domenica 3 maggio 2015

Torna l'avventura - 03 maggio 2015

Tuttavia non con i maestri del genere. Niente Cussler, niente ancora su Wilburn Smith (prima o poi…). Una puntata di basso calibro, e non per gli autori presenti. C’è l’italiano Colitto, non al meglio lontano dalla serie di Mondino. C’è la controfigura spagnola di Jean Reno, il pur bravo Pérez-Reverte con la prima puntata del suo capitano. C’è (ed è il miglior del lotto) il campione dei cowboy americani, quello dall’improbabile nome di Louis L’Amour. Ci sarebbe Stephen King, ma per quanto abbia amato Kubrick, il suo “Shining” mi ha profondamente deluso.
Alfredo Colitto “La porta del Paradiso” Piemme euro 9,90
[A: 19/06/2013– I: 28/08/2014 – T: 01/09/2014] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 456; anno 2013]
Mi aspettavo qualcosa di meglio dall’autore che mi aveva preso nella sua saga trecentesca sul dottore bolognese Mondino de’ Liuzzi e sulle sue avventure tra lo storico ed il giallo. Qui invece, pur rimanendo tracce della storia, siamo sul versante avventura. Di quella più alla Ken Follett per intenderci che alla Clive Cussler. Non nego che lo scritto scorre, e le sue più di quattrocento pagine si lasciano leggere con velocità. Ma con altrettanta velocità si lasciano alle spalle. Non è che rimane molto, essendo la trama abbastanza scontata (buoni in rovina, sfortunati, con un happy end finale che è di prammatica). Tuttavia la ricostruzione storica ed ambientale in cui si svolge il romanzo (tra Napoli ed il Messico) è accurata e priva di sbavature. Il romanzo copre 15 anni, dal 1635 al 1650 (anzi al Natale 1649, quando comincia il tredicesimo Anno Santo con l’apertura della Porta del Paradiso in San Pietro, passando la quale vengono rimessi tutti i peccati commessi, e non saranno pochi in tutti quegli anni). Il punto d’avvio è la lotta che contrappone i Baiamonte all’usuraio Terrasecca, scatenatasi (ma lo sapremo molto dopo) quando Matilde, la madre, decide di lasciare l’amante. Questi cercherà per tutta la vita di fargliela pagare, e trova il modo prestando soldi al Baiamonte senior, e quando questi non potrà restituirli, confiscando loro il palazzo signorile. Il figlio Leone cerca di mediare, ma, affrontato dal giovane Terrasecca, lo uccide. Dovrà fuggire, ma prima troverà il modo di passare una notte d’amore con la bella Lisa (lasciandogli in eredità una bella gravidanza). Leone ripara in Messico, dove uno zio prete ha scoperto una miniera d’argento, ma non sa come sfruttarla. Durante i lunghi mesi in mare, Leone troverà il modo di inimicarsi un turpe marinaio, che lo perseguiterà per molti anni, e di cedere alle voglie della bella Soccorro, moglie vogliosa di un impotente signorotto spagnolo. Il nodo viene al pettine quando, per sfruttare la miniera, dovrà chiedere proprio al cornuto un prestito. L’amante poi respinta farà da quel punto in poi di tutto per mettere in difficoltà il bel Leone. Che ogni volta che sta per cadere, si risolleva per pura fortuna. Lì in terra messicana Leone troverà anche il modo di innamorarsi della bella Estrella, e di farci una figlia, prima che l’india soccomba per un male incurabile. Dopo molte peripezie, comunque, riesce a sfruttare la miniera, utilizzando i profitti per spedire soldi alla famiglia in quel di Napoli. Peccato che lo zio prete, cui affida il compito, venga ricattato dal vescovo di Guadalajara, e derubi il nipote di tutto l’argento in sovrappiù. Quando finalmente sembra andare tutto a gonfie vele, e Leone sta per restituire i soldi al cornuto di cui sopra, la perfida Soccorro contatta il marinaio cattivone, e cerca con lui di distruggere Leone e la miniera. Fortunatamente (al solito) Leone ha la meglio, anche se perde i soldi. Ma Soccorro ed il marinaio muoiono, e lui e la figlia Miramar ritornano, poveri come erano partiti, in quel di Napoli. Lì intanto si andava perfezionando la vendetta di Terrasecca. Non contento del palazzo costringe Concetta, la sorella di Leone, ha fare la prostituta, dopo averle tolto tutti i mestieri cui si applicava. I Baiamonte ormai sono costretti a vivere nei bassi, e qui, abbiamo le parti migliori delle descrizioni del modo di vivere del popolo basso e del popolo grasso napoletano. Quando Matilde viene a sapere della professione poco onorevole della figlia, si uccide tra le braccia di Terrasecca, confessandogli che Concetta, in realtà, è la di lui figlia. Intanto fosche nubi si addensano nel napoletano, che i soprusi del malgoverno voluto dagli spagnoli stanno per far scoppiare la rivolta (a posteriori ben nota) capeggiata da Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello. Leone al suo ritorno trova anche Lisa sposata per convenienza ad un riscossore di gabelle per conto dei nobili. Ovviamente, vivendo ormai tra il popolo, i Baiamonte prenderanno parte alla rivolta dove: a) viene ucciso il marito di Lisa, b) durante un tumulto Concetta uccide il cattivo Terrasecca che, in punto di morte ed ormai pentito confida la verità a Leone, c) facciamo la conoscenza anche di Giulio Genoino che (poi ho studiato la materia) fu la vera anima pensante dei moti. Alla fine quindi Leone lascia Napoli per Roma, dove, agiato con i soldi avuti dall’usuraio, farà la sua nuova vita, sposando Lisa, vivendo con i due figli Tonino e Miramar, nonché con Concetta che mette su una sartoria. Lieto fine a go-go! Come detto, scorre bene. Ed è ben documentato sulla rivolta napoletana (grazie per lo stimolo). Inoltre, non mancano belle pagine di descrizione e di ambientazione messicana, nazione cara all’autore, dove ambientò il suo primo romanzo e da dove proviene l’amata moglie. Alla fine, quindi, un prodotto che si colloca un libricino sotto Cussler ma anche un libricino sopra la Asensi (quella che ho tramato da poco sulla trilogia spagnolo-caraibica).
