domenica 10 maggio 2015

Buone letture (o quasi) - 10 maggio 2015

Una settimana di autori di lingua inglese, con tre libri che si elevano sopra la media, a cominciare dall’ottimo, e per me inaspettato, Peter Cameron. Per continuare poi con il solito ottimo standard che ci assicurano John Fante e Graham Greene. La fine è in calando, laddove ho già spesso detto che Saul Bellow lo leggo per onor di firma, ma continua a non piacermi.
Peter Cameron “Quella sera dorata” Adelphi euro 11
[A: 05/05/2014– I: 08/09/2014 – T: 10/09/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: The City of Your Final Destination; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2002]
Non so perché avevo sempre preso sottogamba questo autore, non riuscendo a convincermi a leggerne (forse respinto da quel secondo titolo pubblicato “Paura della matematica”, che mi sembra ancora oggi di difficile approccio per uno che, come me, i numeri li adora). Spinto dalle recensioni dei libri curativi, ho al fine preso in mano questo primo libro dell’autore americano e devo dire che mi ha preso molto, tanto da non riuscire quasi a staccarmene ogni volta che lo prendevo in mano. In questo, per una rara volta, concordo con la quarta di copertina e con i giudizi colà espressi da Giuseppe Montesano. Un libro di dialoghi, anche se ci si muove tra il Kansas, l’Uruguay e New York, che qualche bravo sceneggiatore potrebbe anche ridurre in una pièce teatrale. Con cinque personaggi che si muovono lungo la trama, ed un sesto che non c’è ma che aleggia. Il sesto, Jules, è l’autore di un solo libro e di cui il profugo iraniano Omar, ora dottorando in Kansas, vorrebbe scrivere la biografia per poter restare nel mondo universitario. Omar ha una relazione conflittuale con Deirdre, ricercatrice volitiva, di quelle che conoscono sempre la soluzione, mentre il povero Omar non sa fare quasi nulla, è impacciato e maldestro. Ma la sua richiesta ai parenti di Jules per l’autorizzazione alla biografia viene respinta. Omar decide allora di recarsi in Uruguay, dove questi vivono, per far loro cambiare idea. Ed in una sperduta comunità, di difficile raggiungimento, trova questo piccolo mondo che si incarta nella vita, imbozzolandosi in momenti di ripicche e rancori reciproci. C’è la moglie di Jules, Caroline, pittrice che non sa più dipingere e che per questo fa solo copie di quadri famosi. C’è l’amante di Jules, Arden, che vive la sua piccola vita con la figlia dello scrittore. C’è il fratello di Jules, Adam, gay con amante thailandese che sembra essere un po’ lo stanco burattinaio delle vicende. Omar, con la sua inadeguatezza, arriva a scombussolare la vita a tutti quanti. Sono pagine e pagine di dialoghi tra Omar e Arden, tra Omar e Adam, tra Caroline ed il mondo. La bellezza dei dialoghi è il modo con cui l’autore riesce, pagina dopo pagina, a farci comparire anche la figura di Jules. Di cui all’inizio sappiamo solo che si è ucciso. Poi ne scopriamo la vita, con la lunga fuga dalla Germania nazista dei genitori ebrei, il rifugio in Sudamerica, le case, la miniera, la gondola, il lago. Jules che si occupa di letteratura, che a Parigi si innamora di Margot, ma che a New York, Caroline, la sorella di Margot, glielo sottrae e se lo sposa. Il ritorno a Montevideo, l’università, l’incontro con Arden, il nuovo amore. E poi la vita laggiù, in cui tutti continuano ad essere insieme, nonostante non ci sia affetto tra di loro. Adam, con la sua aria da gay anziano sembra avere delle chiavi per aprire quelle porte chiuse. Ma