domenica 24 maggio 2015

L’estate che uccisi … due donne - 24 maggio 2015

Chiedendo scusa a Luana di aver “saccheggiato” il suo titolo, mi riferisco alle due prove “gialle” poco esaltanti (sia perché non mi sono piaciute sia perché partono di poliziesco e finiscono altrove) di Alice Sebold e di Margaret Doody. Ma questa settimana dedicata alla scrittura femminile si apre invece con l’ottimo libro di Luana Vergari e si chiude con l’interessante riscoperta di Barbara Comyns. Comunque, cominciate leggendo Luana.
Luana Vergari “L’estate che uccisi mio nonno” NPE euro 9,90
[A: 27/10/2014– I: 28/10/2014 – T: 29/10/2014] - &&&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2014]
Sono veramente contento di avere l’occasione di tramare di nuovo e compiutamente un libro della mia amichetta Luana. Dopo le degne prove di sceneggiature a fumetti (su cui torneremo) ecco che Luana si cimenta anche con la scrittura a tutto tondo, regalandoci un libro da leggere tutto d’un fiato. Perché veloce, perché moderatamente corto, perché ti tiene un po’ con il fiato sospeso. E non perché (come c’è scritto in copertina) sia un thriller, anzi un anti-thriller. Ma perché siamo sempre lì, in apnea a seguire le vicende del bimbo protagonista. Uno con la solita sfrenata fantasia latente o presente in molti personaggi della scrittrice. Una fantasia che si addormentava per non affrontare il presente (in “Ely è là”). Una fantasia che rende attuabili cose che altrimenti vedremmo soltanto nei videogiochi (e più non dico, ma questo ragazzino quant’è vicino ai “mostri” di “Caro Babbo Natale…”?). Luana Vergari, in un incontro pubblico organizzato nella simpatica libreria romana Giufà di San Lorenzo, sosteneva che questi 51 capitoli potevano essere letti indipendentemente, a caso, ognuno auto-contenuto. A valle di una lettura ordinata, convengo con lei. E mi domando anche se quest’ordine abbia un senso. O se, come in un poema di Queneau, si possa far volare le pagine, e poi riunirle. Uno degli elementi belli e forti del libro è anche questo, che, anche se letti in ordine diverso, la storia comunque viene fuori. Una storia che poggia su due elementi trainanti: la storia reale (quella che viviamo come “vita”, con il succedersi degli eventi, e con la loro concatenazione logica), e la storia soggettiva del protagonista. Che prescinde dal tempo. Luana riesce a farci cogliere questo elemento (forse frutto della sua lunga e profonda esperienza proprio con i bambini), questa mancanza di temporalità nelle vicende soggettive, questa logica interna che è del bambino e che non si riesce (spesso) a comunicare. Questo è il secondo elemento forte del libro, questa capacità di restituirci il mondo dell’infanzia, così com’è, soggettivamente incongruo, ma internamente assolutamente congruente. Come spesso in Luana, è la storia di un trauma, ancora più doloroso che i bambini sono meno corrazzati e quindi ricorrono alla fantasia per non essere schiacciati dagli eventi. Il nostro protagonista, oppresso da una madre tiranna e piena di regole, ma ancor più destabilizzato da un padre compiacente (che minando le regole familiari, le rende folli agli occhi del bimbo), è immerso in quel limbo fantastico che un po’ tutti ci coglieva tra l’asilo e le elementari. E poiché il mondo avanza (parliamo di televisione? parliamo di video-giochi? sappiamo tutti cosa ne sta venendo fuori…), i bambini si trovano sempre più ad immedesimarsi in una realtà più rassicurante di quella che si vive. Il nostro, quindi, si identifica in un super-eroe dotato di super-poteri, con una super-pistola con la quale terrorizza e sconfigge i cattivi. Il nonno ha la cattiva idea di regalargli un treno di legno (cosa da lui odiata), ed il bimbo spara alla foto del nonno con la super-pistola. Il nonno ha la seconda cattiva idea: muore. Il bambino associa la