Don DeLillo “Cosmopolis” Repubblica NewYork
2 euro 9,90
[A: 03/09/2018 – I: 27/07/2020 – T: 29/07/2020]
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e ¾
[tit. or.: Cosmopolis; ling. or.: inglese; pagine: 188; anno 2003]
Primo romanzo in lettura della collana che si
prospetta teoricamente interessante e dedicata alla città di New York. Mi
riserverò più avanti di parlare della collana, leggendone altri esemplari. Qui,
mi si consenta solo di ripetere quanto scrissi commentando il primo libro di
DeLillo che lessi. Era “Rumore Bianco”, e non mi piacque. Questo, volendo
essere giusti, mi piace ancor meno. Intanto, eviterei ancora una volta di
accostare DeLillo a Paul Auster, che per quello che ho letto del secondo,
abissi separano i due, anche se il nostro pensa bene di dedicare proprio a Paul
questo libro. Il nostro Don (nato Donald Richard) è di sicuro uno che sa tenere
la penna in mano, tanto che a lungo ha fatto il writer di pubblicità e
marketing. Ed altrettanto sicuramente ha una buona capacità visionaria sul
futuro dell’America, ed anche del mondo intero. Tuttavia, anche in questo libro
le capacità di previsione sulle tecnologie e sulla vita quotidiana sono
annegate in una scrittura per nulla accattivante e ad una storia altamente non
seguibile.
Ci si muove in una città tentacolare che
sarebbe una New York di poco futuribile ribattezzata da DeLillo come
“cosmopolis”, cioè una città che ha caratteri universali (accezione che deriva
da come Paul Bourget chiamò Roma in un suo romanzo, “Cosmopolis”, del 1892).
In
pratica, attraversando la città, seguiamo una giornata del miliardario Eric
Parker: ricco, tecnologico e spietato. Capiamo che è un rider, che, oltre ad
industrie di cui poco sappiamo, insegue la ricchezza giocando sui mercati
azionari. In particolare, scommettendo sulla caduta dello yen rispetto al
dollaro. Cosa che non avverrà mai in tutta la giornata, portandolo alla fine a
perdere tutta la sua ricchezza. Ha tecnologie sopraffini: una limousine
modificata che diventa il suo ufficio quando si sposta da una parte all’altra
della città. Come in questo giorno dove decide di andare a tagliarsi i capelli
dal suo barbiere in una zona da sempre malfamata, allora come ora, cioè Hell’s
Kitchen.
La
limousine è attrezzata con il massimo della tecnologia, schermi,
insonorizzazioni, bagni e zona ristoro, collegamenti con tutte le piazza
d’affari, posto per le guardie del corpo, medico personale che lo visita in viaggio,
come ogni giorno. Insomma, tutto. Così che Eric possa continuare i suoi affari
nel lungo tragitto: nell’epoca del romanzo ci sono in continuazione sommosse,
ingorghi, funerali, ed altri accidenti che bloccano per ore i movimenti.
Infine, spietato sia verso i suoi sottoposti che verso, e soprattutto, il
“gentil” sesso. Scopriamo che ha sposato una mesata prima una tal Elise,
poetessa, che la poesia fa migliore la vita di Eric, almeno secondo lui, ma
soprattutto discendente ed erede di un grande capitale. Varie volte i due si
incontrano lungo la strada, inscenano duetti poco memorabili, se non per la
dolenza di Elise e per la pervicacia di Eric a volere e non riuscire di
portarla a letto. Tanto che, varie volte, nel corso in particolare della
mattina, si dedica a rilassamenti sessuali con diverse persone, la sua amante
storica, la sua esperta d’arte che gli consiglia quali opere acquistare, la sua
analista finanziaria. Ma prende piacere da tutte e non ne dà nessuno.
