domenica 24 gennaio 2021

Riscoperte del Duemila - 24 gennaio 2021

 Ecco altri libri che vengono pubblicizzati come vecchie letture riscoperte negli ultimi venti anni. In effetti, partiamo dall’yiddish di Singer del ’43 (il migliore del lotto, da leggere in questa settimana dedicata alla memoria), poi il russo emigrato di Gazdanov del ’40 (il peggiore), risaliamo con i racconti sparsi nel tempo di Scott Fitzgerald, e finiamo con l’interessante Connell del ’59.

Israel J. Singer “La famiglia Karnowski” Repubblica Duemila 2 euro 9,90

[A: 15/01/2018 – I: 28/06/2020 – T: 30/06/2020] - &&&&

[titolo: Di mishpokhe Karnovski; lingua: yiddish; pagine: 500; anno: 1943]

Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia il primo libro in yiddish che compare nelle mie letture degli ultimi quindici anni. Poiché, ricordo ai pochi smemorati, sono questi gli anni in cui ho cominciato a tenere un conto esatto di tutte le mie letture. Guardando le mie note, vedo che negli anni ’90 lessi qualcosa del più famoso fratello, il premio Nobel Isaac B. Singer. Qui, invece, abbiamo un puro esempio di letteratura yiddish, il cui autore, Israel Joshua Singer (il cui nome in yiddish dovrebbe essere Yisroel Yehoshua Zinger) è il fratello maggiore di Isaac. Per non fare confusione, quindi, lo chiamerò per nome.

Benché comunque non abbia scritti tradotti dall’yiddish, ci sono molti autori di lingua inglese che hanno una formazione yiddish, e si sente. Tanto per citarne alcuni, abbiamo Bernard Malamud, Philip Roth, e Jonathan Safran Foer, tra gli altri. Israel mi sembra ben dotato nella scrittura e nelle idee. E questi Karnowski, pur nelle ovvie diversità, sembrano parenti dei più tardi Muskat di Isaac. Intanto, il libro è uscito alcuni anni prima, ed entrambi i fratelli erano da anni negli Stati Uniti, per cui è probabile che si scambiassero opinione. Ma la possibile similitudine è solo nell’idea, quella di seguire l’evoluzione di una famiglia nel corso degli anni.

Poiché infine, non ho letto i Muskat, mi concentro su questa lettura, che ritengo degna di alti onori. Ha di certo i segni dell’età. Non sempre ottanta anni passano senza lasciare traccia. Tuttavia, la capacità di Israel di darci pochi elementi cronologici fa in modo che alcune tematiche possono essere sentite senza tempo. Ovvio non quella di fondo, che da ebreo ha sentito sulla propria pelle: la fuga dalle sue radici e l’oppressione nazista.

In queste cinquecento dense pagine, Israel riesce a rappresentarci un mondo che cambia ed una sconfitta dalla parte degli sconfitti, ma senza né consolazioni né tinte fosche. Ne esce un orrore forse anche maggiore. Vediamo scorrere le tre generazioni della famiglia Karnowski, dal capostipite David al nipote Jegor passando per l’intermedio Georg. La saga ha origine a Melnitz nella Grande Polonia (ora Mel'nytsya in Ucraina), dove il commerciante di legnami e studioso della Torah, David, entra in contrasto con i rabbini locali, conservatori e testardi, poiché segue la lezione innovatrice dei commentari biblici di Moses Mendelssohn (nonno del compositore Felix). Per questo abbandona tutto e si trasferisce a Berlino, ipotizzando che nella grande metropoli, agli albori del nuovo secolo, ci sia più libertà di pensiero.

Farà carriera, si troverà una posizione, ma entrerà ben presto in contrasto con il figlio Georg. Che non vuole studiare, che soprattutto è refrattario all’ebraismo ed alla rigidità ortodossa del padre. Si lega con una famiglia comunista, padre e figlia medici. Soprattutto con Elsa cercherà di trovare la propria strada. Abbandona così gli studi di filosofia, per passare a medicina e stare con Elsa. Anche se di seconda mano, fare il medico si rivela un mestiere a lui consono. Ed anche se partirà per la Grande Guerra, lo farà da medico. Non trova sbocchi con Elsa, comunista dura e pura. Dopo la guerra, nel clima difficile della Germania sconfitta, con qualche aiuto, riesce ad entrare nella clinica ginecologica di maggior prestigio di Berlino. Dove si innamora dell’infermiera cattolica Teresa, che sposa e da cui avrà il figlio Jegor.

Mentre David rimane nell’ombra, vediamo Georg e Jegor attraversare con diverso passo gli anni della crisi. Georg fa carriera, fino a che l’avanzata dei nazisti e le leggi raziali lo costringeranno ad una dura scelta. Jegor, invece, è spaccato a metà tra l’esteriorità che lo relega tra gli ebrei, e la sua interiorità, che lo fa ritenere più tedesco dei tedeschi. Purtroppo, il padre e tutta la famiglia rifiutano di affrontare il problema, ed il giovane si trova dilaniato tra i suoi sentimenti pro-hitleriani, ed il fatto che i nazisti lo isolano, lo dileggiano, insomma lo trattano da ebreo.

Come lo stesso Israel, la famiglia Karnowski decide allora di emigrare negli Stati Uniti. Dove, in ogni caso, si troveranno ad affrontare gli stessi conflitti. Il medico Georg non troverà lavoro come dottore, e dovrà cercare di arrangiarsi con mille mezzucci. Il giovane Jegor si troverà risucchiato dalla parte degli emigrati “tedeschi puri”, finendo anche a fare la spia ed il delatore. Il tutto verso un quarantacinquesimo ed ultimo capitolo che da tempo aspettavo, e che Israel risolve con maestria ed anche con un barlume (ma quanto fioco) di speranza.

Israel riesce a condensare un mondo in queste sue pagine. Che non sono solo la famiglia Karnowski, ma tutto quanto le ruota intorno. Il commerciante Solomon sempre allegro, il rabbino polacco e quello tedesco, lo zio ariano di Jegor. E tanti altri, disegnando tipologie che diventano esempi di modi di vivere, a volte caricaturali, ma che per questo rimangono meglio impressi. A volte crudi e reali, come la spia nazista a capo dei Servizi Segreti in America. Si capisce il retroterra dell’affabulazione ebraica ashkenazita, si capisce (meglio) il fratello Isaac, e dispiace che Israel non abbia avuto uno spazio proprio di visione letteraria. Anche se, ora, a settant’anni dalla morte, se ne recuperano felicemente alcuni scritti. Come questa famiglia, che va letta, ripeto, con tutte le piccole ragnatele del tempo che passa.

