Tuttavia non con i maestri del
genere. Niente Cussler, niente ancora su Wilburn Smith (prima o poi…). Una
puntata di basso calibro, e non per gli autori presenti. C’è l’italiano
Colitto, non al meglio lontano dalla serie di Mondino. C’è la controfigura
spagnola di Jean Reno, il pur bravo Pérez-Reverte con la prima puntata del suo
capitano. C’è (ed è il miglior del lotto) il campione dei cowboy americani,
quello dall’improbabile nome di Louis L’Amour. Ci sarebbe Stephen King, ma per
quanto abbia amato Kubrick, il suo “Shining” mi ha profondamente deluso.
Alfredo Colitto “La porta del Paradiso” Piemme euro 9,90
[A: 19/06/2013– I: 28/08/2014 – T: 01/09/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 456;
anno 2013]
Mi
aspettavo qualcosa di meglio dall’autore che mi aveva preso nella sua saga
trecentesca sul dottore bolognese Mondino de’ Liuzzi e sulle sue avventure tra
lo storico ed il giallo. Qui invece, pur rimanendo tracce della storia, siamo
sul versante avventura. Di quella più alla Ken Follett per intenderci che alla
Clive Cussler. Non nego che lo scritto scorre, e le sue più di quattrocento
pagine si lasciano leggere con velocità. Ma con altrettanta velocità si
lasciano alle spalle. Non è che rimane molto, essendo la trama abbastanza
scontata (buoni in rovina, sfortunati, con un happy end finale che è di
prammatica). Tuttavia la ricostruzione storica ed ambientale in cui si svolge
il romanzo (tra Napoli ed il Messico) è accurata e priva di sbavature. Il
romanzo copre 15 anni, dal 1635 al 1650 (anzi al Natale 1649, quando comincia
il tredicesimo Anno Santo con l’apertura della Porta del Paradiso in San
Pietro, passando la quale vengono rimessi tutti i peccati commessi, e non
saranno pochi in tutti quegli anni). Il punto d’avvio è la lotta che
contrappone i Baiamonte all’usuraio Terrasecca, scatenatasi (ma lo sapremo
molto dopo) quando Matilde, la madre, decide di lasciare l’amante. Questi
cercherà per tutta la vita di fargliela pagare, e trova il modo prestando soldi
al Baiamonte senior, e quando questi non potrà restituirli, confiscando loro il
palazzo signorile. Il figlio Leone cerca di mediare, ma, affrontato dal giovane
Terrasecca, lo uccide. Dovrà fuggire, ma prima troverà il modo di passare una
notte d’amore con la bella Lisa (lasciandogli in eredità una bella gravidanza).
Leone ripara in Messico, dove uno zio prete ha scoperto una miniera d’argento,
ma non sa come sfruttarla. Durante i lunghi mesi in mare, Leone troverà il modo
di inimicarsi un turpe marinaio, che lo perseguiterà per molti anni, e di
cedere alle voglie della bella Soccorro, moglie vogliosa di un impotente
signorotto spagnolo. Il nodo viene al pettine quando, per sfruttare la miniera,
dovrà chiedere proprio al cornuto un prestito. L’amante poi respinta farà da
quel punto in poi di tutto per mettere in difficoltà il bel Leone. Che ogni
volta che sta per cadere, si risolleva per pura fortuna. Lì in terra messicana
Leone troverà anche il modo di innamorarsi della bella Estrella, e di farci una
figlia, prima che l’india soccomba per un male incurabile. Dopo molte
peripezie, comunque, riesce a sfruttare la miniera, utilizzando i profitti per
spedire soldi alla famiglia in quel di Napoli. Peccato che lo zio prete, cui
affida il compito, venga ricattato dal vescovo di Guadalajara, e derubi il
nipote di tutto l’argento in sovrappiù. Quando finalmente sembra andare tutto a
gonfie vele, e Leone sta per restituire i soldi al cornuto di cui sopra, la
perfida Soccorro contatta il marinaio cattivone, e cerca con lui di distruggere
Leone e la miniera. Fortunatamente (al solito) Leone ha la meglio, anche se
perde i soldi. Ma Soccorro ed il marinaio muoiono, e lui e la figlia Miramar
ritornano, poveri come erano partiti, in quel di Napoli. Lì intanto si andava
perfezionando la vendetta di Terrasecca. Non contento del palazzo costringe
Concetta, la sorella di Leone, ha fare la prostituta, dopo averle tolto tutti i
mestieri cui si applicava. I Baiamonte ormai sono costretti a vivere nei bassi,
e qui, abbiamo le parti migliori delle descrizioni del modo di vivere del
popolo basso e del popolo grasso napoletano. Quando Matilde viene a sapere
della professione poco onorevole della figlia, si uccide tra le braccia di Terrasecca,
confessandogli che Concetta, in realtà, è la di lui figlia. Intanto fosche nubi
si addensano nel napoletano, che i soprusi del malgoverno voluto dagli spagnoli
stanno per far scoppiare la rivolta (a posteriori ben nota) capeggiata da
Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello. Leone al suo ritorno trova anche
Lisa sposata per convenienza ad un riscossore di gabelle per conto dei nobili.
