Fredrik Sjöberg
“L’arte
di collezionare mosche” Corriere della Sera Boreali 04 euro 8,90
[A: 19/03/2018 – I: 09/09/2020 – T:
11/09/2020] - &&&
e ½
[tit. or.: Flugfällan; ling. or.: svedese; pagine: 204; anno 2004]
Un
libro talmente atipico da essere stranamente gradevole. Non un saggio, non un
romanzo, non una biografia, ma un pot-pourri di parole e sensazioni.
Intanto
cominciamo dal titolo, che in originale appunto fa “La trappola per le mosche”,
alludendo all’invenzione precipua che diede fama imperitura all’entomologo
svedese René Edmond Malaise, la trappola per catturare le mosche chiamata “la
trappola di Malaise”, o in svedese, “Malaisefälla”. Tutto il libro si concentra
sulle mosche (anche se poi torneremo su questo concetto) utilizzando Malaise
come filo rosso della narrativa. Allora, come esce fuori quel titolo sull’arte
del collezionismo? Perché ci si ostina a pensare che non si possa capire quanto
vuole esprimere l’autore? Perché bisogna inventarsi un titolo “acchiappino” e
non un titolo che rispecchi l’andamento dello scritto?
Allora,
Sjöberg uomo dai mille precedenti mestieri (come ci spiega nel primo capitolo
dedicato a quando faceva il trovarobe teatrale, un mestiere affascinante),
trova ad un certo punto la sua via, dedicandosi allo studio ed alla
catalogazione di esserini volanti. Che volgarmente chiamiamo mosche, ma che
sono note in biologia con il nome di “sirfidi”: una famiglia volante di circa
6000 specie. Anche migratorie, ma soprattutto importanti perché al secondo
posto nell’elenco dei maggiori impollinatori, ed al primo come distruttori dei
pidocchi. E vi pare poco.
Sjöberg si trasferisce sull’isola di Runmarö,
dove tuttora vive con la moglie ed i figli, nell’arcipelago di fronte a
Stoccolma. E lì, ogni estate, usando spesso la trappola di Malaise di cui sopra
cattura i sirfidi, poi passa i mesi invernali a catalogarli. Tanto da esserne
un esperto mondiale. Tanto che nel 2009 espone alla Biennale di Venezia la sua
collezione di sirfidi.
Ma come detto, mentre ci parla di sirfidi (e
mentre ci passano sotto gli occhi nomi improbabili, colori non immaginati, ed
altre amenità, come quella di essere apostrofato da un passante, dopo aver
catturato un esemplare: “Ma è una vespa!”. “No, è un sirfide”. “Appunto, è una
vespa!”), si ricollega a molte storie, di personaggi vari che si dedicano a
varie branche dell’entomologia.
Tuttavia, come detto, il filo conduttore
riporta sempre a Malaise. Biologo svedese, figlio di un cuoco francese, a 28
anni, con altri suoi sodali svedesi decide di partire per la Kamchatka (senza
neanche giocare a Risiko), con un spedizione che porterà in patria molti
importanti risultati, botanici, zoologici ed anche archeologici, ma che venne
anche ricordato perché, nonostante all’epoca l’alcool fosse contingentato in
Svezia, riuscì ad avere una fornitura quasi illimitata di superalcolici. Dopo
due anni nelle remote zone intorno all’ignota Petropavlovsk, tutti tornano alla
base. Non Malaise, che continua a girare la zona. Che poi si sposta in Giappone
dove assiste al tremendo terremoto di Kamakura, che devastò Tokyo e provocò
qualcosa come 200.000 morti. Torna in Svezia, e convince la sua amica Ester
Blenda Nordström a seguirlo in una nuova spedizione in quelle zone. Ester è una
valente scrittrice, femminista convinta, forse anche gay, mai i due per non
aver problemi si sposano. Per poi divorziare alla fine degli anni Venti, quando
Ester torna in patria, e lui rimane ad inseguire i suoi insetti. René troverà
poi l’amore tre anni dopo in Ebba Söderhell, che da allora lo seguirà ovunque.
Come dice il nostro scrittore, è amore perché
Renè dedica una farfalla alla sua Ebba. Poi Renè si ripiegherà su sé stesso,
tanto che negli anni Cinquanta andrà per conferenza ad esternare il suo credo
sull’esistenza di Atlantide. Lasciamo però Malaise, e dedichiamoci ad altri due
passaggi fondamentali dello studio dei sirfidi e degli hobby in generale. Con
quella citazione dell’arte della bottonologia, termine inventato da un altro
esimio scrittore svedese, August Strindberg, per indicare una attività del
tutto inutile (collezionare e catalogare bottoni, diventando però sinonimo di
“scienza del futile”). Infine, con la menzione del poco noto Orlik, presente
nel romanzo “Utz” del mio sempre riverito Chatwin, nonché collezionista di
mosche.