“Ciò nonostante … li classificavano tra le persone poco affidabili, come gli attori, che si possono ammirare ma dai quali è sempre bene stare lontani.” (149)

“Il saggio è colui che vede ciò che accadrà … Tu, con il tuo cervello da femmina non puoi capirlo. Io lo vedo.” (197)

“Come accade alle persone di mezza età rifletté su quanto gli anni passassero in fretta. Non molto prima era stato un giovane in conflitto col padre per questioni di cattiva condotta, e oggi era lui steso padre di un ragazzo che si rendeva colpevole di qualche scappatella.” (414)

Gajto Gazdanov “Strade di notte” Repubblica Duemila 22 euro 9,90

[A: 05/06/2018 – I: 22/09/2020 – T: 23/09/2020] - && e ¾

[tit. or.: Ночная дорога - Nochnaia doroga; ling. or.: russo; pagine: 205; anno 1940]

[tit. or.: Ночные дороги - Nochnye dorogi; ling. or.: russo; pagine: 205; anno 1952]

Spieghiamo subito i due titoli. Il libro venne scritto e pubblicato nel 1940, per poi essere rivisto con il titolo posto al plurale nel 1952, quando Gazdanov cessò la sua attività di tassista notturno, che era stata l’ispirazione di molte pagine del libro. Come si evince dal titolo e dal nome completo (Georgi Ivanovitch Gazdanov detto Gajto) era di origine russa, ed in particolare osseta. Nasce nel 1903 a San Pietroburgo, e prende parte giovanissimo alla guerra civile russa, schierandosi nell’armata del generale Pëtr Nikolaevič Vrangel', cioè dalla parte dei Bianchi. Sconfitto, nel 1920 fugge dalla Russia attraverso la Turchia ed altre nazioni, per approdare nel 1923 a Parigi. Non tornerà mai in Russia, ed i suoi scritti verranno pubblicati in patria solo dopo il 1990. Infine, pur vivendo a lungo in Francia, e parlando correntemente il francese, scrisse tutte le sue opere in russo. Si parla di una scrittura intima, piena, al solito, di domande sui grandi sistemi, sempre con un qualche sentimento di rimpianto verso il passato, ma mai traspare un antisovietismo, pur sempre presente nel fondo degli scritti.

Gajto frequenta tutti i bassi strati del mondo parigino, diurno e notturno. Fa l’operaio alla Renault, frequenta la Sorbona da studente – lavoratore, poi dagli anni 30 in poi fa il tassista di notte (e lo scrittore di giorno).

In questo romanzo, al fondo autobiografico senza essere un memoir, descrive la vita di un colto tassista notturno di origine russa che osserva, tra indignazione, indifferenza e rassegnazione, le avventure e le disavventure dei suoi connazionali e dei personaggi che popolano la variegata fauna notturna della città. Oltre al sé stesso tassista, pochi sono i personaggi veramente rilevanti, ma nel flusso narrativo dei giorni, compaiono una moltitudine di comparse, atte a descrivere i momenti di una vita (la loro e quella di Gajto). Alcuni personaggi entrano anche solo per un paio di pagine, ma Gajto li utilizza per fissare sulla carta momenti, sensazioni, idee che senza loro svaniscono con la nebbia del mattino.

Gajto utilizza il taxi come elemento di incontro della sua clientela, variegata come lo sono le notti parigine. Ubriaconi che non riescono a tornare a casa, persone che vanno alla stazione, piccoli e grandi borghesi che aspettano la notte per tuffarsi dentro i night club. Ma anche i poveri, i diseredati, le prostitute. Non è un samaritano che aiuta tutti, ma un empatico che vede, annota, aiuta talvolta, ma è anche duro con le persone sgradevoli.

Poi ci sono invece quelli che ricorrono, che danno una parvenza di ossatura al testo.

C’è una donna un tempo bellissima, desiderata, amata e osannata: la Raldi. Ora è caduta nel più profondo baratro, costretta alla strada, pur con un’età ormai non più consona. Gajto è affascinato dai racconti della Raldi ai tempi dei fasti, e la accompagnerà fino alla sua miseranda fine, lì sì commosso e partecipe.

Vediamo Alice, donna bellissima e giovane, inizialmente protetta dalla Raldi, ma che si rivela di scarsa intelligenza e nulla compassione. Abbandonerà la sua protettrice per una sistemazione semilussosa scatenando l’ira funesta del tassista.

La storia più lunga ed intrecciata coinvolge la prostituta Suzanne che tramite lui incontra, e sposa, un emigrato ucraino Fedorčenko. La cui utilità è per Gajto il fatto di farne l’incarnazione di quel termine di gogoliana ed intraducibile memoria: un esempio preclaro di “pošlost’”. Che, secondo saggisti di madre lingua (spero in un aiuto da Nico), potrebbe essere tradotto come “meschinità auto soddisfatta, morale e spirituale”. Ma serve anche ad introdurre lo strano Vasil’ev, schizofrenico inventore di oscuri complotti di matrice bolscevica.

Fino alla figura quasi di alter ego “diverso” di un altro emigrato russo, indicato solo con il soprannome di Platone, che serve a Gajto per imbastire alcune utili riflessioni filosofiche notturne. Per tratteggiare nel fondo la Russia: quella prima e dopo la rivoluzione, quella reale e quella idealizzata dagli emigrati. Fino alla Russia letteraria, identificata da Gajto nella descrizione della morte del principe Andrej di Guerra e pace. Alzando il velo su quell’insieme di russi bianchi che si costituirono comunità in quegli anni parigini.

Non sempre scorre la penna, a volte si intreccia, e blocca la mia empatia, ma, pur non amandolo tutto, l’ho trovata una lettura stimolante, anche per quei rimandi notturni ad una Parigi che è stata ed è anche mia.

“La maggioranza del genere umano non è in grado di compiere lo sforzo titanico necessario a comprendere una persona di un altro ambiente, con altre origini e con un cervello diverso da quello cui si è abituati.” (64)

“Lo voglio sapere, e voglio che sia lei a spiegarmelo. Primo: perché esisto? Secondo: che cosa succederà dopo la morte, e se non succederà niente, a che serve tutto questo?” (192)

Francis Scott Fitzgerald “Per te morirei e altri racconti perduti” Repubblica Duemila 3 euro 9,90

[A: 07/05/2020 – I: 13/11/2020 – T: 15/11/2020] - &&& --- 

[tit. or.: I’d die for you, and other lost stories; ling. or.: inglese; pagine: 465; anno 2017]

Non meravigli la data dell’edizione, che in effetti questa è una raccolta di racconti, sceneggiature e spunti vari, che escono dal fondo del lascito di “F. Scott Fitzgerald” curato da Anne Margaret Daniel, e che sono inediti.

Anzi, più che inediti sono testi, che per ragioni diverse, furono a suo tempo rifiutati dagli editori del grande romanziere americano. A volte perché realmente incompiuti, più spesso perché non in linea con la tipologia editoriale che si associava a Fitzgerald. Era il “cantore dell’età del jazz”, ed allora stonavano testi che si occupavano di momenti altri.

Il libro comprende 18 storie inedite (per lo più scritte negli anni Trenta), in quel periodo dove il nostro cominciava un inesorabile declino: la moglie Zelda entra ed esce da cliniche psichiatriche, lui sotto pressione finanziarie e sempre più attaccato alla bottiglia. Disperato è lui, e disperate sono queste storie. A volte anche poco riuscite, e spesso respinte dagli editori con richieste di modifiche che Scott rifiutava sempre di apportare.

Un grazie sentito va alla curatrice che ha organizzato i racconti in ordine cronologico con delle piccole ed utili introduzioni. Nella mia memoria ne rimangono però solo alcuni.

Il primo racconto di questa raccolta, “Il «pagherò»” (1920) è una parodia del mondo editoriale, scritto quando Scott era ancora sulla cresta dell’onda, dove si prende anche in giro (“Pubblico romanzi torrenziali sul primo amore scritti da vecchie zitelle del South Dakota … Non pubblico romanzi di autori sotto i quindici anni"). “Le donne di casa” (1939) e “Un saluto a Lucy ed Elsie” (1939) sono delle piccole parentesi di serenità, scritti in un momento fertile, quando Scott a Hollywood aveva smesso di bere. Stava scrivendo anche al suo grande romanzo incompiuto, poi pubblicato postumo (“Gli ultimi fuochi”).

