Dall’Islanda alla Sardegna, donne
isolane che ci accompagnano con idee, storie ed altro ancora. Anche se, pur
partendo ed arrivando su isole, poi passiamo per la Parigi della de Vigan
(un’isola nella mia memoria d’adolescente) e per l’isolato posto mortifero
della Seminara. Forse non amo la Sardegna come meriterebbe (anche se Fois mi
fece recedere da alcuni luoghi comuni nel bellissimo “In Sardegna non c’è il
mare”) ma amo Milena Agus; di converso sono più legato all’Islanda che alla Ólafsdóttir,
ma forse se ne leggerà ancora. Comunque è l’isola l’immagine che mi è venuta in
mente nella rilettura di queste trame. Ed avvicinandosi l’isola di felicità
delle feste nataline, vi lascio la lettura.
Auður Ava Ólafsdóttir “Rosa candida” Einaudi euro 11,50 (in realtà,
scontato a 8,63 euro)
[A: 01/07/2013– I: 15/07/2013
– T: 16/07/2013]
[tit. or.: Aflegjarinn; ling. or.: islandese; pagine: 206; anno 2007]
Un
libro cui mi lega la sua curiosa storia di come l’ho preso, l’ho letto, l’ho
perso, l’ho ripreso e l’ho riletto. A parte la selva di passati prossimi da far
impallidire Gadda, avevo visto spesso questo libro con un neonato in copertina,
e mi aveva sempre frenato l’idea che parlasse di bimbi e di terrore (chissà
perché, poi). Dovendo andare in Islanda, forte del mio retroterra asfaltato
dalle letture di Indriðason, ho deciso di comprarlo e portarlo. Leggendone in
loco, ho cominciato ad apprezzarne come dire, l’islandesità. Poi una tremenda
mattina nell’ostello di Egilsstaðir,
assillato dal tempo, l’ho lasciato sotto il piumone. Ma non avendolo finito,
appena in Italia, l’ho ricomprato, riletto da capo, ed apprezzato pienamente.
Prima di tutto perché, essendo narrato da un poco più che ventenne in prima
persona, parla come se fosse un ventenne. Senza che l’autrice (che non solo non
è ventenne, ma è anche una donna e, come dice il nome, figlia di Olaf)
intervenga mettendogli in testa pensieri da persona più matura di quello che è.
No, Lobbi (il protagonista) ha 22 anni, una madre morta da poca e fantastica nel
curare le piante, un padre perso dietro al quaderno di ricette della moglie
morta (e che lo chiama in ogni parte del mondo per sapere la sua interpretazione
delle ricette), un fratello gemello autistico. Non sta bene in patria, con il
freddo, la lava, e tutte quelle cose che noi viaggiatori in terra d’Islanda
abbiamo imparato a conoscere (ma come si fa poi a non star bene se si mangia
Kyr?). Decide quindi di accettare il posto di giardiniere in un roseto di un
monastero del Nord Europa. E lascia tutti. E soprattutto lascia Flóra Sól, la
figlia di sette mesi avuta dopo una sola notte d'amore (anzi, precisa lui, «un
quinto di notte») con Anna. Mi piace molto la descrizione dell’imbranato
viaggio verso il monastero, la malattia, gli incontri fuggevoli, e poi l’incontro
con padre Thomas, un monaco cinefilo che ha un film-rimedio per ogni
situazione. Il cuore triste di Lobbi tra la pace del luogo, il monaco e la cura
del roseto riacquista un suo equilibrio. Ma sarà soprattutto l'arrivo di Anna e
Flóra Sól in quell'angolo fatato di mondo a provocare i cambiamenti più
profondi e imprevisti nell'animo del ragazzo. Perché, per la prima volta, Lobbi
scopre in sé un desiderio nuovo, che non è solo amore per la figlia e
attrazione per Anna: è il desiderio di una famiglia, quella che in realtà non
aveva mai avuto. Ci saranno momenti delicati, momenti tristi, e risvolti
allegri. Verso una fine per nulla consolatoria, ma in sintonia con quello che è
successo nel libro. Ed in sintonia con il fatto che Lobbi sta diventando adulto.