Louis L’Amour “Lo svelto e il morto” Meridiano Zero euro 10 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 20/04/2014 – I: 15/09/2014 – T: 17/09/2014] - &&& e ½
[tit. or.: The Quick and The Dead; ling. or.: inglese; pagine: 191; anno 1973]
Non fatevi ingannare dal nome. Non è uno scrittore di romanzi rosa, bensì era uno dei più grandi scrittori di romanzi western americano. Il cui vero nome era Louis Dearborn LaMoore. E che quando ha cominciato a pubblicare libri, ha cambiato il cognome nel più “ascoltabile” L’Amour. Anche perché LaMoore lo connotava subito come proveniente dal Nord Dakota, posto assolutamente privo di fascino. Il nostro Luigi invece, con il suo bel cognome, a 40 anni comincia a scrivere western, o come dice lui “racconti di frontiera”. Con un successo immediato, che non solo lo porta subito ad Hollywood, dove “inventa” il Gringo per la bella faccia di John Wayne, ma dove, nel corso dei successivi 40 anni scrive più di 100 romanzi, diventando uno dei più prolifici e ben remunerati autori di short seller (romanzi che vendono subito molto, ma che poi non reggono la distanza). Ero curioso di leggerne, e ringrazio la poco nota casa editrice che ha deciso di ripubblicarne dei titoli, presi da un ormai introvabile catalogo Mondadori. Non credo che ne leggerò altri, che questo è stato sufficiente a saziare la mia curiosità. Ben scritto, scorrevole, ma senza nessuno spunto particolare, se non un ribadire gli stereotipi del genere, magari con qualche innovazione, e sicuramente con qualche punto non chiarito. La trama è a sua volta un classico. Una famiglia dell’Est, senza troppe prospettive economiche, ma sicuramente non cittadina, composta da padre, madre e ragazzo adolescente, si mette in viaggio sperando che verso l’Ovest ci sia modo di costruirsi una vita senza troppe ristrettezze. Attraversando il Colorado si imbattono in un gruppo di poco di buono che cominciano ad infastidirli. Ad aiutarli è il solito vagabondo di buon cuore, Con Vallian, di mano svelta, che conosce bene i luoghi, i cattivi, gli indiani. Il solito giramondo da Cavaliere Solitario, che li aiuta dando loro consigli, ed anche una mano quando i cattivi cominciano a fare sul serio. Dopo la prima scaramuccia, con i cattivi, il resto della storia è l’inseguimento dei buoni da parte dei cattivi. E la morte, ad uno ad uno di questi ultimi, in imboscate, in duelli, ed altre tipiche soluzioni “da western”. Come direbbe un conoscitore della letteratura popolare americana, il romanzo è ben inserito nel clima dell’epoca (della scrittura): siamo nel pieno della fine della guerra in Vietnam, siamo in una boscaglia, siamo nella guerriglia pura. Ed, infatti, in tutto il romanzo aleggia la paura, quella che, collettivamente, aveva il popolo americano. D’altra parte è anche l’esaltazione del puro “stile di vita dell’Ovest”: se non ti sai difendere dai cattivi, la violenza ti toglierà tutto, i tuoi beni, tua moglie, ed anche la vita. L’unica difesa viene dal “Berretto Verde” Vallian, che conosce i luoghi (e ne insegna le strategie ai nostri), che conosce gli indiani (che se non li stuzzichi, si fanno i fatti loro, anzi è buona norma scambiarsi doni, per restare in amicizia). È anche un uomo misterioso, non si sa da dove viene, si sa solo che conosce i luoghi e sa sparare. Anche il suo nome è significativo, un misto di valente (“valiant”) e cattivo (“villain”). E Con potrebbe essere l’abbreviazione di Conrad ma anche di contrario (“contrary”), cioè di uno che si oppone. Nella banda dei cattivi c’è anche un indiano, che è l’unico che riesce a colpire Vallian, ma alla fine, dopo che Con ed i cittadini riescono a farli fuori tutti, anche lui non continua la lotta, ma come in un rispetto verso la forza altrui saluta e se ne va. Ci sono molte situazioni irrisolte nel libro (futilità come il carro pieno d’oro e non si sa perché, le ferite che si rimarginano in poco tempo, un cavallo senza cavaliere che appare e poi scompare), ma Louis L’Amour è impegnato in altro. Lui vuole la tensione dell’azione, la comprensione di chi siano i buoni, i cattivi ed i grigi. E nel solco della tradizione americana, dopo la morte di otto personaggi, un finale tendenzialmente lieto. Anche se non si capirà mai perché Vallian vuole aiutare i nostri (a parte il fatto che sanno fare un buon caffè). Insomma un tipico prodotto della cultura popolare americana, da leggere per capirne di più. Certo non da sottoscrivere. Siamo ben lontani dai racconti di frontiera moderni alla Cormac McCarthy. Come dimostra la frase finale che sotto riporto. Un’ultima cosa che spero gli americanisti più dotti di me sappiano indicarmi. Il titolo inglese, dato in posto ai migliori traduttori della rete, mi rimanda la traduzione come “I vivi e i morti”, anche se ha un suo senso il fatto che, nell’Ovest, se non sei “quick” (svelto) presto sei “dead” (morto). Ah, sapere le lingue. E soprattutto i modi di dire.
