Per questa settimana un bello
scontro di scrittura. Da un lato lo svizzero (che però scrive in inglese) Alain
de Botton, con una scrittura a mezzo tra il saggio ed il biografico. Dall’altro
il lagunare Andrea Vitali, con due nuove puntate delle sue saghe bellanesi.
Devo dire che lo svizzero vince alla grande. Sarà che Vitali si sta un po’
ripetendo, sarà che sono capitate due storie non del ventennio (dove Vitali si
esprime meglio), ma Alain sfoggia due ganci micidiali. Uno, anche se datato, è
un buon colpo con intriganti considerazioni sull’amore. L’altro è un uppercut
che usa Proust per stenderci al tappeto. Da leggere.
Alain de Botton “Esercizi d’amore” Guanda euro 11
[A: 16/02/2014– I: 02/09/2014 – T: 04/09/2014] - &&&&
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[tit. or.: Essays in love; ling. or.: inglese; pagine: 212;
anno 1993]
Devo
dire che nonostante tutto questo “intellettuale” mi diverte. Certo, non è una
persona che ha dovuto sudare per farsi largo nella vita, anche se ha studiato,
è eclettico, cosmopolita, plurilingue, multinazionalista. Nel senso che nasce
in Svizzera da una famiglia ebrea, dove impara, oltre l’ebreo tradizionale
anche se non ne professa la religione, francese e tedesco. Poi si trasferisce
in Inghilterra, dove si laurea in storia, dove vive e lavora, dove riceve a 30
anni un’eredità del padre di qualcosa come 250 milioni di euro. Aveva già
comunque cominciato a scrivere. Ed ha continuato, senza troppi problemi, anche
se sostiene di mantenersi solo con i diritti d’autore. Ma tant’è. Ne avevo
sempre sentito parlare tra un orecchio e l’altro, ma non avevo avuto
l’occasione di leggerne sino ad ora. In attesa di cimentarmi con un “saggio”
puro (su Proust o sul viaggio vedremo), ho letto e discretamente gradito questo
che nel sottotitolo inglese porta il termine “saggi”, sottolineando che sono
una serie di considerazioni filosofiche e pratiche sull’amore. Per rendere poi
più seguibili le sue lunghe tirate, l’autore le intreccia con la descrizione
della nascita, la crescita e la morte di un amore tra lo scrittore soggettivo
ed una ragazza di nome Chloe. Motivo che consente di collocare il libro fuori
da molti schemi, e che gli estensori italiani etichettano “romanzo”, termine su
cui ho dubbi e riserve. E naturalmente non è neanche un saggio nel senso
classico del termine. Per cui, lo inseriamo nello scatolone degli scrittori
moderni di sesso maschile, e cominciamo a parlarne. Non per farne una trama,
invero, che come “romanzo”, appunto, si riassume in meno di otto righe. Il
pensatore e Chloe si incontrano su di un aereo che torna da Parigi a Londra,
lui comincia ad abbordarla, qualche scaramuccia, ristorantino, prima scopata,
sinfonie varie, cinema, musei, colazioni, non vita in comune ma amore con la
valigia (in fondo sono poco più che ventenni), e quando lui dopo un annetto
comincia a pensare per cicli storici, lei si fredda, e va a vivere in
California con un altro, lui si incazza, pensa al suicidio, passano mesi, ed
alla fine… Ed il resto? Le altre 200 pagine di cosa parlano? Essendo de Botton
essenzialmente un filosofo, parlano di tutto. Ma in sostanza, analizzano,
sminuzzano e commentano ogni piccolo gesto ed accidente della vita quotidiana,
con le armi della filosofia. Mette in campo Platone e Hegel, Marx e Lacan,
Nietzsche e chi più ne ha più ne metta. Ci si interroga su tutto: che cos’è che
mi ha fatto innamorare di lei? Estetica o etica? Perché mi piacciono le sue
imperfezioni? Cosa voleva dire, quando ha detto? Ma non può non piacergli
quella musica. Perché si è irrigidita quando la baciavo? Perché mi ha lasciato?