è il quasi dramma di Omar che poi si pone al centro della vicenda. Punto da un’ape, ha uno shock anafilattico, entra in coma, Deirdre lo viene a salvare, ma a me continua ad irritare con quell’aria di “so tutto io”. Fortunatamente Omar guarisce, e si ricorda di aver baciato Arden prima dell’ape. Nel suo modo poco appariscente, Omar comincia a ragionare su se stesso, su cosa vuole veramente nella vita (ahi, quanti di noi se lo chiedono ancora). Nella parte finale, l’autore cerca di tirare delle somme un po’ velocemente, che altrimenti ne uscirebbe un libro di un numero doppio di pagine. Ed ognuno, come rammenta il titolo inglese, va verso la città della sua destinazione finale (e perché stravolgere il titolo con una seppur dotta citazione di Elisabeth Bishop?). L’amante di Adam si trasferisce a Montevideo, lasciando il nostro povero gay a trascinarsi inconcludentemente per gli ultimi anni della sua vita. Caroline riceve in eredità dalla sorella la casa di New York, dove si trasferisce e dove ricomincia a vivere. Deirdre va di università in università con le sue ricerche per poi finire quattro anni dopo anche lei a New York. Omar, lasciata l’antipatica, pensa di tornare dai genitori a Toronto. Però, in un assalto di follia che hanno solo le persone innamorate, decide di tornare in Uruguay, e confessare il suo amore ad Arden. Qui non vi svelo il finale ultimo, su come prosegue la vita di Omar e di Arden, che sono pagine che vanno lette. Anche perché l’autore ce le svela in controluce, così come in controluce si vede molta parte del libro. Le questioni ci sono, vengono poste, ma le soluzioni non sono quasi mai espresse direttamente. Confermo, un piccolo capolavoro dell’arte del dialogo. Di quelli che fanno tornare ad amare i romanzi, le storie ben congeniate, e la capacità di autori, come Cameron, di rendercele e di farcene partecipi. Invito quindi chi non lo avesse ancora fatto a leggerlo, per rinsaldare il nostro comune piacere alla letteratura.
“Sono abbastanza educato da sapere cosa non si deve dire, ma non abbastanza per riuscire a non dirlo.” (39)
“- Io ti amo, lo sai che ti amo. Anzi, ti dico queste cose proprio perché ti amo. – Non sembra amore, sembra rabbia. – Certo che sembra rabbia. È rabbia. Sono arrabbiata ma questo non esclude l’amore. Le due cose possono coesistere.” (54)
“Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo cambiare vita radicalmente. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come ad un romanzo? Io sì.” (187)
“Amo i libri e basta, non ho la passione per l’insegnamento, non amo scrivere e non sono bravo.” (273)
John Fante “Aspetta primavera, Bandini” Einaudi euro 12,50
[A: 04/01/2014– I: 20/11/2014 – T: 22/11/2014] - &&&&  
[tit. or.: Wait until Spring, Bandini ; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 1932]
Non posso non cominciare una nuova trama dedicata John Fante senza prima rivolgere il solito ringraziamento a Luana, che me lo fece conoscere, mi spinse a leggerne ed a cui ripenso ogni volto ho un suo nuovo libro in mano. Questo è il primo libro pubblicato da Fante (anche se il secondo ad essere stato scritto), scritto sulla soglia dei suoi trent’anni, con tutta la rabbia che poteva avere questo figlio di immigrati verso un mondo in cui non aveva trovato ancora la sua strada. Nasce qui la saga degli immigrati di seconda generazione, quelli cioè nati in America, ma ancora immersi fino al collo nella cultura dei paesi di origine. Ed è anche l’inizio ufficiale della saga di Arturo Bandini, l’alter-ego