Una settimana di autori di lingua
inglese, con tre libri che si elevano sopra la media, a cominciare dall’ottimo,
e per me inaspettato, Peter Cameron. Per continuare poi con il solito ottimo
standard che ci assicurano John Fante e Graham Greene. La fine è in calando,
laddove ho già spesso detto che Saul Bellow lo leggo per onor di firma, ma
continua a non piacermi.
Peter Cameron “Quella sera dorata” Adelphi euro 11
[A: 05/05/2014– I: 08/09/2014 – T: 10/09/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: The City of Your Final Destination; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2002]
Non
so perché avevo sempre preso sottogamba questo autore, non riuscendo a
convincermi a leggerne (forse respinto da quel secondo titolo pubblicato “Paura
della matematica”, che mi sembra ancora oggi di difficile approccio per uno
che, come me, i numeri li adora). Spinto dalle recensioni dei libri curativi,
ho al fine preso in mano questo primo libro dell’autore americano e devo dire
che mi ha preso molto, tanto da non riuscire quasi a staccarmene ogni volta che
lo prendevo in mano. In questo, per una rara volta, concordo con la quarta di
copertina e con i giudizi colà espressi da Giuseppe Montesano. Un libro di
dialoghi, anche se ci si muove tra il Kansas, l’Uruguay e New York, che qualche
bravo sceneggiatore potrebbe anche ridurre in una pièce teatrale. Con cinque
personaggi che si muovono lungo la trama, ed un sesto che non c’è ma che
aleggia. Il sesto, Jules, è l’autore di un solo libro e di cui il profugo
iraniano Omar, ora dottorando in Kansas, vorrebbe scrivere la biografia per poter
restare nel mondo universitario. Omar ha una relazione conflittuale con Deirdre,
ricercatrice volitiva, di quelle che conoscono sempre la soluzione, mentre il
povero Omar non sa fare quasi nulla, è impacciato e maldestro. Ma la sua
richiesta ai parenti di Jules per l’autorizzazione alla biografia viene
respinta. Omar decide allora di recarsi in Uruguay, dove questi vivono, per far
loro cambiare idea. Ed in una sperduta comunità, di difficile raggiungimento,
trova questo piccolo mondo che si incarta nella vita, imbozzolandosi in momenti
di ripicche e rancori reciproci. C’è la moglie di Jules, Caroline, pittrice che
non sa più dipingere e che per questo fa solo copie di quadri famosi. C’è
l’amante di Jules, Arden, che vive la sua piccola vita con la figlia dello
scrittore. C’è il fratello di Jules, Adam, gay con amante thailandese che
sembra essere un po’ lo stanco burattinaio delle vicende. Omar, con la sua
inadeguatezza, arriva a scombussolare la vita a tutti quanti. Sono pagine e
pagine di dialoghi tra Omar e Arden, tra Omar e Adam, tra Caroline ed il mondo.