“Se parli, ragazzo, non puoi ascoltare. Solo se ascolti puoi scoprire qualcosa.” (50)
“[Gli indiani] la pensano diversamente da noi, questo è vero, ma non significa che hanno torto … significa solo che sono diversi, ecco tutto.” (56)
“- Rammentate sempre che quando un uomo si decide per la violenza, resta solo una scelta possibile: difendersi. … - Ma io volevo solo una casa qui nell’Ovest … - Questo lo credo. Però dovrebbe saperlo che bisogna lottare per tutte le cose che vale la pena di possedere.” (146)
Stephen King “Shining” Bompiani euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 02/04/2014– I: 05/10/2014 – T: 13/10/2014] - & e ½  
[tit. or.: The Shining; ling. or.: inglese; pagine: 588; anno 1977]
Non avrei certo letto un altro libro di Stephen King, autore che confesso non mi piace affatto, se non spinto dalla libropeutica di Berthoud & Elderkin. E mentre rimando a quel filone di discussione l’approfondimento su cosa possa curare omeopaticamente questo libro, per quanto riguardo il romanzo in sé, devo dire che mi sento di ripetere la risposta che Kubrick dette a King quando questi vide il film, e ne rimase contrariato, affermando che non era molto coerente con il suo romanzo. Per tutta risposta, Kubrick affermò che il libro «non era poi un gran capolavoro». Ed è proprio così. Non è un capolavoro. È un buon romanzo thriller, con un crescente di tensione, ma con una assoluta mancanza di spiegazioni, non dico razionali, ma convincenti su tutto quanto avviene nelle quasi 600 pagine del libro. Credo che la storia sia super-conosciuta, quindi ne parlo ma solo perché nel libro ci sono cose diverse dal film che tutti credo abbiano visto. La storia è la caduta verso la pazzia di Jack Torrence, trentenne scrittore fallito e alcolista non pentito. La storia è il rapporto tra Jack e sua moglie Wendy, dall’amore giovanile alle attuali paure. La storia è la vita di Danny, il figlio di Jack e Wendy, quello che ha dei poteri paranormali, che sente i pensieri, che, come dice il salvatore della patria Dick (poi vedremo perché e come), ha “l’aura” o meglio, in inglese “the shining”. Che il titolo (del libro e del film) è con l’articolo. E si riferisce al potere di Danny. Il libro poi è più complesso, che non parla solo dell’Overlook Hotel e delle vicende che vi avvengono quando Jack accetta il posto di guardiano invernale dell’albergo. Perché seguiamo i motivi che portano Jack ad accettare quel posto: il suo inizio come scrittore che vende alcuni racconti, ingaggiato come professore in una università privata, la difficoltà di scrivere una commedia, l’incontro con Al che lo porta ad amare la bottiglia ed il suo contenuto (soprattutto Martini Cocktail), l’incapacità di reagire alle sfortune, la violenza con il figlio di Danny (cui rompe un braccio in un accesso alcolico), il passaggio (misterioso, e non completamente spiegato) verso l’astinenza completa da alcolici, la rabbia che sale senza sfogo, il pestaggio che rivolge ad un suo studente con cui entra in conflitto, il licenziamento dall’università, e la necessità di trovare un lavoro. In parallelo, vediamo la crescita di Danny, che sente i pensieri, che ha un amico nascosto che gli dice cosa fare e cosa non fare, che si angoscia per il possibile divorzio dei genitori (contro di cui usa tutte le sue armi “paranormali”), la paura che gli prende quando si trova nell’albergo in montagna. Qui King usa tutte le sue armi, dopo aver fatto i suoi flashback per spiegarci (nelle prime 300 pagine) chi siano i nostri tre (anche se Wendy mi rimane sempre molto moscia). Si passa dall’inizio post-estivo dell’albergo che si svuota dei clienti prima dell’inverno, e le storie che il guardiano estivo Watson narra a Jack: le strane morti, i sucidi nella stanza 217, l’uccisione di un mafioso nell’appartamento presidenziale, sino alla strage effettuata dal precedente guardiano invernale verso la moglie e le due figlie gemelle. Vediamo il parco giochi. Vediamo le siepi a forma di animali (ed avranno un ruolo nell’angoscia di Jack, che sotto effetto dell’efedrina immagina questi animali muoversi per volerlo assalirlo), quelli che, erratamente, Kubrick trasforma nel famoso labirinto della morte. Vediamo il cuoco Dick, che ha un piccolo potere di “shine”, ma che lo riconosce in Danny e gli spiega come non averne paura. Poi si avvicina l’inverno. Poi comincia