di Fante del quale continuerà a scrivere in tutte le sue opere, e con tutte le sue problematiche. Prima fra tutte il rapporto con il padre, figura ingombrante e con la quale farà pace solo molti anni dopo. Ma c’è anche il rapporto amore-dispetto verso la madre e la sua accettazione cattolica della vita, il rifiuto della rivolta, la sottomissione. In sottordine, ma solo perché presenti, anche se poi si svilupperanno su due filoni diversi (uno in ascesa l’altro in discesa) il rapporto con le donne e quello con la religione. Qui c’è Arturo quattordicenne, che ad ogni malefatta (reale o ipotetica) corre a confessarsi per redimersi. E se anche rimarrà traccia del cattolicesimo, questa andrà scemando. E c’è Arturo che è innamorato di un’altra immigrata, Rosa, alla quale però non riesce a dichiarare il suo amore. Vedremo che poi, crescendo, altro atteggiamento riuscirà ad avere, ed il rapporto con l’altro sesso crescerà sempre più d’importanza. Comunque, qui comincia l’avventura della famiglia Bandini. Siamo nel freddo Colorado, nell’inverno del 1928. C’è il padre Svevo che vive con forte disagio la sua situazione di muratore sommerso dai debiti e costretto all'inattività a causa del rigido clima invernale. C’è la moglie Maria che sopporta pazientemente i tradimenti e le continue assenze da casa del marito, aggrappandosi tenacemente alla sua fede. Ed i tre figli: Arturo, August e Federico. Svevo si rifugia nell'alcol e nel gioco per dimenticare - anche solo per brevi istanti - la sua vita grama. Il padre è agli occhi del quattordicenne Arturo al tempo stesso una figura da ammirare - per il fatto che non si vuole rassegnare alla condizione di "povero immigrato italiano" - e da temere e odiare, perché fa soffrire la madre. Arturo trova anch'egli un modo per evadere dalla realtà casalinga nel suo amore (non corrisposto) per la compagna di classe Rosa e nella passione per il baseball. Il fulcro della storia si scatena quando Svevo, non trovando modo di sbarcare il lunario, si allontana da casa. E comincerà una storia di sesso e soldi con una vedova del luogo, tornando a casa solo per Natale, dove però i suoi regali vengono rifiutati da Arturo, memore della sofferenza della madre. Belle sono le descrizioni dei luoghi e delle persone. Soprattutto i primi, che riecheggiano quelli vissuti dalla famiglia Fante in prima persona, e che, agli occhi di Svevo ricordano le montagne dell’Abruzzo natio. La storia qui è narrata in terza persona, rispetto alla prima che userà altrove. Ma serve a Fante per poter saltare dalle soggettive di Svevo a quelle di Arturo. Che, nonostante le impennate della sua giovinezza, è anche lui un buono. E cercherà il modo (trovandolo) di riportare a casa il padre, prima che la madre prenda una china di malattia che non sarebbe recuperabile. E quel Bandini del titolo si attaglia e si riferisce ad entrambi. Sia il padre sia il figlio, infatti, attendono con speranza la primavera, uno per tornare a lavorare l'altro per tornare a giocare a baseball, entrambi per lasciarsi alle spalle le difficoltà del quotidiano. Certo, la storia lascia sempre, come in tutte quelle di Fante, un po’ di amaro in bocca per le cose non risolte, per le occasioni mancate (qui, per me, soprattutto, la mancata comprensione tra Arturo e Rosa). Ma è l’amaro di cui è poi fatta la vita. E Fante ne descrive un tratto di strada con la sua capacità ed il suo coinvolgimento, che, a libro chiuso, ci fa subito pensare di leggerne uno nuovo. Peccato che poi, li abbia letti quasi tutti.