Cosa ho fatto io di male, io che l’amavo di un amore così totale? Potrei
continuare ora si per decine di righe, ma avrete già capito l’andazzo. Intanto,
se incontro uno che impiega dodici pagine per dire che vuole analizzare i
motivi per cui ha avuto un colpo di fulmine, e si è innamorato, giuro lo
ammazzo. Inoltre, se dopo la prima scopata e la prima notte insieme, facciamo
colazione guardandoci con gli occhi dolci, e lui mi viene a fare una pippa
perché ho solo marmellata di fragole, non solo lo lascio, ma impiegherò i
successivi 12 mesi ad impasticciargli la scrivania con tutte le fragole che
trovo. Il lui della storia è talmente logorroico che alla fine risulta appunto
divertente. Con il suo marxismo amoroso, il terrorismo romantico e via discorrendo.
Ecco, discorrendo. O pensando. O studiando. Sembra che per duecento pagine e
più di un anno il nostro non abbia fatto un passo senza analizzare perché lo
abbia fatto, i motivi, le contromisure. E bla e bla e bla. Dicendo tante cose
che, per come le dice, sono delle banalità colossali (e spesso si è accusato di
questo il nostro tenace scrittore). Ma facciamo anche un passo indietro, e
diamo ad Alain ciò che è di Alain. Se veramente ci si interrogasse su tutte le
motivazioni dei nostri innamoramenti e disamoramenti, troveremo certo una
scrittura che renderebbe una strofa di Baglioni tutto il libro appena letto.
Ricordo ancora un me quindicenne che si disinnamorò di una ormai dimenticata
lei perché non mi piacevano le sue unghie. E di cui, ora, ricordo solo le
unghie, non il nome, né il luogo, né altro. In conclusione, prendiamo il libro
per quello che è, divertiamoci un po’ sopra, ed utilizziamolo per domandarci
qualcosa di noi stessi. Non tanto perché quello o perché quell’altro, che diventa
tutta un’operazione cerebrale infinita. Ma, visto che stiamo amando (o abbiamo
amato o ameremo) godiamocelo, e facciamo in modo di essere noi stessi, in
tutto. Anche quando finì, anche quando ricomincerà. Solo così potremmo
affrontare quello specchio, guardarci negli occhi e sostenere il nostro sguardo, e dicendo a quella faccia: io sono
così, quando sono solo, quando mi innamoro, insomma sempre. E finisco mandando
un mio messaggio personale ad Alain: solo dopo aver imparato a stare da soli,
si riesce ad amare, ad essere amati, ed anche a ritornare soli.
“È sempre di sconosciuti che ci
innamoriamo.” (22)
“Se lei/lui è davvero così speciale [tanto
che io me ne sono innamorato/innamorata] com’è possibile che lei/lui ami
qualcuno come me?” (52)
“Ciò che rende l’erba del vicino più verde e
desiderabile è il fatto che non appartiene a noi.” (60)
“Non esistiamo finché non c’è qualcuno che
ci vede esistere, che non parliamo finché qualcuno non è in grado di
comprendere ciò che diciamo; in sintesi, che non siamo del tutto vivi finché
non siamo amati.” (119)
Andrea Vitali “Zia Antonia sapeva di menta” Garzanti euro 9,90 (in
realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 17/07/2014– I: 22/12/2014 – T: 23/12/2014] - &&
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 147;
anno 2011]
Di
ritorno dal lungo viaggio vietnamita, in attesa dei riposi natalizi, mi dedico
alla rilassante lettura di un altro dei libri dedicati alla saga di Bellano, e
scritti dal magistrale dottore – scrittore Andrea Vitali. Ormai tanto di lui ho
letto e scritto che non ci torno ancora sopra, ricordandovi solo, che, dalla
nascita delle trame, ben 15 suoi libri sono già passati sotto la mia attenta
lente. Qui siamo nelle avventure oserei dire “contemporanee”, anche se direi
che siamo comunque nel 1970, come ci ricorda la vittoria a Sanremo di “Chi non
lavora non fa l’amore”. Non purtroppo nella miglior vena di Vitali, quella
delle storie ambientate nella prima metà del secolo scorso. Anche se ci si
rallegra alla strampalata storia della zia Antonia, quella che mangiava mentine
a ritmi da intossicazione (ed i profumi e gli odori saranno un elemento fondamentale
della storia). Ricoverata nella casa di cura diretta da Suor Speranza, inscena
uno sciopero della fame perché la sua banca, il Credito Orobico, non le aveva
inviato il solito estratto conto mensile. Nessuno riesce a farla parlare, né il
nipote Ernesto, che da sempre l’accudisce, rinunciando ad una sua vita privata,
né il dottore Aloisio Fastelli, quello che cura i malati della casa di riposo.