Mentre
Eric, a piccole tappe, si avvicina al suo barbiere, di tutto succede intorno,
nella visuale visionaria di DeLillo. Ci sono manifestanti pazzi che vorrebbero
sostituire al dollaro una nuova moneta il “mouse”, ovviamente nel significato
di strumento che controlla i computer, ma anche nel significato proprio di
topo. Tanto che gettano topi, vivi o morti, in tutte le situazioni in cui si
infiltrano. C’è la polizia che li bracca. Ci sono sommosse, gente uccisa, gente
che si getta sulla limousine di Eric, gente che si brucia come i bonzi. C’è un
pasticcere anarchico il cui scopo è tirare torte in faccia ai potenti. Ed in
fondo a tutti c’è la nemesi di Eric, un ex-impiegato anarcoide, che assume il
nome di Benno Lenin. Un personaggio così antitecnologico che non può che essere
la minaccia finale per Eric. Anche se non, mai, per il mondo di Eric.
Quante
altre metafore DeLillo ci sparge nelle sue pagine. Ma a volte con tanta
cripticità da non essere sempre capibili, o con tanta semplicità da essere
quasi ridicole. L’azione si svolge nell’aprile del 2000, quando in tutto il
mondo si sgonfiò la bolla tecnologica. Ma DeLillo ci fa vedere che non finisce
lì, che rinascerà, che ci sarà sempre il pericolo di disumanizzazione della
vita. Ed ora, venti anni dopo, siamo ancora lì. Nelle strisce luminose di Times
Square, oltre ai titoli azionari, gli hacker fanno comparire messaggi
protocomunisti (“Uno spettro si aggira per il mondo. Lo spettro del
capitalismo”, e chi si collega con il libro del 1850 sa di cosa parliamo).
Ma
se tutta la visionarietà merita rispetto, la storia, il filo narrativo è
assolutamente respingente. Non si riesce mai ad entrare in sintonia con nulla.
Né con Eric (ovvio) ma neanche con Benno o con gli anarchici o con qualsiasi
donna compaia sulla scena.
Un
grande sforzo, che approda ad un risultato piccolo come un topo, parafrasando
parte del testo.
Colson Whitehead “Il colosso di New York” Repubblica
New York 10 euro 9,90
[A: 10/10/2018 – I: 28/08/2020 – T: 30/08/2020] - &&&
[tit. or.: The Colossus of New York; ling. or.: inglese; pagine: 136; anno 2003]
In
effetti è uno scritto che ha una difficile collocazione. Non è un romanzo, ma
non è neanche un saggio. È un fiume di parole che cerca, riuscendoci spesso, di
descrivere la New York di Whitehead, rimandando sovente anche la nostra New
York personale.
Dove
ovviamente il cinquantenne Colson è un newyorchese doc, non scrive moltissimo,
ma la sua carriera negli ultimi dieci anni è anche costellata di premi (tra cui
ben due premi Pulitzer nel 2017 e nel 2020).
Ma
qui non si tratta di seguire temi o racconti, ma di seguire la voce di Colson,
e le voci che attraverso lui attraversano la città e le pagine. Con una
scrittura non sempre facile, attraversiamo i luoghi topici di una
città-metafora. Impregnandoci dell’energia, del caos, delle speranze e delle
promesse di un eponimo di vita.
Ci
sentiamo tutti newyorchesi quando riusciamo a pensare con Colson come ci dice
nelle prime pagine: sei newyorkese quando quello che c’era prima diventa più
concreto e reale di quello che c’è adesso. Così attraverso tredici istantanee,
tredici fotografie ben scritte la città ci viene raccontata. Come fosse un
organismo vivente, sincrona e discorde con chi ci abita, con chi ci cammina,
con chi la vede per la prima volta.
Tredici
capitoli che attraversano la city con sensazioni e parole sui limiti della
Città, su Times Square, dentro la Metropolitana, passeggiando per Broadway o
per Coney Island, guardando New York nella pioggia, scrutando i passanti ed i
corridori per Central Park, osservando addormentata New York al Mattino, o nell'Ora
di Punta, camminando sul Ponte di Brooklyn (ma sempre e comunque da Brooklyn
Heights verso lo Skyline), la Port Authority e i suoi autobus ("Scendono
curvi dall'autobus ed è evidente che in un modo o nell'altro sono senza soldi.
Altri-menti sarebbero arrivati qui in modo diverso."), scendendo a piedi
verso Downtown (anche se si rimane poco a giocare a scacchi a Washington Square
o mangiare una pizza al Greenwich) e, infine, l'Aeroporto JFK, laddove si parte
e si arriva.
