Chiedendo scusa a Luana di aver
“saccheggiato” il suo titolo, mi riferisco alle due prove “gialle” poco esaltanti
(sia perché non mi sono piaciute sia perché partono di poliziesco e finiscono altrove)
di Alice Sebold e di Margaret Doody. Ma questa settimana dedicata alla scrittura
femminile si apre invece con l’ottimo libro di Luana Vergari e si chiude con
l’interessante riscoperta di Barbara Comyns. Comunque, cominciate leggendo
Luana.
Luana Vergari “L’estate che uccisi mio nonno” NPE euro 9,90
[A: 27/10/2014– I: 28/10/2014 – T: 29/10/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126;
anno 2014]
Sono
veramente contento di avere l’occasione di tramare di nuovo e compiutamente un
libro della mia amichetta Luana. Dopo le degne prove di sceneggiature a fumetti
(su cui torneremo) ecco che Luana si cimenta anche con la scrittura a tutto
tondo, regalandoci un libro da leggere tutto d’un fiato. Perché veloce, perché
moderatamente corto, perché ti tiene un po’ con il fiato sospeso. E non perché
(come c’è scritto in copertina) sia un thriller, anzi un anti-thriller. Ma
perché siamo sempre lì, in apnea a seguire le vicende del bimbo protagonista.
Uno con la solita sfrenata fantasia latente o presente in molti personaggi
della scrittrice. Una fantasia che si addormentava per non affrontare il
presente (in “Ely è là”). Una fantasia che rende attuabili cose che altrimenti
vedremmo soltanto nei videogiochi (e più non dico, ma questo ragazzino quant’è
vicino ai “mostri” di “Caro Babbo Natale…”?). Luana Vergari, in un incontro
pubblico organizzato nella simpatica libreria romana Giufà di San Lorenzo,
sosteneva che questi 51 capitoli potevano essere letti indipendentemente, a
caso, ognuno auto-contenuto. A valle di una lettura ordinata, convengo con lei.
E mi domando anche se quest’ordine abbia un senso. O se, come in un poema di
Queneau, si possa far volare le pagine, e poi riunirle. Uno degli elementi
belli e forti del libro è anche questo, che, anche se letti in ordine diverso,
la storia comunque viene fuori. Una storia che poggia su due elementi
trainanti: la storia reale (quella che viviamo come “vita”, con il succedersi
degli eventi, e con la loro concatenazione logica), e la storia soggettiva del
protagonista. Che prescinde dal tempo. Luana riesce a farci cogliere questo
elemento (forse frutto della sua lunga e profonda esperienza proprio con i bambini),
questa mancanza di temporalità nelle vicende soggettive, questa logica interna
che è del bambino e che non si riesce (spesso) a comunicare. Questo è il
secondo elemento forte del libro, questa capacità di restituirci il mondo
dell’infanzia, così com’è, soggettivamente incongruo, ma internamente assolutamente
congruente. Come spesso in Luana, è la storia di un trauma, ancora più doloroso
che i bambini sono meno corrazzati e quindi ricorrono alla fantasia per non
essere schiacciati dagli eventi. Il nostro protagonista, oppresso da una madre
tiranna e piena di regole, ma ancor più destabilizzato da un padre compiacente
(che minando le regole familiari, le rende folli agli occhi del bimbo), è
immerso in quel limbo fantastico che un po’ tutti ci coglieva tra l’asilo e le
elementari. E poiché il mondo avanza (parliamo di televisione? parliamo di
video-giochi? sappiamo tutti cosa ne sta venendo fuori…), i bambini si trovano
sempre più ad immedesimarsi in una realtà più rassicurante di quella che si
vive. Il nostro, quindi, si identifica in un super-eroe dotato di super-poteri,
con una super-pistola con la quale terrorizza e sconfigge i cattivi. Il nonno
ha la cattiva idea di regalargli un treno di legno (cosa da lui odiata), ed il
bimbo spara alla foto del nonno con la super-pistola. Il nonno ha la seconda
cattiva idea: muore. Il bambino associa la morte del nonno alla super-pistola,
ma, come tutti i bambini, non associa la morte del nonno alla “morte”. Un bimbo
ancora non razionalizza tutto ciò. La famiglia, allora, si precipita in
macchina verso la Sicilia per il funerale. E durante la strada sono assaliti e
rapiti da due “sbandati” che vogliono un riscatto. Mentre i genitori vengono
legati, e la madre anche imbavagliata, dato che è veramente una scassapalle, il
bimbo simpatizza con i due meschinelli. Non solo, ma scambia la sua pistola con
quella di Vik, perché così questi diventerà più forte (è sempre una
super-pistola, no?). Peccato che quella di Vik sia “vera”, peccato che con
questa il bambino spari e ferisca la madre. Un po’ se ne dispiace, anche se
ritiene quasi che “se lo sia meritato”. I rapinatori fuggono, la madre si
ricovera in ospedale e guarisce, il padre ed il ragazzo vanno al funerale del
nonno, e da quel momento il bimbo viene anche seguito da uno psicologo. Certo
che il trauma è stato forte, e lui si è rifugiato nel suo mondo per superarlo.