Alla fine, sono sicuro di aver avuto tra le mani un gioiellino, un libro
minimo, ma che a volte comunica più di altri ben più acclamati e sbandierati.
Mi ha conquistato la sua semplicità, che non diventa mai semplificazione. Anche
quando le cose della vita portano Lobbi a riflettere, a porsi domande difficili
sulla morte e sulla vita. E sebbene poco si svolga in Islanda, trasmette pienamente
il senso dell’isola. Dei suoi modi di vivere, dei rapporti umani. Della
facilità con cui lì si può nascere fuori dal matrimonio, e della possibilità di
crescere anche senza congelarsi in vincoli esteriori. Parla anche molto di
piante e giardini, argomento che non mi trova sempre in sintonia, io che faccio
morire anche le piante grasse. Ma affascina il rapporto tra Lobbi ed il
giardinaggio (già mi ricorda qualcosa). E soprattutto con la pianta cara alla
madre, la varietà di rosa a otto petali chiamata “Rosa candida”. Quella del
titolo, che però, più correttamente, avrebbe avuto senso lasciare nella traduzione
originale. Che significa “bivio, svolta”. Un bivio, una svolta che è quella che
Lobbi dà alla sua vita, e sulla quale ci fa piacevolmente riflettere per tutte
le pagine. Da leggere assolutamente.
“- Tu le racconti le bugie? … - No, ma forse
non dico tutto quello che penso.” (153)
Delphine de Vigan « No et
Moi » Livre de Poche euro 6,80
[A: 21/06/2013– I: 01/08/2013 – T: 06/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 249;
anno 2007]
Comprato
a Roma alla Libreria Francese, perché facevano una promozione per i 60 anni
delle edizioni “Livre de Poche” e non potevo esimermi, dato il co-genetliaco.
Inoltre, andavo un po’ in controtendenza, dato che in genere i libri in lingua
li compro all’estero, ma può essere utile non essere prevedibile. Quindi un po’
al buio, ed è tuttavia risultato un libro di interesse. Perché non conoscevo
l’autrice e volevo leggerne. Perché mi ha intrigato la trama, anche se la fine
l’ho trovata un po’ irrisolta. E non è un caso che abbia vinto un premio (il
Prix des libraires nel 2008) esattamente l’anno dopo di quel libro per me
ugualmente irrisolto che è “L’eleganza del riccio”. La storia è raccontata in
soggettiva da una ragazza di 13 anni, Lou, molto intelligente (ha un quoziente
intellettivo di 160 e per questo ha saltato delle classi), e proprio per questo
(forse) non si sente felice. A casa la situazione è tesa (con una situazione
che ha aumentato la mia empatia con Lou). La madre è depressa per la morte
prematura della sorella di Lou di soli pochi mesi, si chiude in se senza mostrare
affetto per la figlia. Il padre è inconsultamente felice per nascondere i suoi
fallimenti. I compagni di classe la ignorano a causa della sua intelligenza.
Tutti tranne uno, Lucas, il re del liceo, diciassettenne un po' difficile,
l'antitesi di Lou (che per lui ha una cotta), ma che appunto per questo vuole
conoscerla e che l'aiuterà nel momento in cui ne avrà più bisogno. A Lou piace
vedere nei volti della gente la gioia e l'emozione: per questo passa la metà
del suo tempo alla stazione per osservare la gente che si lascia o che si ritrova.
Qui incontra Nolween, detta No, diciottenne che vive in strada, beve alcolici e
fuma. Nella confusione scolastica, Lou si assegna il compito di scrivere una
relazione sui SDF (Sans Demeure Fixé, cioè i senza tetto), decidendo di
coinvolgere No in questa impresa. Con la scusa delle interviste per la
relazione, tra le due nasce un rapporto strano, fatto di odio e di amicizia, di
curiosità per il modo vivere dell'altra. Tanto che Lou ospita per un certo
periodo No. Ma No non riesce ad uscire dalle sue dipendenze, e, di nuovo senza
casa, trova posto da Lucas (anche lui con una situazione famigliare difficile,
vive praticamente da solo). Ma la tregua è breve ed anche da lì deve andarsene.
