva da una ragazza di 13 anni, Lou, molto intelligente (ha un quoziente intellettivo di 160 e per questo ha saltato delle classi), e proprio per questo (forse) non si sente felice. A casa la situazione è tesa (con una situazione che ha aumentato la mia empatia con Lou). La madre è depressa per la morte prematura della sorella di Lou di soli pochi mesi, si chiude in se senza mostrare affetto per la figlia. Il padre è inconsultamente felice per nascondere i suoi fallimenti. I compagni di classe la ignorano a causa della sua intelligenza. Tutti tranne uno, Lucas, il re del liceo, diciassettenne un po' difficile, l'antitesi di Lou (che per lui ha una cotta), ma che appunto per questo vuole conoscerla e che l'aiuterà nel momento in cui ne avrà più bisogno. A Lou piace vedere nei volti della gente la gioia e l'emozione: per questo passa la metà del suo tempo alla stazione per osservare la gente che si lascia o che si ritrova. Qui incontra Nolween, detta No, diciottenne che vive in strada, beve alcolici e fuma. Nella confusione scolastica, Lou si assegna il compito di scrivere una relazione sui SDF (Sans Demeure Fixé, cioè i senza tetto), decidendo di coinvolgere No in questa impresa. Con la scusa delle interviste per la relazione, tra le due nasce un rapporto strano, fatto di odio e di amicizia, di curiosità per il modo vivere dell'altra. Tanto che Lou ospita per un certo periodo No. Ma No non riesce ad uscire dalle sue dipendenze, e, di nuovo senza casa, trova posto da Lucas (anche lui con una situazione famigliare difficile, vive praticamente da solo). Ma la tregua è breve ed anche da lì deve andarsene. Lou decide allora di fuggire con lei. Va via di casa, passa due giorni in giro “da barbona” con No. Ma nel momento di prendere un treno e scomparire, è No che scompare abbandonando Lou, sola e infelice. Inizia allora, aiutata da Lucas, la ricerca di No, della sua storia non detta. Alla fine, ne sapremo di più, ma non sarà quello ad aiutare Lou. Sarà Lucas, con il suo affetto. Sarà il professore con la sua comprensione. Sarà una bellissima descrizione del primo bacio. Come detto, la scrittura è molto gradevole, anche se, come nel Riccio, ho sempre l’impressione che la proiezione di un adulto verso una ragazza al limitar di gioventù rischi sempre di passare le righe. Lou ha atteggiamenti “incompatibili” con una tredicenne, anche se compatibili con l’affetto che proviamo per lei. Verso tutte quelle prove (dalla difficile comprensione del rapporto con No all’altrettanto complessa vicenda dei suoi sentimenti verso Lucas). Ma nel complesso è una storia che lancia qualche messaggio e lascia qualche segnale (l’insoddisfazione dei giovani, il difficile rapporto con gli adulti, lo sguardo verso i treni in partenza). Per chi non volesse affaticarsi con l’originale, ne segnalo l’uscita anche in italiano con il titolo “L’effetto secondario dei sogni” (e qualcuno ce lo spiegherà, prima o poi). Come segnalo il primo libro dell’autrice, legato alla sua lotta (vinta) con l’anoressia (“Jours sans faim”).