Spesso, in controtendenza, ci sono al centro personaggi femminili dal carattere forte. Giovani donne che, tra problemi e pensieri, cercano l’uomo giusto. Il racconto “Fuorigioco” (1937) ad esempio è un tentativo di tornare alle storie che il suo pubblico (non lui) gradiva. Fra tradimenti, menzogne, sesso e corruzione vediamo Kiki una ragazza bionda dagli occhi azzurri attratta da una discutibile star del football di Yale dopo che il fidanzato l'ha lasciata.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta “Per te morirei” (1935-36) ha molte risonanze con le atmosfere ed il modo di porsi che avevano fatto eccelso “Il grande Gatsby”. Al centro c’è Carley Delannux, un uomo sinistro e destinato a una fine tragica. Carley è un corruttore, con una striscia di sinistre situazioni, una storia in cui è inserito anche un suicidio. E gli editori non se lo aspettavano, tanto che il suo agente lo fece girare a tante riviste. Ma nessuno lo volle pubblicare.

Come detto, poi, la maggior parte dei testi vengono dagli ultimi anni di Scott, ridotto al verde, alcolizzato, solo. Racconti cupi, rifiutati perché “non sono il tuo stile, Scott”. Ma quale dovrebbe essere lo stile di un autore? Quello del successo, o quello che lui sente nello scrivere?

Si parla, tra giovani uomini ma anche tra giovani donne, di matrimonio, di amore, si sesso. Senza censure. Si parla di cliniche psichiatriche, eco di quelle dove visse a lungo Zelda. C’è l’eco della grande depressione e il ricordo della Guerra Civile, in “Pollici in alto” (1936), senza fare nessuno sconto alla violenza presente in quello che viene considerato un momento fondante della storia americana. Ci sono le montagne del North Carolina, dove Scott cercava di rimettersi in salute, e c’è la sua New York, amata anche in questa rappresentazione periferica, e per questo anche più vera. Ma ci sono anche ritratti di straordinaria modernità, come le signorine “che possono fare tutto da sole” di “La perla e la pelliccia” (1936).

Tanti sono i mondi scritti, sempre con maestria, anche nei racconti meno riusciti. C’è il suicidio, come detto, la miseria, l’alcolismo, la pazzia, la corruzione. Insomma, l’America, com’è, non come vorrebbe Trump fosse. C’è il mondo scintillante del cinema, nella sua profonda malinconia. E come nel migliore Fitzgerald, ci sono i ricchi, accanto ai poveri, sempre più poveri ed emarginati.

Una raccolta didascalica, non sempre riuscita, ma che spinge a ritornare ai suoi libri, che forse da troppo tempo ho anch’io dimenticato.

“Devono essersi scordati di fornirmi di gelosia. Probabilmente hanno rimediato con una dose doppia di illusioni.” (151)

Evan S. Connell “Mrs. Bridge” Repubblica Duemila 17 euro 9,90

[A: 07/05/2018 – I: 28/11/2020 – T: 30/11/2020] - &&& e ¾ 

[tit. or.: Mrs. Bridge; ling. or.: inglese; pagine: 223; anno 1959]

Ecco un altro autore poco noto (almeno a me) ed a quanto leggo poco tradotto in Italia. Quasi fosse autore di un solo significativo libro. Questo. Che in effetti, è interessante, ben scritto, con una lettura che nonostante l’età prende. Se poi pensiamo che ha scritto un libro parallelo a questo (“Mr. Bridge”) e che dai due venne tratto un bel film di James Ivory, per l’interpretazione di Paul Newman e Joanne Woodward, direi che c’è abbastanza da scriverne.

Evan Shelby Connell jr. nei suoi quasi novant’anni di vita (muore a Santa Fè nel 2013) ha scritto in effetti diciotto romanzi, ed altre opere minori. Tipico esempio di scrittore noto ma non famoso, letto ma messo poi in qualche recesso mentale.

Peccato, perché pur non essendo un capolavoro, questo suo romanzo illumina in maniera chiara e preoccupante tutto quanto sappiamo (e magari noi che ne abbiamo girato molto, anche visto) di quell’americano medio e conservatore che è l’asse portante dell’esistenza americana non esteriorizzata. Che, probabilmente, è il tipico prodotto che ha votato, vota e voterà i Trump di quella terra.

Con tocco lieve, Connell ci descrive la vita di una famiglia di Kansas City (sua città Natale) essenzialmente dipinta nell’epoca tra le due guerre Mondiali. Al centro, come dice il titolo, c’è India Bridge. Che seguiamo come principale attrice della vicenda dalla dichiarazione di matrimonio di Walter Bridge sino ad una vecchiaia, non certo serenissima, ma di certo tipica.

La vediamo nella vita familiare, negli affetti, nelle amicizie, nelle frequentazioni. E vediamo intorno a lei girare il piccolo mondo del Country Club District di K.C. C’è Mr. Bridge, avvocato in carriera, legato, indissolubilmente, ai valori tradizionali. In particolare, ai soldi, ossessione americana. Ed allo status quo.

Ci saranno i figli, tre, concepiti senza trasporto, seguiti e cresciuti nei valori tradizionali, conflittualmente vissuti. Ruth, la maggiore, la più bella, conscia della sua bellezza, che se ne andrà appena possibile a New York, nel mondo delle riviste di moda. Carolyn, la seconda, che deciderà di sposare uno spostato, farci un figlio, per poi gravitare sempre nell’orbita materna. Douglas, il minore, solitario, introverso in casa, esternante fuori. Figli che né India né Walter capiranno mai. Che non seguiranno le loro idee. Creando nel tempo una conflittualità mai palese (non si fa così nelle cittadine dell’interno).

Ci saranno le amiche di India (che Walter compare sempre poco qui, teso a far soldi per rendere agiata la famiglia). Di vario aspetto, intelligenti, limitate, modaiole. In particolare, Grace, quella che India ritiene la sua migliore amica. E forse la più intelligente. Che si domanda cosa ci facciano lì, quale sia lo scopo della loro vita, non trovandone, ed entrando così in una depressione fatale.

Ci sono i tanti elementi presenti nel Club, dipinti anche con pochi tratti. Ma li vediamo bene, vuoti, che parlano per sentirsi parlare, che pontificano laddove non sanno. Ah, quanta gente anche voi conoscerete in simili atteggiamenti.

Sono tutti elementi che, ora qua ed ora là, sembrano dare spunti di vita ad India (ricordiamo che è lei il fulcro del libro, come Walter lo sarà del sequel uscito dieci anni dopo). Che inizia a leggere libri impegnati, che inizia a studiare spagnolo, che accetta la presenza della gente di colore, ma che di certo non la frequenta. Connell riesce, attraverso capitoli più o meno agili, a farci progredire nel tempo, ogni volta accumulando piccole pietre di dolore. I rapporti, i pranzi inutili, i ritorni a casa di Walter senza che mai si senta un briciolo di empatia tra lui ed i figli. O tanto meno tra lui e India.

Unico momento che sembra rinverdire i fasti giovanili, è la decisione di un grande viaggio in Europa per celebrare un rotondo compleanno di India. Anche lì, pieni i due WASP di contrasti con i londinesi, i francesi, i romani. Viaggio che decidono di interrompere anzi tempo, nel settembre del ’39, alla notizia dell’invasione tedesca della Polonia.