Insomma, avete capito che si parla di mosche,
di sirfidi, di imenotteri, ma anche di alberi, di isole, di scritti. In
pratica, della vita dello scrittore, e delle sue passioni. Un libro
inclassificabile ma intrigante. Un personaggi altrettanto strambo, tanto da
ricevere, nel 2016 un premio per la sua trilogia sulle mosche: l’Ig Nobel (se
volete saperne di più leggetelo di seguito e poi cercatene).
Comunque, ed a prescindere, un’altra degna
uscita di una collana decisamente sopra la media.
“È questo che capita quando si viaggia per
avere qualcosa da raccontare. Si perde la capacità di vedere.” (25)
Morten
Brask “La vita perfetta di William Sidis” Corriere della Sera Boreali 05 euro
8,90
[A: 29/03/2018 – I: 07/10/2020 – T:
08/10/2020] - && e ½
[tit. or.: William Sidis’ perfekte liv; ling. or.: danese; pagine: 309; anno 2011]
Riprendiamo le letture di questa fino ad ora
interessante collana, con un libro di un autore danese assolutamente poco
conosciuto. Brask nasce giornalista, esperto di cinema, per poi cominciare a
scrivere un po’ prima dei quaranta anni. Scrivere romanzi, sull’input di una
conferenza sui campi di concentramento che segue nella sua città natale,
Copenaghen.
Questo è il suo secondo romanzo, anch’esso
molto ancorato alla vita, quasi una biografia, che, tuttavia, mi ha lasciato
alquanto perplesso (e forse un po’ deluso). La scrittura non coinvolge
tantissimo, e la modalità di riportare la “vita perfetta” del titolo, saltando
qua e là lungo la linea temporale, non mi ha convinto. La scelta di Brask è
tenere un filo rosso sulle ultime fasi della vita di Sidis, e poi saltare a
ritroso nel tempo, dalla nascita ai fatti salienti della sua (di Sidis) vita.
La seconda delusione è che, affrontando il
libro senza altri condizionamenti, pensavo ad una pura bio-fiction, che
sembrava voler affrontare le tematiche del genio inserito in una società
normale, che propria nel contrasto diventa aliena. Motivo per cui il genio non
riesce a concretizzare le sue pur brillanti doti, andando incontro ad una
disfatta dopo l’altra. Finendo per trovare la sua “vita perfetta” solo
nell’isolamento e nella solitudine.
Ovvio che tutto ciò porta ad un risultato completamente
diverso quando, spulciando nella rete scopro (non è che si possa sapere proprio
tutto) che William James Sidis è in realtà un personaggio reale. Una persona
che nasce il 1° aprile 1898 e muore il 17 luglio 1944. Sidis sembra (ci sono
diverse testimonianze pro e contro) aver avuto il più alto Q.I. della storia,
dove si riporta un indice di 254, quando ad esempio Albert Einstein aveva un
indice di 160.
Ed ecco allora che tutta la prospettiva
cambia. Diventa un libro biografico, che tenta di scavare alcuni meandri della
personalità di Sidis, tuttavia senza affrontare “realmente” i nodi del
problema: la personalità del padre ed in subordine della madre, l’incapacità di
volgere in positivo la sua scienza (mancanza di un mentore?), la possibilità che
sia stato affetto dalla sindrome di Asperger.
Il padre, Boris, fu un eminente psicologo,
che però poco o nulla capì della personalità di William, in realtà facendone un
burattino di genio, senza entrare mai realmente in comunicazione con lui. Se
non nell’idea di una educazione fuori dalla norma. Che trovò terreno fertile in
William, ma non nella sorella Helena, motivo per cui tengo a sottolineare che
se l’educazione aiuta, deve anche trovare un terreno fertile.
La madre, Sarah, anch’essa ucraina, non entra
mai in sintonia con il figlio, godendo delle sue capacità, ma non
empatizzandone nei momenti “normali”. Lo portava dalle amiche a mo’ di
baraccone, ma non capiva perché non finalizzasse la sua intelligenza.