a nevicare, l’albergo viene ad isolarsi dal mondo, rimanendo l’unico compito di jack quello di controllare che la caldaia non si surriscaldi troppo, per evitare catastrofi. Da qui in poi, è un crescendo di non-spiegazioni. Jack, probabilmente, in astinenza da eccitanti, e non riuscendo a scrivere la sua commedia, quella che gli darà la fama e gli onori, comincia a cadere in paranoia, pensa che ci siano forze che gli vogliono tarpare le ali (scusa che estremizza l’incapacità di accettare la propria mediocrità). Ed ecco, le foto si animano, ci sono balli notturni di fantasmi, ci sono incontri con il guardiano assassino. Ed anche Danny è preso da questo vortice di anormalità, si aggira per posti incongrui, ed apre la famosa stanza 217 dove trova il cadavere di una donna (quella suicida) e dopo una fuga Wendy lo trova con dei segni sul collo. Danny dice che è stata la morta, Wendy pensa sia stato Jack ormai incontrollabile. Con un messaggio super-potente del suo shine, Danny chiama Dick che intanto sta al caldo in Florida (e ricordo che l’Overlook sta in Colorado…). Dick si precipita, ma intanto Jack è ormai al di là di ogni ritorno. Ed usando un mazzuolo da “roque” (gioco derivato dal croquet inglese, dove si usa una mazza con una superficie di gomma dura ed una di ferro) cerca di sterminare tutti quanti. Ferisce seriamente Wendy, stordisce quasi a morte l’arrivato Dick, ed insegue Danny in soffitta. Qui, con uno sforzo enorme, Danny fa tornare per un attimo Jack in sé, mentre lo sta quasi uccidendo. E Danny gli dice che la caldaia sta per scoppiare. Jack deve decidere se uccidere Danny e pensare alla caldaia o fare l’inverso. Ma Jack, nel fondo, ama il figlio, corre in cantina e, capendo che se si salva, poi, ucciderà Danny, invece di abbassare la caldaia, la alza al massimo e salta in aria con l’albergo. E tutto finisce con Wendy in ospedale, che riprenderà una vita quasi normale con il piccolo, ma quanto traumatizzato, Danny. Mi sono dilungato molto sul libro, più di quanto pensassi. Anche perché mi da modo di dare qualche tocco di confronto con il film (così faccio vedere quanto conosco il regista, come sa il mio amico Luciano). Intanto, nel film la stanza maledetta diventa la 237 (così l’albergo-modello non avrebbe avuto problemi per i suoi clienti). Poi, si salta molto su quanto succede prima dell’inverno, per cui nel film poco si capisce della pazzia di Jack. Ma si insiste molto sui poteri “assassini” dell’albergo, similmente al libro, ed in entrambi i casi non si capisce perché. Poi ci sono le siepi a forma di animali, che impauriscono prima Danny, poi Jack e che nel libro tentano di fermare la corsa verso il salvataggio di Dick. Nel film invece, molto simbolicamente, Kubrick mette un labirinto di una tipologia che però (questo l’errore) non poteva vivere ai 2000 metri di altitudine dell’albergo. Poi c’è la mazza da roque, che Kubrick sostituisce con la famosa accetta, quella che colpisce più e più volte la porta del bagno dove è nascosta Wendy. Accetta che nel film uccide Dick, e nel libro, mazza che invece lo stordisce soltanto. Infine, Jack non muore congelato nel labirinto, ingannato da Danny che, camminando sopra i passi, fa perdere l’orientamento al padre, ma salta in aria (volontariamente) come a volersi redimere in un ultimo barlume di coscienza. Quindi, mentre in Kubrick le “pazzie” sono accettate come simboliche rappresentazioni, nel libro molte cose vengono non dette e non spiegate, ed a me hanno lasciato un gusto poco partecipe. Non dico voglio capire tutto (in fondo sono molto limitato) ma gradirei che l’autore desse la sua spiegazione. Cui io posso aderire o meno. Mentre questo passaggio sotto silenzio mi lascia freddo verso l’autore. E precipita il libro verso i voti bassi. Colpa anche di una confezione poco accurata, di cui do solo due esempi. A pagina 149 troviamo la frase “una versione riveduta e corretta dell’interi maledetta commedia”. E, poco dopo, a pagina 171: “Nella luce della lampada … il taccino del piccolo appariva teso”. Le sottolineature sono mie: non è difficile fare una concordanza singolare femminile, o e neanche tanto immaginare che Danny abbia un “faccino” e non un “taccino”. Odio l’incuria! Ed alla fine, beh, se vi piace King, leggetelo, io ho fatto un po’ di fatica per le lunghe pagine un po’ prolisse e poco convincenti per i miei gusti.