Torniamo
a quella frase sulla stazione degli autobus Greyhound, a Port Authority, dove
possiamo incontrare i sogni disperati di chi arriva nella Grande Mela per
cambiare vita; o per vederla con occhi nuovi tornando dal Wyoming, in una due
giorni alberghiera in quella zona prima misconosciuta. Torniamo a pensare alla
metropolitana, guardando distratti il modo di stare dei passeggeri, di come
scegliere il vagone su cui salire; i teatri e le luci tra Times Square e Broadway,
dove incontriamo i newyorchesi ma anche i turisti che passeggiano rapiti; o
l’immagine desueta di Coney Island, con i bagnanti sdraiati sulla sabbia sporca
uno accanto all’altro, alla ricerca di un sole che a volte non arriva, e quando
arriva spesso travolge.
La
difficoltà della lettura è anche il segno della bravura dell’autore. Si passa
dalla terza alla seconda e poi alla prima persona narrativa, perché vogliamo
comunicare le mille voci di questo colosso vivente. Quindi, legati da cui
tredici titoli, ci immergiamo ogni volta in un punto della città, sentendone i
passanti a vociare, che siano locali, immigrati o solo (solo?) turisti. Colson,
giustamente, non è tenero con la sua città. Nessuno dovrebbe esserlo con la
propria, perché la amiamo e vogliamo vederla sempre migliore.
Grazie
di avermi fatto ricordare le mille volte che ti ho visitata, dalla prima volta,
or son quaranta anni, con la cucina dove facevo il caffè, affacciata sul
Madison Square Garden, a quando dormivo al Greenwich, o passeggiavo per i
binari dismessi della metropolitana, verso il Whitney Museum di Renzo Piano,
quando bevevo margarita a Tribeca, o ravioli al vapore a Chinatown o una pasta
al pesto da Eataly.
Come
dici giustamente alla fine: “La New York in cui vivi tu non è la mia, come
potrebbe esserlo?” Perché ogni vita è diversa. Ogni vita ed ogni città. La vita
che vivo io non è la tua, non è la vostra. Sarà sempre difficile comunicarla,
ma ogni tanto qualcosa arriva. Grazie a testi diversi di chi, veramente, sa
scrivere.
“La
fortuna altrui è … l’abbraccio mai ricevuto da qualcuno che avrebbe dovuto
amarti di più.” (102)
“Arrugginite
lentamente, amici miei, e lasciate piccoli brandelli di voi ovunque andiate.”
(102)
“Tutti
sanno come funziona eccetto lui.” (103)
“Davanti
al bancomat. La gente ha bisogno di soldi. Se soltanto potessero prelevare buon
senso.” (113)
Jonathan Galassi “La musa” Repubblica NewYork 5 euro 9,90
[A: 03/09/2018 – I: 30/09/2020 – T: 02/10/2020]
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[tit. or.: Muse; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 2015]
Una nuova lettura dedicata a New York, di un
autore mono-libro, ma multi-editore. Una bella lettura, dove ci si trova tra
Union Square ed il Greenwich, ma spesso anche in campagna ed in riva
all’Oceano, a nord della città della Mela.
Il
quasi settantenne Galassi (all’epoca della scrittura) era sempre stato nel
mondo dei libri, libri ovunque, per studio, per diletto, per passione
(soprattutto poetica) e per lavoro, visto che per anni ha fatto il lettore,
l’editor, e poi il responsabile di case editrici. Decide quindi di condensare
tutto il suo mondo in una riuscita bio-fiction, che non solo ci porta nel mondo
fittizio di una (possibile) grande poetessa americana, Ida Perkins. Ma
soprattutto, ci porta nel mondo degli editori, in particolare di quelli di
nicchia in lotta con quelli “da Nobel”. Seguendo le orme di Paul Dukach, un
quanto mai probabile alter-ego dell’autore.