“Si c’était ça le bonheur, pas même un rêve, pas même une promesse, juste l’instant.” [Se fosse questa la felicità, non un sogno, non una promessa, solo l’istante.] (72)
“C’est avec les gens qu’on aime le plus, en qui on a le plus confiance, qu’on peut se permettre d’être désagréable (parce qu’on sait due cela ne les empêchera pas de nous aimer). ” [è con le persone che amiamo di più, di cui abbiamo fiducia, che possiamo permetterci di essere scortesi (perché questo non impedirà loro di amarci).] (161)
Elvira Seminara “La penultima fine del mondo” Nottetempo euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 18/06/2013– I: 13/08/2013 – T: 15/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 154; anno 2013]
Avendo già avuto modo di conoscere la scrittura della Seminara, mi aspettavo qualcosa, che poi in realtà c’è, anche se ho faticato a trovarlo. C’è la sua scrittura, che parte sempre dall’ironico, ma che non finisce lì, e confesso mi spiazza (come aveva fatto ne “I racconti del parrucchiere”). Perché il libro comincia come un noir, e il titolo ne rende benissimo lo spirito. Quello di un romanzo imprevedibile sino alla vera (e ultima) fine. In un piccolo paese dell’Isola, col suo fiume, il suo parroco, la brava farmacista e i bar coi tavoli all’aperto, improvvisamente un uomo, durante una festa, si lancia nel vuoto. Toccherà poi a una donna, a un altro uomo, e molti ancora, di ogni età – suicidi tutti senza ragione. Più che togliersi la vita, escono dalla vita. Sorridendo. Uno dopo l’altro. L’intero paese finisce sotto inchiesta dalla pista tossico-ambientale a quella satanica, e la stampa internazionale si precipita nel piccolo centro trasformandolo in un polo di attrazione dove tutto è reale ma inspiegabile. Si fanno convegni internazionali sulla “perdita di orizzonte”, dibattiti televisivi sui “diversamente vivi” (bellissima immagine), arrivano i pullman pieni di turisti per i “safari coi morti”. Sin quando, abbandonato a se stesso per paura di un “contagio”, o forse piuttosto perché il caso è invecchiato e privo di sviluppi, il paese sprofonderà nell’ombra, smemorato e solo, a tu per tu con gli spettri. In tutta questa trasformazione, il noir iniziale si è trasformato in un’accusa sul mondo di oggi ed il suo onnipresente cannibalismo. Ma ora, nella sua parte finale, si avvolge su di se, quasi a spirale (lontani ricordi di Asimov) e perde un po’ di mordente. In mezzo a tanto abbandono, solo una persona, l’Ospite Televisivo invitato all’inizio a commentare i fatti, cercherà di capire, trascrivendo tutto sul taccuino. E’ uno “scrittore da festival” ma qualcosa lo trattiene in questo lembo di mondo in dissoluzione. In un clima sempre più visionario i morti si confondono coi vivi, sotto lo sguardo dei soli testimoni coscienti, i cani. Sino all’unica, sorprendente spiegazione possibile che però mi lascia un po’ di amaro in bocca. Forse era meglio non spiegare, lasciare cadere o decadere il tutto. Leggendolo mi è subito venuto in mente che chi ama o conosce Saramago, se ne sentirà colpito. Sarà una parodia de “Le intermittenze della morte” o una parafrasi di “Cecità”? Siamo anche qui in una città normale, con persone normali, dove avvengono fatti straordinari. Ma seppur queste idee vengono in mente (con tutti i distinguo che possiamo immaginare) l’opera della scrittrice catanese è comunque altra e diversa. Perché l’atmosfera è più fiabesca, ma alla fine la Seminara non ci dà (vere) soluzioni, non ci dà chiavi di lettura, spiegazioni realmente ultime. Ad ogni episodio narrato, ad ogni morte annunciata, ci mettiamo a chiederci il perché. Ogni intervento esterno (la stampa, i media, il consumismo del suicidio) ci portano immediatamente all’oggi e al noi. E mentre scorriamo le pagine e simpatizziamo con le accuse a chi gestisce e manipola le notizie, ci domandiamo costantemente: ma noi, siamo vivi? E cosa significa essere vivi? Come viviamo? Un ultima piccola nota, visto che in genere parlo male di editor ed edizioni, devo invece spezzare una lancia in favore di “Nottetempo”. Bello il formato ridotto, che ne consente la fruizione ovunque, tanto da poter essere messo in tasca, e tirato fuori per leggere di una morte, e poi riporlo e pensarci su. Un libro realizzato con cura. E noi lettori non possiamo che apprezzarlo.
