Intorno al mondo o intorno a se
stessi? E quanto l’uno e l’altro sono intercambiabili? Oggi abbiamo un
quartetto eterogeneo, ma con una resa superiore alla media (a parte, e mi dispiace,
il me assai caro Baricco). Un libro antico di Piero Chiara piaciuto più di
quanto mi aspettassi. La sorpresa di Diego Marani che invito caldamente a
leggere. Una buona resa di Paolo Di Paolo, dopo un suo libro che non mi è piaciuto. Ed un Baricco
interessante, ma da cui mi aspettavo di più (in attesa di capire se voglio poi
leggere il suo ultimo parto).
Piero Chiara “Vedrò Singapore?” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato
a 9 euro)
[A: 20/05/2014– I: 04/11/2014 – T: 06/11/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 198;
anno 1981]
Mai
facile il mio rapporto con lo scrittore Piero Chiara. Certo per problemi di mie
“follie giovanili” e non certo imputabili all'autore. Ero, infatti, ancora
sotto le ali genitoriali e mi capitò tra le mani, pescato nella già enorme
libreria familiare, un libro del nostro (“Il piatto piange”). Iniziato a
leggere, portato avanti con sentimenti alterni, per problemi a me tuttora
ignoti, purtroppo, mancante di un certo numero di pagine del finale (se non
ricordo male erano le ultime 28 pagine). Direte voi: e allora? Niente, cestinai
il libro e decisi (incolpevole l’autore) che non era un autore che avrei letto
o riletto spesso. Misteri della gioventù. Ora, sotto la sempre solerte spinta
libropatica, tiro fuori questo veloce scritto. L’ultimo pubblicato in vita, anche
se tra i primi ad essere concepito, e poi pensato, corretto e rivisto per anni
e anni. Leggendone, e ricordando quella prima lettura, vedo facilmente una
delle radici da cui è venuto fuori quell'Andrea Vitali che di tanti libri ha
riempito i miei scaffali. Con tutti gli ovvi distinguo del caso, ma è lì, nella
piccola provincia italiana che nascono momenti di letteratura (e non arrischio
di certo giudizi se sia alta, bassa o così così) di sicura presa verso un
lettore che non sia distratto. Certo, questo libro di Chiara è più filologico e
biografico dei veloci appunti del medico di Bellano. E Chiara, inoltre, ha di
certo un umorismo più datato e se vogliamo meno scoppiettante. Pur tuttavia, è
lo scrittore luinese che traccia la strada. Quella della descrizione minuta dei
caratteri, quella dei caratteri che riempiono i giorni e le notti dei più
sperduti punti italici, quella dell’ironia sulla sovraesposizione che nel
fascismo facevano di sé personaggi tronfi e forti solo del loro grado e non
della loro esistenza. Libro in gran parte biografico, ripercorre l’anno 1932
quando il giovane Piero, dopo mille lavori saltuari, arriva 118° su 119 posti
per la carica di scrivano di atti giudiziari. Essendo quindi uno degli ultimi,
dopo un periodo avventizio a Pontebba, per decreto del commissario Mordace, si
ritrova spedito nella sperduta località di Aidussina, ora in Slovenia. Qui il
ventenne avventizio s’immerge, e ci fa vivere a pieno, la vita sperduta di una
cittadina quasi sospesa in un limbo fuori dal mondo. La pensione dove trova
alloggio, con i suoi pubblici funzionari che lì si ritrovano a cena. Il bar –
trattoria dove si gioca a biliardo, ed a carte. E l’ufficio, con il pretore
Merdicchione e il cancelliere Semitocolo. Da un lato conosciamo i bei tipi
della pensione e del bar, ognuno con una storia alle spalle, ognuno con piccole
o grandi cose da nascondere. O da raccontare, dopo un bel bicchiere di vino. Ci
sono anche due ragazze in ufficio. C’è anche l’ufficio del catasto, che,
essendo eredità dell’Impero Asburgico, è un catasto tavolare, cui solo il
geometra Zciuka sa maneggiare. Piccole storielle passano, il nostro cerca di
entrare nelle grazie delle due ragazze con poco successo. Entrerà invece nel
giro del pretore che, per passare le giornate, organizza un tavolo di poker in
ufficio. Il tutto precipita quando il solito Mordace chiede al pretore di
cambiare quel nome poco onorevole. Al rifiuto di questi, il fascistone comincia
una subdola caccia che porterà a scoprire il pokerino pomeridiano, la poco
chiara carriera del pretore, nonché qualche elemento oscuro anche del geometra.