Ovviamente, vivendo ormai tra il popolo, i Baiamonte prenderanno parte alla
rivolta dove: a) viene ucciso il marito di Lisa, b) durante un tumulto Concetta
uccide il cattivo Terrasecca che, in punto di morte ed ormai pentito confida la
verità a Leone, c) facciamo la conoscenza anche di Giulio Genoino che (poi ho
studiato la materia) fu la vera anima pensante dei moti. Alla fine quindi Leone
lascia Napoli per Roma, dove, agiato con i soldi avuti dall’usuraio, farà la
sua nuova vita, sposando Lisa, vivendo con i due figli Tonino e Miramar, nonché
con Concetta che mette su una sartoria. Lieto fine a go-go! Come detto, scorre
bene. Ed è ben documentato sulla rivolta napoletana (grazie per lo stimolo).
Inoltre, non mancano belle pagine di descrizione e di ambientazione messicana,
nazione cara all’autore, dove ambientò il suo primo romanzo e da dove proviene
l’amata moglie. Alla fine, quindi, un prodotto che si colloca un libricino
sotto Cussler ma anche un libricino sopra la Asensi (quella che ho tramato da
poco sulla trilogia spagnolo-caraibica).
Louis L’Amour “Lo svelto e il morto” Meridiano Zero euro 10 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 20/04/2014 – I:
15/09/2014 – T: 17/09/2014] - &&& e ½
[tit. or.: The Quick and The Dead; ling. or.: inglese; pagine: 191; anno 1973]
Non
fatevi ingannare dal nome. Non è uno scrittore di romanzi rosa, bensì era uno
dei più grandi scrittori di romanzi western americano. Il cui vero nome era
Louis Dearborn LaMoore. E che quando ha cominciato a pubblicare libri, ha
cambiato il cognome nel più “ascoltabile” L’Amour. Anche perché LaMoore lo
connotava subito come proveniente dal Nord Dakota, posto assolutamente privo di
fascino. Il nostro Luigi invece, con il suo bel cognome, a 40 anni comincia a
scrivere western, o come dice lui “racconti di frontiera”. Con un successo
immediato, che non solo lo porta subito ad Hollywood, dove “inventa” il Gringo
per la bella faccia di John Wayne, ma dove, nel corso dei successivi 40 anni
scrive più di 100 romanzi, diventando uno dei più prolifici e ben remunerati
autori di short seller (romanzi che vendono subito molto, ma che poi non
reggono la distanza). Ero curioso di leggerne, e ringrazio la poco nota casa
editrice che ha deciso di ripubblicarne dei titoli, presi da un ormai
introvabile catalogo Mondadori. Non credo che ne leggerò altri, che questo è
stato sufficiente a saziare la mia curiosità. Ben scritto, scorrevole, ma senza
nessuno spunto particolare, se non un ribadire gli stereotipi del genere, magari
con qualche innovazione, e sicuramente con qualche punto non chiarito. La trama
è a sua volta un classico. Una famiglia dell’Est, senza troppe prospettive
economiche, ma sicuramente non cittadina, composta da padre, madre e ragazzo
adolescente, si mette in viaggio sperando che verso l’Ovest ci sia modo di
costruirsi una vita senza troppe ristrettezze. Attraversando il Colorado si
imbattono in un gruppo di poco di buono che cominciano ad infastidirli. Ad
aiutarli è il solito vagabondo di buon cuore, Con Vallian, di mano svelta, che
conosce bene i luoghi, i cattivi, gli indiani. Il solito giramondo da Cavaliere
Solitario, che li aiuta dando loro consigli, ed anche una mano quando i cattivi
cominciano a fare sul serio. Dopo la prima scaramuccia, con i cattivi, il resto
della storia è l’inseguimento dei buoni da parte dei cattivi. E la morte, ad
uno ad uno di questi ultimi, in imboscate, in duelli, ed altre tipiche
soluzioni “da western”. Come direbbe un conoscitore della letteratura popolare
americana, il romanzo è ben inserito nel clima dell’epoca (della scrittura):
siamo nel pieno della fine della guerra in Vietnam, siamo in una boscaglia,
siamo nella guerriglia pura. Ed, infatti, in tutto il romanzo aleggia la paura,
quella che, collettivamente, aveva il popolo americano. D’altra parte è anche l’esaltazione
del puro “stile di vita dell’Ovest”: se non ti sai difendere dai cattivi, la
violenza ti toglierà tutto, i tuoi beni, tua moglie, ed anche la vita. L ’unica difesa viene
dal “Berretto Verde” Vallian, che conosce i luoghi (e ne insegna le strategie
ai nostri), che conosce gli indiani (che se non li stuzzichi, si fanno i fatti
loro, anzi è buona norma scambiarsi doni, per restare in amicizia). È anche un
uomo misterioso, non si sa da dove viene, si sa solo che conosce i luoghi e sa
sparare. Anche il suo nome è significativo, un misto di valente (“valiant”) e
cattivo (“villain”). E Con potrebbe essere l’abbreviazione di Conrad ma anche
di contrario (“contrary”), cioè di uno che si oppone. Nella banda dei cattivi
c’è anche un indiano, che è l’unico che riesce a colpire Vallian, ma alla fine,
dopo che Con ed i cittadini riescono a farli fuori tutti, anche lui non
continua la lotta, ma come in un rispetto verso la forza altrui saluta e se ne
va. Ci sono molte situazioni irrisolte nel libro (futilità come il carro pieno
d’oro e non si sa perché, le ferite che si rimarginano in poco tempo, un
cavallo senza cavaliere che appare e poi scompare), ma Louis L’Amour è
impegnato in altro. Lui vuole la tensione dell’azione, la comprensione di chi
siano i buoni, i cattivi ed i grigi. E nel solco della tradizione americana,
dopo la morte di otto personaggi, un finale tendenzialmente lieto. Anche se non
si capirà mai perché Vallian vuole aiutare i nostri (a parte il fatto che sanno
fare un buon caffè). Insomma un tipico prodotto della cultura popolare
americana, da leggere per capirne di più. Certo non da sottoscrivere. Siamo ben
lontani dai racconti di frontiera moderni alla Cormac McCarthy. Come dimostra
la frase finale che sotto riporto. Un’ultima cosa che spero gli americanisti
più dotti di me sappiano indicarmi. Il titolo inglese, dato in posto ai
migliori traduttori della rete, mi rimanda la traduzione come “I vivi e i
morti”, anche se ha un suo senso il fatto che, nell’Ovest, se non sei “quick”
(svelto) presto sei “dead” (morto). Ah, sapere le lingue. E soprattutto i modi
di dire.