Dando poi voce, come confessa all’inizio, a quello che gli si accumula per la
testa. Ora non è importante come sia morto il nonno, chi ha sparato alla madre,
e tutti gli altri traumi che si vedono in controluce nel libro. Quello che
importa, e che Luana ci riporta mirabilmente, è quanto passa nella testa di
questa persona (che un bambino È una persona, piccola ma intera). Si
accatastano così sensazioni, idee, momenti di vita. Il tutto condito dalle
capacità verbali ed affabulatorie della scrittrice. Indimenticabili la storia
della “gatta al largo”, la teoria dei colori, gli “orari fusi”, lo stare
silenzioso. Luana riesce a rappresentarci con questi fogli di vita vissuta
(così ribattezzerei i capitoli) proprio la vita di questo bambino, così come
lui la sta vivendo. Ringrazio quindi la mia amica scrittrice per lo sforzo che
ha fatto al fine di rendere fruibili le sue pagine (e so che non è stato
facile), all’idea che ci instilla dei molti linguaggi presenti in ognuno di
noi. Vuoi perché legati alle età della vita, vuoi perché legati all’andare pel
mondo, così che ci si agglutinano dentro tante parole, tante idee, ognuna con
il suo preciso spazio. Una bella lettura, che mi ha fatto tante anabole al
cuore ed al cervello (non è un errore di stampa, è un piccolo dono di un
immaginifico T9 che faccio alla mia amica Luana).
Alice Sebold “Amabili resti” E/O euro 11
[A: 04/01/2014– I:
31/10/2014 – T: 03/11/2014] - && e ½
[tit. or.: The Lovely Bones; ling. or.: inglese; pagine: 345; anno 2002]
Ecco
un altro di quei libri di cui uno sente tanto parlare e non sa se comprare o
meno, se leggere o meno. Rimasto a lungo nell’indecisione, sotto la spinta
libropatica che ormai avete imparato a conoscere, mi sono deciso ad
intraprenderne l’ardua lettura. Ardua non in quanto difficile, ma in quanto mi
aspettavo qualcosa di leggermente più “realistico”. Soprattutto dopo
quell’attacco in prima persona in cui la narrante confessa di essere una
ragazza di quattordici anni, stuprata ed uccisa. Quest’artificio si può
accettare, visto che così Suzie, la protagonista, può descriverci gli
avvenimenti e commentarli, agendo come “deus ex-cathedra” della storia (non
machina giacché non riesce praticamente mai ad intervenire, e tuttavia descrive
e bene quello che accade ed i sentimenti degli attori sulla scena). Quello che
mi è andato meno a genio è quel sottofinale un po’ fantasy, quasi ad imitare il
film “Ghost”, quello con Demi Moore, per intenderci. Tralasciando questa parte,
ed anche il finale vero e proprio, dove vediamo i protagonisti (a parte la
morta) cresciuti ed il cattivo… beh quella del cattivo non ve la dico.