morte del nonno alla super-pistola, ma, come tutti i bambini, non associa la morte del nonno alla “morte”. Un bimbo ancora non razionalizza tutto ciò. La famiglia, allora, si precipita in macchina verso la Sicilia per il funerale. E durante la strada sono assaliti e rapiti da due “sbandati” che vogliono un riscatto. Mentre i genitori vengono legati, e la madre anche imbavagliata, dato che è veramente una scassapalle, il bimbo simpatizza con i due meschinelli. Non solo, ma scambia la sua pistola con quella di Vik, perché così questi diventerà più forte (è sempre una super-pistola, no?). Peccato che quella di Vik sia “vera”, peccato che con questa il bambino spari e ferisca la madre. Un po’ se ne dispiace, anche se ritiene quasi che “se lo sia meritato”. I rapinatori fuggono, la madre si ricovera in ospedale e guarisce, il padre ed il ragazzo vanno al funerale del nonno, e da quel momento il bimbo viene anche seguito da uno psicologo. Certo che il trauma è stato forte, e lui si è rifugiato nel suo mondo per superarlo. Dando poi voce, come confessa all’inizio, a quello che gli si accumula per la testa. Ora non è importante come sia morto il nonno, chi ha sparato alla madre, e tutti gli altri traumi che si vedono in controluce nel libro. Quello che importa, e che Luana ci riporta mirabilmente, è quanto passa nella testa di questa persona (che un bambino È una persona, piccola ma intera). Si accatastano così sensazioni, idee, momenti di vita. Il tutto condito dalle capacità verbali ed affabulatorie della scrittrice. Indimenticabili la storia della “gatta al largo”, la teoria dei colori, gli “orari fusi”, lo stare silenzioso. Luana riesce a rappresentarci con questi fogli di vita vissuta (così ribattezzerei i capitoli) proprio la vita di questo bambino, così come lui la sta vivendo. Ringrazio quindi la mia amica scrittrice per lo sforzo che ha fatto al fine di rendere fruibili le sue pagine (e so che non è stato facile), all’idea che ci instilla dei molti linguaggi presenti in ognuno di noi. Vuoi perché legati alle età della vita, vuoi perché legati all’andare pel mondo, così che ci si agglutinano dentro tante parole, tante idee, ognuna con il suo preciso spazio. Una bella lettura, che mi ha fatto tante anabole al cuore ed al cervello (non è un errore di stampa, è un piccolo dono di un immaginifico T9 che faccio alla mia amica Luana).
Alice Sebold “Amabili resti” E/O euro 11
[A: 04/01/2014– I: 31/10/2014 – T: 03/11/2014] - && e ½ 
[tit. or.: The Lovely Bones; ling. or.: inglese; pagine: 345; anno 2002]
Ecco un altro di quei libri di cui uno sente tanto parlare e non sa se comprare o meno, se leggere o meno. Rimasto a lungo nell’indecisione, sotto la spinta libropatica che ormai avete imparato a conoscere, mi sono deciso ad intraprenderne l’ardua lettura. Ardua non in quanto difficile, ma in quanto mi aspettavo qualcosa di leggermente più “realistico”. Soprattutto dopo quell’attacco in prima persona in cui la narrante confessa di essere una ragazza di quattordici anni, stuprata ed uccisa. Quest’artificio si può accettare, visto che così Suzie, la protagonista, può descriverci gli avvenimenti e commentarli, agendo come “deus ex-cathedra” della storia (non machina giacché non riesce praticamente mai ad intervenire, e tuttavia descrive e bene quello che accade ed i sentimenti degli attori sulla scena). Quello che mi è andato meno a genio è quel sottofinale un po’ fantasy, quasi ad imitare il film “Ghost”, quello con Demi Moore, per intenderci. Tralasciando questa parte, ed anche il finale vero e proprio, dove vediamo i protagonisti (a parte la morta) cresciuti ed il cattivo… beh quella del cattivo non ve la dico. Comunque, tralasciando le ultime 40 pagine, veniamo al libro in sé, alla parte “sana” del racconto. Sicuramente, c’è tutto un grido di dolore contro le ragazze stuprate