“Se parli, ragazzo, non puoi ascoltare. Solo
se ascolti puoi scoprire qualcosa.” (50)
“[Gli indiani] la pensano diversamente da
noi, questo è vero, ma non significa che hanno torto … significa solo che sono
diversi, ecco tutto.” (56)
“- Rammentate sempre che quando un uomo si
decide per la violenza, resta solo una scelta possibile: difendersi. … - Ma io
volevo solo una casa qui nell’Ovest … - Questo lo credo. Però dovrebbe saperlo
che bisogna lottare per tutte le cose che vale la pena di possedere.” (146)
Stephen King “Shining” Bompiani euro 13 (in realtà, scontato a 9,75
euro)
[A: 02/04/2014– I:
05/10/2014 – T: 13/10/2014] - & e ½
[tit. or.: The Shining; ling. or.: inglese; pagine: 588; anno 1977]
Non avrei certo letto un altro
libro di Stephen King, autore che confesso non mi piace affatto, se non spinto
dalla libropeutica di Berthoud & Elderkin. E mentre rimando a quel filone
di discussione l’approfondimento su cosa possa curare omeopaticamente questo
libro, per quanto riguardo il romanzo in sé, devo dire che mi sento di ripetere
la risposta che Kubrick dette a King quando questi vide il film, e ne rimase
contrariato, affermando che non era molto coerente con il suo romanzo. Per
tutta risposta, Kubrick affermò che il libro «non era poi un gran capolavoro».
Ed è proprio così. Non è un capolavoro. È un buon romanzo thriller, con un
crescente di tensione, ma con una assoluta mancanza di spiegazioni, non dico
razionali, ma convincenti su tutto quanto avviene nelle quasi 600 pagine del
libro. Credo che la storia sia super-conosciuta, quindi ne parlo ma solo perché
nel libro ci sono cose diverse dal film che tutti credo abbiano visto. La
storia è la caduta verso la pazzia di Jack Torrence, trentenne scrittore
fallito e alcolista non pentito. La storia è il rapporto tra Jack e sua moglie
Wendy, dall’amore giovanile alle attuali paure. La storia è la vita di Danny,
il figlio di Jack e Wendy, quello che ha dei poteri paranormali, che sente i
pensieri, che, come dice il salvatore della patria Dick (poi vedremo perché e
come), ha “l’aura” o meglio, in inglese “the shining”. Che il titolo (del libro
e del film) è con l’articolo. E si riferisce al potere di Danny. Il libro poi è
più complesso, che non parla solo dell’Overlook Hotel e delle vicende che vi
avvengono quando Jack accetta il posto di guardiano invernale dell’albergo.
Perché seguiamo i motivi che portano Jack ad accettare quel posto: il suo
inizio come scrittore che vende alcuni racconti, ingaggiato come professore in
una università privata, la difficoltà di scrivere una commedia, l’incontro con
Al che lo porta ad amare la bottiglia ed il suo contenuto (soprattutto Martini
Cocktail), l’incapacità di reagire alle sfortune, la violenza con il figlio di
Danny (cui rompe un braccio in un accesso alcolico), il passaggio (misterioso,
e non completamente spiegato) verso l’astinenza completa da alcolici, la rabbia
che sale senza sfogo, il pestaggio che rivolge ad un suo studente con cui entra
in conflitto, il licenziamento dall’università, e la necessità di trovare un
lavoro. In parallelo, vediamo la crescita di Danny, che sente i pensieri, che
ha un amico nascosto che gli dice cosa fare e cosa non fare, che si angoscia
per il possibile divorzio dei genitori (contro di cui usa tutte le sue armi
“paranormali”), la paura che gli prende quando si trova nell’albergo in
montagna. Qui King usa tutte le sue armi, dopo aver fatto i suoi flashback per
spiegarci (nelle prime 300 pagine) chi siano i nostri tre (anche se Wendy mi
rimane sempre molto moscia). Si passa dall’inizio post-estivo dell’albergo che
si svuota dei clienti prima dell’inverno, e le storie che il guardiano estivo
Watson narra a Jack: le strane morti, i sucidi nella stanza 217, l’uccisione di
un mafioso nell’appartamento presidenziale, sino alla strage effettuata dal
precedente guardiano invernale verso la moglie e le due figlie gemelle. Vediamo
il parco giochi. Vediamo le siepi a forma di animali (ed avranno un ruolo
nell’angoscia di Jack, che sotto effetto dell’efedrina immagina questi animali
muoversi per volerlo assalirlo), quelli che, erratamente, Kubrick trasforma nel
famoso labirinto della morte. Vediamo il cuoco Dick, che ha un piccolo potere
di “shine”, ma che lo riconosce in Danny e gli spiega come non averne paura.