Galassi
lo spiega in premessa, che vuole parlare dei libri, dei rapporti tra scrittori,
tra scrittori ed editori, ed infine, ma non ultimo, dell’amore. Prima di
immergerci nella pur semplice trama, bisogna comunque convincere il lettore di
fare uno sforzo di astrazione. Perché Galassi ci inonda di una mole
impressionante di nomi, di riferimenti librari, e simili difficoltà. In
particolare, per noi poveri lettori d’oltreoceano, che non conosciamo a memoria
il nome di tutti gli scrittori (inteso come plurale multi-genere) americani.
Perché ogni tanto Galassi mette qualche nome noto, così che ci può sembrare
tutto vero, invece che tutto fittizio. Tra l’altro, è Galassi anche un
italianista, quindi può anche citare scambi di lettere tra la poetessa Perkins
e Montale. O far comparire un Eliot piuttosto che un Hemingway, e sommergerli
di fuffa infinita.
Seguiamo
la storia e l’ascesa del giovane Paul Dukach, innamorato della letteratura, ed
in particolare con una sua fissazione verso la grande poetessa Ida Perkins. Di
cui sa tutto, di cui vuole conoscere tutto, fino a brigare, nell’età della di
lei quasi scomparsa, per incontrarla.
Intanto,
il nostro perfettino si barcamena tra i due editor che considera i suoi padri
spirituali. Il vulcanico Homer, scorretto e pronto ad infilare battute e
pettegolezzi, ma soprattutto ad aver creato una scuderia di scrittori zeppa di
premiati (premi Nobel, Pulitzer ed altre amenità). Il secondo è Sterling,
elegante ma tristo, e pur tuttavia con un asso nella manica: essendo il cugino
di Ida, ha avuto da lei l’esclusiva delle sue pubblicazioni. Paul lavora per
Homer ma frequenta Sterling. Nel procedere della storia, Galassi inzeppa pagine
e pagine di gossip, finte biografie, bibliografie altrettanto fasulle. Come
detto sopra, mischiando finzione e realtà, tanto che il lettore pensa di essere
super ignorante, e cerca conforto nelle inutili pagine di Wikipedia.
Il
nodo della storia è prima il ritrovamento dei diari criptati di un grande amore
della Perkins, poi della visita di Paul nell’eremo dorato veneziano della
poetessa. Che svela al decifratore Paul il significato dei diari, e gli dona la
sua ultima prova letteraria. Una raccolta di poesie, che svelano il lato oscuro
della poetessa, belle, intriganti, pericolose. Con la preghiera di pubblicarle
solo dopo la sua morte. Perché creeranno scompiglio, perché sono talmente
personali che Sterling le avrebbe censurate.
La
meta scrittura di Galassi ci fornisce anche alcune di queste poesie raccolte
sotto il titolo di “Mnemosine” (che sottolineo per i meno “grecizzanti” di noi,
è la personificazione della memoria e del potere di ricordare). E non posso,
pur nella mia refrattarietà alle poetiche, che riconoscere l’abilità dello
scrittore nel tuffarsi anche in questa prova. E poi tutto finirà, che
ovviamente Ida muore, muore Sterling, morirà Homer, Paul si ritirerà verso la
scrittura, e gli editori saranno “mangiati” da una nuova forma di distribuzione
(che noi osservatori non possiamo che riferire al nascente peso distributivo di
un colosso come Amazon).
Un
cenno finale al motivo di inserire questo scritto in una collana dedicata a New
York. In effetti, si respira molta Grande Mela in tutte l pagine, anche se di
scorci veri e propri ci sono le finestre delle case editrici che si affacciano
su Union Square, e qualche giro nella parte bassa di Manhattan. Oltre
all’accenno delle case in terraferma, all’interno, ville opulente nel verde,
dove scrittori ed editori si ritirano a volte per pensare, e magari farsi del
male.
A
me, nonostante il livello di confusione sopra citato, non è dispiaciuto, anche
se tutti quei riferimenti che dicevo mi hanno fatto venire il mal di mare.