India, per tutto il libro, è attratta dalle cose minute, coinvolta nelle incombenze quotidiane, dato che è una casalinga. Si direbbe una “casalinga disperata” senza però la coscienza che sia possibile una ribellione.

Pur con alcuni limiti temporali, l’ho trovato un libro di interesse, che riporta la voglia di leggere e di esplorare l’animo umano. E poi, sapendone i due interpreti del film, ne leggi e ne vedi la faccia mentre ne leggi. Lettura direi altamente consigliata.

Siamo già alla quinta di gennaio, che solitamente viene dedicata ai libri curativi letti non in sincronia con l’andamento della libropedia.

Ci sono novità nei viaggi? No. Ci sono novità nell’uscita dal coprifuoco? Nemmeno, e si trovano anche difficoltà ad andare a riposarsi in campagna. C’è solo tanta voglia di sentirvi, tanto che con queste mie mi sembra di esservi sempre vicino. E per continuare nel filone delle citazioni, eccoci ad una che sembra essere in linea con i nostri tempi: “Devi parlare della paura… se la paura diventa un’oscurità inespressa che cerchi di evitare e che forse riesci persino a dimenticare, ti esponi ai suoi attacchi futuri.” Viene dal libro “Vita di Pi” di Yann Martel.

Pensiamoci, e non facciamoci prendere da nessuna paura. Anzi continuiamo ad abbracciarci seppur virtualmente. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Dopo Sant’Agnese 2021

Come sapete, se ci sono cinque domeniche, provo a recuperare cure passate o saltate.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

Sessant’anni, avere

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SESSANTENNI

Chinua Achebe         “Il crollo”

Elias Canetti              “Auto da fé”

Federico De Roberto  “I viceré”

Charles Dickens        “Il circolo Pickwick”

Natalia Ginzburg       “Lessico famigliare”

Agota Kristof            “Ieri”

Philip Roth               “Il teatro di Sabbath”

Graham Swift           “Ultimo giro”

Tiziano Terzani         “Un altro giro di giostra”

Ivan Turgenev          “Padri e figli”

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

Carne, mangiare troppa

Michael Faber           “Sotto la pelle”

Quando andate in campagna, a primavera, vedete agnellini che giocano o altrettanti arrosti per il pranzo della domenica? Oppure, ahi voi, entrambe le cose? Come la pensiate sul consumo di proteine animali – qualunque sia la vostra posizione politica, etica o religiosa – questo libro vi farà gettare qualunque maschera abbiate messo tra voi e la fetta di carne che avete sul piatto.

Ancora una volta, svelare perché questo romanzo – con cui Michael Faber sfida ogni genere letterario – serva a curarvi dall’eccessivo desiderio di mangiare carne rovinerebbe tutto il piacere di gustarlo. Possiamo accennare qualcosa, tuttavia. Ambientato in Scozia, la bellezza spietata del paesaggio, con i suoi “scorci di pioggia a due o tre montagne di distanza”, è l’unica presenza positiva nella serie di eventi profondamente inquietanti che si raccontano. Isserley è una donna attraente ma strana che passa le giornate a guidare in giro per la campagna. Fa un lavoro misterioso, che sembra portarla a raccogliere autostoppisti, con un’auto appositamente modificata per le sue esigenze. E curioso, Isserley pare a disagio sul sedile e viaggia con il riscaldamento al massimo. Le persone con cui vive, inoltre, sembrano avere paura di lei.

Il romanzo è una lettura essenziale per chiunque abbia a cuore la dimensione etica del cibo che mangia; per quelli che stanno pensando di andare a convivere con un vegetariano e vorrebbero evitare litigi in cucina; per coloro, infine, che soffrono di attacchi di senso di colpa ogni volta che mordono quella che una volta era una simpatica, morbida creatura innocente. “Sotto la pelle” rimarrà con voi per molto tempo dopo che lo avrete finito, e anche molto tempo dopo che avrete imparato ad apprezzare il tofu.

Costipazione

Gregory David Roberts           “Shantaram”

Certi romanzi fanno venire voglia di tenere tutto dentro, altri fanno venire voglia di buttare tutto fuori. Questo corposo romanzo ambientato nei bassifondi di Bombay e scritto da un ex rapinatore di banche australiano riuscirà a sbloccarvi in un attimo. Leggetelo per il grande calore del suo narratore, per come abbraccia tutto ciò che è pieno di ardore e privo di regole. Leggetelo per la facilità con cui escono le parole, evocando questa città di venti milioni di abitanti con il suo caldo soffocante e i suoi sporchi miraggi e gli ettari di baraccopoli costruita con la spazzatura dove la gente vive la propria vita: mangiano, fumano, litigano, copulano, mercanteggiano, cantano, si fanno la barba, partoriscono, giocano, cucinano e muoiono, tutto sotto gli occhi di tutti. Leggetelo per lo splendido elenco di frutti di bosco che sapranno sciogliere il vostro intestino come un lassativo lessicale: Paw paw, papaia, annona, mosambi (lime dolce), uva, anguria, banana, santra (arancia), mango. Soprattutto, leggetelo per la descrizione che Prabaker fa dei “movimenti” mattutini degli abitanti delle baracche, tutti insieme lungo un molo, giovani e meno giovani accovacciati con le natiche rivolte all’oceano in conviviale armonia, che assistono ai reciproci progressi e difficoltà. “Oh, sì!” dice Prabaker, l’amico del narratore, che lo invita ad andare al molo, sapendo che altre persone li aspettano. “Ti trovano affascinante. Per loro sei come una stella del cinema. Muoiono dalla voglia di vedere come te la cavi coi movimenti”.

Con questa immagine di natiche scoperte che fanno il proprio lavoro in pubblico scolpita nella memoria, sarete per sempre riconoscenti a nome del vostro bagno privato, e desiderosi di usarlo. Se poi, al momento opportuno, i tanto attesi “movimenti” tardano ad arrivare, questo romanzo grosso come un fermaporte vi terrà splendidamente occupati.

Bugiardino

Nell’ottobre del 2019 parlai di questo elenco di letture per sessantenni, lasciando in alto a tutti il mio amato Terzani. Come dicevo allora, avevo Achebe e Canetti in lista d’attesa. Ne lessi poco dopo ed ora ne riporto. Saltai invece l’inno ai carnivori per farci diventare vegetariani, ma Faber non mi è mai piaciuto granché. Finiamo questo recupero con un libro sull’India, che speravo migliore, e che invece non mi ha fino in fondo riportato al subcontinente che conosco.

Chinua Achebe “Il crollo – Ormai a disagio” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[tramato il 27 settembre 2020]

Un altro libro della biblioteca genitoriale, recuperato dalla memoria e letto con interesse. Un libro doppio, che contiene i primi due capitoli della trilogia fondamentale dello scrittore nigeriano. Una bella scrittura che riesce a riportarci in Africa, e ben dal di dentro. Si sente l’amore per la sua terra e l’odio per chi l’ha fatta diventare una colonia, terra bruciata di conflitti insanabili. Achebe è duro, inflessibile, e forse per questo, come dice la sua biografia, non fu mai premiato con onori internazionali. Mostra troppo il suo astio verso l’Occidente per poter ambire a suo tempo a Nobel ed altro, così come invece successe al suo connazionale Wole Soyinka. Anche se connazionale fino ad un certo punto, che Achebe è stato sempre più biafrano che nigeriano. Ma veniamo ora ai testi, i cui titoli entrambi derivano da brani di poesie di Yeats.