Quindi Sidis legge a 18 mesi, a 8 anni parla
almeno 8 lingue, a 11 anni entra all’Università di Harvard (il più giovane
della storia), a 12 anni presenta una dissertazione sulla quarta dimensione che
sarebbe stato interessante potesse essere confrontata con le teorie nascenti
della relatività. Ma William viene lasciato solo in un ambiente che non
apprezza la gente fuori della norma (una critica alla visione della società
americana che condivido in pieno). Allora non può che rinchiudersi nelle sue
manie, ed entrare in rotta di collisione con il mondo. Legge ed apprezza Marx,
ma quando manifesta pacificamente per un primo maggio, viene accusato di essere
comunista (reato gravissimo all’epoca).
Non potrà fare altro, allora, che
rinchiudersi in quella “vita perfetta” che è la solitudine del genio, dedicandosi
a sporadiche uscite con scritti casuali ed eterogeni. Si ricordano un libro
sull’importanza dei Nativi Americani per la democrazia o un manuale sul
collezionismo dei biglietti di treni e tram. Vivendo ovviamente di stenti, che
ad ogni lavoro pur umile non può che entrare in contrasto con l’ordine
costituito. Perché, come tutti gli “Asperger” non riesce mai a tacere quando
qualcosa va contro i suoi principi e la sua morale.
Non potrà, allora, che morire solo, di
emorragia cerebrale a 46 anni, così come suo padre venti anni prima.
L’ultimo elemento che poco mi ha convinto di
Brask è la completa lontananza dal mondo scandinavo. Non è che, per forza,
bisogna parlare del proprio paesello. Ma incentrare un libro su una personalità
completamente distante dal proprio vissuto, rischia di ingenerare (pur nella
bravura dello scrittore) fraintendimenti sul quotidiano o sulle modalità di
affrontare la vita.
Insomma, quando pensavo fosse una fiction,
pur non convincente, aveva un suo fascino. Scoperto l’arcano della “reale vita
di William Sidis”, mi ha lasciato discretamente poco coinvolto.
Cees
Nooteboom “Rituali” Corriere della Sera Boreali 07 euro 8,90
[A:
09/04/2018 – I: 09/10/2020 – T: 10/10/2020] - &&&
e ¾
[tit.
or.: Rituelen; ling. or.: nederlandese; pagine: 213; anno 1980]
Personaggio affascinante il quasi novantenne
Cees Nooteboom, giornalista, scrittore, poeta, e soprattutto, viaggiatore.
Tanto che lo metterei nella mia top five di aspiranti al Nobel (se questo
premio riacquistasse prima o poi una sua originalità).
Innanzi
tutto, scrive bene (ed è ben tradotto), ed anche dove i concetti diventano
ostici, anche al limite non condivisibili, si continua a leggerne e si arriva
al punto. Poi, non si può che essere solidali con una persona che molto viaggia,
e del viaggio scrive (vedi ultima citazione, anche). Cees pubblica un primo
romanzo poco più che ventenne, un secondo trentenne, poi fin quasi ai cinquanta
decide che è meglio andar per il mondo, “parlare e vedere gente” (cit. Nanni
Moretti), e scriverne. Nel 1980, di getto, gli esce fuori dalla penna questo
romanzo, come se appunto tutti questi anni ne fossero stati una gestazione
inconscia. E secondo l’autore questo è il “suo” romanzo, quello che era
necessario scrivere. Tutto il resto è contorno.
Come
dice il titolo, il romanzo si accartoccia intorno a dei rituali ben precisi,
quasi che, mancandone, la vita non sia degna di essere vissuta. Si svolge anche
in tre tappe, che per me hanno significati altri, ben datate: 1953, 1963, 1973.
Se dico che la prima è la mia nascita. Spero non mi chiediate altro delle
altre. Per Cees, invece, rappresentano tre tappe fondamentali della vita di un
suo alter ego, Inni Wintrop.
Si
comincia con il ’63, dove seguiamo il racconto del primo suicidio: quello di
Inni. Commerciante e artista, trentenne come Cees (che ricordiamo è del ’33),
ha una lunga e tormentata storia d’amore con Zita. Si amano appassionatamente,
almeno così dice lui. Che però la tradisce compulsivamente, come se nell’amore
fisico cercasse il rituale che dà senso alla sua vita. Quando, per motivi che
leggerete, Zita lo lascia, Inni si ubriaca poi si impicca nella sua toilette,
ma si sveglia la mattina dopo con la corda intorno al collo strappata.