Immediato sarà il trasferimento di Chiara dalla Slovenia a Cividale nel Friuli.
Dove si ripeterà molto, anche se con cambiamenti significativi. Piero inizia
una duratura relazione con un’insegnante di un vicino paese che lo viene a
trovare (e mi scuso l’eufemismo) tutti i sabati in ufficio. Ma il giovane è
preso dalla bella cassiera Brunilde detta Ilde, che però sembra inarrivabile.
Sarà sempre Mordace a sconvolgere i piani del nostro, irrompendo in ufficio nel
corso di un convegno amoroso. Per non essere cacciato, Piero si finge
disturbato, viene mandato in ospedale dove conosce un maresciallo con cui
simpatizza, ma che gli rivela una notizia “bomba”: Ilde ha chiesto il libretto
da “prostituta”, per fuggire da Cividale. Bella la ricostruzione storica delle
case di chiuse e delle donne avviate al meretricio. Piero segue a Trieste la
bella Ilde, cercando di convincerla al matrimonio, che lei, realisticamente,
rifiuta. E sarà nel casino dove lei esercita che avverrà l’ultimo fattaccio. Si
presenta despota ed insolente il solito Mordace. Il giovane sbrocca, e gli da
un calcio nelle parti basse. Viene anche arrestato, e per sfuggire ad una
probabile condanna, accetterà l’aiuto di un amico triestino per imbarcarsi come
scrivano su di una nave che dirige la propria rotta verso Oriente. Riuscirà il
nostro a vedere Singapore? Non è importante e non ve lo dico. Seppur con un po’
di lentezza, è invece importante la concatenazione di eventi che si susseguono
lungo tutto il libro. E la presenza e la descrizione di tutti questi personaggi
che in un solo anno il nostro incontra nella pur bella provincia italiana. Alla
fine, mi ha rimandato alla memoria quel garbato libro in francese letto non
molto tempo fa (“Le front russe”), soprattutto per quelle atmosfere
ministeriali delle preture di provincia, con pretori ed altri pubblici
ufficiali alla ricerca di un’auto affermazione del proprio altrimenti inutile
ruolo. Insomma, ho recuperato una bella scrittura, anche se in un libro
“normale” di lettura e di gradimento.
“Un uomo può vivere più vite. Io ne ho
vissute molte, buone e meno buone. Ora ne vivo una nuova che sarà forse
l’ultima, perché ho cinquantotto anni.” (67)
“Non è il primo amore che conta, ma l’ultimo,
quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a morire.” (75)
“Alla luce di una lampada da tavolo,
leggeva. Cosa mai poteva interessarlo alle soglie della morte? Leggeva,
imparava ancora, a novantanni.” (165)
Diego Marani “Nuova grammatica finlandese” Bompiani s.p. (regalo di
compleanno di Sara e Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 17/11/2014 – T: 19/11/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 205;
anno 2000]
Non credo ci sia bisogno di
alcuna cartomanzia per immaginare che questo è un libro da collocare alla
grande nel prontuario dedicato alle crisi d’identità. Ma di questo se ne
parlerà più avanti, che intanto questa trama è un ringraziamento alla mia amica
Cecilia, che non so se e come c’entri con Marani, ma che a più ripresa è
entrata nei miei pensieri, in quanto una buona parte del romanzo ha sullo
sfondo il “Kalevala”. E come non ricordarne e sottolinearne l’edizione da lei e
da Roberto Arduini curata nel 2007? Inoltre, come dice il titolo (e poi vi torneremo
sopra), è anche un inno d’amore verso una lingua poco conosciuta, forse tra le
meno diffuse al mondo: il finlandese (pare sia parlata da 6 milioni di persone
in tutto, collocandosi intorno al 120 posto delle lingue parlate, tant'è che
l’italiano si colloca al 20°). Una lingua che posso dire conosco veramente
poco, che mi ricordo solo (da alcune reminiscenze linguistiche) essere di un
ceppo detto “uralo-altaico”, che comprende lingue di una difficoltà enorme di
comprensione e scritture (tipo estone e ungherese). Che tuttavia, stimolato da Marani,
ho cominciato a leggerne in rete, dove ho scoperto una cosa mostruosa: è una
lingua che ha quindici casi diversi, dal tranquillo nominativo all'inquietante
abessivo (e poi ci stupiamo che in Europa i finlandesi siano quelli che
maggiormente sanno parlare in latino!), che ha quattro forme dell’infinito, ed
anche un caso chiamato “plusquamperfetto negativo”: una bomba linguistica! Finisco