“Il crollo”

Il titolo originale, come dalla recente ripubblicazione nelle edizioni “La Nave di Teseo” recita in effetti “Le cose crollano”, ripreso dal brano della poesia di Yeats “The Second Coming”, dedicato dal poeta irlandese al crollo del suo vecchio mondo, quello cristiano, corrotto e superato dall’avanzare del mondo stesso. Achebe ne prende lo spunto, per descrivere quello che fu in verità un crollo. Quello del vecchio mondo pervaso dalla cultura del suo popolo (gli “igbo”) frantumato dall’avanzata del colonialismo inglese.

La scrittura di Achebe segue la parabola di uno dei maggiorenti locali, Okonkwo, che, in alcuni tratti, sembra ripercorrere la vicenda ancestrale della famiglia Achebe, quasi ne rivedesse il nonno paterno. Okonkwo è fortemente legato alla cultura igbo, ne segue le leggi, ne percorre, nel bene e nel male, le parabole di vita. È un uomo che si fa da sé. Vediamo infatti nella prima parte il conflitto con l’ignavo padre, che si comporta come una cicala, dissipando al sole le sue scarse fortune, per bere e cantare con gli amici. Fino a morire povero e solitario.

Okonkwo invece è un gran lavoratore, è stato il re dei lottatori al culmine dell’adolescenza. E si capisce dai cenni alla vita locale quanto la lotta sia uno strumento di innalzamento sociale degli igbo. Si sposa, ha tre mogli e tanti figli, anche se è fortemente legato solo al suo primogenito Nwoye. La scrittura di Achebe ci porta dentro questa vita rurale, con tutti i suoi riti: le chiacchiere nella piazza principale, la semina delle piante sostentamento e nutrimento del popolo igbo, i rapporti con le mogli, sempre improntati alla supremazia maschile. Strano mi fa leggere che Okonkwo aspetta il cibo dalle tre mogli, e mangia da tutte e tre, in ordine di anzianità di sposalizio. Bello è anche l’inciso sulla terza moglie e sulla sua unica figlia femmina. Poi avvengono due fatti che segnano la vita del nostro eroe.

Il debito di sangue di un villaggio vicino, che per riscattarsi dà in pegno al villaggio di Okonkwo un ragazzo, che diventa il miglior amico di Nwoy. Per tre anni il ragazzo cresce con la famiglia, poi l’oracolo del villaggio, non si sa in base a quale legge ancestrale, ne decreta la morte. Sarà proprio Okonkwo che dovrà eseguirla, e questo fatto comincia a segnare il crollo dei valori su cui il nostro fonda la sua vita.

Il secondo fatto è l’uccisione, pur casuale, di un membro del villaggio durante una festa da parte dello stesso Okonkwo. In base alle leggi interne, la famiglia subisce un esilio di sette anni dal villaggio. Sette anni che vivranno in ristrettezze, che l’esilio comporta l’abbandono di tutti i beni posseduti. Sette anni che vedono l’ingresso dei missionari protestanti nel paese. Missionari che cominciano a distruggere tutti i valori delle loro pur semplici esistenze.

Qui, Achebe ha un grosso scatto di scrittura, riuscendo a farci percepire lo scontro tra le due culture. La differenza, anche, tra alcuni missionari, empatici delle situazioni locali, ed altri che vengono con la presupponenza dell’uomo bianco che vuole imporre la propria democrazia. Vediamo tutta la cattiveria dell’oppressore. Vediamo anche come, per diverse ragioni, i locali “cadono” nelle trappole dell’occidente. E per sventura di Okonkwo, uno dei primi a “passare al nemico” è proprio suo figlio Nwoye. Altro colpo fatale al nostro eroe. Che tornando dopo sette anni al villaggio natio, ne vede la degradazione da parte dell’uomo bianco, cerca di opporsi, finendo con l’uccidere un soldato inglese. Questo porterà al crollo finale di Okonkwo e del suo credo, con un finale duro e spietato, che però mette di nuovo a confronto i valori ancestrali con le affettate maniere degli inglesi invasori.

Non vi porto sino alla fine, se non per rimarcare come anche la scrittura stessa di Achebe sia parte integrante di questo processo di sconfitta. Achebe scrive in inglese, ma (e l’ultima versione de “La Nave di Teseo” meglio ne riporta), gran parte dei dialoghi tra i nativi è scritta in “igbo”, facendo quindi risaltare la differenza, linguistica ma anche mentale tra i due idiomi. Molto si perde nella traduzione, e molto se ne recupera leggendone commentari, soprattutto in alcuni siti africani. Seppur con qualche lentezza (in particolare nei primi capitoli) è un documento forte, pieno di pugni allo stomaco.

“Ormai a disagio”

Anche il secondo capitolo della trilogia di Achebe riprende un verso di una poesia di Yeats. Questa volta è “The Journey of the Magi” i quali, al ritorno nelle loro terre, diranno: “Non siamo più a nostro agio”. Ed è così che gli igbo si sentono dopo i primi anni di colonizzazione inglese.

Per farci sentire continuità nel tempo, e discontinuità nei comportamenti, seguiamo ora le vicende di Obi Okonkwo, il nipote dell’eroe del primo capitolo, nonché figlio di quel Nwoy che primo si unì ai missionari protestanti, in aperta sfida del padre, uccisore del suo amico fraterno di gioventù. Siamo quindi alla seconda generazione, Nwoy cambia il suo nome in Isaac, e diventa un prelato della chiesa protestante. Il figlio Obi, educato dalla rigida disciplina paterna, è sempre nella pattuglia di testa degli studenti locali, tanto che, finite le scuole secondarie, i maggiorenti igbo gli danno una borsa di studio per laurearsi in Inghilterra. Cosa che Obi farà, ma in inglese e non in legge come gli aveva chiesto la sua tribù.

Certo, al suo ritorno, con una laurea inglese, potrà trovare un buon posto, anche se non così remunerativo se avesse fatto l’avvocato. Il dipinto che Achebe ci fa di Obi è tuttavia, pur se con qualche condiscendenza, di una persona ormai non più attaccata ai valori ancestrali, ed anche (o forse per questo) debole e indecisa. Si sentirebbe meglio a rimanere ad Oxford, fra i suoi libri e i suoi pensieri, ma la borsa è un prestito, e lui deve restituire quanto ricevuto, seppur con tutti i tempi del mondo.

Ma una volta nuovamente in patria, la sua supponenza di laureato, lo pone, intimamente, al di sopra delle miserie locali. Non si adatta, presuntuoso e poco combattivo, ad essere una ruota qualsiasi. Cerca protagonismo che non è capace di gestire. E viene anche preso da ingranaggi più grandi di lui. L’amore con Clara, certo, ma il loro matrimonio è osteggiato per il fatto che lei è una “osu”, che nel sistema tradizionale delle caste degli igbo, è una persona reietta e che non può uscire da quel sistema. Tanto meno sposarsi con un “non-osu”.

