domenica 17 gennaio 2021

New York: la prima - 17 gennaio 2021

 Visto che non si può, al momento, riprendere viaggi e sogni, dedichiamo questa trama ad un viaggio immaginario, condito da moli sogni. Una serie editoriale interessane, nelle premesse, ma non sempre coerente nei risultati, dedicata alla città di New York. Dove il più noto degli autori, Don DeLillo, è quello meno riuscito. Mentre una bella sorpresa mi hanno regalato sia Colson Whitehead che Jonathan Galassi. Ed un punto interrogativo il poco noto (a me) Ben Lerner.

Don DeLillo “Cosmopolis” Repubblica NewYork 2 euro 9,90

[A: 03/09/2018 – I: 27/07/2020 – T: 29/07/2020] - & e ¾  

[tit. or.: Cosmopolis; ling. or.: inglese; pagine: 188; anno 2003]

Primo romanzo in lettura della collana che si prospetta teoricamente interessante e dedicata alla città di New York. Mi riserverò più avanti di parlare della collana, leggendone altri esemplari. Qui, mi si consenta solo di ripetere quanto scrissi commentando il primo libro di DeLillo che lessi. Era “Rumore Bianco”, e non mi piacque. Questo, volendo essere giusti, mi piace ancor meno. Intanto, eviterei ancora una volta di accostare DeLillo a Paul Auster, che per quello che ho letto del secondo, abissi separano i due, anche se il nostro pensa bene di dedicare proprio a Paul questo libro. Il nostro Don (nato Donald Richard) è di sicuro uno che sa tenere la penna in mano, tanto che a lungo ha fatto il writer di pubblicità e marketing. Ed altrettanto sicuramente ha una buona capacità visionaria sul futuro dell’America, ed anche del mondo intero. Tuttavia, anche in questo libro le capacità di previsione sulle tecnologie e sulla vita quotidiana sono annegate in una scrittura per nulla accattivante e ad una storia altamente non seguibile.

Ci si muove in una città tentacolare che sarebbe una New York di poco futuribile ribattezzata da DeLillo come “cosmopolis”, cioè una città che ha caratteri universali (accezione che deriva da come Paul Bourget chiamò Roma in un suo romanzo, “Cosmopolis”, del 1892).

In pratica, attraversando la città, seguiamo una giornata del miliardario Eric Parker: ricco, tecnologico e spietato. Capiamo che è un rider, che, oltre ad industrie di cui poco sappiamo, insegue la ricchezza giocando sui mercati azionari. In particolare, scommettendo sulla caduta dello yen rispetto al dollaro. Cosa che non avverrà mai in tutta la giornata, portandolo alla fine a perdere tutta la sua ricchezza. Ha tecnologie sopraffini: una limousine modificata che diventa il suo ufficio quando si sposta da una parte all’altra della città. Come in questo giorno dove decide di andare a tagliarsi i capelli dal suo barbiere in una zona da sempre malfamata, allora come ora, cioè Hell’s Kitchen.

La limousine è attrezzata con il massimo della tecnologia, schermi, insonorizzazioni, bagni e zona ristoro, collegamenti con tutte le piazza d’affari, posto per le guardie del corpo, medico personale che lo visita in viaggio, come ogni giorno. Insomma, tutto. Così che Eric possa continuare i suoi affari nel lungo tragitto: nell’epoca del romanzo ci sono in continuazione sommosse, ingorghi, funerali, ed altri accidenti che bloccano per ore i movimenti. Infine, spietato sia verso i suoi sottoposti che verso, e soprattutto, il “gentil” sesso. Scopriamo che ha sposato una mesata prima una tal Elise, poetessa, che la poesia fa migliore la vita di Eric, almeno secondo lui, ma soprattutto discendente ed erede di un grande capitale. Varie volte i due si incontrano lungo la strada, inscenano duetti poco memorabili, se non per la dolenza di Elise e per la pervicacia di Eric a volere e non riuscire di portarla a letto. Tanto che, varie volte, nel corso in particolare della mattina, si dedica a rilassamenti sessuali con diverse persone, la sua amante storica, la sua esperta d’arte che gli consiglia quali opere acquistare, la sua analista finanziaria. Ma prende piacere da tutte e non ne dà nessuno.