Arturo Pérez-Reverte “Capitano Alatriste” Il Saggiatore s.p. (regalo di Sara & Giampaolo)
[A: 07/05/2014 – I: 25/02/2015 – T: 27/02/2015] - && e ½    
[tit. or.: El capitan Alatriste; ling. or.: spagnolo; pagine: 214; anno 1996]
Mi è sempre sembrato di piacevole lettura, questo strano spagnolo a metà tra scrittore e giornalista (che spesso, per campare, soprattutto ai tempi di Franco, era meglio scrivere sui giornali, come faceva “el mi amigo” Manuel). E mi piacque a suo tempo il primo che ne lessi (“Il club Dumas”, naturalmente) che mi rimase nell’orecchio di leggere altro. Vennero così il primo da lui scritto (che riuscii a leggere in originale, e fu facile e divertente), ed altro. Scoprendo tra l’altro che Arturo non è che la versione spagnola di Jean Reno, un attore che amo. Mi restava di iniziare, prima o poi, la saga del Capitano Alatriste (cui l’autore, nel corso degli ultimi venti anni ha dedicato ben sette libri). Ed eccoci allora qui, dopo la lettura veloce di un libro che scorre gradevole senza tanti intoppi. Certo un libro non eccelso, senza particolari elementi avvincenti nella trama. Eppure con qualche spunto qua e là da tenere in considerazione: le descrizioni della vita quotidiana durante quello che per gli spagnoli è chiamato “El Siglo de Oro”, la presenza, tra i personaggi al contorno, di alcuni elementi storici (e che rimarranno nel corso degli altri libri) come Francisco de Quevedo ed il marchese di Guadalmedina, altri che, altrettanto storici, sono presenti solo in questo, come i due inglesi che citiamo sotto o un pittore, tal Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (che penso avete capito chi sia). Torniamo allora alla trama. Il capitano Diego Alatriste y Tenorio è un reduce da mille campagne militari, e tira avanti alla buona, usando quello che meglio sa: la sua arte militare e le sue doti di spadaccino. Certo, in tempi di magra, magari assoldato per qualche “aggiustatina”. La storia delle sue gesta ci viene narrata dal giovane Iñigo, un basco figlio di un compagno d’armi di Diego. Alatriste viene assoldato da altolocate figure incappucciate per “malmenare” due inglesi che stanno arrivando a Madrid. Ma questi ordini vengono stravolti dal capo dell’Inquisizione, e da quello che doveva essere il suo aiutante sul campo, l’italiano Gualtiero. Gli inglesi vanno uccisi. Durante l’assalto, però, Diego si accorge che c’è qualcosa di strano, e decide di opporsi al massacro. Ben gliene incoglie, da un lato, che i due non sono altro che Carlo principe di Galles e il duca di Buckingham. Che, da lui salvati, avranno modo di ripagarlo. Male dall’altro, ovvio, che con questa alzata di testa si inimica i suoi mandanti, sia il cattivo frate Emilio Boccanegra sia il meno cattivo, ma potente, duca di Olivares. Da questo attacco si dipana un po’ della storia picaresca: il potere cerca di far fuori con tutti i mezzi il nostro capitano, che, altrettanto con tutti i mezzi a sua disposizione, cerca di mantenersi in vita. Il tutto, come detto, inserito nel momento e nell’epoca storica, anche ben documentata e di piacevole inserimento nel contesto. Che in realtà, è vero che il principe di Galles si recò a Madrid per cercare di sbloccare la situazione di un suo possibile matrimonio con l’Infanta di Spagna. E che il duca di Olivares, in pratica reggente del giovane re Filippo, si opponeva al matrimonio, in quanto ritenuti eretici gli anglicani inglesi. Nella realtà, poi, dopo alcuni mesi di traccheggio, il principe inglese tornerà in patria senza la moglie spagnola, ma, dopo poco, sposerà l’erede al trono di Francia, instaurando alleanze che saranno deleterie per il futuro della Spagna stessa. Ma qui entriamo nella storia, invece di rimanere nel romanzo. Iñigo ci narra alcune vicende in cui Diego Alatriste sta per soccombere, ma da dove poi si salva, attraverso insperati aiuti dell’ultimo momento. Come quello dei due inglesi durante la rappresentazione della commedia “El Arenal de Sevilla” di Lope de Vega (che è una commedia reale, di cui ho trovato anche il testo nella Biblioteca Spagnola online). Alla fine ci sarà un redde rationem tra Alatriste ed il duca di Olivares, dove il nostro, negando di aver riconosciuto alcuno dei mandanti incappucciati, e forte delle raccomandazioni del principe Carlo, avrà salva la vita, nonché un piccolo appannaggio mensile (sempre utile per i mercenari squattrinati). La prima avventura di chiude così con i nostri protetti da una parte della nobiltà, ma rimasti sotto le mira di fra’ Boccanegra e del cattivo Gualtiero. Nelle more, inoltre, il giovane Iñigo fa in tempo ad invaghirsi di una ragazzina della buona società, che, come tutte le relazioni squilibrate, secondo lo stesso Iñigo, non porterà nulla di buona. Vedremo, se avremo voglia di leggere altro. anche se, rispetto a romanzetti e scritturine, la penna di Pérez-Reverte non mi dispiace. Un ultima chicca: per caratterizzare il nostro capitano, l’autore si rifà ad un cavaliere, semi-nascosto da un cavallo, presente nel grande quadro “La resa di Breda” dipinto da Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (tanto per non farci mancare altri stimoli ai nostri bistrattati neuroni).