La bellezza dei dialoghi è il modo con cui l’autore riesce, pagina dopo pagina,
a farci comparire anche la figura di Jules. Di cui all’inizio sappiamo solo che
si è ucciso. Poi ne scopriamo la vita, con la lunga fuga dalla Germania nazista
dei genitori ebrei, il rifugio in Sudamerica, le case, la miniera, la gondola,
il lago. Jules che si occupa di letteratura, che a Parigi si innamora di
Margot, ma che a New York, Caroline, la sorella di Margot, glielo sottrae e se
lo sposa. Il ritorno a Montevideo, l’università, l’incontro con Arden, il nuovo
amore. E poi la vita laggiù, in cui tutti continuano ad essere insieme,
nonostante non ci sia affetto tra di loro. Adam, con la sua aria da gay anziano
sembra avere delle chiavi per aprire quelle porte chiuse. Ma è il quasi dramma
di Omar che poi si pone al centro della vicenda. Punto da un’ape, ha uno shock
anafilattico, entra in coma, Deirdre lo viene a salvare, ma a me continua ad
irritare con quell’aria di “so tutto io”. Fortunatamente Omar guarisce, e si
ricorda di aver baciato Arden prima dell’ape. Nel suo modo poco appariscente,
Omar comincia a ragionare su se stesso, su cosa vuole veramente nella vita
(ahi, quanti di noi se lo chiedono ancora). Nella parte finale, l’autore cerca
di tirare delle somme un po’ velocemente, che altrimenti ne uscirebbe un libro
di un numero doppio di pagine. Ed ognuno, come rammenta il titolo inglese, va
verso la città della sua destinazione finale (e perché stravolgere il titolo
con una seppur dotta citazione di Elisabeth Bishop?). L’amante di Adam si trasferisce
a Montevideo, lasciando il nostro povero gay a trascinarsi inconcludentemente
per gli ultimi anni della sua vita. Caroline riceve in eredità dalla sorella la
casa di New York, dove si trasferisce e dove ricomincia a vivere. Deirdre va di
università in università con le sue ricerche per poi finire quattro anni dopo
anche lei a New York. Omar, lasciata l’antipatica, pensa di tornare dai
genitori a Toronto. Però, in un assalto di follia che hanno solo le persone
innamorate, decide di tornare in Uruguay, e confessare il suo amore ad Arden.
Qui non vi svelo il finale ultimo, su come prosegue la vita di Omar e di Arden,
che sono pagine che vanno lette. Anche perché l’autore ce le svela in
controluce, così come in controluce si vede molta parte del libro. Le questioni
ci sono, vengono poste, ma le soluzioni non sono quasi mai espresse direttamente.
Confermo, un piccolo capolavoro dell’arte del dialogo. Di quelli che fanno
tornare ad amare i romanzi, le storie ben congeniate, e la capacità di autori,
come Cameron, di rendercele e di farcene partecipi. Invito quindi chi non lo
avesse ancora fatto a leggerlo, per rinsaldare il nostro comune piacere alla
letteratura.
“Sono abbastanza educato da sapere cosa non
si deve dire, ma non abbastanza per riuscire a non dirlo.” (39)
“- Io ti amo, lo sai che ti amo. Anzi, ti
dico queste cose proprio perché ti amo. – Non sembra amore, sembra rabbia. –
Certo che sembra rabbia. È rabbia. Sono arrabbiata ma questo non esclude
l’amore. Le due cose possono coesistere.” (54)
“Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo
cambiare vita radicalmente. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono
spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come ad
un romanzo? Io sì.” (187)
“Amo i libri e basta, non ho la passione per
l’insegnamento, non amo scrivere e non sono bravo.” (273)
John Fante “Aspetta primavera, Bandini” Einaudi euro 12,50
[A: 04/01/2014– I: 20/11/2014 – T: 22/11/2014] - &&&&
[tit. or.: Wait until Spring, Bandini ; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 1932]
Non
posso non cominciare una nuova trama dedicata John Fante senza prima rivolgere
il solito ringraziamento a Luana, che me lo fece conoscere, mi spinse a
leggerne ed a cui ripenso ogni volto ho un suo nuovo libro in mano. Questo è il
primo libro pubblicato da Fante (anche se il secondo ad essere stato scritto),
scritto sulla soglia dei suoi trent’anni, con tutta la rabbia che poteva avere
questo figlio di immigrati verso un mondo in cui non aveva trovato ancora la
sua strada. Nasce qui la saga degli immigrati di seconda generazione, quelli
cioè nati in America, ma ancora immersi fino al collo nella cultura dei paesi
di origine. Ed è anche l’inizio ufficiale della saga di Arturo Bandini,