Comunque, tralasciando le ultime 40 pagine, veniamo al libro in sé, alla parte
“sana” del racconto. Sicuramente, c’è tutto un grido di dolore contro le
ragazze stuprate in giro per tutta l’America, dove credo sia un fenomeno con
una ricorrenza ed una risonanza maggiore che da noi (ovviamente, con questo non
dico che non ci sia anche in Italia; tuttavia un conto è lo stupro, che penso
sia purtroppo presente costantemente, un conto è l’omicidio che ritengo meno
frequente nel nostro vecchio e bistrattato mondo). Contro l’assassino, contro
la polizia che spesso è incapace di trovare prove e portare a compimento
indagini (ed il libro è più realistico di molte fiction tv, a volte troppo
consolatorie, dove i colpevoli sono sempre puniti). Vediamo i modi con cui
George circuisce ed uccide la piccola Suzie, il modo con cui prende in giro
vicini di casa e poliziotti. Poi la stessa Suzie ci porta negli omicidi
precedenti dello psicopatico, ci fa vedere come solo suo padre Jack pensa a lui
come colpevole. Ci porta accanto alla sorella Lindsey che trova possibili
prove, ma anche ci fa vedere come George riesca a scappare perché… Questo
tormentone, poi, ci seguirà per tutto il romanzone. Insieme alla storia della
famiglia di Suzie, e di alcuni personaggi che le sono vicini e che vengono
coinvolti dal dolore della morte e dalla incapacità, per molto tempo, di
elaborare il lutto. Abbiamo la madre, che era compressa nel ruolo di portare
avanti una famiglia senza molto aiuto da parte di Jack, che prima cerca di
rifiutare la morte, poi di esorcizzarla (magari con una scopata selvaggia nei
momenti meno opportuni), poi, quando non può fare a meno di costatarla, decide
di fuggire. Lascia la famiglia e la Pennsylvania, e si rifugia in California,
fino a che … C’è Jack, il gran lavoratore, tutto preso dall’amore verso il
figlio maschio, ma che rimane attonito alla morte di Suzie, non ne esce fuori,
abbandona (almeno di testa) la moglie ed il resto, aggrappandosi a piccoli
episodi e riti quotidiani, ma che rimane (per me) una figura di poca simpatia.
C’è il fratellino Buck, troppo piccolo per capire a pieno la morte di Suzie
(all’inizio ha quattro anni), poi cresce coccolato dal padre, con l’idea
dell’esistenza di questa strana sorella mai realmente conosciuta, ma anche con
la mancanza della madre che, rabbiosamente, rivedrà solo dieci anni dopo.
Inciso: alla fine il romanzo copre un po’ più di dieci di storia, dalla morte
di Suzie allo scioglimento del suo Cielo (checché voglia dire quello che ho
scritto). C’è la sorella Lindsay, quella più brava, più intelligente, più
colpita dalla morte (che da entità a sé, diventa “Lindsay, la sorella di…”).
Quella che trova le prove della colpevolezza di George, quella che si innamora
di Samuel, un compagno di classe, con il quale, dopo la laurea, decide di
sposarsi ed andare a vivere in una casa fortuitamente scovata nei boschi, e di
proprietà del padre di Ruth. C’è Ruth, appunto, quella dark, quella strana,
quella sfiorata dall’anima di Suzie quando questa muore, che dedicherà la sua
vita di poetessa alternativa alla commemorazione di Suzie ed alla ricerca di
tutte le altre ragazze morte, per ricordarle nei suoi diari. Coinvolgendo, non
spesso ma nei momenti significativi, l’indiano Ray, quello innamorato di Suzie,
quello, solo, che riuscì a darle un bacio vero prima della morte della nostra
eroina. Speravo che Ray e Ruth si mettessero insieme, ma non era destino, anche
se… Insomma, tutta la parte non “poliziesca”, è dedicata agli sforzi di Suzie
di far accettare la propria morte ai propri cari. E tutto il libro è quasi un
inno alla elaborazione del lutto, ed alla maniera, quindi, di uscirne in modo
positivo. L’utilizzo di metodi fantastici, tuttavia, mi ha fatto apprezzare
meno questo sforzo. Rimane tutto avvolto in un po’ di favolistico, che mi è
poco congeniale, poco fruibile in questo nostro mondo concreto. Dove, purtroppo,
tanti lutti avremo da elaborare, fortunatamente non così “funesti” come questo.
Peccato!