Mentre Eric, a piccole tappe, si avvicina al suo barbiere, di tutto succede intorno, nella visuale visionaria di DeLillo. Ci sono manifestanti pazzi che vorrebbero sostituire al dollaro una nuova moneta il “mouse”, ovviamente nel significato di strumento che controlla i computer, ma anche nel significato proprio di topo. Tanto che gettano topi, vivi o morti, in tutte le situazioni in cui si infiltrano. C’è la polizia che li bracca. Ci sono sommosse, gente uccisa, gente che si getta sulla limousine di Eric, gente che si brucia come i bonzi. C’è un pasticcere anarchico il cui scopo è tirare torte in faccia ai potenti. Ed in fondo a tutti c’è la nemesi di Eric, un ex-impiegato anarcoide, che assume il nome di Benno Lenin. Un personaggio così antitecnologico che non può che essere la minaccia finale per Eric. Anche se non, mai, per il mondo di Eric.

Quante altre metafore DeLillo ci sparge nelle sue pagine. Ma a volte con tanta cripticità da non essere sempre capibili, o con tanta semplicità da essere quasi ridicole. L’azione si svolge nell’aprile del 2000, quando in tutto il mondo si sgonfiò la bolla tecnologica. Ma DeLillo ci fa vedere che non finisce lì, che rinascerà, che ci sarà sempre il pericolo di disumanizzazione della vita. Ed ora, venti anni dopo, siamo ancora lì. Nelle strisce luminose di Times Square, oltre ai titoli azionari, gli hacker fanno comparire messaggi protocomunisti (“Uno spettro si aggira per il mondo. Lo spettro del capitalismo”, e chi si collega con il libro del 1850 sa di cosa parliamo).

Ma se tutta la visionarietà merita rispetto, la storia, il filo narrativo è assolutamente respingente. Non si riesce mai ad entrare in sintonia con nulla. Né con Eric (ovvio) ma neanche con Benno o con gli anarchici o con qualsiasi donna compaia sulla scena.

Un grande sforzo, che approda ad un risultato piccolo come un topo, parafrasando parte del testo.

Colson Whitehead “Il colosso di New York” Repubblica New York 10 euro 9,90

[A: 10/10/2018 – I: 28/08/2020 – T: 30/08/2020] - &&& 

[tit. or.: The Colossus of New York; ling. or.: inglese; pagine: 136; anno 2003]

In effetti è uno scritto che ha una difficile collocazione. Non è un romanzo, ma non è neanche un saggio. È un fiume di parole che cerca, riuscendoci spesso, di descrivere la New York di Whitehead, rimandando sovente anche la nostra New York personale.

Dove ovviamente il cinquantenne Colson è un newyorchese doc, non scrive moltissimo, ma la sua carriera negli ultimi dieci anni è anche costellata di premi (tra cui ben due premi Pulitzer nel 2017 e nel 2020).

Ma qui non si tratta di seguire temi o racconti, ma di seguire la voce di Colson, e le voci che attraverso lui attraversano la città e le pagine. Con una scrittura non sempre facile, attraversiamo i luoghi topici di una città-metafora. Impregnandoci dell’energia, del caos, delle speranze e delle promesse di un eponimo di vita.

Ci sentiamo tutti newyorchesi quando riusciamo a pensare con Colson come ci dice nelle prime pagine: sei newyorkese quando quello che c’era prima diventa più concreto e reale di quello che c’è adesso. Così attraverso tredici istantanee, tredici fotografie ben scritte la città ci viene raccontata. Come fosse un organismo vivente, sincrona e discorde con chi ci abita, con chi ci cammina, con chi la vede per la prima volta.