Graham Greene “Il treno d’Istanbul” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,55 euro)
[A: 20/05/2014– I: 26/11/2014 – T: 28/11/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: Stamboul Train; ling. or.: inglese; pagine: 224; anno 1932]
Non è certo ora che scopriamo le capacità narrative di Graham Greene, anche in questa che è la sua seconda opera narrativa, vergata alla tenera età di 28 anni, con l’intento, come scriverà in una tarda prefazione, di scrivere un romanzo d’intrattenimento, magari per farne un plot da trasferire sullo schermo. In effetti, nel 1934 ne venne tratta una versione cinematografica, che non ebbe particolare fortuna.  Il pur giovane scrittore riesce a gestire con maestria l’intreccio tra i vari personaggi che sono a bordo del treno che fa il viaggio da Ostenda a Istanbul. Anche se sono in viaggio per scopi diversi, la vita di ciascuno dei personaggi centrali riesce a concatenarsi in un blocco fatale. Questi personaggi sono appunto Carleton Myatt, un commerciante ebreo in viaggio per affari che affronta l'antisemitismo di molti dei suoi compagni di viaggio mentre attraversa l’Europa prima della Seconda guerra mondiale, Coral Musker, una ballerina di fila, in viaggio alla ricerca di un nuovo lavoro, il dottor Richard Czinner, medico, insegnante, e leader socialista rivoluzionario, che sta tornando a Belgrado dopo anni di esilio, Mabel Warren, una giornalista, lesbica, che casualmente scorge Czinner e si mette a seguirlo per scriverne articoli, e Josef Grünlich, un ladro, in fuga da Vienna dopo un furto pasticciato finito in omicidio. L’uomo d’affari Myatt è astuto e pratico, anche poco incline alla generosità. Tuttavia offre il suo biglietto di prima classe alla ballerina di fila Coral Musker, ammalata. Coral si sente grata di queste attenzioni e inopinatamente si innamora di Myatt, passando con lui una notte d’amore nel suo scompartimento. Il dottor Czinner, come detto, vuole tornare di nuovo a Belgrado, solo per scoprire che la rivolta socialista di cui aveva avuto sentore ha già avuto luogo e non è riuscita. Decide di tornare comunque per essere processato e fare del processo un gesto politico. Nel frattempo, viene scoperto da Mabel Warren, che viaggia con la suo partner, Janet Pardoe. Per tornare a Belgrado, deve fingere di lasciare il treno a Vienna in modo da seminarla. Quando il treno arriva a Vienna, Warren, pur tenendo d'occhio Czinner, lascia il treno per fare una telefonata ed avvertire la redazione del giornale. E durante la telefonata la sua borsa viene rubata da Josef Grünlich, che ha appena ucciso un uomo durante una rapina fallita. Grünlich poi prontamente sale sul treno con i soldi di Mabel, che, incazzata, e preoccupata anche di perdere Pardoe, promette di ottenere la storia di Czinner con ogni mezzo. Anche se rimane appiedata e dovrà mendicare un aiuto da Myatt per cercare di risolvere la questione. Intanto, a Subotica, il treno viene fermato e Czinner viene arrestato. Con lui sono fermati anche Grünlich, per il possesso di un revolver, e Coral che si trova casualmente con Czinner al momento dell’arresto. Una corte marziale viene prontamente messa in piedi e Czinner fa un forte discorso politico, anche se non vi è alcun vero pubblico presente. Tra l’indifferenza dei giudici è rapidamente condannato a morte. I tre prigionieri sono tenuti in una sala d'attesa per la notte prima dell’esecuzione. Nel corso della notte capiscono che Myatt è tornato con una macchina per salvare Coral. Il furbo Grünlich sfonda la porta e cerca di far scappare tutti e tre, ma solo lui ci riesce. Czinner è ferito e Musker lo nasconde in un fienile, dove Czinner muore poco dopo. Quando arriva Mabel Warren per non perdere la sua storia, decide di prendere sotto la sua protezione Coral e di tornare a Vienna con lei. Ma