in giro per tutta l’America, dove credo sia un fenomeno con una ricorrenza ed una risonanza maggiore che da noi (ovviamente, con questo non dico che non ci sia anche in Italia; tuttavia un conto è lo stupro, che penso sia purtroppo presente costantemente, un conto è l’omicidio che ritengo meno frequente nel nostro vecchio e bistrattato mondo). Contro l’assassino, contro la polizia che spesso è incapace di trovare prove e portare a compimento indagini (ed il libro è più realistico di molte fiction tv, a volte troppo consolatorie, dove i colpevoli sono sempre puniti). Vediamo i modi con cui George circuisce ed uccide la piccola Suzie, il modo con cui prende in giro vicini di casa e poliziotti. Poi la stessa Suzie ci porta negli omicidi precedenti dello psicopatico, ci fa vedere come solo suo padre Jack pensa a lui come colpevole. Ci porta accanto alla sorella Lindsey che trova possibili prove, ma anche ci fa vedere come George riesca a scappare perché… Questo tormentone, poi, ci seguirà per tutto il romanzone. Insieme alla storia della famiglia di Suzie, e di alcuni personaggi che le sono vicini e che vengono coinvolti dal dolore della morte e dalla incapacità, per molto tempo, di elaborare il lutto. Abbiamo la madre, che era compressa nel ruolo di portare avanti una famiglia senza molto aiuto da parte di Jack, che prima cerca di rifiutare la morte, poi di esorcizzarla (magari con una scopata selvaggia nei momenti meno opportuni), poi, quando non può fare a meno di costatarla, decide di fuggire. Lascia la famiglia e la Pennsylvania, e si rifugia in California, fino a che … C’è Jack, il gran lavoratore, tutto preso dall’amore verso il figlio maschio, ma che rimane attonito alla morte di Suzie, non ne esce fuori, abbandona (almeno di testa) la moglie ed il resto, aggrappandosi a piccoli episodi e riti quotidiani, ma che rimane (per me) una figura di poca simpatia. C’è il fratellino Buck, troppo piccolo per capire a pieno la morte di Suzie (all’inizio ha quattro anni), poi cresce coccolato dal padre, con l’idea dell’esistenza di questa strana sorella mai realmente conosciuta, ma anche con la mancanza della madre che, rabbiosamente, rivedrà solo dieci anni dopo. Inciso: alla fine il romanzo copre un po’ più di dieci di storia, dalla morte di Suzie allo scioglimento del suo Cielo (checché voglia dire quello che ho scritto). C’è la sorella Lindsay, quella più brava, più intelligente, più colpita dalla morte (che da entità a sé, diventa “Lindsay, la sorella di…”). Quella che trova le prove della colpevolezza di George, quella che si innamora di Samuel, un compagno di classe, con il quale, dopo la laurea, decide di sposarsi ed andare a vivere in una casa fortuitamente scovata nei boschi, e di proprietà del padre di Ruth. C’è Ruth, appunto, quella dark, quella strana, quella sfiorata dall’anima di Suzie quando questa muore, che dedicherà la sua vita di poetessa alternativa alla commemorazione di Suzie ed alla ricerca di tutte le altre ragazze morte, per ricordarle nei suoi diari. Coinvolgendo, non spesso ma nei momenti significativi, l’indiano Ray, quello innamorato di Suzie, quello, solo, che riuscì a darle un bacio vero prima della morte della nostra eroina. Speravo che Ray e Ruth si mettessero insieme, ma non era destino, anche se… Insomma, tutta la parte non “poliziesca”, è dedicata agli sforzi di Suzie di far accettare la propria morte ai propri cari. E tutto il libro è quasi un inno alla elaborazione del lutto, ed alla maniera, quindi, di uscirne in modo positivo. L’utilizzo di metodi fantastici, tuttavia, mi ha fatto apprezzare meno questo sforzo. Rimane tutto avvolto in un po’ di favolistico, che mi è poco congeniale, poco fruibile in questo nostro mondo concreto. Dove, purtroppo, tanti lutti avremo da elaborare, fortunatamente non così “funesti” come questo. Peccato!