Obi prova a portare avanti la relazione, ma anche la sua famiglia, benché cristiana, lo isola e maledice. Così, quando Clara rimane incinta, non resta che l’aborto. Ed il conseguente allontanamento tra i due. Così che i debiti aumentano: per la sua scarsa oculatezza, ad esempio per pagarsi una macchina per andare a lavorare, e poi per pagarsi l’assicurazione. Per restituire il prestito, come detto, ma anche per dare i soldi ai suoi fratelli al fine di pagarne gli studi. Si trova così a lavorare in un posto di non grande reddito, ma di certo prestigioso, perché si trova a selezionare i candidati per le borse di studio all’estero, come quella da lui ricevuta. Un posto che è facilmente al centro di corruzioni più o meno grandi. Che lui, tra la ferrea dottrina paterna e una giusta rigidità verso gli anziani già inseriti nelle leve del potere inglese e già (come ben sappiamo) corrotti e corrompibili, osteggia. Rifiuta regali e servigi vari, ma lo stipendio limitato non gli consente di essere all’altezza economica della situazione. Cadrà così in uno stupido tranello della polizia coloniale, e cadrà miseramente in basso anche da quel poco da cui si era elevato.

La ferocia di Achebe nel dipingere le sventure della sua Nigeria è qui molto forte. Non usa più la lingua degli antenati, come nel primo libro. Ora è solo inglese, ed è verso gli inglesi corruttori ed imbarbaritori delle tradizioni che lancia i suoi strali. Ma anche contro l’ignavia delle nuove generazioni. Purtroppo, la tensione verso la costruzione di un’idea e di una denuncia viene a scapito della piena caratterizzazione dei personaggi, che invece era ben presente e di forte impatto nel primo libro. Tuttavia, si capisce perché l’Occidente, pur considerandolo uno scrittore di livello molto interessante, l’ha sempre lasciato in disparte. Troppo africano e troppo poco occidentale. Ma forse proprio per questo a me più gradito. Devo dire infatti che mi ci ero accostato un po’ dubbioso. Seppur non facile, alla fine, la ritengo una lettura fondamentale per capire il continente ad un passo da noi.

Elias Canetti “Autodafé” Adelphi euro 15

[tramato il 19 luglio 2020]

Primo e unico romanzo pubblicato dal premio Nobel bulgaro naturalizzato inglese che scrive in tedesco. Non un libro facile, per la scrittura, per l’epoca dello scritto e per l’autore stesso. Un intellettuale a tutto tondo, sodale di tanti circoli importanti, che legherà la sua vita e la sua opera alla ricerca di un nesso e di una spiegazione dello stesso che condenserà nel suo libro summa “Massa e potere”. Ma qui parliamo del romanzo ed a lui torniamo.

Uno scritto che vede la sua gestazione tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, quando l’autore, venticinquenne, vive a Vienna, ed entra in contatto con il fecondo mondo degli intellettuali tedeschi, da Schnitzler a Kraus, passando anche per Freud (che però non amava tanto). Che non sia un libro facile lo mostra anche il fatto che dal suo completamento, nel 1931, alla sua pubblicazione passano ben 4 anni. Altro punto nodale per la comprensione del testo stesso è la gestazione del titolo. Che in tedesco suona “Il bagliore” o “L’accecamento” (non ho una conoscenza tale del tedesco da entrare in una traduzione più fine, ma mi attengo a quanto ne ricavo da Wikipedia). Mentre, quando comincia ad essere tradotto all’estero, lo stesso Canetti chiede venga utilizzato il titolo con cui lo conosciamo. Titolo derivato dai processi dell’inquisizione, dove l’accusato, se riconosciuto colpevole, veniva condannato in generale al rogo, consentendogli una dichiarazione finale, che in spagnolo si chiamava “acto de fé”, cioè “atto di fede”, e che passando per il portoghese da “acto” ad “auto”, arriva all’attuale dizione di “autodafé”.

È sempre Canetti che ci permette anche, nella sua nota finale, di capire meglio il romanzo stesso. In realtà Canetti aveva l’idea ambiziosa di scrivere otto romanzi sul tema di una rappresentazione grottesca ed ironica del mondo, e del momento di crisi che stava attraversando. Otto romanzi che poi condensa in questo, facendo confluire più voci nel flusso narrativo. Non entro nel merito se questo abbia appesantito il romanzo stesso. Certo, visto così come viene terminato, se ne risaltano i rimandi alle grandi opere dei russi ottocenteschi (che non a caso ho sempre avuto difficoltà a leggere), da Nikolaj Gogol' a Fëdor Dostoevskij.

Per parte mia, devo dire che ho apprezzato e seguito con piacere la prima parte, o meglio, le prime cento pagine, in cui vediamo delinearsi la personalità e la vita del sinologo ed intellettuale Peter Kien (il cognome in tedesco vuol dire “legno resinoso”, ed anche questo ha un senso). Ed in modo analogo e in un certo senso reciproco, la parte finale, nel rapporto tra Peter ed il fratello Georg, dove esce fuori da un lato l’embrione del pensiero che segnerà tutta la vita di Canetti, quel rapporto tra massa e potere di cui porto una citazione in fondo. Dall’altro i discorsi eruditi e trasversali nelle varie materie, che saranno anch’essi l’ossatura del suo pensiero, come l’antropologia, la sociologia, la mitologia, l’etologia, la storia delle religioni. Quest’ultima accennata in una serie di dotte citazioni tra Confucio, Buddha, testi talmudici e religiosi.

Di converso, tutte le 400 pagine intermedie mi sono state di difficile lettura, tanto che ne ho letto anche con insofferenza, cosa a me non molto usuale.

La storia, in sé, è in realtà un apologo abbastanza poco mascherato. Seguiamo l’ascesa e la caduta del protagonista, Peter, letterato, autore di saggi che magari non pubblica che nessuno li capirebbe, tanto sono elevati. Ci sarebbero tanti piccoli avvenimenti che in un saggio aulico andrebbero analizzati, ma qui si va di grandi linee. Il secondo libro che si intreccia con Peter è la storia di Thérese, che inizia da governante ed amante dei libri (almeno formalmente), per poi trovare il modo di farsi sposare, ed iniziare una carriera da “femme fatale”. Prima, mossa dopo mossa, relega il povero Peter in una delle quattro stanze originarie. Poi lo mette alle strette per cercare di estorcergli un testamento a suo favore, e quindi lo caccia di casa. Dopo un periodo di assestamento, pensa bene di circuire il portiere dello stabile, di utilizzarlo per vendere la biblioteca enorme di Peter a poco a poco al Monte di Pietà. Ma lì trova, o ritrova, Peter, che riprende il suo posto nel palazzo, ma non nella casa. Sostituendosi al portiere che lo sostituisce nel letto matrimoniale. Fino a che il fratello Georg viene da Parigi, lo libera, e caccia Thérese e il portiere. Il fratello era venuto da Parigi a seguito di un telegramma inviato dal nano Fischerle (da Fischer à pesce e suffisso vezzeggiativo -le, quindi pesciolino), co-protagonista di tutta la parte centrale libro. Dove Peter, cacciato di casa, va in giro con i suoi libri sulla testa (immagine grottesca del sapere), dormendo in alberghi sordidi, frequentando bar malfamati, dove appunto incontra il nano. Grande appassionato di scacchi, che vuole sfidare l’allora campione del mondo José Raul Capablanca (cosa che quindi colloca la vicenda tra il 1921 ed il 1927, periodo del regno del cubano), ma che è soprattutto autore di raggiri, e legato ad una grassa prostituta. Per uno strano senso di solidarietà intellettuale, il nano decide di prendersi cura di Peter. Un po’ lo aiuta, un po’ lo raggira, per avere i soldi con cui andare in Americas, che otterrà come soldi ma che poco gli serviranno. A parte il ruolo da quasi chaperon che consente a Fischerle di far rincontrare Thérese e Peter, sono duecento pagine inutili.