Margaret Doody “Aristotele nel regno di Alessandro” Sellerio euro 16
(in realtà, scontato a 13,60 euro)
[A: 02/12/2013– I:
13/12/2014 – T: 17/11/2014] - & e ½
[tit. or.: A cloudy day in Babylon; ling. or.: inglese; pagine: 574; anno 2013]
Per
quanto mi siano piaciuti i primi scritti della canadese Doody sulle attività di
detective del buon Aristotele, con l’andare dei romanzi gli scritti si sono
appesantiti e le trame con tinte di giallo si sono alleggerite. Nei primi, la
Doody riusciva con agilità a mescolare la sua profonda conoscenza del filosofo,
con casi giudiziari che mettevano in risalto un elemento della complessa
visione del mondo di Aristotele. Ci furono l’etica, la giustizia ed altri
elementi significativi. Ma subdolamente, il personaggio del narratore, Stefanos
di Atene, veniva quasi a scalzare il nostro, almeno per gran parte della scena.
Fino a diventare quasi lui il centro dei libri. Cosa che si fa assolutamente
avanti in questo che, forse, potrebbe essere l’ultimo libro della serie. Per
una serie di motivi: non ha avuto un grande riscontro internazionale, è molto
(forse troppo) lungo, non è ben riuscito nell’amalgama degli ingredienti, ci
porta a vivere gli ultimi giorni di Alessandro ipotizzando fantasiose attività
criminali, ma che, in ogni caso, portano, alla morte del Grande (ma in italiano
siamo abituati anche a chiamarlo Magno) ed alla conseguente caduta in disgrazia
di Aristotele presso gli Ateniesi. Un piccolo inciso collegato a quest’ultimo avvenimento,
ed al solito non gradito intervento sul titolo. In inglese, un giorno di nebbia
a Babilonia si riferisce, secondo le effemeridi babilonesi, all’11 giugno del
323 a.C. proprio al giorno nuvoloso in cui morì Alessandro. Rititolarlo
“Aristotele nel regno di Alessandro” fa perdere questo significato,
introducendo il nome del filosofo come elemento per comperare il libro, ed aggiungendo
il luogo degli avvenimenti diminuisce tutta la preparazione che la scrittrice
fa per nasconderci e poi svelarci la missione segreta di Aristotele, che, per
l’appunto, troviamo dopo la metà del libro prima ad Ecbàtana e poi a Babilonia.
Questo perché tutto il libro si fonda proprio sugli ultimi mesi (o l’ultimo
anno) della vita di Alessandro, dal suo ritorno dopo la campagna indiana sino
alla morte. Per non farci mancare quel minimo di trama cui ci aveva abituato
negli altri libri, c’è una piccola storia di ruberie ed inganni che coinvolge
l’infido tesoriere Arpalo, il generale Cratero (genero di Antipatro) ed altri
personaggi minori. Motivo per cui Stefanos va ufficialmente presso la corte di
Alessandro al fine di risolvere il tutto, essendo lungo la via spettatore ed
artefice di altre uccisioni di minor conto. Questa sotto trama è però poco
sviluppata, e ad un certo punto data per risolta senza un vero perché. Dato che
il motivo reale del viaggio di Stefanos è accompagnare Cassandro, figlio di
Antipatro, proprio presso Alessandro. Qui si colloca il fulcro della vicenda con
i suoi molteplici intrecci (che tuttavia la scrittrice o dà per noti o non ne
svela le connessioni). Il primo punto di incontro, appunto Ecbàtana (oggi
Hamadan in Iran), vede il ritorno di Alessandro dall’India, i tributi a lui
portati, lo scontro con il giovane Cassandro sul non arrivo del padre, la
soluzione del mistero di Cratero e la sua partenza con diecimila reduci verso
la patria macedone, per culminare con la morte di Efestione. Questi era l’amico
del cuore di Alessandro, e muore, pare, per febbri tifoidee aggravate da assunzioni
di alcool. Alessandro ne è sconvolto e non si riprenderà più. Vengono allora
descritti gli otto mesi che seguono, il ritorno a Babilonia (ora Al-Hillah in
Iraq), gli intrighi di corte, cui vegliano sornionamente i due generali del Re,
Tolomeo e Perdicca, le manovre di Roxane che aspetta un figlio da Alessandro,
nonché altri avvenimenti di minor rilievo (ma che servono ad incasinare i fili
della storia). C’è un capitolo sullo zoroastrismo (tanto per non farci mancare
nulla), uno sui maghi caldei (comprensivi di divinazione ed osservazioni
astronomiche), nonché una piccola storiella amorosa del povero Stefanos con la
bella Shiran (d’altra parte è quasi un anno che è partito da casa). Anche qui,
tutto culmina con la morte di Alessandro (anch’essa storicamente avvolta nel
mistero, febbri, indigestione, disperazione, veleno), e con l’inizio della
lotta alla successione. Che non ci sarà esplicita, dato che ognuno avrà un
pezzo dell’Impero, ma porterà a lunghi anni di turbolenza. Quello che
sottolineiamo è la concessione dell’Egitto a Tolomeo, l’unico che manterrà
saldo il lascito, facendo nascere da lì la dinastia Tolomea (e fondando la
città di Tolemaide, per chi non lo sapesse). La morte del Grande, comunque,
scioglie tutti i legami ed i nostri tornano ognuno ai propri paesi. Come in un
giallo (ma ripeto, giallo non è tanto che ne colloco la trama tra i libri
d’autrice moderna), nel finale Stefanos e Aristotele tentano di riannodare i
fili dispersi, senza riuscirvi molto. A noi rimane il filo che segue l’autrice.