Tredici capitoli che attraversano la city con sensazioni e parole sui limiti della Città, su Times Square, dentro la Metropolitana, passeggiando per Broadway o per Coney Island, guardando New York nella pioggia, scrutando i passanti ed i corridori per Central Park, osservando addormentata New York al Mattino, o nell'Ora di Punta, camminando sul Ponte di Brooklyn (ma sempre e comunque da Brooklyn Heights verso lo Skyline), la Port Authority e i suoi autobus ("Scendono curvi dall'autobus ed è evidente che in un modo o nell'altro sono senza soldi. Altri-menti sarebbero arrivati qui in modo diverso."), scendendo a piedi verso Downtown (anche se si rimane poco a giocare a scacchi a Washington Square o mangiare una pizza al Greenwich) e, infine, l'Aeroporto JFK, laddove si parte e si arriva.

Torniamo a quella frase sulla stazione degli autobus Greyhound, a Port Authority, dove possiamo incontrare i sogni disperati di chi arriva nella Grande Mela per cambiare vita; o per vederla con occhi nuovi tornando dal Wyoming, in una due giorni alberghiera in quella zona prima misconosciuta. Torniamo a pensare alla metropolitana, guardando distratti il modo di stare dei passeggeri, di come scegliere il vagone su cui salire; i teatri e le luci tra Times Square e Broadway, dove incontriamo i newyorchesi ma anche i turisti che passeggiano rapiti; o l’immagine desueta di Coney Island, con i bagnanti sdraiati sulla sabbia sporca uno accanto all’altro, alla ricerca di un sole che a volte non arriva, e quando arriva spesso travolge.

La difficoltà della lettura è anche il segno della bravura dell’autore. Si passa dalla terza alla seconda e poi alla prima persona narrativa, perché vogliamo comunicare le mille voci di questo colosso vivente. Quindi, legati da cui tredici titoli, ci immergiamo ogni volta in un punto della città, sentendone i passanti a vociare, che siano locali, immigrati o solo (solo?) turisti. Colson, giustamente, non è tenero con la sua città. Nessuno dovrebbe esserlo con la propria, perché la amiamo e vogliamo vederla sempre migliore.

Grazie di avermi fatto ricordare le mille volte che ti ho visitata, dalla prima volta, or son quaranta anni, con la cucina dove facevo il caffè, affacciata sul Madison Square Garden, a quando dormivo al Greenwich, o passeggiavo per i binari dismessi della metropolitana, verso il Whitney Museum di Renzo Piano, quando bevevo margarita a Tribeca, o ravioli al vapore a Chinatown o una pasta al pesto da Eataly.

Come dici giustamente alla fine: “La New York in cui vivi tu non è la mia, come potrebbe esserlo?” Perché ogni vita è diversa. Ogni vita ed ogni città. La vita che vivo io non è la tua, non è la vostra. Sarà sempre difficile comunicarla, ma ogni tanto qualcosa arriva. Grazie a testi diversi di chi, veramente, sa scrivere.

“La fortuna altrui è … l’abbraccio mai ricevuto da qualcuno che avrebbe dovuto amarti di più.” (102)

“Arrugginite lentamente, amici miei, e lasciate piccoli brandelli di voi ovunque andiate.” (102)

“Tutti sanno come funziona eccetto lui.” (103)

“Davanti al bancomat. La gente ha bisogno di soldi. Se soltanto potessero prelevare buon senso.” (113)

Jonathan Galassi “La musa” Repubblica NewYork 5 euro 9,90

[A: 03/09/2018 – I: 30/09/2020 – T: 02/10/2020] - &&& e ¾  

[tit. or.: Muse; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 2015]

Una nuova lettura dedicata a New York, di un autore mono-libro, ma multi-editore. Una bella lettura, dove ci si trova tra Union Square ed il Greenwich, ma spesso anche in campagna ed in riva all’Oceano, a nord della città della Mela.

Il quasi settantenne Galassi (all’epoca della scrittura) era sempre stato nel mondo dei libri, libri ovunque, per studio, per diletto, per passione (soprattutto poetica) e per lavoro, visto che per anni ha fatto il lettore, l’editor, e poi il responsabile di case editrici. Decide quindi di condensare tutto il suo mondo in una riuscita bio-fiction, che non solo ci porta nel mondo fittizio di una (possibile) grande poetessa americana, Ida Perkins. Ma soprattutto, ci porta nel mondo degli editori, in particolare di quelli di nicchia in lotta con quelli “da Nobel”. Seguendo le orme di Paul Dukach, un quanto mai probabile alter-ego dell’autore.