Margaret Doody “Aristotele nel regno di Alessandro” Sellerio euro 16 (in realtà, scontato a 13,60 euro)
[A: 02/12/2013– I: 13/12/2014 – T: 17/11/2014] - & e ½
[tit. or.: A cloudy day in Babylon; ling. or.: inglese; pagine: 574; anno 2013
Per quanto mi siano piaciuti i primi scritti della canadese Doody sulle attività di detective del buon Aristotele, con l’andare dei romanzi gli scritti si sono appesantiti e le trame con tinte di giallo si sono alleggerite. Nei primi, la Doody riusciva con agilità a mescolare la sua profonda conoscenza del filosofo, con casi giudiziari che mettevano in risalto un elemento della complessa visione del mondo di Aristotele. Ci furono l’etica, la giustizia ed altri elementi significativi. Ma subdolamente, il personaggio del narratore, Stefanos di Atene, veniva quasi a scalzare il nostro, almeno per gran parte della scena. Fino a diventare quasi lui il centro dei libri. Cosa che si fa assolutamente avanti in questo che, forse, potrebbe essere l’ultimo libro della serie. Per una serie di motivi: non ha avuto un grande riscontro internazionale, è molto (forse troppo) lungo, non è ben riuscito nell’amalgama degli ingredienti, ci porta a vivere gli ultimi giorni di Alessandro ipotizzando fantasiose attività criminali, ma che, in ogni caso, portano, alla morte del Grande (ma in italiano siamo abituati anche a chiamarlo Magno) ed alla conseguente caduta in disgrazia di Aristotele presso gli Ateniesi. Un piccolo inciso collegato a quest’ultimo avvenimento, ed al solito non gradito intervento sul titolo. In inglese, un giorno di nebbia a Babilonia si riferisce, secondo le effemeridi babilonesi, all’11 giugno del 323 a.C. proprio al giorno nuvoloso in cui morì Alessandro. Rititolarlo “Aristotele nel regno di Alessandro” fa perdere questo significato, introducendo il nome del filosofo come elemento per comperare il libro, ed aggiungendo il luogo degli avvenimenti diminuisce tutta la preparazione che la scrittrice fa per nasconderci e poi svelarci la missione segreta di Aristotele, che, per l’appunto, troviamo dopo la metà del libro prima ad Ecbàtana e poi a Babilonia. Questo perché tutto il libro si fonda proprio sugli ultimi mesi (o l’ultimo anno) della vita di Alessandro, dal suo ritorno dopo la campagna indiana sino alla morte. Per non farci mancare quel minimo di trama cui ci aveva abituato negli altri libri, c’è una piccola storia di ruberie ed inganni che coinvolge l’infido tesoriere Arpalo, il generale Cratero (genero di Antipatro) ed altri personaggi minori. Motivo per cui Stefanos va ufficialmente presso la corte di Alessandro al fine di risolvere il tutto, essendo lungo la via spettatore ed artefice di altre uccisioni di minor conto. Questa sotto trama è però poco sviluppata, e ad un certo punto data per risolta senza un vero perché. Dato che il motivo reale del viaggio di Stefanos è accompagnare Cassandro, figlio di Antipatro, proprio presso Alessandro. Qui si colloca il fulcro della vicenda con i suoi molteplici intrecci (che tuttavia la scrittrice o dà per noti o non ne svela le connessioni). Il primo punto di incontro, appunto Ecbàtana (oggi Hamadan in Iran), vede il ritorno di Alessandro dall’India, i tributi a lui portati, lo scontro con il giovane Cassandro sul non arrivo del padre, la soluzione del mistero di Cratero e la sua partenza con diecimila reduci verso la patria macedone, per culminare con la morte di Efestione. Questi era l’amico del cuore di Alessandro, e muore, pare, per febbri tifoidee aggravate da assunzioni di alcool. Alessandro ne è sconvolto e non si riprenderà più. Vengono allora descritti gli otto mesi che seguono, il ritorno a Babilonia (ora Al-Hillah in Iraq), gli intrighi di corte, cui vegliano sornionamente i due generali del Re, Tolomeo e Perdicca, le manovre di Roxane che aspetta un figlio da Alessandro, nonché altri avvenimenti di minor rilievo (ma che servono ad incasinare i fili della