Prima di tutto con quella bella figura di sessantenne che è il filosofo, ma che
non possiamo convenire con la Doody sulla possibilità che si allontani un anno
da Atene, si travesta, e poi sia lui che, in qualche modo, “avvelena il proprio
figlio”. Ricordiamo infatti che Alessandro lo ebbe come Maestro. E da Maestro,
il filosofo si accorge che ormai per il Re non c’è più redenzione, riscatto o
altro. Meglio morire, anche lui a 33 anni, e lasciare il ricordo imperituro
delle sue imprese immortali. Tutto mi ha lasciato dubbioso: un finto giallo,
una ricostruzione da un lato filologica (con dovizia di testi citati e letti,
anche se la citazione a pagina 577 è indicata con un capitolo sbagliato), ma
con una resa decisamente in tono minore. Per questo pochi punti a favore, solo
qualcosa in più del nulla, per avermi spinto a riprendere in mano testi e ricerche
e ricostruire, per mio conto, il filo di quelle vicende. Un capitolo che credo
ormai chiuso, quello di Aristotele, e difficilmente riapribile.
“Le persone che non traggono piacere dalla
loro vita difficilmente apprezzano quella altrui.” (132)
Barbara Comyns “I miei anni a rincorrere il vento” BUR euro 10
[A: 04/01/2014– I:
05/02/2015 – T: 09/02/2015] - &&&&
[tit. or.: Our Spoons Come From Woolworths; ling. or.: inglese; pagine: 231; anno 1950]
Poiché
il libro mi è piaciuto, e ringrazio le mie libropeute di “Curarsi con i libri”
che ne consigliano la lettura a chi non sa come affrontare (e vincere) la
maternità, comincio con l’unico punto dolente: il titolo. Certo, l’originale è
poco comprensibile se non si sa chi è Woolworths (la grande catena di magazzini
a basso prezzo, nata in America, ma dagli anni Venti insediatasi anche in
Inghilterra) e non si conosce Rachel Ferguson che, negli anni ’30 scrisse un
romanzo intitolato “Le sorelle Bronte vanno da Woolworths”. Insomma, il
magazzino è sinonimo di povertà (tipo i nostri UPIM degli anni Sessanta), e
comprare lì i cucchiaini è indice di scarsissima agiatezza. Infatti tutto il
libro, oltre che sulla maternità, è incentrato sulla povertà e sulla ricerca di
una propria strada da parte di Sophia, alter-ego della scrittrice. Anche perché, seppur nel solito travisato modo
della scrittura, parte della giovinezza di Barbara si ritrova nella storia di
Sophia. Quella che dopo poche righe ci fa tornare ai venti anni dell’io
narrante, ed all’inizio della sua storia di vita e d’amore. L’incontro in treno
con il fascinoso pittore Charles. L’amore a prima vista. La convivenza, poi la
decisione, contro ogni regola ed ogni suggerimento, di sposarsi. Sophia fa
mille lavori per potare a casa qualche penny, Charles è un artista. Ha genitori
separati, con una madre presupponente che non fa altro che intervenire nella
loro vita solo per sapere se il padre dà loro soldi (così da poterne chiedere
lei). Ed un padre che più assente di così non si può. Sophia e Charles sono dei
veri bohèmien degli Anni Trenta, senza soldi appunto, e lei che gira con una
salamandra in tasca. Sophia ci racconta la ricerca quotidiana di qualcosa da
mangiare, di lavoretti, di prestiti, di banchi dei pegni. E poi della
maternità, che Charles rifiuta. Che Charles è un artista, e si preoccupa solo
se non ha i soldi per le sigarette. Bellissime sono le pagine del parto in
ospedale di Sophia (capitoli 10 e 11). Si continua a leggere e ad incazzarsi