a seguito di tutte le emozioni Coral, in macchina con Mabel ha un  attacco di cuore, e non sappiamo quale sarà il suo destino. L'Orient Express arriva finalmente a Istanbul, e Myatt, Pardoe e gli altri scendono. Myatt si rende conto che Janet, l’ex-amante di Mabel, è la nipote di Stein, un uomo d'affari suo rivale ma anche potenziale partner commerciale. La storia si conclude con Myatt che, dimenticando Coral, pensa di sposare Pardoe, che ha già dimenticato Mabel, blindando così il contratto con Stein. Ci sono anche altri cammei nel libro (il personaggio di uno scrittore, ed altri caratteristi minori). Tuttavia quel che rimane è il sapiente intreccio che riesce a gestire il giovane scrittore. Ma anche un generale senso di disagio, che, benché attribuito al clima europeo di quegli anni ed alla depressione economica inglese, in parte riflette anche la situazione finanziaria dell'autore al tempo della stesura del romanzo, che ancora non riusciva a vivere delle sue fatiche. Il tema di fondo del romanzo è comunque basato sulla fedeltà: il dovere verso gli altri rispetto al rispetto di sé. Greene si domanda se la fedeltà verso gli altri paga, incentrando i vari personaggi su possibili pieghe di questa fedeltà. E non è molto positivo in queste scelte. Chi rimane fedele (Czinner, Coral) muore, chi tradisce (Myatt, Janet) sembra uscirne vincente. Ma a che prezzo? Insomma, un libro d’intreccio, interessante anche se non sempre ed in tutto riuscito.
“Non si aveva mai niente per niente … non si poteva accettare in dono una pelliccia senza andare a letto con chi l’offriva.” (46)
“La copertina [del libro] era molto logora e sul risguardo figurava l’etichetta di un libro di Charing Cross Road [vedi il libro della Hanff, nota mia].” (58)
Saul Bellow “Il re della pioggia” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 8,08 euro)
[A: 07/03/2014– I: 17/02/2015 – T: 20/02/2015] - & e ½   
[tit. or.: Henderson, the Rain King; ling. or.: inglese; pagine: 329; anno 1959]
Gli avrei dato un solo libricino di gradimento, ma il Nobel del ’76 comunque sa scrivere, anche se questo libro non mi è piaciuto, ed allora mettiamoci anche quel mezzo punto in più. Tuttavia, dico e ribadisco che l’ho trovato un libro veramente dannoso. Dopo averlo (faticosamente) letto ho cercato in giro, tra scritti e rete, di capirne di più, di tirarne fuori lati positivi immaginari. Si dice sia una critica dell’uomo americano, del suo ottimismo, del suo credersi centro del mondo. Ora, può anche essere vero, e sicuramente se guardiamo il libro in prospettiva storica della data di scrittura, c’è sicuramente più di una punta di verità. Ma, e questo l’ho sempre detto e ribadito, un libro che è bello e ben scritto resiste, sempre e comunque, al passar del tempo. Se per esempio un oscuro libro di Winnifred Winston degli anni Trenta è ancora godibile oggi, vuol dire che affronta temi sempre attuali, e li affronta in modo da non essere intaccato dal tempo. Bellow, no. Lui è immerso nella fine degli anni Cinquanta, è immerso nelle paure e nelle fobie americane di quegli anni. E non ne esce. E non penso mi debba piacere solo perché, in ogni caso, una penna in mano la sa ben tenere. A parte il vezzo tutto italiano di mozzare i titoli, per cui sparisce il nome Henderson, e rimane il re della pioggia. Che se tu leggi un bel cognome anglo-sassone davanti ad un titolo così, o ti viene in mente l’autistico Dustin Hoffman oppure pensi che ci sia dell’intrigo lì sotto. Infatti di intrigo si tratta. Il nostro esimio scrittore prende un bell’esempio di maschio americano inutile e gli fa percorrere le oltre trecento pagine senza che un solo avvenimento di quelli che gli capitano scalfisca il muro di inutilità del suo essere, appunto, americano puro e duro. Ma mentre nelle parti in flashback, qualcosa si