In tutto questo si inserisce l’altro nipote, Antonio, che mai si era
interessato della zia, preferendo una vita apparentemente senza pensieri,
insieme alla moglie Augusta descritta come “una trentacinquenne ossigenata e
vogliosa, nonché figlia di salumiere”. infatti, intuendo che la zia si avvicina
alla fine naturale, tenta un ravvicinamento, in parte “nascosto”, ma che viene
ben presto rivelato dal suo odore. Da molto tempo, per curarsi i suoi mali, usa
dosi massicce di aglio, tanto da spanderne l’acuto odore intorno a sé, come ben
sappiamo noi che abbiamo spesso visitato la Cina con i suoi mangiatori di
aglio. Solo dopo che entra in scena anche il prevosto, tramite una serie di
finti raggiri, si riesce a far breccia nelle difese di zia Antonia. E benché il
direttore della banca sia restio a confidare i segreti di zia Antonia a
sconosciuti, per favorire l’uscita dallo sciopero della fame che rischia di
portare alla tomba anzitempo la vecchia signora, confida il conto al dottor
Fastelli. La sorpresa è che il conto riporta la non banale cifra di 58 milioni
di lire. Qui le cose ovviamente hanno un’accelerazione istantanea. I due nipoti
sembrano scendere all’arma bianca per risolvere il mistero, ma zia Antonia
pensa bene di dipartirsi dal mondo terreno senza aver risolto il mistero. Il
nipote Antonio, avido e sobillato dall’Augusta, vuole la sua parte, ma un
secondo controllo in banca rileva che sul conto ci sono soltanto 580 mila lire.
Un errore di due zeri. Possibile, con le antiquate procedure bancarie allora
vigenti. I due fratelli non faranno più la pace, ed Ernesto, liquiderà tutte le
sue attività e se ne andrà altrove. Manca però l’ultimo colpo di scena, che
Vitali lascia in mano al dottor Fastelli ed al direttore della Banca. Questi,
trasferito in altra sede per fine mandato, rivela al dottore che non c’è mai
stato errore nei conti della Banca. E che tra i due estratti, il cointestatario
del conto della zia, ha prelevato una somma di 57 milioni e 420 mila lire,
facendo scendere il conto dai 58 milioni del primo estratto alle 580 mila lire
del secondo. Una bella beffa finale che mette in castigo gli avidi e i
prepotenti. Insomma, alla fine Vitali, narrandoci le vicende di questa piccola
umanità, che per la sua minuta essenza sembra una che noi si conosca da sempre,
fa anche una piccola lezione di morale. Però è tutto in tono minore, tutto un
po’ già scritto e scontato. Anche se non ci si aspettava una pronta
intelligenza da parte del cointestatario del conto. Quindi, al solito, ben
scritto, molto scorrevole, con qualche momento delle sue scritture migliori (la
gelosia di Augusta, la severa compostezza di suor Speranza, l’aglio di Antonio,
la gentilezza del dottore), ma alla fine con una resa inferiore alle solite.
Speriamo si torni alle storie dei postali e dei podestà, che meglio riuscivano
in intreccio ed ironia nelle altre storie di Vitali.
Andrea Vitali “Regalo di nozze” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato
a 7,43 euro)
[A: 03/07/2014– I: 23/12/20145 – T: 24/12/2014] - &&
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 151;
anno 2012]
Ed
appena finito un Vitali, eccone un altro che si affaccia alla lettura.