per la remissività di Sophia, per l’inconsistenza di Charles, per l’arroganza
della madre. E mentre il bambino cresce, Sophia rimane incinta per una seconda
volta e nasce una piccola e delicata bambina. Charles fa sempre più lo stronzo,
rifiutando lavori poco rappresentativi ma remunerativi. E la coppia cade sempre
più in povertà. Ma è solo Sophia che ne patisce. Siamo nella discesa agli
inferi, ed infatti Sophia capendo che sta precipitando, cerca di staccarsi
dall’artista maledetto, ma la sua estrema povertà e mancanza di aiuti, la
conduce ad un momento di totale indigenza, tanto che la bambina muore. Da qui,
anche se già si notava che Sophia andava maturando pagina dopo pagina, lei
prende coscienza. Lascia l’ignobile, tramite degli amici trova posto fuori
Londra come governante. Ci si trasferisce con il figlio, dopo un lungo periodo
di riabilitazione mentale. E lì finalmente trova una sua dimensione. Sa cucinare,
sa mandare avanti la casa. Non è più la scapestrata della giovinezza, quella
che senza soldi si metteva sulla scia del gruppo di letterati alla Virginia
Woolf. Certo la seconda parte è meno disperata, ma rende conto appunto della
maturazione pur con la costanza di rimanere se stessa. Finalmente divorzia da
Charles. Naturalmente continua a far crescere il figlio tanto amato, di cui
sembra una sorella maggiore (l’ha avuto sulla soglia dei venti anni). È ben
voluta in quella casa. Ed alla fine trova anche un altro artista che con
sensibilità e caparbietà si conquista passo dopo passo un posto nel suo cuore.
Poi in quella del figlio. Il libro si chiude con questo messaggio di speranza e
fiducia nelle possibilità di uscire dalla crisi se cerchiamo in noi stessi i
motivi della crisi stessa e le risorse
per superarla. Questa fa Sophia, e noi con lei ad aiutarla ad uscire da
UPIM per entrare alla RINASCENTE. Come si diceva, poi, è anche una specie di
semi-autobiografia, che anche Barbara si sposa giovane con un artista
scapestrato, e vive i primi anni della sua ventina alla ricerca di conciliare
il pranzo con la cena. Anche lei farà due figli, che però non moriranno. Ed
anche lei troverà il modo di sganciarsi dall’ambiente malsano. Poi il suo
percorso sarà diverso, che incontrerà un nuovo amore, che la farà uscire per sempre da questa povertà.
Peccato che il suo nuovo uomo sia un amico di Kim Philby, e per allontanarsi
dall’Inghilterra in un momento di pericoloso spionaggio, accetta di vivere
nella casa spagnola della spia russa. E Barbara vivrà per 16 anni vicino a
Barcellona poi in Andalusia, ritornando a Londra solo dopo più di venti anni, a
metà degli anni Settanta. Ma torniamo e finiamo con il libro, con le lacrime di
dolore per Sophia, con la speranza di un mondo diverso per chi lotta con tutta
sé stessa. E se ne conoscono esempi. Un altro buon libro!
“Quando ci arrivai era molto meglio di come
me l’ero aspettata. Di solito è così con le cose che temiamo: solo le cose che
desideriamo vanno completamente storte.” (180)
Visto che siamo nel centenario
dell’entrata in guerra un saluto ai fanti ed al Piave, ma anche auguri a chi,
certo un po’ meno, oggi compie gli anni. In questa fine maggio forse un po’ più
fredda di quanto ci si aspetta, intanto si prosegue alla programmazione dei
prossimi viaggi. Ci aspetta l’America...
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