Lou decide allora di fuggire con lei. Va via di casa, passa due giorni in giro
“da barbona” con No. Ma nel momento di prendere un treno e scomparire, è No che
scompare abbandonando Lou, sola e infelice. Inizia allora, aiutata da Lucas, la
ricerca di No, della sua storia non detta. Alla fine, ne sapremo di più, ma non
sarà quello ad aiutare Lou. Sarà Lucas, con il suo affetto. Sarà il professore
con la sua comprensione. Sarà una bellissima descrizione del primo bacio. Come
detto, la scrittura è molto gradevole, anche se, come nel Riccio, ho sempre
l’impressione che la proiezione di un adulto verso una ragazza al limitar di
gioventù rischi sempre di passare le righe. Lou ha atteggiamenti
“incompatibili” con una tredicenne, anche se compatibili con l’affetto che
proviamo per lei. Verso tutte quelle prove (dalla difficile comprensione del
rapporto con No all’altrettanto complessa vicenda dei suoi sentimenti verso Lucas).
Ma nel complesso è una storia che lancia qualche messaggio e lascia qualche
segnale (l’insoddisfazione dei giovani, il difficile rapporto con gli adulti,
lo sguardo verso i treni in partenza). Per chi non volesse affaticarsi con
l’originale, ne segnalo l’uscita anche in italiano con il titolo “L’effetto
secondario dei sogni” (e qualcuno ce lo spiegherà, prima o poi). Come segnalo
il primo libro dell’autrice, legato alla sua lotta (vinta) con l’anoressia
(“Jours sans faim”).
“Si
c’était ça le bonheur, pas même un rêve, pas même une promesse, juste
l’instant.” [Se fosse questa la felicità, non un sogno, non una
promessa, solo l’istante.] (72)
“C’est
avec les gens qu’on aime le plus, en qui on a le plus confiance, qu’on peut se
permettre d’être désagréable (parce qu’on sait due cela ne les empêchera pas de
nous aimer). ” [è con le persone che amiamo di più, di cui abbiamo
fiducia, che possiamo permetterci di essere scortesi (perché questo non
impedirà loro di amarci).] (161)
Elvira Seminara “La penultima fine del mondo” Nottetempo euro 11 (in
realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 18/06/2013– I: 13/08/2013 – T: 15/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 154;
anno 2013]
Avendo
già avuto modo di conoscere la scrittura della Seminara, mi aspettavo qualcosa,
che poi in realtà c’è, anche se ho faticato a trovarlo. C’è la sua scrittura,
che parte sempre dall’ironico, ma che non finisce lì, e confesso mi spiazza
(come aveva fatto ne “I racconti del parrucchiere”). Perché il libro comincia
come un noir, e il titolo ne rende benissimo lo spirito. Quello di un romanzo
imprevedibile sino alla vera (e ultima) fine. In un piccolo paese dell’Isola,
col suo fiume, il suo parroco, la brava farmacista e i bar coi tavoli
all’aperto, improvvisamente un uomo, durante una festa, si lancia nel vuoto.
Toccherà poi a una donna, a un altro uomo, e molti ancora, di ogni età –
suicidi tutti senza ragione. Più che togliersi la vita, escono dalla vita.