Purtroppo anche questo del periodo degli anni del boom economico italiano, cosa
che, pur rimanendo la scrittura scorrevole e di piacevole lettura, fa del
romanzo un’opera che, a me, è piaciuto meno. Forse anche perché carica di
qualche cosa d’altro, di qualche idea di rimandi (letterari o meno) che rendono
più farraginoso lo svolgersi delle altrove fluenti pagine, pur sempre racchiuse
nella loro stringata brevità. Ecco, quell’accenno finale, extra libris, a
Telemaco, Penelope ed i Proci, quasi che il “regalo di nozze” del titolo
servisse ad esorcizzare le paure di Assunta-Penelope per salvare la vita del
figlio Ercole-Telemaco. Tutto ruota intorno ad una 600 bianca, simbolo iconico
degli anni del boom. Una 600 che Ercole, ora che sta per sposarsi, rivede
casualmente per le strade di Bellano, e che, madeleine proustiana improvvisata,
gli fa fare un salto di venti anni all’indietro. Quando erano vivi sia papà
Amedeo che zio Pinuccio. Molto, quasi tutto, ruota intorno proprio allo zio,
che all’epoca della 600 era un “gagà”, come si diceva all’ora. Ora penseremmo a
lui come uno sciupa-femmine, o altri gentili sinonimi per un ragazzo che voleva
godersi la vita, e spassarsela con tutte le donne che gli giravano intorno. Un
ragazzo dalla parlata svelta e dal fisico atletico ed accattivante. Dopo che
Vitali ci introduce un po’ nel mondo della famiglia Correnti com’era all’epoca
(Ercole bambino, la madre Assunta gioviale, lo zio Pinuccio rubacuori ed il
papà Amedeo, quarantenne giovane di bottega notarile), ci addentriamo nel ricordo
principe di quei giorni, quello che è rimasto ad Ercole per tutti questi anni.
La gita al mare. Amedeo aveva comperato da pochi mesi la FIAT nuova, ma non che
ci si girasse tanto (in fondo Bellano non è tanto grande, e si gira a piedi).
Ma Ercole non ha mai visto il mare, ed inopinatamente zio Pinuccio propone
proprio una gita, che, scavalcando il passo della Futa, vada verso i lidi
liguri. Nel racconto e nel ricordo di Ercole si snodano quindi le strade verso
Milano, poi la salita, il fermarsi per mangiare la teglia di parmigiana
innaffiata dal vino rosso. E quando comincio ad intravedere il mare di lontano,
Ercole, ubriacato da un po’ di vino e da molte curve, si sente male, vomita, ed
allora si torna verso casa. Ma se all’andata guidava Pinuccio, al ritorno guida
Amedeo, che non è abituato, che si stressa ad ogni cambio marcia, ma che, alla
fine, riporta tutti a casa sani e salvi. Questa però è solo la punta
dell’iceberg del romanzo di Vitali, quella che serve a dimostrare come dietro
una cosa ce ne possano essere tante altre e di diversa natura (un po’ come ne
“Il senso della fine” di Barnes). Il giorno dopo, appena arrivato dal notaio, Amedeo
ha un infarto e muore. Assunta, per sbarcare il lunario, decide di accettare di
prendere il posto del marito, e da allora farà la giovane di bottega per il notaio.
Anche Pino decide di mettere la testa a posto, e dopo poco chiede la mano di
Angelica, che sposa, una ragazza del posto, dopo tutte le cavalline che lo zio
aveva corso. Il secondo colpo verrà dalla gita di nozze, per la quale Pinuccio
ed Angelica chiedono in prestito la 600 di Amedeo, che Assunta (pensando sia
macchina sfortunata) decide di regalargli. E macchina sfortunata è, che, da
poco partiti, abbagliati dai fari di un camion, vanno dritti in una curva e
finiscono, annegati, nel lago. Per questo, ora che sta per sposarsi, per
esorcizzare le morti legate alla 600, come regalo di nozze, Assunta darà al
figlio un modellino di 600. Questo sembra rasserenare gli animi, ed induce il
giovane a rivedere tutte le foto della giovinezza. Qui ci si imbatte
nell’ultimo mistero. Una foto di un bimbo con madre inviata dall’Olanda a dieci
anni dalla morte di Pino ed Angelica. Sarà Assunta che scoprirà l’ultimo velo.