Poi si avvicina l’inverno. Poi comincia a nevicare, l’albergo viene ad isolarsi
dal mondo, rimanendo l’unico compito di jack quello di controllare che la
caldaia non si surriscaldi troppo, per evitare catastrofi. Da qui in poi, è un
crescendo di non-spiegazioni. Jack, probabilmente, in astinenza da eccitanti, e
non riuscendo a scrivere la sua commedia, quella che gli darà la fama e gli
onori, comincia a cadere in paranoia, pensa che ci siano forze che gli vogliono
tarpare le ali (scusa che estremizza l’incapacità di accettare la propria
mediocrità). Ed ecco, le foto si animano, ci sono balli notturni di fantasmi,
ci sono incontri con il guardiano assassino. Ed anche Danny è preso da questo
vortice di anormalità, si aggira per posti incongrui, ed apre la famosa stanza
217 dove trova il cadavere di una donna (quella suicida) e dopo una fuga Wendy
lo trova con dei segni sul collo. Danny dice che è stata la morta, Wendy pensa
sia stato Jack ormai incontrollabile. Con un messaggio super-potente del suo
shine, Danny chiama Dick che intanto sta al caldo in Florida (e ricordo che
l’Overlook sta in Colorado…). Dick si precipita, ma intanto Jack è ormai al di
là di ogni ritorno. Ed usando un mazzuolo da “roque” (gioco derivato dal
croquet inglese, dove si usa una mazza con una superficie di gomma dura ed una
di ferro) cerca di sterminare tutti quanti. Ferisce seriamente Wendy, stordisce
quasi a morte l’arrivato Dick, ed insegue Danny in soffitta. Qui, con uno
sforzo enorme, Danny fa tornare per un attimo Jack in sé, mentre lo sta quasi
uccidendo. E Danny gli dice che la caldaia sta per scoppiare. Jack deve
decidere se uccidere Danny e pensare alla caldaia o fare l’inverso. Ma Jack,
nel fondo, ama il figlio, corre in cantina e, capendo che se si salva, poi,
ucciderà Danny, invece di abbassare la caldaia, la alza al massimo e salta in
aria con l’albergo. E tutto finisce con Wendy in ospedale, che riprenderà una
vita quasi normale con il piccolo, ma quanto traumatizzato, Danny. Mi sono
dilungato molto sul libro, più di quanto pensassi. Anche perché mi da modo di
dare qualche tocco di confronto con il film (così faccio vedere quanto conosco
il regista, come sa il mio amico Luciano). Intanto, nel film la stanza
maledetta diventa la 237 (così l’albergo-modello non avrebbe avuto problemi per
i suoi clienti). Poi, si salta molto su quanto succede prima dell’inverno, per
cui nel film poco si capisce della pazzia di Jack. Ma si insiste molto sui
poteri “assassini” dell’albergo, similmente al libro, ed in entrambi i casi non
si capisce perché. Poi ci sono le siepi a forma di animali, che impauriscono
prima Danny, poi Jack e che nel libro tentano di fermare la corsa verso il
salvataggio di Dick. Nel film invece, molto simbolicamente, Kubrick mette un
labirinto di una tipologia che però (questo l’errore) non poteva vivere ai 2000
metri di altitudine dell’albergo. Poi c’è la mazza da roque, che Kubrick
sostituisce con la famosa accetta, quella che colpisce più e più volte la porta
del bagno dove è nascosta Wendy. Accetta che nel film uccide Dick, e nel libro,
mazza che invece lo stordisce soltanto. Infine, Jack non muore congelato nel
labirinto, ingannato da Danny che, camminando sopra i passi, fa perdere
l’orientamento al padre, ma salta in aria (volontariamente) come a volersi
redimere in un ultimo barlume di coscienza. Quindi, mentre in Kubrick le
“pazzie” sono accettate come simboliche rappresentazioni, nel libro molte cose
vengono non dette e non spiegate, ed a me hanno lasciato un gusto poco
partecipe. Non dico voglio capire tutto (in fondo sono molto limitato) ma
gradirei che l’autore desse la sua spiegazione. Cui io posso aderire o meno.
Mentre questo passaggio sotto silenzio mi lascia freddo verso l’autore. E
precipita il libro verso i voti bassi. Colpa anche di una confezione poco
accurata, di cui do solo due esempi. A pagina 149 troviamo la frase “una versione
riveduta e corretta dell’interi maledetta commedia”. E, poco dopo, a
pagina 171: “Nella luce della lampada … il taccino del piccolo appariva
teso”. Le sottolineature sono mie: non è difficile fare una concordanza
singolare femminile, o e neanche tanto immaginare che Danny abbia un “faccino”
e non un “taccino”. Odio l’incuria! Ed alla fine, beh, se vi piace King, leggetelo,
io ho fatto un po’ di fatica per le lunghe pagine un po’ prolisse e poco
convincenti per i miei gusti.