storia). C’è un capitolo sullo zoroastrismo (tanto per non farci mancare nulla), uno sui maghi caldei (comprensivi di divinazione ed osservazioni astronomiche), nonché una piccola storiella amorosa del povero Stefanos con la bella Shiran (d’altra parte è quasi un anno che è partito da casa). Anche qui, tutto culmina con la morte di Alessandro (anch’essa storicamente avvolta nel mistero, febbri, indigestione, disperazione, veleno), e con l’inizio della lotta alla successione. Che non ci sarà esplicita, dato che ognuno avrà un pezzo dell’Impero, ma porterà a lunghi anni di turbolenza. Quello che sottolineiamo è la concessione dell’Egitto a Tolomeo, l’unico che manterrà saldo il lascito, facendo nascere da lì la dinastia Tolomea (e fondando la città di Tolemaide, per chi non lo sapesse). La morte del Grande, comunque, scioglie tutti i legami ed i nostri tornano ognuno ai propri paesi. Come in un giallo (ma ripeto, giallo non è tanto che ne colloco la trama tra i libri d’autrice moderna), nel finale Stefanos e Aristotele tentano di riannodare i fili dispersi, senza riuscirvi molto. A noi rimane il filo che segue l’autrice. Prima di tutto con quella bella figura di sessantenne che è il filosofo, ma che non possiamo convenire con la Doody sulla possibilità che si allontani un anno da Atene, si travesta, e poi sia lui che, in qualche modo, “avvelena il proprio figlio”. Ricordiamo infatti che Alessandro lo ebbe come Maestro. E da Maestro, il filosofo si accorge che ormai per il Re non c’è più redenzione, riscatto o altro. Meglio morire, anche lui a 33 anni, e lasciare il ricordo imperituro delle sue imprese immortali. Tutto mi ha lasciato dubbioso: un finto giallo, una ricostruzione da un lato filologica (con dovizia di testi citati e letti, anche se la citazione a pagina 577 è indicata con un capitolo sbagliato), ma con una resa decisamente in tono minore. Per questo pochi punti a favore, solo qualcosa in più del nulla, per avermi spinto a riprendere in mano testi e ricerche e ricostruire, per mio conto, il filo di quelle vicende. Un capitolo che credo ormai chiuso, quello di Aristotele, e difficilmente riapribile.
“Le persone che non traggono piacere dalla loro vita difficilmente apprezzano quella altrui.” (132)
Barbara Comyns “I miei anni a rincorrere il vento” BUR euro 10
[A: 04/01/2014– I: 05/02/2015 – T: 09/02/2015] - &&&& 
[tit. or.: Our Spoons Come From Woolworths; ling. or.: inglese; pagine: 231; anno 1950]
Poiché il libro mi è piaciuto, e ringrazio le mie libropeute di “Curarsi con i libri” che ne consigliano la lettura a chi non sa come affrontare (e vincere) la maternità, comincio con l’unico punto dolente: il titolo. Certo, l’originale è poco comprensibile se non si sa chi è Woolworths (la grande catena di magazzini a basso prezzo, nata in America, ma dagli anni Venti insediatasi anche in Inghilterra) e non si conosce Rachel Ferguson che, negli anni ’30 scrisse un romanzo intitolato “Le sorelle Bronte vanno da Woolworths”. Insomma, il magazzino è sinonimo di povertà (tipo i nostri UPIM degli anni Sessanta), e comprare lì i cucchiaini è indice di scarsissima agiatezza. Infatti tutto il libro, oltre che sulla maternità, è incentrato sulla povertà e sulla ricerca di una propria strada da parte di Sophia, alter-ego della scrittrice. Anche  perché, seppur nel solito travisato modo della scrittura, parte della giovinezza di Barbara si ritrova nella storia di Sophia. Quella che dopo poche righe ci fa tornare ai venti anni dell’io narrante, ed all’inizio della sua storia di vita e d’amore. L’incontro in treno con il fascinoso pittore Charles. L’amore a prima vista. La convivenza, poi la decisione, contro ogni regola ed ogni suggerimento, di sposarsi. Sophia fa mille lavori per potare a casa qualche penny, Charles è un artista. Ha genitori separati, con una madre presupponente che non fa altro che intervenire nella loro vita solo per sapere se il padre