l’alter-ego di Fante del quale continuerà a scrivere in tutte le sue opere, e
con tutte le sue problematiche. Prima fra tutte il rapporto con il padre,
figura ingombrante e con la quale farà pace solo molti anni dopo. Ma c’è anche
il rapporto amore-dispetto verso la madre e la sua accettazione cattolica della
vita, il rifiuto della rivolta, la sottomissione. In sottordine, ma solo perché
presenti, anche se poi si svilupperanno su due filoni diversi (uno in ascesa
l’altro in discesa) il rapporto con le donne e quello con la religione. Qui c’è
Arturo quattordicenne, che ad ogni malefatta (reale o ipotetica) corre a
confessarsi per redimersi. E se anche rimarrà traccia del cattolicesimo, questa
andrà scemando. E c’è Arturo che è innamorato di un’altra immigrata, Rosa, alla
quale però non riesce a dichiarare il suo amore. Vedremo che poi, crescendo,
altro atteggiamento riuscirà ad avere, ed il rapporto con l’altro sesso crescerà
sempre più d’importanza. Comunque, qui comincia l’avventura della famiglia
Bandini. Siamo nel freddo Colorado, nell’inverno del 1928. C’è il padre Svevo
che vive con forte disagio la sua situazione di muratore sommerso dai debiti e
costretto all'inattività a causa del rigido clima invernale. C’è la moglie
Maria che sopporta pazientemente i tradimenti e le continue assenze da casa del
marito, aggrappandosi tenacemente alla sua fede. Ed i tre figli: Arturo, August
e Federico. Svevo si rifugia nell'alcol e nel gioco per dimenticare - anche
solo per brevi istanti - la sua vita grama. Il padre è agli occhi del
quattordicenne Arturo al tempo stesso una figura da ammirare - per il fatto che
non si vuole rassegnare alla condizione di "povero immigrato
italiano" - e da temere e odiare, perché fa soffrire la madre. Arturo
trova anch'egli un modo per evadere dalla realtà casalinga nel suo amore (non
corrisposto) per la compagna di classe Rosa e nella passione per il baseball.
Il fulcro della storia si scatena quando Svevo, non trovando modo di sbarcare
il lunario, si allontana da casa. E comincerà una storia di sesso e soldi con
una vedova del luogo, tornando a casa solo per Natale, dove però i suoi regali
vengono rifiutati da Arturo, memore della sofferenza della madre. Belle sono le
descrizioni dei luoghi e delle persone. Soprattutto i primi, che riecheggiano
quelli vissuti dalla famiglia Fante in prima persona, e che, agli occhi di
Svevo ricordano le montagne dell’Abruzzo natio. La storia qui è narrata in
terza persona, rispetto alla prima che userà altrove. Ma serve a Fante per
poter saltare dalle soggettive di Svevo a quelle di Arturo. Che, nonostante le
impennate della sua giovinezza, è anche lui un buono. E cercherà il modo
(trovandolo) di riportare a casa il padre, prima che la madre prenda una china
di malattia che non sarebbe recuperabile. E quel Bandini del titolo si attaglia
e si riferisce ad entrambi. Sia il padre sia il figlio, infatti, attendono con
speranza la primavera, uno per tornare a lavorare l'altro per tornare a giocare
a baseball, entrambi per lasciarsi alle spalle le difficoltà del quotidiano.
Certo, la storia lascia sempre, come in tutte quelle di Fante, un po’ di amaro
in bocca per le cose non risolte, per le occasioni mancate (qui, per me,
soprattutto, la mancata comprensione tra Arturo e Rosa). Ma è l’amaro di cui è
poi fatta la vita. E Fante ne descrive un tratto di strada con la sua capacità
ed il suo coinvolgimento, che, a libro chiuso, ci fa subito pensare di leggerne
uno nuovo. Peccato che poi, li abbia letti quasi tutti.
Graham Greene “Il treno d’Istanbul” Mondadori euro 9,50 (in realtà,
scontato a 8,55 euro)
[A: 20/05/2014– I: 26/11/2014 – T: 28/11/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: Stamboul Train; ling. or.: inglese; pagine: 224;
anno 1932]
Non
è certo ora che scopriamo le capacità narrative di Graham Greene, anche in
questa che è la sua seconda opera narrativa, vergata alla tenera età di 28
anni, con l’intento, come scriverà in una tarda prefazione, di scrivere un
romanzo d’intrattenimento, magari per farne un plot da trasferire sullo
schermo. In effetti, nel 1934 ne venne tratta una versione cinematografica, che
non ebbe particolare fortuna. Il pur
giovane scrittore riesce a gestire con maestria l’intreccio tra i vari
personaggi che sono a bordo del treno che fa il viaggio da Ostenda a Istanbul.