soltanto con la lingua dandovi un altro messaggio preoccupato: è una lingua
agglutinante! E siccome sarete curiosi alla fine ve lo spigo. Ma torniamo a
Marani ed a questo libro con alti e bassi, con momenti forse poco chiari, che
vengono lasciati nell'ombra usando lo schema del passato: l’azione (anche se ce
n’è poca) si svolge alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi qualcosa
può essere lasciato al mistero del passato. La storia, in realtà, è di una
semplicità disarmante. Un medico finlandese, fuggito in Germania dopo
l’uccisione del padre per motivi politici, in servizio presso una nave tedesca,
trova una persona in coma nelle banchine del porto di Trieste. Un marinaio, con
una divisa con su scritto un nome (Sampo Karjalainen) ed un fazzoletto con le
iniziali SK. Uscito dal coma Sampo scopre di aver perso la cognizione della
parola. Il medico, trovando lontano da casa un lembo della sua patria perduta,
comincia a curarlo ed a insegnargli nuovamente la lingua materna. Quando
finalmente sta meglio, il dottore lo rispedisce ad Helsinki, in un ospedale
dove dovrebbe trovarsi uno psicologo logopedista. Che invece è scomparso (forse
morto in guerra), e dove Sampo trova un’infermiera, Ilma, che lo aiuta e lo
presenta ad un pastore luterano, padre Koskela. Andiamo così avanti, nel buio
della memoria di Sampo che ogni giorno studia con il prete, che riempie i suoi
quaderni di scritte e di grammatiche, che gira per la città in preda alla
guerra ed alla tenaglia tra Germania e Russia (in fondo San Pietroburgo è
proprio lì a due passi). Le parole del pastore, e le piccole agnizioni di Sampo
ad ogni nuova parola che entra nel suo vocabolario, ci fanno da culla nel
capire la genesi di una lingua, ed il suo radicarsi in una regione altra dalle
sue origini (come detto sopra, la radice è addirittura mongola). Ma il pastore
fa anche altro: usa il grande poema epico finlandese, il Kalevala, per istruire
Sampo, ma anche per addentrarsi nella spiegazione dell’anima di questa nazione.
Qui, ovviamente, tornano i ringraziamenti di cui all'inizio, per averne capito
un po’ di più. Sampo si rende a poco a poco più indipendente, e con piacere lo
seguiamo per l’Esplanadi della capitale, andando verso il porto e la chiesa ortodossa
in punta (era l’estate del 2012, ma è come se ci camminassi ieri pomeriggio).
Purtroppo il pastore, preso da furori strani, decide che deve tornare sul
fronte a combattere, come i suoi eroi dell’epopea, abbandonando il povero
Sampo. Ilma proverà a rompere la corazza sperando che forse l’amore possa far
breccia (e belle son quelle pagine sull'albero dei ricordi). Ma Sampo è troppo
chiuso nella ricerca della propria identità. Che questa lingua fa breccia nel
cervello, ma non arriva al cuore. Che cerca di capire origini e possibili
legami, ma siamo in tempi di guerra e tutto è instabile. Sampo, pur sapendo che
dovrebbe e potrebbe dire una parola ad Ilma, rimane muto e solingo. A bere la Koskenkorva
(una vodka finlandese allungata con acqua e zucchero), a pensare al pastore ed
al Kalevala. Finché, sul porto di Helsinki, vede sfilare una nave da guerra
appena rimessa a nuovo dai cantieri navali: il Sampo Karjalainen. E capisce che
quella divisa, quelle iniziali sono un’identità illusoria, sono della nave e
lui chissà chi sarà. Decide allora di partire anche lui per il fronte, dove
morirà per una patria che non saprà mai se sia o meno la sua. Noi invece lo
sappiamo, che il buon dottore, in base a tutta una serie di informazioni che
gli arriveranno con ritardo, ricostruirà la vera storia del personaggio, come nasce,
come va in coma, e tutto il resto. Storia che v’invito a scoprire leggendone e
non aspettando che io ve ne narri. A me rimane, con tutti gli alti (tanti) e
bassi (pochi) di cui sopra, una storia sulla ricerca di sé, sul limite che ci
si può porre in questa ricerca. Vivendo in una terra ostile, o comunque con una
lingua madre diversa, come fa il nostro Marani da anni (da sempre quasi)
espatriato a Bruxelles. Dove, guarda caso, si occupa di multilinguismo. Bravo,
ed auguri per i suoi lavori, mentre io mi rimetto alla ricerca di un suo libro
che vorrei prima o poi trovare (“Come ho imparato le lingue”).