salva, qualcosa che ci illumina sulla sua storia (e poi ci si ritorna), quando poi si trasferisce in Africa e da inizio alle sue avventure con i selvaggi, beh lì veramente ci si perde e ci si addormenta. Passiamo quindi subito a questa parte, dove, per insipienza, ignoranza o altro, il nostro Eugene Henderson si inoltra nel cuore africano (quasi fosse un novello Livingstone), ed incontra due tribù con le quali fa scontrare il suo essere occidentale. La prima è pacifica, quasi in stato di inedia, che non piove e non c’è acqua. Henderson, facilone occidentale, pensa di liberarli da questa schiavitù, con il risultato che fa saltare in aria l’unica cisterna di acqua disponibile, per cui gli africani non potranno che continuare a morire. La seconda è invece bellicosa, ma descritta con gli occhi di un occidentale che non ha mai visto una tribù africana. Dedita al sesso ed alla morte, a giochi pericolosi ed a reincarnazioni fasulle. Intrisa di giochi di potere che fanno impallidire Amleto ed i suoi sodali. Direi che sembra tutto talmente falso che non si capisce se Bellow ci creda o sia ironico. Fatto sta il nostro Gene viene coinvolto in questa sarabanda, ha lunghi colloqui con l’unica persona che sa d’inglese (il re). Ma questi viene travolto dai giochi di cui sopra (e che tralascio per la loro inutile lungaggine). Il nostro americano “idiota” (nel senso dostoevskiano) dovrà decidere se lasciarsene anche lui coinvolgere, oppure (ma avrebbe dovuto farlo centinaia di pagine prima), tornare alla sua inutile civiltà ed inutile famiglia. Un’inutile storia che è invece quella a ritroso che più apprezziamo. Che Bellow ambienta nei posti a lui noti di città e province americane. Con gli Henderson che sono una stirpe di americani arricchiti, e dove lui, Gene, è l’ultimo rampollo di quella stirpe. Non ha bisogno di lavorare, che vive di rendita. Ma fa di tutto per rappresentare il peggio dell’americanismo. Si sposa senza amore, tradisce (sempre e comunque) le sue donne. Con la prima moglie fa tre (o forse quattro) figli, che non riesce ad allevare (e si meraviglia che uno dei suoi figli si voglia sposare con una immigrata, tanto è razzista dentro). Ha fatto la guerra in Italia, ma non ne ha capito né il senso né le conseguenze. Ha un lungo e tormentato rapporto (lungo per lui, tormentato per lei) con una donna che diventerà la sua seconda moglie. Decide di vivere nella sua casa di campagna allevando maiali. Decide di imparare a suonare il violino come faceva il padre. Si immerge in pensieri che ritiene alti mentre va dal dentista in metropolitana. Si infatua dei dottori missionari in Africa, per cui, quando ne ha la possibilità, molla tutto e attraversa l’Oceano. Per poi avere tutte le storie di cui sopra. Che si leggono come una rottura di cabasisi colossale, senza che ci sia di ritorno un briciolo di piacere, neanche intellettuale. Insomma, ho sempre supposto che i grandi scrittori americani, dopo un po’, mi avrebbero rotto. Ed è così, con Bellow, con Roth, e molti altri. Un caso? Un mio essere legato all’Europa e non capire l’America? Ai postumi (di una sbronza) l’ardua sentenza. Per ora continuerò a leggerne, ed a dire, con forza, che Saul Bellow non mi pace.
“Succede sempre così … combino sempre qualcosa che non va, rovino tutto.” (107)
“Tu non conosci il significato del vero amore, se credi che lo si possa scegliere deliberatamente. Si ama e basta.” (249)
Forse sarebbe stata più adatta alla giornata una puntata al femminile, tra gli auguri a tutte le mamme, e quelli, speciali e doppi, a Sara. Ma non c’erano libri che mi stimolavano. Abbiamo così ripiegato con gli anglofoni, anche perché, tra un mese, se ne potrebbero vedere meglio e da vicino. Per ora raccolgo un sasso e saluto tutti quelli che salutano

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