Arturo Pérez-Reverte “Capitano Alatriste” Il Saggiatore s.p. (regalo di
Sara & Giampaolo)
[A: 07/05/2014 – I: 25/02/2015 – T: 27/02/2015] - && e
½
[tit. or.: El capitan Alatriste; ling. or.: spagnolo; pagine: 214;
anno 1996]
Mi
è sempre sembrato di piacevole lettura, questo strano spagnolo a metà tra
scrittore e giornalista (che spesso, per campare, soprattutto ai tempi di
Franco, era meglio scrivere sui giornali, come faceva “el mi amigo” Manuel). E
mi piacque a suo tempo il primo che ne lessi (“Il club Dumas”, naturalmente)
che mi rimase nell’orecchio di leggere altro. Vennero così il primo da lui
scritto (che riuscii a leggere in originale, e fu facile e divertente), ed
altro. Scoprendo tra l’altro che Arturo non è che la versione spagnola di Jean
Reno, un attore che amo. Mi restava di iniziare, prima o poi, la saga del
Capitano Alatriste (cui l’autore, nel corso degli ultimi venti anni ha dedicato
ben sette libri). Ed eccoci allora qui, dopo la lettura veloce di un libro che
scorre gradevole senza tanti intoppi. Certo un libro non eccelso, senza
particolari elementi avvincenti nella trama. Eppure con qualche spunto qua e là
da tenere in considerazione: le descrizioni della vita quotidiana durante
quello che per gli spagnoli è chiamato “El Siglo de Oro”, la presenza, tra i
personaggi al contorno, di alcuni elementi storici (e che rimarranno nel corso
degli altri libri) come Francisco de Quevedo ed il marchese di Guadalmedina,
altri che, altrettanto storici, sono presenti solo in questo, come i due
inglesi che citiamo sotto o un pittore, tal Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (che penso avete capito chi
sia). Torniamo allora alla trama. Il capitano Diego Alatriste y Tenorio è un
reduce da mille campagne militari, e tira avanti alla buona, usando quello che
meglio sa: la sua arte militare e le sue doti di spadaccino. Certo, in tempi di
magra, magari assoldato per qualche “aggiustatina”. La storia delle sue gesta
ci viene narrata dal giovane Iñigo, un basco figlio di un compagno d’armi di
Diego. Alatriste viene assoldato da altolocate figure incappucciate per
“malmenare” due inglesi che stanno arrivando a Madrid. Ma questi ordini vengono
stravolti dal capo dell’Inquisizione, e da quello che doveva essere il suo aiutante
sul campo, l’italiano Gualtiero. Gli inglesi vanno uccisi. Durante l’assalto,
però, Diego si accorge che c’è qualcosa di strano, e decide di opporsi al
massacro. Ben gliene incoglie, da un lato, che i due non sono altro che Carlo
principe di Galles e il duca di Buckingham. Che, da lui salvati, avranno modo
di ripagarlo. Male dall’altro, ovvio, che con questa alzata di testa si inimica
i suoi mandanti, sia il cattivo frate Emilio Boccanegra sia il meno cattivo, ma
potente, duca di Olivares. Da questo attacco si dipana un po’ della storia
picaresca: il potere cerca di far fuori con tutti i mezzi il nostro capitano,
che, altrettanto con tutti i mezzi a sua disposizione, cerca di mantenersi in
vita. Il tutto, come detto, inserito nel momento e nell’epoca storica, anche
ben documentata e di piacevole inserimento nel contesto. Che in realtà, è vero
che il principe di Galles si recò a Madrid per cercare di sbloccare la
situazione di un suo possibile matrimonio con l’Infanta di Spagna. E che il
duca di Olivares, in pratica reggente del giovane re Filippo, si opponeva al
matrimonio, in quanto ritenuti eretici gli anglicani inglesi. Nella realtà,
poi, dopo alcuni mesi di traccheggio, il principe inglese tornerà in patria
senza la moglie spagnola, ma, dopo poco, sposerà l’erede al trono di Francia,
instaurando alleanze che saranno deleterie per il futuro della Spagna stessa.
Ma qui entriamo nella storia, invece di rimanere nel romanzo. Iñigo ci narra
alcune vicende in cui Diego Alatriste sta per soccombere, ma da dove poi si salva,
attraverso insperati aiuti dell’ultimo momento. Come quello dei due inglesi
durante la rappresentazione della commedia “El Arenal de Sevilla” di Lope de
Vega (che è una commedia reale, di cui ho trovato anche il testo nella
Biblioteca Spagnola online). Alla fine ci sarà un redde rationem tra Alatriste
ed il duca di Olivares, dove il nostro, negando di aver riconosciuto alcuno dei
mandanti incappucciati, e forte delle raccomandazioni del principe Carlo, avrà
salva la vita, nonché un piccolo appannaggio mensile (sempre utile per i
mercenari squattrinati). La prima avventura di chiude così con i nostri
protetti da una parte della nobiltà, ma rimasti sotto le mira di fra’
Boccanegra e del cattivo Gualtiero. Nelle more, inoltre, il giovane Iñigo fa in
tempo ad invaghirsi di una ragazzina della buona società, che, come tutte le relazioni
squilibrate, secondo lo stesso Iñigo, non porterà nulla di buona. Vedremo, se
avremo voglia di leggere altro. anche se, rispetto a romanzetti e scritturine,
la penna di Pérez-Reverte non mi dispiace. Un ultima chicca: per caratterizzare
il nostro capitano, l’autore si rifà ad un cavaliere, semi-nascosto da un
cavallo, presente nel grande quadro “La resa di Breda” dipinto da Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (tanto
per non farci mancare altri stimoli ai nostri bistrattati neuroni).