Galassi lo spiega in premessa, che vuole parlare dei libri, dei rapporti tra scrittori, tra scrittori ed editori, ed infine, ma non ultimo, dell’amore. Prima di immergerci nella pur semplice trama, bisogna comunque convincere il lettore di fare uno sforzo di astrazione. Perché Galassi ci inonda di una mole impressionante di nomi, di riferimenti librari, e simili difficoltà. In particolare, per noi poveri lettori d’oltreoceano, che non conosciamo a memoria il nome di tutti gli scrittori (inteso come plurale multi-genere) americani. Perché ogni tanto Galassi mette qualche nome noto, così che ci può sembrare tutto vero, invece che tutto fittizio. Tra l’altro, è Galassi anche un italianista, quindi può anche citare scambi di lettere tra la poetessa Perkins e Montale. O far comparire un Eliot piuttosto che un Hemingway, e sommergerli di fuffa infinita.

Seguiamo la storia e l’ascesa del giovane Paul Dukach, innamorato della letteratura, ed in particolare con una sua fissazione verso la grande poetessa Ida Perkins. Di cui sa tutto, di cui vuole conoscere tutto, fino a brigare, nell’età della di lei quasi scomparsa, per incontrarla.

Intanto, il nostro perfettino si barcamena tra i due editor che considera i suoi padri spirituali. Il vulcanico Homer, scorretto e pronto ad infilare battute e pettegolezzi, ma soprattutto ad aver creato una scuderia di scrittori zeppa di premiati (premi Nobel, Pulitzer ed altre amenità). Il secondo è Sterling, elegante ma tristo, e pur tuttavia con un asso nella manica: essendo il cugino di Ida, ha avuto da lei l’esclusiva delle sue pubblicazioni. Paul lavora per Homer ma frequenta Sterling. Nel procedere della storia, Galassi inzeppa pagine e pagine di gossip, finte biografie, bibliografie altrettanto fasulle. Come detto sopra, mischiando finzione e realtà, tanto che il lettore pensa di essere super ignorante, e cerca conforto nelle inutili pagine di Wikipedia.

Il nodo della storia è prima il ritrovamento dei diari criptati di un grande amore della Perkins, poi della visita di Paul nell’eremo dorato veneziano della poetessa. Che svela al decifratore Paul il significato dei diari, e gli dona la sua ultima prova letteraria. Una raccolta di poesie, che svelano il lato oscuro della poetessa, belle, intriganti, pericolose. Con la preghiera di pubblicarle solo dopo la sua morte. Perché creeranno scompiglio, perché sono talmente personali che Sterling le avrebbe censurate.

La meta scrittura di Galassi ci fornisce anche alcune di queste poesie raccolte sotto il titolo di “Mnemosine” (che sottolineo per i meno “grecizzanti” di noi, è la personificazione della memoria e del potere di ricordare). E non posso, pur nella mia refrattarietà alle poetiche, che riconoscere l’abilità dello scrittore nel tuffarsi anche in questa prova. E poi tutto finirà, che ovviamente Ida muore, muore Sterling, morirà Homer, Paul si ritirerà verso la scrittura, e gli editori saranno “mangiati” da una nuova forma di distribuzione (che noi osservatori non possiamo che riferire al nascente peso distributivo di un colosso come Amazon).

Un cenno finale al motivo di inserire questo scritto in una collana dedicata a New York. In effetti, si respira molta Grande Mela in tutte l pagine, anche se di scorci veri e propri ci sono le finestre delle case editrici che si affacciano su Union Square, e qualche giro nella parte bassa di Manhattan. Oltre all’accenno delle case in terraferma, all’interno, ville opulente nel verde, dove scrittori ed editori si ritirano a volte per pensare, e magari farsi del male.

A me, nonostante il livello di confusione sopra citato, non è dispiaciuto, anche se tutti quei riferimenti che dicevo mi hanno fatto venire il mal di mare.