Sorridendo. Uno dopo l’altro. L’intero paese finisce sotto inchiesta dalla
pista tossico-ambientale a quella satanica, e la stampa internazionale si
precipita nel piccolo centro trasformandolo in un polo di attrazione dove tutto
è reale ma inspiegabile. Si fanno convegni internazionali sulla “perdita di
orizzonte”, dibattiti televisivi sui “diversamente vivi” (bellissima immagine),
arrivano i pullman pieni di turisti per i “safari coi morti”. Sin quando,
abbandonato a se stesso per paura di un “contagio”, o forse piuttosto perché il
caso è invecchiato e privo di sviluppi, il paese sprofonderà nell’ombra,
smemorato e solo, a tu per tu con gli spettri. In tutta questa trasformazione,
il noir iniziale si è trasformato in un’accusa sul mondo di oggi ed il suo
onnipresente cannibalismo. Ma ora, nella sua parte finale, si avvolge su di se,
quasi a spirale (lontani ricordi di Asimov) e perde un po’ di mordente. In
mezzo a tanto abbandono, solo una persona, l’Ospite Televisivo invitato
all’inizio a commentare i fatti, cercherà di capire, trascrivendo tutto sul
taccuino. E’ uno “scrittore da festival” ma qualcosa lo trattiene in questo
lembo di mondo in dissoluzione. In un clima sempre più visionario i morti si confondono
coi vivi, sotto lo sguardo dei soli testimoni coscienti, i cani. Sino
all’unica, sorprendente spiegazione possibile che però mi lascia un po’ di
amaro in bocca. Forse era meglio non spiegare, lasciare cadere o decadere il
tutto. Leggendolo mi è subito venuto in mente che chi ama o conosce Saramago,
se ne sentirà colpito. Sarà una parodia de “Le intermittenze della morte” o una
parafrasi di “Cecità”? Siamo anche qui in una città normale, con persone
normali, dove avvengono fatti straordinari. Ma seppur queste idee vengono in
mente (con tutti i distinguo che possiamo immaginare) l’opera della scrittrice
catanese è comunque altra e diversa. Perché l’atmosfera è più fiabesca, ma alla
fine la Seminara non ci dà (vere) soluzioni, non ci dà chiavi di lettura,
spiegazioni realmente ultime. Ad ogni episodio narrato, ad ogni morte
annunciata, ci mettiamo a chiederci il perché. Ogni intervento esterno (la
stampa, i media, il consumismo del suicidio) ci portano immediatamente all’oggi
e al noi. E mentre scorriamo le pagine e simpatizziamo con le accuse a chi
gestisce e manipola le notizie, ci domandiamo costantemente: ma noi, siamo
vivi? E cosa significa essere vivi? Come viviamo? Un ultima piccola nota, visto
che in genere parlo male di editor ed edizioni, devo invece spezzare una lancia
in favore di “Nottetempo”. Bello il formato ridotto, che ne consente la
fruizione ovunque, tanto da poter essere messo in tasca, e tirato fuori per
leggere di una morte, e poi riporlo e pensarci su. Un libro realizzato con
cura. E noi lettori non possiamo che apprezzarlo.
“L’ultima donna con cui aveva vissuto, le
altre. … I vicini, i traslochi, i nemici, i tanti viaggi. Tutto si affastellava
e mischiava con scarsa definizione. … Ecco, anche a sgranarli con attenzione,
uno per uno, i ricordi scorrevano a fatica.” (91)
Milena Agus “Mentre dorme il pescecane” Nottetempo s.p. (regalo
collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 28/09/2013 – T: 30/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171;
anno 2005]
Fortuna
che c’è stato il grande compleanno, che mi ha permesso, grazie ad Almaviva, di
colmare qualche buco di lettura. Ad esempio con questo, il primo romanzo
scritto da Milena Agus, che ancora mancava in libreria. Ed ora che si leggesse.
Bella (e per il momento della stesura del libro, anche nuova) la scrittura, con
quel tono di amicizia con il lettore, di complicità (modo di scrivere che poi
tornerà negli altri suoi romanzi, anche con qualche risultato più convincente).