Seppur
ravvicinata, è pur sempre la seconda puntata del mese, quindi vi allego la
solita “malattia”, che oggi non è malattia (si parla di divorzio) e non è
neanche ben trattata (sempre secondo me). Ma noi si pensa sempre positivo, e si
guarda avanti.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2015
In questo mese di maggio le
nostre autrici si cimentano con il divorzio, certo non una patologia, e certo
non trattata come meriterebbe.
DIVORZIO
Nell’intimità, Hanif Kureishi
Sportswriter, Richard Ford
I loro occhi guardavano Dio, Zora Neale Hurston
Il divorzio di questi tempi potrà anche
essere molto frequente, ma resta comunque una delle esperienze più traumatiche
che una persona possa fare - in particolare se sono coinvolti dei bambini - e
se c’è possibilità di evitarlo vi esortiamo a prenderla in considerazione.
Tutti i matrimoni vivono alti e bassi, e anche quando la «cattiva sorte» dura
da un certo numero di anni il problema può essere superato con maggiore
facilità di quanto si creda. Se il vostro matrimonio è in pericolo perché voi o
il vostro partner siete affetti da uno
dei disturbi situazionali descritti in questo libro vi invitiamo ad affrontare
il problema alla radice, invece di rinunciare prematuramente al vostro
matrimonio. La vita dopo una separazione può essere meno conflittuale, ma sarà
più difficile sotto altri punti di vista se è coinvolta un’altra persona. Forse
tra di voi mancano gentilezza e comprensione, oppure uno di voi sta lottando con
il cambiamento o con la routine. Forse le esigenze dei bambini hanno danneggiato
la vostra vita sessuale o vi trovate a voler trascorrere il tempo libero in
maniere diverse. O forse il maldestro tentativo del vostro coniuge di
aggiustare la lavastoviglie ha devastato la cucina.
Qualunque sia la causa, un conflitto o un
motivo di infelicità a casa vi renderà inevitabilmente vulnerabili a una serie
di disturbi aggiuntivi (per i quali vedi tutto questo libro) - e pertanto vi
esortiamo a non lasciare che l’angoscia o il disordine durino per troppo tempo.
La nostra terapia inizia con due romanzi per chi si ritrova sull’orlo del
baratro: assicuratevi di leggerli prima di recidere qualsiasi legame. E a
coloro per i quali il divorzio è un fatto compiuto - o che hanno bisogno di incoraggiamento
per portarlo a termine - offriamo un romanzo (di questi ce n’è uno su un
milione) ispirato e pieno di speranza su una donna che trova l’uomo giusto solo
al terzo matrimonio.
“Nell’intimità” è il racconto in prima
persona, a volte faticosamente onesto, della storia di Jay, un uomo che ha
deciso, il mattino dopo, di lasciare Susan, la donna che da sei anni è la sua
compagna. Mentre mette a letto i suoi due figli e si siede per cenare insieme a
lei, si rende conto che quella è l'ultima sera che tutti loro trascorreranno
come «una famiglia innocente, completa, ideale». Inevitabilmente, nella sua
mente si agitano una serie di emozioni contrastanti - e ognuna di esse
risulterà orribilmente familiare a chiunque si sia solo avvicinato a fare le
valigie. Jay si sente colpevole, confuso e impaurito per il danno che sta per
infliggere ai bambini; ha anche un disperato bisogno di tornare a «vivere», di
chiudere la porta all'infelicità e andare avanti. Quando Susan, un editore di
successo, torna a casa dal lavoro, abbiamo un assaggio di ciò che è andato
storto. Quando lei gli rivolge uno sguardo colmo di rancore, lui sente il
proprio corpo che «si contrae e diventa più piccolo», chiaramente c’è stata una
perdita di comunicazione - perché i due non riconoscono la rabbia e il dolore
che in questo momento li separano. Nel monologo che segue, inoltre, non abbiamo
mai la sensazione che dei loro problemi si sia davvero discusso, né che siano
stati in qualche modo condivisi, e nemmeno che Jay abbia cercato di scoprire
che cosa, secondo Susan, ci sia che non va. Leggetelo come un invito a darvi
una svegliata. Se, come Jay non avete parlato col partner delle vostre
sensazioni negative circa il matrimonio, anche voi forse state rinunciando
troppo facilmente. Assumetevi la vostra parte di responsabilità nel fallimento.
Iniziate a parlarne. Non gettate la
spugna finché non avrete capito - e ammesso - entrambi che cosa è andato storto
e dove avete sbagliato. Avrete almeno tentato di sistemare le cose. È probabile
che tornare a comunicare con onestà vi avvicinerà di nuovo.
Di sicuro, ammettere entrambi ciò che sta
succedendo renderà più facile la vita di una coppia dopo il divorzio - e se
avete dei bambini sarà necessario continuare a essere genitori insieme per parecchi
anni. A due anni dal divorzio, Frank Bascombe - il giornalista sportivo
protagonista di Sportswriter di Richard Ford - comincia a rendersi conto del
fatto che se dovesse vivere la propria vita di nuovo potrebbe anche non
decidere di divorziare. Lui e X (è così che chiama la sua ex) vivono ancora
vicini nel sobborgo di Haddam, New Jersey, per consentire ai due figli Paul e
Clarissa di spostarsi liberamente tra le loro case. Parlano a telefono almeno
due volte la settimana e spesso si incontrano per caso. È stata X a chiedere il
divorzio, ma Frank l’ha presa bene - vivere da solo lo ha aiutato a conoscere
meglio se stesso, e questo sembra essere successo anche a X, perché sta finalmente
facendo «un tentativo» con la promettente carriera di giocatrice di golf che
aveva abbandonato col matrimonio. Frank, da parte sua, potrà forse tornare a
quel romanzo incompiuto che ha chiuso in un cassetto quando, invece, è
diventato un giornalista sportivo. Come ha scoperto dalla propria esperienza -
e da quella degli altri membri de) Club dei Divorziati di Haddam - la vita dopo
il divorzio non è tutta sesso e liberazione.