Come detto sopra, tuttavia, il nano ha il pregio di far intervenire Georg, che libera Peter, che caccia Thérese e il portiere (quindi ecco che dopo la storia di Peter, la storia di Thérese, con il nano, la governante e il fratello abbiamo almeno cinque delle otto storie di Elias). La fine sarà come da copione già spiegata nel titolo. Peter, intellettuale e poco legato alla realtà, dalla realtà uscirà sconvolto, senza punti di orientamenti, tanto che si immaginerà cose che non esistono, e finirà come Sansone, dove i libri saranno i suoi filistei (che per chi ha percorso quei luoghi sa bene essere l’antico nome degli attuali philistin, cioè palestinesi).

Un appunto di “storia e preveggenza”: nel 1972 divenne campione mondiale di scacchi Bobby … Fischer, come il nano di Canetti. Per tornare al libro, forse ha ragione la lunga citazione autoreferenziale: i romanzi scritti come questo di Canetti andrebbero proibiti. In tutte e quasi le seicento pagine, rimangono solo gli appunti sull’amore per i libri, sulle citazioni incrociate, nonché tutta una parte misogina sulle attività femminili nei secoli, di cui non è chiaro l’intento ironico. Io, al fine, preferisco il Canetti autobiografico, e tutt’al più descrittivo come nel bellissimo “Le voci di Marrakech”. Confesso che ho dei dubbi se e quando leggerò il volume sulla nascita della massa, sulla sua psicologia, sull’influenza per l’ottenimento ed il mantenimento del potere.

Magari in questo potrebbe aiutarmi il mio amico Pietro.

“Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città.” (15)

“Il piacere che … offrono [i romanzi] lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci si abitua ad immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s’identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e per lungo tempo si perdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un attore con la penna in mano insinua nella compatta personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti per legge.” (48)

“Di una sola scoperta … menava vanto … l’azione della massa nella storia e nella vita dell’individuo, il suo influsso su certi mutamenti dello spirito.” (470)

Michel Faber “Sotto la pelle” Einaudi euro 13,50 (in realtà, scontato a 3 euro presso il “Mercatino di San Giovanni”)

[tramato il 27 ottobre 2019]

Ci sono momenti in cui mi capita la lettura di una serie di libri che non mi soddisfano, e che porto a compimento solo per parlarne (male) con voi. Sperando, magari, che la vostra percezione, se li avete letti, sia diversa dalla mia, e mi possiate convincere che no, ne vale va la pena, era un libro non dico capolavoro, ma con almeno dei punti di interesse.

Peccato allora mi sia capitato in un momento poco propizio questo libro dell’olandese-australiano-scozzese Faber. Di cui avevo letto, e con interesse quello che viene considerato il suo libro migliore (“Il petalo cremisi ed il bianco”), seppur ne avevo letto una decina di anni fa. Girovagando in attesa di Alessandra presso il Mercatino, ho invece scovato questa copia in ottimo stato del suo primo libro. Beh, prendiamolo, che prima o poi si legge. Purtroppo, si legge e si esce dalla lettura dicendo: ma cosa diavolo ha scritto?

Una storia in cui vediamo una bella donna, Isserley, andare su e giù per le campagne scozzesi, prendere ogni tanto degli autostoppisti, e far loro una specie di terzo grado. Chiede la provenienza, la famiglia, se c’è qualcuno che li attende, poi com’è la loro vita, qualcuno che possa notare la loro scomparsa. Dopo l’interrogatorio, se si ritiene soddisfatta, li droga e li rapisce. Dopo aver subito un inizio spaesante, quasi fossimo sulle soglie di un giallo, Faber ci porta con un salto mortale in un racconto di Arthur C. Clarke (quello di 2001 per chi non fosse fantascientifico).

Perché Isserley è sì bella, ma anche un po’ strana. Ha una scollatura profondissima, ma vestita con abbinamenti improbabili. Certo gli autostoppisti sono perplessi, che al posto di Isserley non avrebbero preso nessuno. Ma qui si scopre il mistero: Isserley è un’aliena con il corpo modificato per sembrare una donna attraente in modo da poter svolgere bene il suo lavoro di rapitrice. C’è tutta una banda di alieni che si è trasferita sulla Terra, in quella fattoria scozzese, ma solo lei ed il suo capo, che deve andare in giro, hanno il corpo modificato. Questa banda aliena, in realtà, seppur evoluta, viene da una razza quadrupede, vagamente canina. Nel pianeta natale, il cibo comincia a scarseggiare, ed allora, per rifornirsi di proteine, i quadrupedi prendono gli umani, li mutilano, li mettono all’ingrasso, e, una volta bistecchizzati, vengono spediti al pianeta d’origine.

Tutta la storia, in sé, si trascina ripetitivamente su questo filone. Isserley va in giro, c’è la storia con l’autostoppista, a volte liscia, a volte con qualche problema, che magari l’incauto passeggero vorrebbe fare delle avances alla bella guidatrice, ma alla fine questo viene drogato e portato nella fattoria. Isserley ha qualche pensiero di ribellione, a questa routine immutabile da troppo tempo, anche perché soffre spesso di dolori articolari (d’altra parte ha subito modifiche profonde).

Ci sono poi due crepe, nella banale routine. Viene il figlio del capo dallo spazio, che incautamente libera degli autostoppisti, che però vengono presto presi, e subito uccisi. La polizia, inoltre, comincia a domandarsi, anche se i rapiti sono pochi, dove finisca la gente. Il tutto porterà ad un collasso, anche perché Isserley ha dei problemi con la macchina, forse ha un incidente. Mentre arriva la polizia deve solo decidere se farsi curare o far saltare tutto in aria.

Questa storia bislacca, che si legge fino alla fine senza troppa partecipazione, nella mente “politica” dell’autore, probabilmente doveva servire ad innescare appunto problemi politici: l’identità e l’autonomia corporea, sessismo e genere, rapporto uomo – animale da macello. Sul primo tema, ci si domanda quanto il corpo governi il modo di essere, la vita nostra. Se quindi ci possa essere una corrispondenza tra corpo e identità percepita.

Il secondo tema riguarda l’esterno. Isserley è vista come una donna, ed allora Faber si chiede: è possibile diventare donna? Una domanda che molti di genere incerto si domandano, senza, io credo, una risposta certa. Infine, c’è l’orrore della mutilazione e dell’ingrasso. Se i bovini fossero senzienti (o i maiali o le oche o qualsiasi animale allevato in attività), come reagirebbero al fatto di diventare carne da macello? Quello che fa la razza di Isserley agli uomini non è altro quello che noi facciamo alle vacche. Ma se Isserley ed i suoi ci indignano, quanto ci manca per diventare vegetariani?

Il libro alla fine pone molte domande, e Faber evita accuratamente di fornire una sola risposta diretta. Ma la sua lettura è faticosa, non si empatizza né con Isserley né con gli umani. Si arriva in fondo a fatica e si spera di leggere qualcosa di meglio nel futuro. Come direbbe un critico migliore di me, “un libro serenamente evitabile”.