dà loro soldi (così da poterne chiedere lei). Ed un padre che più assente di così non si può. Sophia e Charles sono dei veri bohèmien degli Anni Trenta, senza soldi appunto, e lei che gira con una salamandra in tasca. Sophia ci racconta la ricerca quotidiana di qualcosa da mangiare, di lavoretti, di prestiti, di banchi dei pegni. E poi della maternità, che Charles rifiuta. Che Charles è un artista, e si preoccupa solo se non ha i soldi per le sigarette. Bellissime sono le pagine del parto in ospedale di Sophia (capitoli 10 e 11). Si continua a leggere e ad incazzarsi per la remissività di Sophia, per l’inconsistenza di Charles, per l’arroganza della madre. E mentre il bambino cresce, Sophia rimane incinta per una seconda volta e nasce una piccola e delicata bambina. Charles fa sempre più lo stronzo, rifiutando lavori poco rappresentativi ma remunerativi. E la coppia cade sempre più in povertà. Ma è solo Sophia che ne patisce. Siamo nella discesa agli inferi, ed infatti Sophia capendo che sta precipitando, cerca di staccarsi dall’artista maledetto, ma la sua estrema povertà e mancanza di aiuti, la conduce ad un momento di totale indigenza, tanto che la bambina muore. Da qui, anche se già si notava che Sophia andava maturando pagina dopo pagina, lei prende coscienza. Lascia l’ignobile, tramite degli amici trova posto fuori Londra come governante. Ci si trasferisce con il figlio, dopo un lungo periodo di riabilitazione mentale. E lì finalmente trova una sua dimensione. Sa cucinare, sa mandare avanti la casa. Non è più la scapestrata della giovinezza, quella che senza soldi si metteva sulla scia del gruppo di letterati alla Virginia Woolf. Certo la seconda parte è meno disperata, ma rende conto appunto della maturazione pur con la costanza di rimanere se stessa. Finalmente divorzia da Charles. Naturalmente continua a far crescere il figlio tanto amato, di cui sembra una sorella maggiore (l’ha avuto sulla soglia dei venti anni). È ben voluta in quella casa. Ed alla fine trova anche un altro artista che con sensibilità e caparbietà si conquista passo dopo passo un posto nel suo cuore. Poi in quella del figlio. Il libro si chiude con questo messaggio di speranza e fiducia nelle possibilità di uscire dalla crisi se cerchiamo in noi stessi i motivi della crisi stessa e le risorse  per superarla. Questa fa Sophia, e noi con lei ad aiutarla ad uscire da UPIM per entrare alla RINASCENTE. Come si diceva, poi, è anche una specie di semi-autobiografia, che anche Barbara si sposa giovane con un artista scapestrato, e vive i primi anni della sua ventina alla ricerca di conciliare il pranzo con la cena. Anche lei farà due figli, che però non moriranno. Ed anche lei troverà il modo di sganciarsi dall’ambiente malsano. Poi il suo percorso sarà diverso, che incontrerà un nuovo amore, che  la farà uscire per sempre da questa povertà. Peccato che il suo nuovo uomo sia un amico di Kim Philby, e per allontanarsi dall’Inghilterra in un momento di pericoloso spionaggio, accetta di vivere nella casa spagnola della spia russa. E Barbara vivrà per 16 anni vicino a Barcellona poi in Andalusia, ritornando a Londra solo dopo più di venti anni, a metà degli anni Settanta. Ma torniamo e finiamo con il libro, con le lacrime di dolore per Sophia, con la speranza di un mondo diverso per chi lotta con tutta sé stessa. E se ne conoscono esempi. Un altro buon libro!
“Quando ci arrivai era molto meglio di come me l’ero aspettata. Di solito è così con le cose che temiamo: solo le cose che desideriamo vanno completamente storte.” (180)
Visto che siamo nel centenario dell’entrata in guerra un saluto ai fanti ed al Piave, ma anche auguri a chi, certo un po’ meno, oggi compie gli anni. In questa fine maggio forse un po’ più fredda di quanto ci si aspetta, intanto si prosegue alla programmazione dei prossimi viaggi. Ci aspetta l’America...

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