Ciò che, in effetti, distingue Frank e X
dalle altre coppie divorziate è il fatto che non sono legati soltanto da Paul e
Clarissa, ma anche da un terzo figlio che è morto. Frank nega che la morte del
ragazzo sia stata la causa della rottura; c'è comunque una stanchezza, una
mancanza di convinzione nella voce e nella visione del mondo di Frank che
sembra strettamente collegata al dolore. E anche se il dolore che lui e X
condividono li rende più gentili, reciprocamente, di quanto potrebbe accadere
altrimenti, un senso di esaurimento e fallimento incombe, pesante, su tutto il
romanzo. Per chi, come Frank, non ha fiducia nella vita per carattere, smantellare
la struttura del matrimonio, ritrovarsi privi della sua solidità e del suo
sostegno può lasciare ancora più confusi. Considerate con attenzione questa visione
realistica e assai poco romantica della vita dopo aver firmato le carte per il
divorzio.
Se avete provato seriamente a far funzionare
il vostro rapporto e vi sembra di sbattere la testa contro un muro, potrebbe
essere il momento di ammettere la sconfitta. Forse se la vostra unione è stata
un errore, ed è necessario tornare liberi. Di sicuro, voltare le spalle a un
matrimonio affrettato con Logan Killicks, un ottuso agricoltore, si dimostra
un’ottima scelta per Janie, la protagonista di I loro occhi guardavano Dio di
Zora Neale Hurston, storia d’amore ambientata nel profondo sud degli Stati Uniti. Cresciuta dalla nonna, una ex schiava decisa
a far sì che Janie faccia un buon matrimonio e non diventi qualcuno che gli
uomini usano per «pulircisi i piedi», comincia a cercarle un marito appena si
accorge che Janie ha iniziato a interessarsi agli uomini. Con Logan c’è poco da
essere contenti, tuttavia, e lei non riesce a convincersi ad amarlo, e quando
le si presenta Jody Starks, un uomo energico e intraprendente con in testa
molti progetti e il cappello sulle ventitré, Janie non ci pensa due volte Fuggono
insieme, si stabiliscono in una cittadina emergente in Florida, abitata solo da
neri, e per molti anni conducono un’esistenza comoda e rispettabile. Il loro,
tuttavia, non è un matrimonio felice – Jodv è un uomo all’antica e sempre più
critico verso di lei: la sempre esuberante Janie si sente soffocata. Per
fortuna la vita le mette a disposizione un terzo tentativo, e stavolta tutto
funziona alla grande. Se pensate che la vostra vita sentimentale sia finita,
ricordatevi di Janie - una donna che, a quarant’anni, ancora si pavoneggia per
strada col suo vero amore, Tea Cake. Questo romanzo, insomma, è un’affermazione
della vita del tipo più bello: poetico, profondo e saggio, con un dialogo vero
e vivace. Continuate a tenere aperto il vostro cuore. Date al vostro matrimonio
tutte le chance possibili, ma se è proprio alla fine siate gentili e generosi con
il vostro ex. Poi andate avanti, con passo più leggero. Sappiate, come Janie,
che il mondo si rinnova ogni giorno. Qualcosa, o qualcuno, di incredibile può ancora
capitarvi.
Bugiardino
Il divorzio è certo un argomento
difficile (soggettivamente) da trattare, anche se ben presente in letteratura.
Ritengo tuttavia che la sviolinata iniziale delle due autrici sia un po’ troppo
da salotto e non da realtà vissuta. Certo che si dovrebbe trovare modo di
recuperare rapporti (quando c’è da recuperare), ma è altrettanto vero che
recidere legami inutili e/o dannosi può e deve essere presente a chi scrive di
separazioni. Ciò detto, ho letto solo il libro di Kureishi, di cui sotto tratto
ampiamente, mentre il libro di Ford, pur presente in libreria, non ha ancora
avuto tutte le mie attenzioni. Il terzo libro, devo dire che l’ho cercato, ma
che non ne ho trovato tracce usufruibili nelle librerie romane (o non è
presente, o è ancora in edizioni troppo costose, e sapete come io prediliga i
tascabili).
Hanif Kureishi
“Nell’intimità” Bompiani euro 8
[trama del 14 settembre 2014]
Pur
avendo letto altri libri, e pur stimando il romanziere e regista indo –
pakistano, questo è il primo libro in italiano che leggo. E, benché datato,
trovo la traduzione di Ivan Cotroneo ben fatta ed aderente allo spirito della
scrittura di Kureishi. In un libro che non è facile, nonostante sia agile,
quasi come un racconto lungo. E sicuramente diverso e più interessante del film
che si dice ne venne tratto nel 2001, vincendo l’Orso d’oro a Berlino (il film
usa una diversa storia di Kureishi come trama e questo romanzo come atmosfera).