Anche se sono in viaggio per scopi diversi, la vita di ciascuno dei personaggi
centrali riesce a concatenarsi in un blocco fatale. Questi personaggi sono
appunto Carleton Myatt, un commerciante ebreo in viaggio per affari che
affronta l'antisemitismo di molti dei suoi compagni di viaggio mentre attraversa
l’Europa prima della Seconda guerra mondiale, Coral Musker, una ballerina di
fila, in viaggio alla ricerca di un nuovo lavoro, il dottor Richard Czinner, medico,
insegnante, e leader socialista rivoluzionario, che sta tornando a Belgrado
dopo anni di esilio, Mabel Warren, una giornalista, lesbica, che casualmente
scorge Czinner e si mette a seguirlo per scriverne articoli, e Josef Grünlich, un
ladro, in fuga da Vienna dopo un furto pasticciato finito in omicidio. L’uomo
d’affari Myatt è astuto e pratico, anche poco incline alla generosità. Tuttavia
offre il suo biglietto di prima classe alla ballerina di fila Coral Musker,
ammalata. Coral si sente grata di queste attenzioni e inopinatamente si
innamora di Myatt, passando con lui una notte d’amore nel suo scompartimento.
Il dottor Czinner, come detto, vuole tornare di nuovo a Belgrado, solo per
scoprire che la rivolta socialista di cui aveva avuto sentore ha già avuto
luogo e non è riuscita. Decide di tornare comunque per essere processato e fare
del processo un gesto politico. Nel frattempo, viene scoperto da Mabel Warren,
che viaggia con la suo partner, Janet Pardoe. Per tornare a Belgrado, deve fingere
di lasciare il treno a Vienna in modo da seminarla. Quando il treno arriva a
Vienna, Warren, pur tenendo d'occhio Czinner, lascia il treno per fare una
telefonata ed avvertire la redazione del giornale. E durante la telefonata la
sua borsa viene rubata da Josef Grünlich, che ha appena ucciso un uomo durante
una rapina fallita. Grünlich poi prontamente sale sul treno con i soldi di
Mabel, che, incazzata, e preoccupata anche di perdere Pardoe, promette di
ottenere la storia di Czinner con ogni mezzo. Anche se rimane appiedata e dovrà
mendicare un aiuto da Myatt per cercare di risolvere la questione. Intanto, a
Subotica, il treno viene fermato e Czinner viene arrestato. Con lui sono
fermati anche Grünlich, per il possesso di un revolver, e Coral che si trova casualmente
con Czinner al momento dell’arresto. Una corte marziale viene prontamente messa
in piedi e Czinner fa un forte discorso politico, anche se non vi è alcun vero
pubblico presente. Tra l’indifferenza dei giudici è rapidamente condannato a
morte. I tre prigionieri sono tenuti in una sala d'attesa per la notte prima
dell’esecuzione. Nel corso della notte capiscono che Myatt è tornato con una
macchina per salvare Coral. Il furbo Grünlich sfonda la porta e cerca di far
scappare tutti e tre, ma solo lui ci riesce. Czinner è ferito e Musker lo
nasconde in un fienile, dove Czinner muore poco dopo. Quando arriva Mabel Warren
per non perdere la sua storia, decide di prendere sotto la sua protezione Coral
e di tornare a Vienna con lei. Ma a seguito di tutte le emozioni Coral, in
macchina con Mabel ha un attacco di
cuore, e non sappiamo quale sarà il suo destino. L'Orient Express arriva
finalmente a Istanbul, e Myatt, Pardoe e gli altri scendono. Myatt si rende
conto che Janet, l’ex-amante di Mabel, è la nipote di Stein, un uomo d'affari suo
rivale ma anche potenziale partner commerciale. La storia si conclude con Myatt
che, dimenticando Coral, pensa di sposare Pardoe, che ha già dimenticato Mabel,
blindando così il contratto con Stein. Ci sono anche altri cammei nel libro (il
personaggio di uno scrittore, ed altri caratteristi minori). Tuttavia quel che
rimane è il sapiente intreccio che riesce a gestire il giovane scrittore. Ma
anche un generale senso di disagio, che, benché attribuito al clima europeo di
quegli anni ed alla depressione economica inglese, in parte riflette anche la situazione
finanziaria dell'autore al tempo della stesura del romanzo, che ancora non
riusciva a vivere delle sue fatiche. Il tema di fondo del romanzo è comunque
basato sulla fedeltà: il dovere verso gli altri rispetto al rispetto di sé. Greene
si domanda se la fedeltà verso gli altri paga, incentrando i vari personaggi su
possibili pieghe di questa fedeltà. E non è molto positivo in queste scelte.