Si
passa alla prima parte, che, pur svolgendosi nel ’53, viene rivissuta da Inni
con la mente dell’oggi della scrittura. In un viaggio con la zia per trovare il
di lei amante, Arnold, Inni scopre di esser figlio di una relazione
extraconiugale, dopo la quale il padre lascia la famiglia ed un anno dopo muore
(leggete come). Elementi che, pur nella letterarietà, ripercorrono l’infanzia
dello stesso Cees. Arnold è straordinario: vive la sua vita al ritmo di un
orologio, tanto che rimanda indietro Inni e la zia, essendo questi arrivati
dieci minuti prima del previsto. La scansione oraria è fondamentale per Arnold:
quaranta minuti di passeggiata, un’ora di lettura, si cena alle sette. E via
minutando. Ma l’incontro, oltre a ribadire i rituali di Arnold, serve a Inni
per tre cose: Arnold convince la zia ad istituire un fondo con parte
dell’eredità paterna, così che Inni lasci il suo miserando impiego e trovi la
sua via (quella che abbiamo visto prima); Inni ha una avventura erotica che lo
convince che il sesso sarà il suo rituale e continuerà a perseguirlo; Inni e
Arnold instaurano una amicizia molto solida. Tanto che Arnold gli racconta
momenti della sua vita, il suo rapporto con Dio, il modo in cui si sarebbe
ucciso se avesse deciso di farlo. Ed alcuni anni dopo, una nota della zia, gli
rivela la morte di Arnold, e lui capisce che è suicidio.
La
terza parte è anch’essa sorprendente: saltiamo al ’73, dove Inni, andando in
giro per i suoi traffici artistici, e frequentando rivenditori di oggetti
giapponesi, scopre Philip e la sua ossessione per le ciotole “raku”. Delle
ciotole vi lascio leggere, che non ne so molto. Ma lo strano è che Philip, non
solo è oriundo thailandese, ma è anche figlio di Arnold, anche se non ha mai
conosciuto il padre. Inni e Philip solidarizzano e diventano amici. Vediamo i
rituali di quest’ultimo, che vive in un loft bianco, dove passa la maggior
parte del tempo in meditazione, ed in cerimonie del tè. Aspettando di trovare
una “raku” che le sue finanze gli consentano di acquistare. Passano così cinque
anni di amicizia ed incontri, fino a che Philip trova la “sua” tazza, beve il
tè, la rompe e si butta in un canale di Amsterdam.
Tanti
sono i significati decontestualizzati di questo intenso romanzo. Il centrale è
sicuramente il rapporto tra padre e figli. La mancanza degli uni, il rifiuto
degli altri, Arnold che si sente orfano “di un Dio cristiano a cui non crede
più”. Tanto che, senza padri, i figli cercano di dare senso alla loro vita
seguendo degli stretti rituali. Altri due elementi ritualizzano tutto il
contesto: il rapporto tra Cees (attraverso i suoi personaggi) e la religione e
l’immanenza che ha la letteratura nella vita di tutti (non a caso ci sono
citazioni a piè sospinto).
Un
lettore meno emozionale di me andrebbe allora a cercare tutte queste parti, a
parlarne, confrontarle ed altro. Io mi accontento di averle lette, di averle
capite (alcune) e di suggerire a voi di leggerne. Forse quaranta anni sono
tanti, ma i rituali rimangono, per Cees e per ognuno di noi. Se io continuo a
prendere un caffè prima di andare a letto, ci sarà un motivo. Per ora, prima di
avere il coraggio di entrare a fondo nei libri dell’olandese, ritengo sia
giusto suggerirne un’attenta lettura.
“La
nudità di una persona che non aveva mai visto nuda era … commovente.” (19)
“Sulle
Montagne Rocciose non posso tornare … sono troppo vecchio.” (79)
“Ora
che aveva superato i … anni non sarebbe più diventato un pianista, non avrebbe
imparato il giapponese, di questo era certo e, allo stesso tempo, questa
certezza lo rattristava, come se, finalmente, la vita cominciasse a rendere evidenti
i suoi limiti rendendo così visibile anche la morte: non era vero che tutto era
possibile. Forse tutto era stato possibile, ma ormai non lo era più. Si era
quel che, forse inconsapevolmente, si era scelto di essere.” (148)
“Gli
aveva fatto pensare al periodo trascorso a Cheng Mai, nel Nord della
Thailandia: guida in mano, aveva vagato di tempio in tempio … sconcertato. …
Perfino nel duomo coloniale di Lima si era sentito più a casa che in quel
luogo. … Non si hanno mille vite, se ne ha una sola.” (149) [ed io ci sono
stato in entrambi i posti e sono d’accordo con lui]
Majgull
Axelsson “Io non mi chiamo Miriam” Corriere della Sera Boreali 06 euro 8,90
[A: 09/04/2018
– I: 16/10/2020 – T: 19/10/2020] - &&&&
[tit.