Qui, il nostro scrittore imbastisce un lungo monologo di un quarantenne (credo,
anche se non dice l’età) allo sbando. Pur essendo uno sceneggiatore di successo
(ed in questo, Hanif si tratteggia un po’ nel personaggio), non trova “un
centro” alla propria esistenza. A me, forse un po’ semplicisticamente, è parso
affetto da una grave “sindrome di Peter Pan”. Il protagonista si rifiuta di
crescere, crogiolandosi e commiserandosi in uno “sto male qui ed ora, come
faccio ad uscirne?”. Intanto, oltre al buon lavoro, vive con Susan, con la
quale ha due figli. E mentre si aggira per casa, cercando di decidere cosa
portarsi via perché la vuole lasciare, ricostruiamo a sprazzi la sua storia.
Quella di uno dei tanti “leftist” o forse “radical” inglesi. Gioventù
sbandatella, senza metà, frequentazioni alternative e promiscuità. Grandi bevute
ai pub, ma anche spinelli e droghette a go go. Ed una pulsione sempre presente
per l’altro sesso. Che spesso e volentieri, concretizza. Sia prima della
convivenza che dopo. Nonostante voglia bene ai due figli piccoli, abbia momenti
di genuina tenerezza e scoperta con loro. Ed a modo suo vuole (voleva?) bene a
Susan. Ma la vita di famiglia impone delle regole. E lui, non crescendo né in
crescita, è quello che rifiuta. Vuole tutto come se fosse un ragazzo di
vent’anni prima. Vuole scopare, vuole ubriacarsi, vuole farsi le canne, e
vorrebbe che la vita in famiglia potesse andare avanti senza che lui intervenga
“in aiuto”. Appunto, come un Peter Pan che si aspetta che ci sia sempre qualche
d’un altro (una Trilly, ad esempio), che facesse per lui “i lavori sporchi”:
fare la spesa, cucinare, mettere in ordine. Non è un caso, che decide di avere
uno studio fuori casa, dove rintanarsi a lavorare, “come se”. Ed uno studio che
usa come garçonnière a tutto vapore. Il momento topico che lo porta a
riflettere sul suo malessere, avviene quando si accorge che anche i suoi amici
crescono, e si assumono responsabilità, e per questo, si vedono meno. Bello è
il contraltare di Naif, uno degli amici storici, anche lui con moglie e figli,
ma che accetta questa realtà, e ci lavora. A lui rimane solo Victor, uno che se
ne andato anche lui di casa un paio d’anni prima (ma con ripensamenti e crisi).
Contemporaneamente, ha una storia con Nina, ragazza più giovane di lui,
affascinata dal suo essere un po’ alternativo. Che aspetta, ma poi non accetta
quella sua indecisione di fondo. E lo lascia. Questi due avvenimenti lo mettono
in crisi. Lo mettono di fronte al suo vagheggiamento di un’età felice. Facendo
in modo di riversare tutto il suo malessere e le sue incapacità sulla buona Susan.
Che invece lo ama ancora, e molto. Che va con lui in analisi per capire il loro
rapporto. Il nostro sembra mettervela tutta. Ma niente da fare. Per andare
avanti dovrebbe sporcarsi le mani. Ed allora, si ripete, qui sto male, anche se
ho Susan, anche se ho i miei figli. Me ne vado, così faccio piazza pulita e
ricomincio da capo. Non capisce, non capirà mai, che non può andarsene da se
stesso. E la piazza pulita la deve fare al proprio interno. Cambiare cielo non
significa, mai, cambiare vita. Kureishi, oltre a descrivere con crudezza questa
catastrofe umana, utilizza il nostro anche come paradigma di una generazione
bene o male fallita. Quella che all’epoca andava per i quaranta (ed ora
andrebbe per i sessanta). Che è stata sconfitta nel pubblico e nel privato,
proprio perché “non si è sporcata le mani”. Descrizione cruda nei rapporti
umani, ed in quelli sessuali, per tirarne fuori pochi (e sparuti) elementi di
conforto. Alla fine, dolentemente, mi è anche piaciuto, laddove rivedo
situazioni similari. Forse, come diceva qualcuno ma non ricordo dove, ci
volevano “un po’ più di palle” per affrontare la vita. E non ce l’ha messe né
il protagonista, né lo scrittore. Comunque una lettura non banale, da
approfondimento.
“Le parole sono azioni e fanno accadere le
cose. Una volta che sono uscite dalla bocca non puoi più farle rientrare.” (5)
“Se sei portato all’infelicità, non ti
mancherà mai un amico.” (30)
“Per un ceto periodo sono stato una sorta di
marxista, anche se adesso non riesco più a ricordare le differenze fra i vari
tipi: gramsciani, leninisti, hegeliani, maoisti, althusseriani.” (35)
“Lei [inglese] insegnava inglese agli
stranieri, cosa che rappresenta sempre l’ultimo rifugio per chi è allo sbando.”
(60)
“Non è che adesso sia poco attraente, ma è
di mezza età, e perciò appartiene a una categoria diversa.” (75)
Conclusioni
Come già traspare da quanto ho
detto sopra, questa è una delle patologie che mi trova in disaccordo totale con
le autrici. Nell’analisi della “patologia”, nelle ipotesi curative e, soprattutto,
nelle proposte di lettura a sostegno. Dove, ad esempio, avrei citati “Il colore
viola” della Walker o “Mildred Pierce” di James Cain (tanto per rimanere in
libri da poco letti e citati).
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