“Stavamo
sempre insieme, finché all’improvviso partì … Sparì e basta. Ero sconvolta,
naturalmente, ma non ci eravamo mai fatti promesse, e non ce le saremmo fatte
neppure in seguito.” (127)
“Invecchiare
non è roba da pusillanimi … Non solo per le umiliazioni fisiche, anche se sono
tremende. Ma soprattutto perché coloro che ti capiscono davvero ti
abbandonano.” (133)
Ben
Lerner “Nel mondo a venire” Repubblica New York 9 euro 9,90
[A:
15/10/2018 – I: 01/01/2021 – T: 03/01/2021] - &&
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[tit.
or.: 10:04; ling. or.: inglese; pagine: 260; anno 2014]
Eccoci
alle prese con un altro autore completamente, intrinsecamente newyorchese. E
con un romanzo altrettanto basato e fondato sulla città. Anche se qualche pecca
c’è, visto che in fondo non riesce ad arrivare ad una sufficienza piena.
La
prima pecca arriva però incolpevolmente da parte dei traduttori e editori
italiani. Parliamo del titolo, che in originale è “10:04”, che molti sanno (e
molti lo sapranno dopo aver letto parte del libro) essere una citazione dotta
del film “Ritorno al futuro”. Quello è infatti l’orario su cui è fermo
l’orologio del Palazzo di Giustizia nel 1985, essendo stato colpito dal fulmine
in quell’orario nel 1955. Ed è tutto il gioco su presente e futuro che permea
il libro. Dove quel mondo a venire (“the world to come”) è una citazione che
compare spesso nel testo, fin dall’epigrafe, che riporto in parte: “Gli
Hassidim raccontano una storia sul mondo a venire che dice che tutto sarà
proprio come è qui. … Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso.” Ma il senso veniva
di più da quella sensazione straniante che si ebbe guardando il film e gli
universi possibili di Marty.
L’altro
elemento è un po’ la confusione, anche voluta, della trama, che se cerchi di
seguirla ti perdi un po’. Alla fine (o meglio dopo un centinaio di pagine) ho
capito che era meglio lasciarsi guidare dal flusso narrativo, come se si fosse
su di una zattera in mezzo al fiume.
Infine,
e per ultimo, quel ritornare di versi poetici che non riescono a coinvolgermi
(almeno qui). Ci sono momenti poetici che ti portano, altri (e questi lo sono
stati per me) che ti frenano. Anche se capisco la necessità di Lerner, che
nasce poeta, di esprimersi in un linguaggio che sente meglio suo.
Venendo
al testo in sé, la storia narrata si intorcina intorno ad un autore/narratore
che deve allungare in un romanzo un racconto breve che aveva avuto un buon
successo editoriale. La confusione è che il racconto, che viene inserito ad un
certo punto del narrato, è anch’esso basato su un autore che deve scrivere un
romanzo basato su un racconto. Spero che la confusione cominci a spingervi ad
interessarvi al romanzo.
Il
secondo elemento che percorre il testo è la diagnosi di una patologia cardiaca
del narratore. Che potrebbe essere fatale, e che aumenta la fatalità se non viene
tenuta sotto controllo. Cosa che l’autor non fa, continuando a bere e far
sesso, soprattutto quando una tempesta, causata dal riscaldamento globale,
avvolge New York. Tra l’altro, la tempesta è un altro filo conduttore, che apre
e chiude il romanzo.
Alla
ricerca del bandolo della matassa, il narratore accetta anche di trasferirsi a
Marfa nel Texas, pensando di aver più calma per il suo lavoro. Ma lì invece di
trasformare il racconto in romanzo, il racconto evolve in poesie. Non può che
tornare a New York, all’altro elemento che condiziona il futuro di un uomo. Lì
durante la seconda tempesta, vediamo l’autore (e non il narratore) che si
aggira tra le strade di New York, terminando con una specie di lascito verso il
lettore.
Dicevo
che l’altro elemento è il desiderio di prole, che ha la sua amica Alex. Che lo
convince prima all’inseminazione, ma non funziona. Poi a fare sesso, ma il
narratore avrebbe una ragazza, Alena. L’impiccio crea confusione nel
protagonista, che si lascia con Alena, fa sesso con Alex e forse riesce a
generare qualcosa. Di sicuro, genera confusione e tenerezza, in questa parte
che riecheggia alcuni passaggi di quel grande film che fu “Il grande freddo”,
sul e del sessantotto americano. Il tema dei figli è poi ripreso in modo
laterale quando l’autore parla del suo rapporto con l’ispanico Roberto, cui fa
da doposcuola, con cui ha una grande passione verso i dinosauri, ma che
vediamo, alla fine, come l’autore non ci si sappia rapportare.