or.: Jag heter inte Miriam; ling. or.: svedese; pagine: 460;
anno 2014]
Ancora
un libro di buon livello della collana Boreali, dove credo si vede bene la mano
di fondo degli editori di Iperborea, che hanno fatto una scelta di vita
puntando su questa letteratura. Con successo. Inoltre, capita che ne legga la
settimana prima di una visita da tempo programmata e che spero di portare a
compimento, al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Majgull
è una più che settantenne scrittrice svedese, ma anche, e soprattutto, giornalista,
dedita spesso ad inchieste su problematiche spinose anche per la stessa Svezia.
Come la prostituzione minorile nel Terzo Mondo, la povertà nella stessa Svezia,
con un occhio sempre attento alle minoranze, agli emarginati, ed a tutte le
loro contraddizioni.
In
queste libro, che ho apprezzato molto in lettura, e (aggiungo questa riga a
posteriori) rivalutato dopo la visita ai campi di sterminio sopra citati.
Perché Majgull tenta una operazione non proprio facile: fare un romanzo sulle
problematiche dello sterminio, senza averle vissute in prima persona (essendo
nata nel 1947), ma facendone un racconto in prima persona per bocca della
protagonista. Siamo dalle parti di un Primo Levi senza Primo Levi. E
l’operazione, pur con dei limiti, riesce abbastanza bene.
Intanto,
la Axelsson introduce una vista differente verso la tragedia dell’olocausto e
degli stermini nazisti. Infatti, il personaggio centrale è una “rom”, che si
chiama Malika, che incontriamo per la festa dei suoi 85 anni. È discretamente
sola, pur circondata dagli affetti: il marito Olof è morto da tempo, ma è
rimasto il figlio di primo letto, Thomas, con l’insulsa moglie Katrina, ma
soprattutto con la nipote Camilla. Tuttavia, nessuno la chiama Malika, perché
nessuno lo sa chi sia realmente. Tutti la chiamano Miriam.
Sarà
lei stessa, tra un sogno ed un racconto all’amata Camilla, che ci spiegherà la
sua metamorfosi. Lei viene da una agiata famiglia gitana, anzi “roman”, che
sono gitani stanziali fermatisi in Germania. Vive nella comunità, con i genitori
ed il fratello Didì. Ma nel 1944, i nazisti, per continuare a portare avanti lo
sterminio di tutti i non ariani, prelevano anche la sua famiglia, e la
trasferiscono, cioè ne iniziano il trasferimento verso Auschwitz. I primi a
perdersi di vista sono i genitori, così che rimangono lei e Didì. Poi si
susseguono vicende convulse, che lascio seguire a chi ne leggerà. Tanto che
Didì viene coinvolto nei turpi esperimenti di Mengele, trovando una morte
atroce. Rimasta sola, durante un ulteriore trasferimento, Malika, per ripararsi
dal freddo, prende il cappotto di una ragazza morta, Miriam Goldberg.
Da
questo punto in poi si trasforma in Miriam, e nei suoi racconti seguiamo il
duplice strazio: vede i suoi coetnici “roman” prima isolati, poi sterminati
tutti in quel di Birkenau. E vede gli ebrei presso cui si è rifugiata,
costantemente ma con pervicacia, portati nelle camere a gas, ed anche loro
sterminati. Poco prima di subire la stessa sorte, arrivano i russi liberatori.
Lei viene inviata prima in Danimarca, e poi, dopo la guerra, essendo Miriam
svedese, rimandata in una patria che non è la sua.
Miriam-Malika
ha comunque una grossa facilità per le lingue, impara velocemente lo svedese, e
trova rifugio e conforto nel dentista Olof, da poco vedovo con un figlio
piccolo da crescere. Da lì continuerà per sessanta anni a fingere di essere
Miriam. Perché anche nella progressista Svezia, i “roman” non sono ben visti.
Preferisce rimanere nella menzogna, anche se ne soffre per tutta la vita.
Solo
ora, e solo a Camilla, confessa: “Io non mi chiamo Miriam”.