Seppur ravvicinata, è pur sempre la seconda puntata del mese, quindi vi allego la solita “malattia”, che oggi non è malattia (si parla di divorzio) e non è neanche ben trattata (sempre secondo me). Ma noi si pensa sempre positivo, e si guarda avanti.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MAGGIO 2015
In questo mese di maggio le nostre autrici si cimentano con il divorzio, certo non una patologia, e certo non trattata come meriterebbe.

DIVORZIO

        Nell’intimità, Hanif Kureishi
Sportswriter, Richard Ford
I loro occhi guardavano Dio, Zora Neale Hurston

Il divorzio di questi tempi potrà anche essere molto frequente, ma resta comunque una delle esperienze più traumatiche che una persona possa fare - in particolare se sono coinvolti dei bambini - e se c’è possibilità di evitarlo vi esortiamo a prenderla in considerazione. Tutti i matrimoni vivono alti e bassi, e anche quando la «cattiva sorte» dura da un certo numero di anni il problema può essere superato con maggiore facilità di quanto si creda. Se il vostro matrimonio è in pericolo perché voi o il  vostro partner siete affetti da uno dei disturbi situazionali descritti in questo libro vi invitiamo ad affrontare il problema alla radice, invece di rinunciare prematuramente al vostro matrimonio. La vita dopo una separazione può essere meno conflittuale, ma sarà più difficile sotto altri punti di vista se è coinvolta un’altra persona. Forse tra di voi mancano gentilezza e comprensione, oppure uno di voi sta lottando con il cambiamento o con la routine. Forse le esigenze dei bambini hanno danneggiato la vostra vita sessuale o vi trovate a voler trascorrere il tempo libero in maniere diverse. O forse il maldestro tentativo del vostro coniuge di aggiustare la lavastoviglie ha devastato la cucina.
Qualunque sia la causa, un conflitto o un motivo di infelicità a casa vi renderà inevitabilmente vulnerabili a una serie di disturbi aggiuntivi (per i quali vedi tutto questo libro) - e pertanto vi esortiamo a non lasciare che l’angoscia o il disordine durino per troppo tempo. La nostra terapia inizia con due romanzi per chi si ritrova sull’orlo del baratro: assicuratevi di leggerli prima di recidere qualsiasi legame. E a coloro per i quali il divorzio è un fatto compiuto - o che hanno bisogno di incoraggiamento per portarlo a termine - offriamo un romanzo (di questi ce n’è uno su un milione) ispirato e pieno di speranza su una donna che trova l’uomo giusto solo al terzo matrimonio.
“Nell’intimità” è il racconto in prima persona, a volte faticosamente onesto, della storia di Jay, un uomo che ha deciso, il mattino dopo, di lasciare Susan, la donna che da sei anni è la sua compagna. Mentre mette a letto i suoi due figli e si siede per cenare insieme a lei, si rende conto che quella è l'ultima sera che tutti loro trascorreranno come «una famiglia innocente, completa, ideale». Inevitabilmente, nella sua mente si agitano una serie di emozioni contrastanti - e ognuna di esse risulterà orribilmente familiare a chiunque si sia solo avvicinato a fare le valigie. Jay si sente colpevole, confuso e impaurito per il danno che sta per infliggere ai bambini; ha anche un disperato bisogno di tornare a «vivere», di chiudere la porta all'infelicità e andare avanti. Quando Susan, un editore di successo, torna a casa dal lavoro, abbiamo un assaggio di ciò che è andato storto. Quando lei gli rivolge uno sguardo colmo di rancore, lui sente il proprio corpo che «si contrae e diventa più piccolo», chiaramente c’è stata una perdita di comunicazione - perché i due non riconoscono la rabbia e il dolore che in questo momento li separano. Nel monologo che segue, inoltre, non abbiamo mai la sensazione che dei loro problemi si sia davvero discusso, né che siano stati in qualche modo condivisi, e nemmeno che Jay abbia cercato di scoprire che cosa, secondo Susan, ci sia che non va. Leggetelo come un invito a darvi una svegliata. Se, come Jay non avete parlato col partner delle vostre sensazioni negative circa il matrimonio, anche voi forse state rinunciando troppo facilmente. Assumetevi la vostra parte di responsabilità nel fallimento. Iniziate a parlarne. Non  gettate la spugna finché non avrete capito - e ammesso - entrambi che cosa è andato storto e dove avete sbagliato. Avrete almeno tentato di sistemare le cose. È probabile che tornare a comunicare con onestà vi avvicinerà di  nuovo.
Di sicuro, ammettere entrambi ciò che sta succedendo renderà più facile la vita di una coppia dopo il divorzio - e se avete dei bambini sarà necessario continuare a essere genitori insieme per parecchi anni. A due anni dal divorzio, Frank Bascombe - il giornalista sportivo protagonista di Sportswriter di Richard Ford - comincia a rendersi conto del fatto che se dovesse vivere la propria vita di nuovo potrebbe anche non decidere di divorziare. Lui e X (è così che chiama la sua ex) vivono ancora vicini nel sobborgo di Haddam, New Jersey, per consentire ai due figli Paul e Clarissa di spostarsi liberamente tra le loro case. Parlano a telefono almeno due volte la settimana e spesso si incontrano per caso. È stata X a chiedere il divorzio, ma Frank l’ha presa bene - vivere da solo lo ha aiutato a conoscere meglio se stesso, e questo sembra essere successo anche a X, perché sta finalmente facendo «un tentativo» con la promettente carriera di giocatrice di golf che aveva abbandonato col matrimonio. Frank, da parte sua, potrà forse tornare a quel romanzo incompiuto che ha chiuso in un cassetto quando, invece, è diventato un giornalista sportivo. Come ha scoperto dalla propria esperienza - e da quella degli altri membri de) Club dei Divorziati di Haddam - la vita dopo il divorzio non è tutta sesso e liberazione.