Pino aveva preso all’amo una bella olandesina in vacanza sul lago, che si era
innamorata persa di lui, che lo voleva sposare portandoselo in Olanda. Proprio
per sfuggire a quello che riteneva un accalappiamento, Pinuccio propone ed
organizza la gita al mare. Doveva vedersi con la bella e partire con lei.
Invece parte con la 600 per tutta quella gita che rimase epica nella mente di
Ercole, e che ora, svelati i retroscena, assume tutti altri colori. Qui
termina, un po’ con dolenza, il romanzo, che appunto rivela come Vitali, ogni
tanto, abbia voglia di puntare alto. Ma, seppur la storia scorre, la tensione
non tiene. E soprattutto manca tutta quella dose di ironia, che altrove sorregge
ed irrobustisce le sue storie. Non mi è dispiaciuto, ma vorrei tornare a
leggere del Vitali più allegro, più sciolto, forse anche più ironico (seppur
sempre nella correttezza dei suoi assunti). Aspettiamo pazienti.
Alain de Botton “Come Proust può cambiarvi la vita” Guanda euro 10
[A: 01/07/2014– I:
21/02/2015 – T: 24/02/2015] - &&&& e ½
[tit. or.: How Proust Can Change Your Life; ling. or.: inglese; pagine: 194; anno 1997]
Magistrale.
Ed anche se non è un romanzo non posso che tenerlo qui, tra i romanzi ed in compagnia
con l’altro libro dello svizzero di scrittura inglese. Perché pur non essendo
un romanzo si parla di romanzi e di scrittori, o meglio (per la maggior parte)
di un romanzo e di uno scrittore. Inizio quindi con una domanda, sottesa al
testo di de Botton, ma mai esplicitata: “Chi ha letto Alla ricerca del tempo
perduto?” o meglio “Chi ha letto almeno uno dei sette volumi del lavoro di
Proust?”. Io, confesso, pur ritenendomi un degno lettore, non ho letto il
librone, ne ho solo letto il primo libro trasformato in un egregio fumetto
intitolato “All'ombra delle giovani fanciulle in fiore” disegnato da Stèphane
Heuet ed uscito in Italia per le edizioni “Il Grifo”. Fatta questa digressione
torniamo a questo libro, che oltre a svolgere il dettato del testo, è comunque
un grande atto d’amore verso l’autore francese. Amore nel senso che, per chi
come me l’ha solo incrociato in tutti questi anni, ne rivela aspetti, modi e
tanto altro che non mi aspettavo. Intanto la famiglia, che noi si è sempre
pensato solo alla madre, oppressiva ma molto amata. C’è anche un padre, grande
medico della fine dell’Ottocento, che scrisse ottimi trattati per l’Igiene e
per l’Esercizio fisico. E c’è un fratello minore, chirurgo specializzato in
interventi di prostata (tanto che si parlava all’epoca di “proustectomie”),
dotato di una salute di ferro, e che, alla morte di Marcel, curerà l’uscita dei
volumi della Recherche non ancora pubblicati. E poi c’è Marcel! Che esce fuori
da queste pagine come un essere discretamente strambo. Malato o ipocondriaco?
Sicuramente omosessuale, ma senza morbosità. Letterato, pignolo, amicone,
gaudente (ma con particolarità tutte personali). Lettore attento di tutto
(anche di giornali). Per fare esempi di queste sue “stranezze” diciamo che
amava ricevere gente, ma odiava farlo in casa sua, per cui invitava tutti al
Ritz, dove offriva cene e chiacchierate. Legge un fatto di cronaca di 10 righe,
e scrive su questo un “racconto” di pagine e pagine, per dimostrare come interpretare
l’uccisione della madre da parte di un soggetto disturbato, tirando in ballo
modelli classici greci e molto altro. Benché cagionevole, lo portavano (e si
divertiva) ai balli (tant’è che proprio alla fine di uno di questi, tornando
sotto la pioggia, si prende la polmonite che lo porterà alla tomba). Una sera
si trova a teatro con Joyce, e l’unico scambio che hanno i due è “Hai letto il
mio libro (Ulysse dice Joyce, Swann dice Proust)” ed entrambi rispondono “No” e
si salutano. Ma questa non è una biografia per quadri, non è un pastiche che
usa personaggi storici per farne ironia, o rifarne il verso. È realmente un
atto d’amore e di conoscenza, che impiega questi, ed altre modalità proustiane,
per dare “consigli di vita”. Che, a leggere bene la vita e l’opera di Marcel,
molto possiamo trarne per riflettere sulla nostra vita e sui nostri comportamenti.