Majgull
avvince nella sua scrittura, coinvolge nella pena di una persona che si vede
privare più e più volte della propria esistenza, e che per vivere, o
sopravvivere, deve inventarsi una vita diversa. Gli strali della scrittrice,
come detto sempre attenta alle marginalità della vita, vanno allora, e
potentemente, contro i turpi stermini nazisti, riuscendo a farci partecipe alle
assurde vicende (assurde per noi ora) cui Malika assiste. Ma Majgull vuole
anche colpire la Svezia perbenista, che non consente a Miriam di palesarsi come
Malika. Uno strazio infinito, ben reso dalla alternanza di sogni e flashback e
racconti nel presente in un libro che sicuramente mi avrebbe comunque colpito,
ma che letto in prossimità della visita ad Auschwitz mi ha lasciato forse segni
più profondi di quanto pensassi.
Kader
Abdolah “La casa della moschea” Corriere della Sera Boreali 11 euro 8,90
[A: 07/05/2018
– I: 27/10/2020 – T: 31/10/2020] - &&
e ½
[tit.
or.: Het huis van de moskee; ling. or.: nederlandese; pagine: 396;
anno 2005]
Sono rimasto un po’ sorpreso da questa lettura, per
almeno un paio di ragioni. La collana è dedicata, come dice il suo sottotitolo
alla “Grande Letteratura del Nord”, dove io avevo interpretato il senso del
“Boreali”, come di scritture provenienti dalla fascia scandinava (Islanda,
Norvegia, Svezia, Finlandia, magari con l’aggiunta della Danimarca), mentre qui
lo scritto è in olandese, di uno scrittore che lì vive. Ovvio che scritture
come quella di Nooteboom hanno comunque una loro dignità in questo contesto, ma
qui non ne sono convinto. Quasi che si mascheri in ogni caso la “borealità” con
qualsiasi cosa pubblicata dall’ottima casa editrice “Iperborea”.
Certo, infatti, che, dal nome, si capisce subito
come l’autore abbia qualche provenienza da immigrazioni o emigrazioni. In
effetti, Kader è iraniano, più o meno mio coevo, fuggito dal paese natio nel
1988, per rifugiarsi in Olanda, dove vive tuttora.
Il secondo motivo viene dal testo, che,
interessante come andremo a sottolineare più avanti, parla e si svolge tutto
proprio in Iran, prendendo le mosse alcuni anni (o decenni) prima dell’avvento
di Khomeini per protrarsi, all’incirca, qualche anno dopo l’ascesa al potere
degli ayatollah. Una storia, quindi, interessante, ma che ha spiazzato le mie
aspettative.
Pur con queste premesse limitanti, appesantito
purtroppo dalle considerazioni finali che non vi anticipo, è in ogni caso un
testo interessante, strutturato, mai banale, che prima avvince, poi ti porta ad
una esasperazione infinita. Per finire, almeno nella penna di Kader, con un
suono di speranza, che tuttavia io, ora, qui non vedo.
Seguiamo nel corso di tanti anni la vita della
famiglia di Aga Jan nella cittadina di Senjan, città reale, situata circa 300
km a sud di Teheran, su di una strada che a metà incrocia la città santa di
Qom. E non è una scelta casuale, anche perché (e si capirà meglio nel corso
della lettura) molta parte della storia della famiglia di Aga Jan adombra la
storia personale di Kader, che metterà molto del suo vissuto nelle vicende di
Shahbal, l’uomo che narrerà la storia.
Aga Jan è il capo della casa, il personaggio più
importante del bazar con il suo negozio di tappeti, ed il responsabile della
moschea del “Venerdì”, che è collegata, anche fisicamente alla casa. Intorno a
lui vivono e agiscono una notevole massa di personaggi, alcuni più altri meno
decisivi, ma tutti incarnanti momenti ed espressioni dell’islam, del passato e
del presente.
Ci sono i personaggi di contorno, come lo zio
Kazem, il poeta grande fumatore di oppio, come le “nonne”, che nonne non sono
solo due ormai anziane ragazze che da cinquanta anni portano avanti la casa,
instaurando un rapporto anche sessuale con Kazem, e, lui morto, andando in
pellegrinaggio alla Mecca per morirvi in santità. C’è lo storico imam della
Moschea, Alsaberi, sposato con Zeynat, la donna che racconta le storie. I due
hanno una figlia femmina, Seddiq, ed un maschio, Ahmad, che studia per
succedere al padre. C’è Muezzin, di cui non sappiamo il nome, visto che viene
chiamato con la sua funzione, che è anche il padre di Shahbal. C’è Faqri Sadat,
la moglie di Aga Jan, cui ha dato due figlie femmine ed un maschio Javad, che
dovrebbe prendere le orme del padre. Infine, ci sono Nasrat, il fratello di Aga
Jan, che con le foto e la cinepresa, rende la storia disponibile a tutti in
immagini, e Ghalghal, l’imam che viene da Qom e che sposerà Seddiq.