Ciò che, in effetti, distingue Frank e X dalle altre coppie divorziate è il fatto che non sono legati soltanto da Paul e Clarissa, ma anche da un terzo figlio che è morto. Frank nega che la morte del ragazzo sia stata la causa della rottura; c'è comunque una stanchezza, una mancanza di convinzione nella voce e nella visione del mondo di Frank che sembra strettamente collegata al dolore. E anche se il dolore che lui e X condividono li rende più gentili, reciprocamente, di quanto potrebbe accadere altrimenti, un senso di esaurimento e fallimento incombe, pesante, su tutto il romanzo. Per chi, come Frank, non ha fiducia nella vita per carattere, smantellare la struttura del matrimonio, ritrovarsi privi della sua solidità e del suo sostegno può lasciare ancora più confusi. Considerate con attenzione questa visione realistica e assai poco romantica della vita dopo aver firmato le carte per il divorzio.
Se avete provato seriamente a far funzionare il vostro rapporto e vi sembra di sbattere la testa contro un muro, potrebbe essere il momento di ammettere la sconfitta. Forse se la vostra unione è stata un errore, ed è necessario tornare liberi. Di sicuro, voltare le spalle a un matrimonio affrettato con Logan Killicks, un ottuso agricoltore, si dimostra un’ottima scelta per Janie, la protagonista di I loro occhi guardavano Dio di Zora Neale Hurston, storia d’amore ambientata nel profondo sud degli Stati Uniti.  Cresciuta dalla nonna, una ex schiava decisa a far sì che Janie faccia un buon matrimonio e non diventi qualcuno che gli uomini usano per «pulircisi i piedi», comincia a cercarle un marito appena si accorge che Janie ha iniziato a interessarsi agli uomini. Con Logan c’è poco da essere contenti, tuttavia, e lei non riesce a convincersi ad amarlo, e quando le si presenta Jody Starks, un uomo energico e intraprendente con in testa molti progetti e il cappello sulle ventitré, Janie non ci pensa due volte Fuggono insieme, si stabiliscono in una cittadina emergente in Florida, abitata solo da neri, e per molti anni conducono un’esistenza comoda e rispettabile. Il loro, tuttavia, non è un matrimonio felice – Jodv è un uomo all’antica e sempre più critico verso di lei: la sempre esuberante Janie si sente soffocata. Per fortuna la vita le mette a disposizione un terzo tentativo, e stavolta tutto funziona alla grande. Se pensate che la vostra vita sentimentale sia finita, ricordatevi di Janie - una donna che, a quarant’anni, ancora si pavoneggia per strada col suo vero amore, Tea Cake. Questo romanzo, insomma, è un’affermazione della vita del tipo più bello: poetico, profondo e saggio, con un dialogo vero e vivace. Continuate a tenere aperto il vostro cuore. Date al vostro matrimonio tutte le chance possibili, ma se è proprio alla fine siate gentili e generosi con il vostro ex. Poi andate avanti, con passo più leggero. Sappiate, come Janie, che il mondo si rinnova ogni giorno. Qualcosa, o qualcuno, di incredibile può ancora capitarvi.

Bugiardino

Il divorzio è certo un argomento difficile (soggettivamente) da trattare, anche se ben presente in letteratura. Ritengo tuttavia che la sviolinata iniziale delle due autrici sia un po’ troppo da salotto e non da realtà vissuta. Certo che si dovrebbe trovare modo di recuperare rapporti (quando c’è da recuperare), ma è altrettanto vero che recidere legami inutili e/o dannosi può e deve essere presente a chi scrive di separazioni. Ciò detto, ho letto solo il libro di Kureishi, di cui sotto tratto ampiamente, mentre il libro di Ford, pur presente in libreria, non ha ancora avuto tutte le mie attenzioni. Il terzo libro, devo dire che l’ho cercato, ma che non ne ho trovato tracce usufruibili nelle librerie romane (o non è presente, o è ancora in edizioni troppo costose, e sapete come io prediliga i tascabili).