“L’ultima donna con cui aveva vissuto, le altre. … I vicini, i traslochi, i nemici, i tanti viaggi. Tutto si affastellava e mischiava con scarsa definizione. … Ecco, anche a sgranarli con attenzione, uno per uno, i ricordi scorrevano a fatica.” (91)
Milena Agus “Mentre dorme il pescecane” Nottetempo s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 28/09/2013 – T: 30/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2005]
Fortuna che c’è stato il grande compleanno, che mi ha permesso, grazie ad Almaviva, di colmare qualche buco di lettura. Ad esempio con questo, il primo romanzo scritto da Milena Agus, che ancora mancava in libreria. Ed ora che si leggesse. Bella (e per il momento della stesura del libro, anche nuova) la scrittura, con quel tono di amicizia con il lettore, di complicità (modo di scrivere che poi tornerà negli altri suoi romanzi, anche con qualche risultato più convincente). Scrittura che ti porta nella storia, tra realtà e fantasia, della diciottenne protagonista. Per tocchi, accenni e voli, riesci a seguire anche la realtà dietro alla fantasia. La tristezza della madre, la sua “non” esistenza, il suo “non” trovare un posto nello scorrere delle cose, fino a quel doloroso salto dalla terrazza. Il padre, forte delle sue certezze, ma quanto presente? Sì, è bravo, intelligente, ma alla difficoltà risponde solo fuggendo, dietro ai suoi improbabili sogni sudamericani. Tanto improbabili, che poi diventeranno reali. La zia sempre dietro ad un nuovo amore che (dopo il sesso) non durerà mai molto. Il fratello perso dietro al suo pianoforte, unico aggancio con il reale, e che gli permette di essere, di restare sulla terra, senza volar via come la madre. E lei! Diciottenne bruttina, grassina, autoinfliggentesi un rapporto senza futuro con un uomo sposato (da prendere a schiaffi ogni volta che apre bocca). Rapporto da cui non riesce ad uscire, che non riesce a troncare mai. Forse c’è quello spiraglio di luce quando compare il veterinario. Purtroppo finirà anche quello spiraglio, lasciandola indifesa contro gli eventi. Chi la può aiutare? La madre morta, il padre in fuga, la zia con la testa per aria, il fratello con il suo pianoforte? Neanche la saggia nonna, che l’unica cosa che fa è dire ad oltranza sagge sentenze, come quei libri che con tanta arguzia analizzano la realtà, e che poi non danno mai suggerimenti su come ci si deve comportare. E questo non la aiuta. Come non ci riesce l’amico Mario, con le sue strampalate fidanzate. E tanto meno Annunziata con la sua innocenza da mondo nuovo. Il mondo, quello vero, rimane brutto e cattivo. E noi, giovani verso la crescita (ovviamente noi giovani che stiamo leggendo il libro da giovani, o non-giovani che leggono il libro come fossero giovani), non vediamo le sue possibili bellezze. Il mondo ci mangia e ci rode dentro come il cattivo pescecane. Ma, e qui la Agus ci lascia un briciolo di speranza, forse riusciremo a fuggire, a volere e a vivere il bello della vita, se capiremo quando il pescecane dorme. E fuggiremo da lui, senza farci riprendere. Noi sì, ma ci riuscirà Milena? Insomma, alla fine, il libro mi è piaciuto, ma più come retrospettiva, che come libro in sé. Trovo ancora una volta irrisolti i problemi sessuali della protagonista (e Milena riesce spesso a mettere le sue eroine in situazioni a dir poco imbarazzanti), e forse troppo pieni di pensierini tutti i personaggi sopra descritti. Probabilmente, il più centrato (ed anche il più doloroso) è quello della madre, con la sua difficoltà di rapportarsi al mondo, con la possibilità (forse) di sfuggire al pescecane, ma con la decisione che no, non è possibile modificare quello che c’è. E purtroppo c’è anche poca Sardegna, o almeno c’è poco rimando che esista una Sardegna intorno. Sì, ci sono indicazioni, ci sono città, ma “Mal di pietre” o “La contessa di ricotta” mi facevano immergere dio più nei ritmi strani di quest’isola che usa il mare non per comunicare ma per restare isolata. Eppure, con tutti i distinguo del caso, è un libro che mi ha fatto piacere leggere, come quasi sempre mi fa piacere leggere i libri di Milena Agus (non è un caso che ho tutti e cinque i suoi libri pubblicati da Nottetempo).
Ohilà, ci son solo tre giorni per Natale. Ecco ci sono l’angioli con l’ale. E sotto l’albero un regale. Un pacco dono un po’ ficcanaso, lasciato lì, come fosse per caso. Un grande augurio al nostro Tommaso. Ah, dove fare Leopardi da grande. Invece son qui a scrivere rime stupidine (ma di cuore), ad imbastire tramine, e ad aspettar di partire (ma credo che no). A tutti ora do
un bacio

Giovanni

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