Oltre
allo sdoppiamento autore/narratore, vediamo anche che l’amica Alex ogni tanto
viene chiamata Liza, e la sua ragazza Alena viene chiamata Hannah. Come
direbbero i Ricchi e Poveri, “Che confusione!”. Infine, sono stato coinvolto
mentalmente dalle quattro tematiche che percorrono il testo: il tempo, e la sua
stabilità/instabilità, e dove ci si riferisce sia a Marty del film che al
secondo film di cui narro in finale; la realtà, spesso intrecciata con il
tempo, e dove ci si chiede se quello di cui abbiamo percezione sia l’unico
mondo possibile; la paura, della morte per l’aorta dissestata ma anche di
diventare genitore, o anche di diventare co-gestore di un bambino con Alex, pur
non essendone innamorato; e di conseguenza, quello delle relazioni, tra il
tempo e noi, tra noi e la realtà, tra l’io che scrive, e Alex e Alena e tutti
gli altri personaggi che ogni tanto appaiono e scompaiono nel testo.
Un’ultima
citazione vorrei fare su di un film-evento che vanno a vedere. Si tratta
dell’installazione (reale) di Christian Marclay chiamata “The Clock”, un
montaggio video di 24 ore, composto da migliaia di sequenze cinematografiche o
televisive legate al tempo. Tutte le scene contengono un'indicazione dell'ora
(ad esempio, un orologio, una sveglia o un dialogo) e sono sincronizzate con
l'ora della proiezione. In altre parole, quando un orologio legge le 15:32 nel
film, sono anche le 15:32 sull'orologio dello spettatore. Geniale, fantastico,
surreale.
Come
potete aver capito, molti sono gli spunti che nascono, non ultimo, quello
personale di tornare a camminare per le strade di New York, di cui potrei dire
tanto, ma che ricordo soltanto in quella lunga passeggiata fatta quando stavo
nelle Brooklyn Heights, ed attraverso il ponte di Brooklyn, arrivai a Manhattan
avendo in fronte la fantastica Skyline dell’epoca (e c’erano ancora le Torri
Gemelle).
Da
questo punto di vista, uno scritto di buon livello (a parte una incongruenza
laddove in una parte narrativa “concreta” un personaggio è chiamato Calvin
nella pagina sinistre e Kevin in quella di destra). Dall’altro, con tutte le
fermate mentali in mille punti, e lo scorrere difficoltoso di un momento di
trama (non sempre avere solo spunti è fecondo; lo è mentalmente, ma, a volte si
ha bisogno del cuore) il testo si ferma sulla soglia di quelli che si avviano
verso la mia eccellenza.
Come
ormai sapete meglio di me, l quarta trama del mese è scevra di altri orpelli. Niente
letture pregresse, nessun allegato di alleggerimento. Trama, dura e pura.
Invece,
allo stesso modo delle altre trame, vi regalo un’altra citazione. Questa volta
da Valeria Parrella, dove in uno dei racconti di “Per grazia ricevuta”, fa
questa bellissima descrizione della fine di un amore: “Mai avrei voluto
guardarlo mentre si addormentava nel nostro letto senza saper perché … Mai
avrei voluto questo per me. Io voglio scenate, e porte sbattute. E fughe senza
ritorno. Voglio atti unici con finali a effetto, verità urlate in faccia …
Invece una mattina l’ho visto nel letto addormentato e ho saputo che non lo
amavo più … Capire che un amore è finito di sua consunzione è ammettere che non
si è più in un modo … Ma nessuno che l’abbia capito può dimenticare che la vita
l’ha toccato con uno dei suoi segni più infelici.”
Spero che la tristezza dello scritto non vi distolga dalla bellezza della resa. Poiché allora non si viaggia, non ci si riesce ad incontrare, spero di poter continuare ad abbracciarvi.
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