La capacità di Kader è di portarci dal mondo
rurale, contadino, e di cooperazione della città, attraverso tutta una serie di
passi logici, a seguire l’evoluzione storica dell’Iran. Dai tentativi di
modernizzazione dello Scià e di Farah Diba, alla rivolta ed alla presa del
potere di Khomeini. In questa evoluzione, che Aga Jan capisce poco, e poco
segue, si cristallizzano le due fazioni antagoniste: da una parte Ghalghal,
divenuto capo delle Guardie dell’Islam, e Zeynat, l’indottrinatrice delle donne
con il chador. Dall’altra Javad e soprattutto Shahbal, vicini ai “comunisti”,
perseguitati, alcuni uccisi, altri dediti ad attentati e fughe.
Quello che Kader fa risaltare è la contrapposizione
tra un islam pacifico ed un islam combattivo e vendicativo, impersonificato
dagli ayatollah e dai loro seguaci. Con sgomento vediamo accadere quello che
sappiamo: sì, la cacciata dello Scià, ma poi la presa del potere dei barbuti,
le donne che non possono girare da sole e via accentuando tutte le possibili
storture dell’islam di quella zona del mondo.
Kader pensa, tra le righe, che ci siano possibilità
e speranze. Noi, qui, dubitiamo.
L’elemento cui facevo riferimento sopra, e che
rende alla fine poco fruibile gran parte del testo, è l’uso di citazioni
coraniche ed islamiche, dotte, ben fatte, appropriate. Ma, come ci dice sia
l’autore che la traduttrice, sapientemente modificate per portare acqua al
mulino delle tesi di Kader. Cosa legittima, e di grande impatto, ma solo per
chi conosce l’esatto dettato delle citazioni stesse. Oppure se, nella
riproposizione fuori dai contesti islamici, fosse stata fatta un mi rendo conto
assai difficile inserimento di annotazioni esplicative al testo.
Ultima nota, il testo fa comparire una critica
neanche tanto velata a Khomeini, e mi domando come mai non sia caduto negli
strali dei fondamentalisti. Ma chi riesce a leggerne estraniandosi dalle mie
paturnie, trova comunque un testo epico, ed una vicenda tragica che non si
scorderanno.
Non solo è la quinta domenica di gennaio, ma
è anche già la sesta trama di questo denso mese. Non avendo allora particolari
recuperi da fare, vi “delizio” con qualche citazione derivata dalle mie letture
del 2006. Che molti non ricorderanno e molti neanche pensavano a leggermi.
Intanto, pur con qualche apertura, continua la semi-clausura, la totale mancanza di viaggi, e la speranza che queste note riescano, almeno, a farci sentire vicini. Preferisco non commentare altro, che il panorama, sia italiano che mondiale, mi pare troppo fosco, ad ora. Quel che non si oscura è, spero, la nostra amicizia “di penna” (come dire Charlie Brown), per cui continuo ad abbracciarvi.
Citazioni dagli appunti di Giovanni
Vediamo allora di colmare il
vuoto di una settimana in più riandando, con calma e con qualche revisione, a
citazioni che si sono stratificate negli anni intorno alle mie letture.
Torniamo intanto a quelle accumulate
nei mesi di fine 2006.
Nel
saggio “Stronzate. Un saggio filosofico” il filosofo americano Harry G.
Frankfurt riporta un’affermazione tratta dal libro “Storie sporche di Eric
Ambler: “Mai dire una bugia, quando puoi cavartela a forza di
stronzate”. Praticamente una citazione di citazione.
Volendone
ricordare il contenuto, che mi sembra ancora attuale, lascio la parola a chi ne
sa meglio di me.
“Nel
saggio, Frankfurt delinea una teoria della nozione di "stronzata",
definendone il concetto e analizzandone le applicazioni in vari contesti. La
motivazione dello studio è chiara dall'incipit del saggio:
«Uno
dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in
circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo
però a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone confidano
nella propria capacità di riconoscere le stronzate ed evitare di farsi fregare.
Così il fenomeno non ha attirato molto interesse, né ha suscitato indagini
approfondite. Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa
sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro»
Frankfurt
distingue il "dire stronzate" dal semplice mentire. Mentre, infatti,
un bugiardo fa deliberatamente un'affermazione falsa (quindi, conoscendo egli
stesso la verità), colui che dice una stronzata ("bullshitter", in
inglese) è semplicemente disinteressato alla verità stessa.