Tra i tanti possibili spunti (che comunque lascio a voi lettori, ingiungendovi
di leggere assolutamente questo libro), ne commento due che mi sembrano
emergere con forza dalle mille proposte di de Botton. La prima riguarda
l’atteggiamento verso la vita. La seconda l’atteggiamento verso i libri e gli
scrittori. Un suo giovane amico si lamentava della miseria della propria vita,
e, per tirarsi su, andava al Louvre a vedere i maestosi palazzi del Veronese o
le scene principesche di Van Dyck. A lui Proust suggerisce allora di fare due
passi in più nel museo ed andare a vedere le scene di vita quotidiana di
Chardin. Avrebbe così apprezzato il pane sulla tavola, ed altre quotidianerie
ben dipinte. Non è vedendo belle cose, ci dice Proust, che apprezziamo la vita
(anche se possono aiutare), ma vedendole con occhi nostri. Come non è che
andando a vedere i luoghi proustiani che ci sentiamo più vicini a lui. Ma
sempre imparando a vedere. La Recherche non ci serve come “mappa” per seguire i
luoghi e i personaggi che rappresenta, ma per capire, leggendone, come guardare
le cose che ci stanno intorno, le cose che viviamo. Non è che, poiché Proust
non ha mai descritto una pompa di benzina, che non ne possiamo apprezzare le
linee e le forme che si stagliano nella campagna provenzale. Il secondo
elemento, che a me poi tocca da vicino, è il libro. Il libro invece deve essere
letto, ma non deve divenire un feticcio. Ed il suo autore non è “intoccabile”.
Può saper molto, ma non tutto. Il libro serve da spunto, per partire da lì per
superarlo. Un inciso, prima di finire. A partire dalla Recherche sono stati
scritti molti libri con le ricette dei cibi descritti. Potremmo fare cene con
“La cucina ritrovata” (così come ho fatto in gioventù con Maigret e Nero
Wolfe), ma la sua “madeleine” non sarà mai la nostra, come il “mio” cioccolato
sarà sempre e solo mio. Alain de Botton è maestro nel condurci per mano,
attraverso scritti e vicissitudini di Proust, per farci appunto concludere arrivando
a capire come Proust affrontava la vita. E, non per affrontarla come
Proust, ma per affrontarla avendo appreso la lezione di Proust. Insomma, un
pastiche ben scritto, con molti spunti di pensiero e qualche ironia che non
guasta (e tanta, tanta conoscenza che fa piacere condividere).
“Ogni lettore, quando legge, è il lettore di
se stesso. L’opera è solo uno strumento ottico che lo scrittore offre al
lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe
visto in se stesso.” (30)
“Potrebbe essere un motto proustiano: Non
andate troppo in fretta, … [così] che il mondo diventi più interessante nel
raccontarlo.” (52)
“C’è qualcosa la cui capacità di esasperarci
non sarà mai uguagliata da nessun essere umano: ed è un pianoforte [e chi vi si
esercita].” (67)
“Certe piccole bugie servono solo a
confermare il nostro affetto nei confronti di qualcuno che forse ne avrebbe
dubitato.” (127)
“L’amore? Lo faccio spesso, ma non ne parlo
mai.” (170)
“Per rendere omaggio a Proust dobbiamo cominciare
a guardare il nostro mondo attraverso i suoi occhi, e non guardare il suo mondo
attraverso i nostri occhi.” (193)
Finisce anche questo mese di
maggio, di solito dedicato ai buoni proponimenti. Speriamo che sia e che
continui. Anche se quest’anno le letture vanno a rilento, forse se ne acquista
in migliore qualità, anche se mi aspettano valanghe di classici polizieschi con
Agatha e Georges. Per ora si continua la programmazione dei prossimi quattro
mesi.
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