Chi rimane fedele (Czinner, Coral) muore, chi tradisce (Myatt, Janet) sembra
uscirne vincente. Ma a che prezzo? Insomma, un libro d’intreccio, interessante
anche se non sempre ed in tutto riuscito.
“Non si aveva mai niente per niente … non si
poteva accettare in dono una pelliccia senza andare a letto con chi l’offriva.”
(46)
“La copertina [del libro] era molto logora e
sul risguardo figurava l’etichetta di un libro di Charing Cross Road [vedi il
libro della Hanff, nota mia].” (58)
Saul Bellow “Il re della pioggia” Mondadori euro 9,50 (in realtà
scontato a 8,08 euro)
[A: 07/03/2014– I: 17/02/2015
– T: 20/02/2015] - & e ½
[tit. or.: Henderson, the Rain King; ling. or.: inglese; pagine: 329; anno 1959]
Gli
avrei dato un solo libricino di gradimento, ma il Nobel del ’76 comunque sa
scrivere, anche se questo libro non mi è piaciuto, ed allora mettiamoci anche
quel mezzo punto in più. Tuttavia, dico e ribadisco che l’ho trovato un libro
veramente dannoso. Dopo averlo (faticosamente) letto ho cercato in giro, tra
scritti e rete, di capirne di più, di tirarne fuori lati positivi immaginari.
Si dice sia una critica dell’uomo americano, del suo ottimismo, del suo
credersi centro del mondo. Ora, può anche essere vero, e sicuramente se guardiamo
il libro in prospettiva storica della data di scrittura, c’è sicuramente più di
una punta di verità. Ma, e questo l’ho sempre detto e ribadito, un libro che è
bello e ben scritto resiste, sempre e comunque, al passar del tempo. Se per
esempio un oscuro libro di Winnifred Winston degli anni Trenta è ancora
godibile oggi, vuol dire che affronta temi sempre attuali, e li affronta in
modo da non essere intaccato dal tempo. Bellow, no. Lui è immerso nella fine
degli anni Cinquanta, è immerso nelle paure e nelle fobie americane di quegli
anni. E non ne esce. E non penso mi debba piacere solo perché, in ogni caso,
una penna in mano la sa ben tenere. A parte il vezzo tutto italiano di mozzare
i titoli, per cui sparisce il nome Henderson, e rimane il re della pioggia. Che
se tu leggi un bel cognome anglo-sassone davanti ad un titolo così, o ti viene
in mente l’autistico Dustin Hoffman oppure pensi che ci sia dell’intrigo lì
sotto. Infatti di intrigo si tratta. Il nostro esimio scrittore prende un
bell’esempio di maschio americano inutile e gli fa percorrere le oltre trecento
pagine senza che un solo avvenimento di quelli che gli capitano scalfisca il
muro di inutilità del suo essere, appunto, americano puro e duro. Ma mentre
nelle parti in flashback, qualcosa si salva, qualcosa che ci illumina sulla sua
storia (e poi ci si ritorna), quando poi si trasferisce in Africa e da inizio
alle sue avventure con i selvaggi, beh lì veramente ci si perde e ci si
addormenta. Passiamo quindi subito a questa parte, dove, per insipienza,
ignoranza o altro, il nostro Eugene Henderson si inoltra nel cuore africano
(quasi fosse un novello Livingstone), ed incontra due tribù con le quali fa
scontrare il suo essere occidentale. La prima è pacifica, quasi in stato di
inedia, che non piove e non c’è acqua. Henderson, facilone occidentale, pensa
di liberarli da questa schiavitù, con il risultato che fa saltare in aria