“È più facile nascere che morire. Forse per la morbosa curiosità che
ogni uomo ha, anche nel dolore, di vedere come va a finire.” (42)
“Le forme di una lingua si ripercuotono inevitabilmente su chi la
parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le abitudini, il cibo.” (59)
“L’abessivo è la declinazione delle cose che mancano: “toivotta”, senza
speranza! È bellissimo … perché in generale sono più le cose che ci mancano di
quelle che abbiamo.” (90)
“Passiamo la vita sfiorando i nostri simili senza mai veramente
conoscerli.” (152)
“Ancora una volta, il mio nome era tutto quello che avevo.” (174)
Ed ecco, come promesso, la genesi
della forma agglutinante che ci permette di capire il significato della parola
“kirjassanikin”:
kirja: il libro
kirjani: il mio libro
kirjassa: nel libro
kirjassani: nel mio libro
kirjassanikin: anche nel mio libro
Da paura!
Alessandro Baricco “Smith & Wesson” Feltrinelli euro 10 (in realtà,
scontato a 7,50 euro)
[A: 01/11/2014 – I: 08/12/2014 – T: 10/12/2014] - &&
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 108;
anno 2014]
Non
potevo mancare di comprare e leggere (abbastanza) in fretta un nuovo Baricco.
Che nonostante tutte le critiche che gli fa la gente a me risulta (generalmente)
leggibile e (discretamente) foriero di idee da riflettere. Ovviamente, il libro
l’ho comperato a scatola chiusa, e l’ho aperto solo in Vietnam (l’avevo portato
in quanto non occupa molto spazio così da non appesantire il viaggio). La prima
sorpresa mi ha leggermente frenato la lettura. È un testo teatrale, e non ero
preparato alla lettura. Ma poi, si è eraclitamente andati avanti, e seppur non
raggiunge vette stratosferiche, ci porta buoni elementi della lettura ultima degli
scritti di Baricco. Dove appunto ci sono elementi che si intrecciano, giochi
verbali, disvelamenti ed agnizioni, e, qua e là, qualche battuta che fa
riflettere. In questo intreccio di voci, ci sono tre personaggi che occupano la
scena per dare il senso a quello che Baricco scrive. I due maschi sono “i comici”,
quelli che portano riso e situazioni estreme. La ragazza, Rachel, è la
speranza, l’iniziativa, la voglia di fare, e l’impossibilità di realizzare. Per
i due comici, Baricco si avvale di alcune trovate un po’ terra terra, che forse
neanche a me venivano in mente così piatte. I due si chiamano Smith &
Wesson, ovviamente per riecheggiare la fabbrica di armi fondata nel 1852 da
Horace Smith e Daniel Wesson. Ma per soprammercato, i due hanno per nomi di
battesimo Tom & Jerry (per riecheggiare la rivalità dei due cartoon Tom Cat
e Jerry Mouse), ed in effetti faranno finta di bisticciare per tutta la pièce,
fatto salva fare la pace (o quasi) nel finale, ed andare in giro per il Messico
come baracchini da circo, insieme a due muli (che si chiamano Isotta e
Fraschini…). L’azione (o i dialoghi) si svolgono nel 1902, ai piedi delle
cascate del Niagara. Dove Smith si è inventato meteorologo e raccoglie su un
taccuino i dati sul tempo in base ai ricordi della gente ipotizzando di poter
prevedere le condizioni meteorologiche future dalle statistiche che via via
annota. Wesson invece è un pescatore, nel senso che pesca i corpi di chi si
suicida gettandosi nelle cascate. Dopo averci dato il tempo di entrare in
sintonia con i due, Baricco introduce Rachel una giovanissima giornalista che
sogna di diventare famosa e di poter scrivere un articolo sensazionale tutto