I
"bullshitters" mirano principalmente a impressionare il proprio
pubblico. Mentre il mentitore deve conoscere la verità per poterla meglio
nascondere o contraffare, il "bullshitter" non fa uso alcuno della
verità o della nozione di verità. Per questo motivo, Frankfurt afferma che
"la stronzata è un nemico della verità più grande della menzogna".
Per
Frankfurt la pericolosità della "stronzata" è appunto nel diffondere
l'idea che è impossibile sapere come stanno veramente le cose. Ne consegue che
qualunque forma di argomentazione critica o analisi intellettuale è legittima,
e vera, se è persuasiva. Tutto questo, secondo l'autore, è effetto di una forma
di vita culturale in cui le persone sono sovente chiamate, o si sentono
chiamate, a parlare di argomenti di cui sanno poco o nulla. In particolare,
Frankfurt porta ad esempio due conoscenti che discutono sulla necessità o meno
di passare 2 settimane di vacanza in Portogallo e l'aneddoto si conclude con la
parola usata poi come titolo del saggio pronunciata da uno dei due
interlocutori per epitetare le frasi argomentate dall'altro.”
Dopo
un saggio, ecco un’altra forma di scrittura non tanto presente nelle mie
letture. Si tratta di Adonis un poeta siriano ora novantenne che vive,
rifugiato, in Francia. Ne avevo sentito parlare spesso, anche come candidato al
Nobel. Finalmente sono riuscito a leggerlo. E devo dire di aver intuito (non
dico compreso) a valle dello studio della lingua araba, la potenza innovatrice
e talvolta "eversiva" delle sue poesie. Sono poesie dove c'è vita,
vita con le sue parole, senza travestimenti. Capisco anche la difficoltà che a
volte si ha perché intuisco che nella traduzione queste parole perdono parte
della loro forza.
Mi
sono rimaste alcune rime, tratte dalla sua collezione di poesie “Memoria
del vento”. La prima viene dalla poesia intitolata “Dialogo”: “Quale
luce piange sotto le tue ciglia?”. La seconda invece da
“Origine della strada”: “Il nostro silenzio – non ha una strada /
così come il nostro amore”.
Poi
devo fare un tributo alla maestra torinese Paola Mastrocola, di cui molto ho
letto, ma che non avrei cominciato senza l’impulso della mia amica Chiara.
Soprattutto pensando ai suoi anni torinesi, e ritrovandone il gusto in quello
che ritengo tuttora il miglior libro della scrittrice. Mi riferisco a “Una
barca nel bosco”, dalla cui lettura è rimasta questa frase, che suona un
po’ ad epigrafe di tutte le idee che ci facciamo in solitaria, avendo paura di
confrontarci con l’esterno: “L’esattezza
delle cose che ti aspetti, la perfetta coincidenza di ciò che hai immaginato
con ciò che è, la felicità di vedere che le due cose si sovrappongono
esattamente… Non è facile. Quasi sempre ti fai un’idea delle cose che poi non è
mai quella”.
Molto
collegato al tempo di quelle letture (era il 2006), ed a quel tempo soggettive,
è anche la nascita del mio interesse per il priore di Bose Enzo Bianchi. Che mi
ha sempre, in ogni suo scritto, dato modo di riflettere su di me e sul mio
essere nel mondo. Come nel primo libro letto allora “La differenza cristiana”.
Lì c’era questa frase, che idealmente collego alla precedente, pur nella loro
diversità: “Ascoltare è ospitare l’altro dentro di noi, ritirarsi per
lasciare campo libero anche all’altro”.
Il
tema dell’ascolto dovrebbe essere un tema su cui aprire una discussione tra
noi. Quante volte sentiamo e non ascoltiamo. Quante volte le parole arrivano a
noi e noi le usiamo in modo altro. Quanti libri ho letto in cui mi innervosivo
perché i personaggi immaginavano storie invece di fare domande ed ascoltare
risposte.
Vorrei
finire con un tocco di leggerezza passando ad un autore di cui molto mi intrigò
questo primo libro letto, ma che non sempre ha mantenuto quello che io speravo
in successive letture. Parlo di Jonathan Safran Foer e del suo “Ogni cosa è
illuminata”.
Una
delle frasi migliori sullo straniamento, viene da questo dialogo che mi
immagino “alla Buster Keaton”: “Ti sei mai innamorato? - Non credo. Credo
che se mi fosse successo lo saprei”.
Chiudo
con un'altra sua frase che sposo in pieno:
“Mi
chiedo se riesci ad immaginare la mia vita senza di me. - Certo che riesco ad
immaginarla, ma non mi piace”.
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