Scrittura che ti porta nella storia, tra realtà e fantasia, della diciottenne
protagonista. Per tocchi, accenni e voli, riesci a seguire anche la realtà
dietro alla fantasia. La tristezza della madre, la sua “non” esistenza, il suo
“non” trovare un posto nello scorrere delle cose, fino a quel doloroso salto dalla
terrazza. Il padre, forte delle sue certezze, ma quanto presente? Sì, è bravo,
intelligente, ma alla difficoltà risponde solo fuggendo, dietro ai suoi
improbabili sogni sudamericani. Tanto improbabili, che poi diventeranno reali.
La zia sempre dietro ad un nuovo amore che (dopo il sesso) non durerà mai
molto. Il fratello perso dietro al suo pianoforte, unico aggancio con il reale,
e che gli permette di essere, di restare sulla terra, senza volar via come la
madre. E lei! Diciottenne bruttina, grassina, autoinfliggentesi un rapporto
senza futuro con un uomo sposato (da prendere a schiaffi ogni volta che apre
bocca). Rapporto da cui non riesce ad uscire, che non riesce a troncare mai.
Forse c’è quello spiraglio di luce quando compare il veterinario. Purtroppo
finirà anche quello spiraglio, lasciandola indifesa contro gli eventi. Chi la
può aiutare? La madre morta, il padre in fuga, la zia con la testa per aria, il
fratello con il suo pianoforte? Neanche la saggia nonna, che l’unica cosa che
fa è dire ad oltranza sagge sentenze, come quei libri che con tanta arguzia
analizzano la realtà, e che poi non danno mai suggerimenti su come ci si deve
comportare. E questo non la aiuta. Come non ci riesce l’amico Mario, con le sue
strampalate fidanzate. E tanto meno Annunziata con la sua innocenza da mondo
nuovo. Il mondo, quello vero, rimane brutto e cattivo. E noi, giovani verso la
crescita (ovviamente noi giovani che stiamo leggendo il libro da giovani, o
non-giovani che leggono il libro come fossero giovani), non vediamo le sue
possibili bellezze. Il mondo ci mangia e ci rode dentro come il cattivo
pescecane. Ma, e qui la Agus ci lascia un briciolo di speranza, forse
riusciremo a fuggire, a volere e a vivere il bello della vita, se capiremo
quando il pescecane dorme. E fuggiremo da lui, senza farci riprendere. Noi sì,
ma ci riuscirà Milena? Insomma, alla fine, il libro mi è piaciuto, ma più come
retrospettiva, che come libro in sé. Trovo ancora una volta irrisolti i
problemi sessuali della protagonista (e Milena riesce spesso a mettere le sue eroine
in situazioni a dir poco imbarazzanti), e forse troppo pieni di pensierini
tutti i personaggi sopra descritti. Probabilmente, il più centrato (ed anche il
più doloroso) è quello della madre, con la sua difficoltà di rapportarsi al
mondo, con la possibilità (forse) di sfuggire al pescecane, ma con la decisione
che no, non è possibile modificare quello che c’è. E purtroppo c’è anche poca
Sardegna, o almeno c’è poco rimando che esista una Sardegna intorno. Sì, ci
sono indicazioni, ci sono città, ma “Mal di pietre” o “La contessa di ricotta”
mi facevano immergere dio più nei ritmi strani di quest’isola che usa il mare
non per comunicare ma per restare isolata. Eppure, con tutti i distinguo del
caso, è un libro che mi ha fatto piacere leggere, come quasi sempre mi fa
piacere leggere i libri di Milena Agus (non è un caso che ho tutti e cinque i
suoi libri pubblicati da Nottetempo).
Ohilà, ci son solo tre giorni per
Natale. Ecco ci sono l’angioli con l’ale. E sotto l’albero un regale. Un pacco
dono un po’ ficcanaso, lasciato lì, come fosse per caso. Un grande augurio al
nostro Tommaso. Ah, dove fare Leopardi da grande. Invece son qui a scrivere
rime stupidine (ma di cuore), ad imbastire tramine, e ad aspettar di partire
(ma credo che no). A tutti ora do
un bacio
Giovanni
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