suo. Ed ipotizza un “trastolo” con i due: Smith, di capace inventiva, deve immaginare
una botte con la quale lei può lanciarsi dalle cascate, ed essere recuperata da
Wesson prima di essere distrutta dalla furia delle onde. Qui l’idea di fondo, ripresa
e sottolineata dalla frase che riporto. Avere un’idea, non arrendersi, cercare
di portarla avanti. Ci sono tutte le premesse perché ciò riesca e bene. Peccato
che Smith & Wesson non facciano i conti con un problema che ha Rachel,
quello dei luoghi chiusi. Ed ecco qui lo scontro: per poter seguire i propri
sogni bisogna fare qualcosa che vada al di là di un qualche nostro limite. E
solo superando quel limite ci sarà la nostra “felicità”, qualunque significato
si voglia dare alla parola. La nostra scommessa è capire se Rachel vincerà se
stessa o se saranno le sue paure a vincerla. Ed è questa anche la scommessa che
ci propone Baricco. Dando la sua soluzione, con un intervento “saggio” della
signora Higgins, personaggio introdotto al solo scopo di poter dare una morale
alla storia, senza metterla in bocca ai tre di sopra. Tuttavia, il tentativo
non riesce così bene come fu per Novecento, rimangono zone poco sviluppate,
rimangono tentativi di ironia che non vanno a fondo. Insomma, è sempre uno
scritto di Baricco, che quindi si può leggere in una moltitudine di modi
diversi, ci si può girare intorno, e, come detto sopra, si troverà sempre una
frase, un momento di riflessione. Solo nel complesso l’ho trovato inferiore
alle sue ultime uscite ed alle mie attese. Credo che, da quando ha rischiato di
diventare un personaggio troppo pubblico, anche alcuni suoi ruscelli di
pensiero si vadano essiccando. comunque è sempre Baricco, e comunque continuerò
a leggere i suoi scritti (credo).
“Sono qui perché … non desidero rinunciare
ai miei sogni. Son qui perché se mi arrendo questa volta mi arrenderò tutta la
vita.” (37)
Paolo Di Paolo “Raccontami la notte in cui sono nato” Feltrinelli euro
7 (in realtà, scontato a 5,25 euro)
[A: 17/07/2014– I: 14/12/2014 – T: 16/12/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109;
anno 2008]
Un
libro che stava da anni in uno dei tanti elenchi di libri che avrei dovuto,
prima o poi, acquistare. E non ricordandomi dove ne avevo letto o visto,
l’avevo classificato come “Altri Suggerimenti”. Altri da che? Poi se ne trova
una ristampa super-economica, ed eccoci qui a leggere un altro libro di Paolo
(o di Di Paolo o, ancora più ridondante, di Paolo Di Paolo). Dopo aver amato
“Dove eravate tutti” e non aver gradito “Mandami tanta vita”, questo, mi
riconcilia con lo scrittore di storie, e con le idee alla base del testo. Il
racconto lungo, in sé, è difficilmente narrabile, tutto fatto di sensazioni e
di agnizioni. Possiamo narrarne il contorno, e qualche elemento di meta-testo
che viene dalla partecipata post-fazione dell’autore a questa riedizione del
suo primo romanzo. C’è l’idea, che all'autore viene leggendo la folle proposta
di un giovane australiano che su eBay mette all'asta per seimila dollari la
propria vita. C’è il nome del protagonista, che l’autore chiama Lucien come il
protagonista di “Illusioni perdute” di Balzac. C’è un ricordo finale su Julian
Green, su cui, appunto, tornerò alla fine. Intanto, c’è Lucien, ventiquattro
anni, gravitante in una Roma senz'anima, una cerchia di amici ed un lavoro che
non lo soddisfano, una serie di sogni per il futuro che non sa inseguire o
raggiungere, ritenendosi stretto nella vita che gli si sta cucendo addosso.