Hanif Kureishi “Nell’intimità” Bompiani euro 8
[trama del 14 settembre 2014]
Pur avendo letto altri libri, e pur stimando il romanziere e regista indo – pakistano, questo è il primo libro in italiano che leggo. E, benché datato, trovo la traduzione di Ivan Cotroneo ben fatta ed aderente allo spirito della scrittura di Kureishi. In un libro che non è facile, nonostante sia agile, quasi come un racconto lungo. E sicuramente diverso e più interessante del film che si dice ne venne tratto nel 2001, vincendo l’Orso d’oro a Berlino (il film usa una diversa storia di Kureishi come trama e questo romanzo come atmosfera). Qui, il nostro scrittore imbastisce un lungo monologo di un quarantenne (credo, anche se non dice l’età) allo sbando. Pur essendo uno sceneggiatore di successo (ed in questo, Hanif si tratteggia un po’ nel personaggio), non trova “un centro” alla propria esistenza. A me, forse un po’ semplicisticamente, è parso affetto da una grave “sindrome di Peter Pan”. Il protagonista si rifiuta di crescere, crogiolandosi e commiserandosi in uno “sto male qui ed ora, come faccio ad uscirne?”. Intanto, oltre al buon lavoro, vive con Susan, con la quale ha due figli. E mentre si aggira per casa, cercando di decidere cosa portarsi via perché la vuole lasciare, ricostruiamo a sprazzi la sua storia. Quella di uno dei tanti “leftist” o forse “radical” inglesi. Gioventù sbandatella, senza metà, frequentazioni alternative e promiscuità. Grandi bevute ai pub, ma anche spinelli e droghette a go go. Ed una pulsione sempre presente per l’altro sesso. Che spesso e volentieri, concretizza. Sia prima della convivenza che dopo. Nonostante voglia bene ai due figli piccoli, abbia momenti di genuina tenerezza e scoperta con loro. Ed a modo suo vuole (voleva?) bene a Susan. Ma la vita di famiglia impone delle regole. E lui, non crescendo né in crescita, è quello che rifiuta. Vuole tutto come se fosse un ragazzo di vent’anni prima. Vuole scopare, vuole ubriacarsi, vuole farsi le canne, e vorrebbe che la vita in famiglia potesse andare avanti senza che lui intervenga “in aiuto”. Appunto, come un Peter Pan che si aspetta che ci sia sempre qualche d’un altro (una Trilly, ad esempio), che facesse per lui “i lavori sporchi”: fare la spesa, cucinare, mettere in ordine. Non è un caso, che decide di avere uno studio fuori casa, dove rintanarsi a lavorare, “come se”. Ed uno studio che usa come garçonnière a tutto vapore. Il momento topico che lo porta a riflettere sul suo malessere, avviene quando si accorge che anche i suoi amici crescono, e si assumono responsabilità, e per questo, si vedono meno. Bello è il contraltare di Naif, uno degli amici storici, anche lui con moglie e figli, ma che accetta questa realtà, e ci lavora. A lui rimane solo Victor, uno che se ne andato anche lui di casa un paio d’anni prima (ma con ripensamenti e crisi). Contemporaneamente, ha una storia con Nina, ragazza più giovane di lui, affascinata dal suo essere un po’ alternativo. Che aspetta, ma poi non accetta quella sua indecisione di fondo. E lo lascia. Questi due avvenimenti lo mettono in crisi. Lo mettono di fronte al suo vagheggiamento di un’età felice. Facendo in modo di riversare tutto il suo malessere e le sue incapacità sulla buona Susan. Che invece lo ama ancora, e molto. Che va con lui in analisi per capire il loro rapporto. Il nostro sembra mettervela tutta. Ma niente da fare. Per andare avanti dovrebbe sporcarsi le mani. Ed allora, si ripete, qui sto male, anche se ho Susan, anche se ho i miei figli. Me ne vado, così faccio piazza pulita e ricomincio da capo. Non capisce, non capirà mai, che non può andarsene da se stesso. E la piazza pulita la deve fare al proprio interno. Cambiare cielo non significa, mai, cambiare vita. Kureishi, oltre a descrivere con crudezza questa catastrofe umana, utilizza il nostro anche come paradigma di una generazione bene o male fallita. Quella che all’epoca andava per i quaranta (ed ora andrebbe per i sessanta). Che è stata sconfitta nel pubblico e nel privato, proprio perché “non si è sporcata le mani”. Descrizione cruda nei rapporti umani, ed in quelli sessuali, per tirarne fuori pochi (e sparuti) elementi di conforto. Alla fine, dolentemente, mi è anche piaciuto, laddove rivedo situazioni similari. Forse, come diceva qualcuno ma non ricordo dove, ci volevano “un po’ più di palle” per affrontare la vita. E non ce l’ha messe né il protagonista, né lo scrittore. Comunque una lettura non banale, da approfondimento.
“Le parole sono azioni e fanno accadere le cose. Una volta che sono uscite dalla bocca non puoi più farle rientrare.” (5)
“Se sei portato all’infelicità, non ti mancherà mai un amico.” (30)
“Per un ceto periodo sono stato una sorta di marxista, anche se adesso non riesco più a ricordare le differenze fra i vari tipi: gramsciani, leninisti, hegeliani, maoisti, althusseriani.” (35)
“Lei [inglese] insegnava inglese agli stranieri, cosa che rappresenta sempre l’ultimo rifugio per chi è allo sbando.” (60)
“Non è che adesso sia poco attraente, ma è di mezza età, e perciò appartiene a una categoria diversa.” (75)

Conclusioni


Come già traspare da quanto ho detto sopra, questa è una delle patologie che mi trova in disaccordo totale con le autrici. Nell’analisi della “patologia”, nelle ipotesi curative e, soprattutto, nelle proposte di lettura a sostegno. Dove, ad esempio, avrei citati “Il colore viola” della Walker o “Mildred Pierce” di James Cain (tanto per rimanere in libri da poco letti e citati).

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