Gregory David Roberts “Shantaram” Abacus euro 8,75

[tramato il 29 marzo 2020]

Ne avevo sentito tanto parlare, magnificare, fare dotte discussioni, che prima o poi dovevo senz’altro leggerlo. Capita così che in febbraio (2019) mi reco nell’India del Sud per fare un giro guidato dalla solerte Patrizia. Capita inoltre che ci si fermi nel rilassante centro di Varkala, nel Kerala. Una mega spiaggia con faraglione prospicente dove si affacciano bungalow e ristoranti, nonché bancarelle ed altro. Due giorni di grande riposo e pace, dove, girando tra i banchi, ti vedo proprio questo “uomo della pace” (questo il significato di “Shantaram” in lingua Marathi, la lingua di Mumbai). Mi sembra un’ottima congiuntura.

Ora, dopo sette mesi di attesa, ne leggo, con molta fatica. E sebbene si riesca (ma solo nella prima parte) a tornare con la mente e lo spirito alla mia amata India, alla fine, devo riconoscere che l’autore ed il libro sono largamente sopravvalutati. Certo, un discreto fascino è dato dal fatto che, seppur con trasfigurazioni varie, il libro è fortemente autobiografico. Perché in effetti, l’autore, australiano, ha realmente avuto una giovinezza anarcoide, per poi passare, dopo la fine del suo matrimonio, verso un atteggiamento pseudo-rivoluzionario alla “Cesare Battisti” (l’attuale, non l’irredentista), dove, seppur senza spargimenti di sangue, si occupa di furti e droghe, finendo arrestato. Riesce a fuggire sia dalla prigione che dall’Australia, finendo nell’India che ci racconta. Dopo la fine del libro, Roberts intorno al ’90 (a quasi 40 anni) viene arrestato in Germania, decide di scontare la pena australiana, in carcere scrive questo romanzone, e nel 2003, libero da pene giudiziarie, lo pubblica con successo.

Dicevo, la prima parte è coinvolgente. Ci porta a Mumbai, facendocene riscoprire le bellezze intime. Ma anche le degradazioni infime. Mi ero quasi emozionato all’inizio, ripensando al mio primo sbarco a Bombay, alla visione della Porta delle Indie e del Taj Mahal Hotel. Ma anche alle passeggiate nelle stradine tra Victoria Terminal ed il porto, i ristorantini con le loro spezie, ed il giorno di monsone che subii. Il nostro fuggiasco, un po’ per non mescolarsi troppo con gli occidentali, giustamente temendo possibili tradimenti, si accompagna con più trasporto con i locali. Sia gli indiani indù, con il simpaticissimo Prabaker (il Prabu che diventerà suo mentore ed amico) sia con i mussulmani, anche se all’inizio c’è del timore nell’approccio. Timore che viene fugato dalla visione della bellissima Karla, un’americana fuggita dagli States per qualche motivo oscuro (che scopriremo alla fine), che per Gregory, che si fa chiamare Linley, subito abbreviato in Lin, è la donna più bella che abbia visto, e di cui si innamora, e rimarrà innamorato nonostante tutto.

Ed è altrettanto bello e coinvolgente il racconto della sua calata negli slum, nella parte povera della città, dove si vive di niente e per niente si muore. Dotato comunque di grande vivacità e capacità espressive, ha il dono di imparare presto i vari dialetti locali. Sia di hindi che di urdu ne mastica ben presto. Ma soprattutto, con Prabu impara il Marathi, la lingua di Mumbai. Lingua che gli aprirà molte porte chiuse ai forestieri. Lì nello slum, con quanto appreso in carcere, ed altre piccole nozioni, mette su una specie di dispensario per i poveri, che per due-tre anni cura vivendo con loro del poco che hanno.

Poi cominciano le svolte. Il capo mafia locale, un profugo afghano di grande cultura ed esperienza, lo prende a ben volere, lo convince ad uscire dallo slum, lo riporta nel “gran mondo”. Qui comincia la seconda, lunga parte che realmente, alla fine, è stancante e poco coinvolgente. Assistiamo a tutte le vicissitudini del mondo fuori le regole indiano, ma non solo. Cambio nero, vendita di passaporti contraffatti ed altre azioni non proprio regolari. Il suo nuovo mentore Khader, però, non si mescola mai né con la prostituzione né con la droga. Roberts ricalca un po’ ricamando la rettitudine del suo passato banditesco. Era infatti noto in patria come il bandito gentiluomo, che salutava prima e dopo le rapine, che rubava ad istituti di credito che avevano grosse assicurazioni a copertura dei furti, ed altre galanterie. Tanto che si vanta di non aver mai ucciso nessuno.

Qui, è tutto un fiorire di nuovi personaggi, europei e mussulmani, i primi che si riuniscono al Leopold’s bar, con intrecci di vita complicati e poco coinvolgenti. Mi rimane in mente solo il simpatico Didier, un gay francese che vivacchia facendo da intermediario: non si sporca le mani, ma sa a chi chiedere, e ci fa il suo margine. Ci sono belle donne (Ulla, Lisa ed altre). Poi c’è la mafia di Khader, dove il nostro Lin riesce ad arrivare in posizioni preminenti, soprattutto nelle forniture di passaporti falsi. Tanto che il capo mafia decide di portarlo con sé nella terza parte del libro. Dedicata alla missione di Khader in Afghanistan a supporto dei mujaheddin contro gli invasori sovietici. Una parte di una pallosità stratosferica. Dove ci sono tradimenti a tutto spiano, voltafaccia, persone che appaiono e scompaiono.

Poi, nel ritorno a casa, Khader muore, e nell’ultima parte vediamo le lotte tra le varie fazioni. Ma anche tutte le agnizioni di Lin sui vari personaggi incontrati lungo le 900 pagine. Capiamo finalmente chi ha fatto cosa, e perché. E capiamo perché, alla fine, Lin (al contrario di Gregory) decida di tornare dai suoi amici indù e nello slum che aveva visto tutta la sua parte di serenità all’inizio di questa avventura.

Ripeto, sarà la faticosità dell’inglese, ma la prima parte (l’arrivo, la conoscenza di Mumbai ed il dispensario nello slum) è bella ed avrebbe meritato un bel voto. Finendo lì ci sarebbe stato, anche se non integralmente, un ripasso della “Città della gioia”, con una bella storia dietro. Tutte le altre 650 pagine si trascinano stancamente. E sebbene si sia curiosi di capire perché e se Lin e Karla finiscano o non finiscano insieme, questa curiosità non giustifica tutta la lettura. A me rimane il senso dell’India, delle mie passeggiate, solo o con Alessandra, tra il Taj Mahal e le piccole taverne. Aspettando di tornare ancora laggiù.

“In matters of food I am French, in matters of love I am Italian, and in matters of business I am Swiss.” [Per il cibo sono francese, per l’amore sono italiano e per gli affari sono svizzero] (49)

“A friend is anyone you don’t despise.” [Un amico è chiunque tu non disprezzi] (58)

“One of the reasons why we crave love, and seek it so desperately, is that love is the only cure for loneliness, and shame, and sorrow.” [Uno dei motivi per cui bramiamo l'amore, e lo cerchiamo così disperatamente, è che l'amore è l'unica cura per la solitudine, la vergogna e il dolore] (124)

“I sometimes think that the size of our happiness is inversely proportional to the size of our house.” [A volte penso che la dimensione della nostra felicità sia inversamente proporzionale alla dimensione della nostra casa] (244)

Conclusioni

Non torno sui vegetariani (e se volete ridere invece che essere troppo pensosi, meglio “Ho sposato una vegana” di Brizzi), e neanche sull’India, che sarei troppo triste. Per l’età, ripeto e sottolineo, non è certo una malattia da cura, ma una cura per la nostra vita.


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