Alla ricerca di un libro per bambini illustrato da Richard Scarry, incontra
Filippo, studente fuori sede a Padova, fumettista senza grandi prospettive e
senza tanti soldi. Nasce qui la proposta folle di scambiarsi le proprie vite.
Anzi, di introdurre a poco a poco Filippo nella propria, per poi sparire ed
inseguire i propri sogni, libero da quelli che sente legacci inestricabili.
Tutto il resto, in soggettiva su Lucien, è un seguire il modo con cui Filippo
si introduce nella sua vita e il modo in cui Lucien non si libera di sé stesso.
Filippo racconta come si va impadronendo dei luoghi di Lucien. E Lucien, da
lontano, si accorge di non avere dato il prezzo a troppe cose. A certe mattine
di domenica o a quella precisa neve arrivata all'improvviso. A quella storia
d'amore, che poteva essere e non è stata, a quella particolare rinuncia.
Filippo entra con i suoi piedi di piombo e quasi “sbattendoci su”, nella vita
di Lucien, nella sua famiglia, col loro salotto, la loro cucina, le loro
abitudini. Nella sua camera, con il suo letto e con i suoi libri. Ed entra in
sintonia anche gli amici, Teresa, Manolo, Rossella, Mary. Nel filo del tempo,
Filippo e Lucien, comunque, continuano a scambiarsi idee e sensazioni. E Lucien
lo verrà a sapere da Filippo che Teresa si è innamorata di un pasticcere
portoghese, che Manolo ha avuto una mezza storia con Rossella e che a Mary
piace raccontare storie. Il punto difficile, cartina di tornasole delle
reciproche sensazioni, sarà poi il rapporto con la Signorina F., di cui Lucien
era blandamente innamorato, senza riuscire a comunicarlo, e che invece inizierà
una storia seria con Filippo, dato che avranno un bambino. Qui, il cerchio di Lucien
si chiude (anche se nel frattempo lo seguiamo nel suo girovagare, e nelle belle
immagini che mi riporta dal suo passaggio a New York), che la maternità della
Signorina F. lo porta a ripensare a quella donna che lo ha messo in viaggio nel
mondo, una mattina di giugno ed alla quale non ha mai chiesto come fosse la
notte in cui è nato (rendendo un dovuto omaggio al bel capitolo del bel libro
“Una madre lo sa” di Concita de Gregorio). E leggendo quest’ultimo capitolo,
poco mi leva dalla testa che in realtà sia il primo pezzo del racconto che
l’autore abbia scritto, costruendo “a ritroso” il resto del libro. Che si legge
bene, con una freschezza di parole e di immagini. E come pochi altri, appunto,
mi rimane nelle sensazioni e non negli accadimenti, ed è una cosa non usuale.
Ritorno infine all'ultima punto citato all'inizio, quel ringraziamento a
posteriori a Julien Green, che scrisse (e Di Paolo confessa di averlo letto
solo dopo) “Se io fossi te”, una specie di grande calderone in cui questo libro
poteva starci. Come poteva starci, e qui son io che do un suggerimento
all'autore, quel recente libro di Lorenzo Licalzi di cui ho parlato non molto
tempo fa “Un lungo fortissimo abbraccio”, dove anche lì si cerca di riportare
su carta le sensazioni che si possono provare sia essendo un altro, sia le sensazioni
che gli altri provano verso un te che sei te ma sei diverso. Buona lettura
(tanto è breve).
“Allora capivo che la memoria non si
condivide, ricordiamo storie uguali ma in modo diverso, perdiamo ciò che altri
conservano: anche di noi.” (45)
“Ecco come le cose cambiano, come cambiano
le persone … i cambiamenti sono tutto: tu vivi perché cambi.” (60)
Credo sia un buon invito alla
lettura. Intanto io, messi in ordine i carteggi peruviani, mi accingo alla
programmazione di un nuovo viaggio, dove si torna, e dopo tanti anni, nelle
terre nord americane. Sono molto incuriosito da cosa si andrà a trovare.
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