l’unica cisterna di acqua disponibile, per cui gli africani non potranno che
continuare a morire. La seconda è invece bellicosa, ma descritta con gli occhi
di un occidentale che non ha mai visto una tribù africana. Dedita al sesso ed
alla morte, a giochi pericolosi ed a reincarnazioni fasulle. Intrisa di giochi
di potere che fanno impallidire Amleto ed i suoi sodali. Direi che sembra tutto
talmente falso che non si capisce se Bellow ci creda o sia ironico. Fatto sta
il nostro Gene viene coinvolto in questa sarabanda, ha lunghi colloqui con
l’unica persona che sa d’inglese (il re). Ma questi viene travolto dai giochi
di cui sopra (e che tralascio per la loro inutile lungaggine). Il nostro
americano “idiota” (nel senso dostoevskiano) dovrà decidere se lasciarsene
anche lui coinvolgere, oppure (ma avrebbe dovuto farlo centinaia di pagine
prima), tornare alla sua inutile civiltà ed inutile famiglia. Un’inutile storia
che è invece quella a ritroso che più apprezziamo. Che Bellow ambienta nei
posti a lui noti di città e province americane. Con gli Henderson che sono una
stirpe di americani arricchiti, e dove lui, Gene, è l’ultimo rampollo di quella
stirpe. Non ha bisogno di lavorare, che vive di rendita. Ma fa di tutto per
rappresentare il peggio dell’americanismo. Si sposa senza amore, tradisce
(sempre e comunque) le sue donne. Con la prima moglie fa tre (o forse quattro)
figli, che non riesce ad allevare (e si meraviglia che uno dei suoi figli si
voglia sposare con una immigrata, tanto è razzista dentro). Ha fatto la guerra
in Italia, ma non ne ha capito né il senso né le conseguenze. Ha un lungo e
tormentato rapporto (lungo per lui, tormentato per lei) con una donna che
diventerà la sua seconda moglie. Decide di vivere nella sua casa di campagna
allevando maiali. Decide di imparare a suonare il violino come faceva il padre.
Si immerge in pensieri che ritiene alti mentre va dal dentista in
metropolitana. Si infatua dei dottori missionari in Africa, per cui, quando ne
ha la possibilità, molla tutto e attraversa l’Oceano. Per poi avere tutte le
storie di cui sopra. Che si leggono come una rottura di cabasisi colossale,
senza che ci sia di ritorno un briciolo di piacere, neanche intellettuale.
Insomma, ho sempre supposto che i grandi scrittori americani, dopo un po’, mi
avrebbero rotto. Ed è così, con Bellow, con Roth, e molti altri. Un caso? Un
mio essere legato all’Europa e non capire l’America? Ai postumi (di una
sbronza) l’ardua sentenza. Per ora continuerò a leggerne, ed a dire, con forza,
che Saul Bellow non mi pace.
“Succede sempre così … combino sempre
qualcosa che non va, rovino tutto.” (107)
“Tu non conosci il significato del vero
amore, se credi che lo si possa scegliere deliberatamente. Si ama e basta.”
(249)
Forse
sarebbe stata più adatta alla giornata una puntata al femminile, tra gli auguri
a tutte le mamme, e quelli, speciali e doppi, a Sara. Ma non c’erano libri che
mi stimolavano. Abbiamo così ripiegato con gli anglofoni, anche perché, tra un
mese, se ne potrebbero vedere meglio e da vicino. Per ora raccolgo un sasso e saluto tutti quelli che salutano
Nessun commento:
Posta un commento