“Stavamo sempre insieme, finché all’improvviso partì … Sparì e basta. Ero sconvolta, naturalmente, ma non ci eravamo mai fatti promesse, e non ce le saremmo fatte neppure in seguito.” (127)

“Invecchiare non è roba da pusillanimi … Non solo per le umiliazioni fisiche, anche se sono tremende. Ma soprattutto perché coloro che ti capiscono davvero ti abbandonano.” (133)

Ben Lerner “Nel mondo a venire” Repubblica New York 9 euro 9,90

[A: 15/10/2018 – I: 01/01/2021 – T: 03/01/2021] - && e ¾ 

[tit. or.: 10:04; ling. or.: inglese; pagine: 260; anno 2014]

Eccoci alle prese con un altro autore completamente, intrinsecamente newyorchese. E con un romanzo altrettanto basato e fondato sulla città. Anche se qualche pecca c’è, visto che in fondo non riesce ad arrivare ad una sufficienza piena.

La prima pecca arriva però incolpevolmente da parte dei traduttori e editori italiani. Parliamo del titolo, che in originale è “10:04”, che molti sanno (e molti lo sapranno dopo aver letto parte del libro) essere una citazione dotta del film “Ritorno al futuro”. Quello è infatti l’orario su cui è fermo l’orologio del Palazzo di Giustizia nel 1985, essendo stato colpito dal fulmine in quell’orario nel 1955. Ed è tutto il gioco su presente e futuro che permea il libro. Dove quel mondo a venire (“the world to come”) è una citazione che compare spesso nel testo, fin dall’epigrafe, che riporto in parte: “Gli Hassidim raccontano una storia sul mondo a venire che dice che tutto sarà proprio come è qui. … Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso.” Ma il senso veniva di più da quella sensazione straniante che si ebbe guardando il film e gli universi possibili di Marty.

L’altro elemento è un po’ la confusione, anche voluta, della trama, che se cerchi di seguirla ti perdi un po’. Alla fine (o meglio dopo un centinaio di pagine) ho capito che era meglio lasciarsi guidare dal flusso narrativo, come se si fosse su di una zattera in mezzo al fiume.

Infine, e per ultimo, quel ritornare di versi poetici che non riescono a coinvolgermi (almeno qui). Ci sono momenti poetici che ti portano, altri (e questi lo sono stati per me) che ti frenano. Anche se capisco la necessità di Lerner, che nasce poeta, di esprimersi in un linguaggio che sente meglio suo.

Venendo al testo in sé, la storia narrata si intorcina intorno ad un autore/narratore che deve allungare in un romanzo un racconto breve che aveva avuto un buon successo editoriale. La confusione è che il racconto, che viene inserito ad un certo punto del narrato, è anch’esso basato su un autore che deve scrivere un romanzo basato su un racconto. Spero che la confusione cominci a spingervi ad interessarvi al romanzo.

Il secondo elemento che percorre il testo è la diagnosi di una patologia cardiaca del narratore. Che potrebbe essere fatale, e che aumenta la fatalità se non viene tenuta sotto controllo. Cosa che l’autor non fa, continuando a bere e far sesso, soprattutto quando una tempesta, causata dal riscaldamento globale, avvolge New York. Tra l’altro, la tempesta è un altro filo conduttore, che apre e chiude il romanzo.

Alla ricerca del bandolo della matassa, il narratore accetta anche di trasferirsi a Marfa nel Texas, pensando di aver più calma per il suo lavoro. Ma lì invece di trasformare il racconto in romanzo, il racconto evolve in poesie. Non può che tornare a New York, all’altro elemento che condiziona il futuro di un uomo. Lì durante la seconda tempesta, vediamo l’autore (e non il narratore) che si aggira tra le strade di New York, terminando con una specie di lascito verso il lettore.

Dicevo che l’altro elemento è il desiderio di prole, che ha la sua amica Alex. Che lo convince prima all’inseminazione, ma non funziona. Poi a fare sesso, ma il narratore avrebbe una ragazza, Alena. L’impiccio crea confusione nel protagonista, che si lascia con Alena, fa sesso con Alex e forse riesce a generare qualcosa. Di sicuro, genera confusione e tenerezza, in questa parte che riecheggia alcuni passaggi di quel grande film che fu “Il grande freddo”, sul e del sessantotto americano. Il tema dei figli è poi ripreso in modo laterale quando l’autore parla del suo rapporto con l’ispanico Roberto, cui fa da doposcuola, con cui ha una grande passione verso i dinosauri, ma che vediamo, alla fine, come l’autore non ci si sappia rapportare.

Oltre allo sdoppiamento autore/narratore, vediamo anche che l’amica Alex ogni tanto viene chiamata Liza, e la sua ragazza Alena viene chiamata Hannah. Come direbbero i Ricchi e Poveri, “Che confusione!”. Infine, sono stato coinvolto mentalmente dalle quattro tematiche che percorrono il testo: il tempo, e la sua stabilità/instabilità, e dove ci si riferisce sia a Marty del film che al secondo film di cui narro in finale; la realtà, spesso intrecciata con il tempo, e dove ci si chiede se quello di cui abbiamo percezione sia l’unico mondo possibile; la paura, della morte per l’aorta dissestata ma anche di diventare genitore, o anche di diventare co-gestore di un bambino con Alex, pur non essendone innamorato; e di conseguenza, quello delle relazioni, tra il tempo e noi, tra noi e la realtà, tra l’io che scrive, e Alex e Alena e tutti gli altri personaggi che ogni tanto appaiono e scompaiono nel testo.

Un’ultima citazione vorrei fare su di un film-evento che vanno a vedere. Si tratta dell’installazione (reale) di Christian Marclay chiamata “The Clock”, un montaggio video di 24 ore, composto da migliaia di sequenze cinematografiche o televisive legate al tempo. Tutte le scene contengono un'indicazione dell'ora (ad esempio, un orologio, una sveglia o un dialogo) e sono sincronizzate con l'ora della proiezione. In altre parole, quando un orologio legge le 15:32 nel film, sono anche le 15:32 sull'orologio dello spettatore. Geniale, fantastico, surreale.

Come potete aver capito, molti sono gli spunti che nascono, non ultimo, quello personale di tornare a camminare per le strade di New York, di cui potrei dire tanto, ma che ricordo soltanto in quella lunga passeggiata fatta quando stavo nelle Brooklyn Heights, ed attraverso il ponte di Brooklyn, arrivai a Manhattan avendo in fronte la fantastica Skyline dell’epoca (e c’erano ancora le Torri Gemelle).

Da questo punto di vista, uno scritto di buon livello (a parte una incongruenza laddove in una parte narrativa “concreta” un personaggio è chiamato Calvin nella pagina sinistre e Kevin in quella di destra). Dall’altro, con tutte le fermate mentali in mille punti, e lo scorrere difficoltoso di un momento di trama (non sempre avere solo spunti è fecondo; lo è mentalmente, ma, a volte si ha bisogno del cuore) il testo si ferma sulla soglia di quelli che si avviano verso la mia eccellenza.

Come ormai sapete meglio di me, l quarta trama del mese è scevra di altri orpelli. Niente letture pregresse, nessun allegato di alleggerimento. Trama, dura e pura.

Invece, allo stesso modo delle altre trame, vi regalo un’altra citazione. Questa volta da Valeria Parrella, dove in uno dei racconti di “Per grazia ricevuta”, fa questa bellissima descrizione della fine di un amore: “Mai avrei voluto guardarlo mentre si addormentava nel nostro letto senza saper perché … Mai avrei voluto questo per me. Io voglio scenate, e porte sbattute. E fughe senza ritorno. Voglio atti unici con finali a effetto, verità urlate in faccia … Invece una mattina l’ho visto nel letto addormentato e ho saputo che non lo amavo più … Capire che un amore è finito di sua consunzione è ammettere che non si è più in un modo … Ma nessuno che l’abbia capito può dimenticare che la vita l’ha toccato con uno dei suoi segni più infelici.”

Spero che la tristezza dello scritto non vi distolga dalla bellezza della resa. Poiché allora non si viaggia, non ci si riesce ad incontrare, spero di poter continuare ad abbracciarvi.

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