Andrea Vitali “Viva più che mai” Garzanti
euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 19/02/2018 – I: 25/07/2020 – T:
27/07/2020] &&
-
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 543; anno: 2016]
Purtroppo,
ho sperato male, che se vogliamo questo libro è ancora meno coinvolgente del
precedente. Vitali ha le sue capacità e le sue caratteristiche, che neanche qui
smentisce. Tuttavia, quando passa dai momenti di ilarità e paesanità delle sue
scritture ambientate durante il Fascismo, al tentativo di replicarli in momenti
post-bellici, non sempre la penna rimane felice. Tra l’altro, sempre meno
felice più ci avviciniamo al presente. Come questa storia ingarbugliata, che,
ricostruendo a posteriori, dovrebbe svolgersi intorno alla metà degli anni ’60.
Il contorno
è sempre il solito lago di Como, con al centro Bellano, e con puntate varie nelle
cittadine limitrofe. Senza scordare il Battello della Navigazione che
attraversa il lago da Bellano ad Acquaseria. Questa volta, inoltre, Vitali si sbizzarrisce
inzeppando la trama di una tale moltitudine di personaggi che, alla fine, si
vede costretto ad un’appendice per ricapitolarli tutti, magari con qualche
indicazione del loro ruolo nella vicenda.
Fortunatamente
però noi ci concentriamo sui quattro che ritengo siano il fulcro della vicenda:
la Tina, la Valeria, il Dubbio e il Trufa. Il primo su cui ci si concentra, e
che dovrebbe essere il perno della storia, è Ernesto Livera detto Dubbio.
Soprannome derivato dall’incapacità patologica di prendere una posizione.
Rimasto colpito dalla morte del padre, affogato lui bambino, è sempre poco
attendibile, non ha lavori fissi, arrangiandosi più o meno con un piccolo
contrabbando di sigarette. Il secondo è Biagio Riffa detto Trufa in quanto generalmente
coinvolto in truffe di piccolo cabotaggio, in particolare con la vendita di
scarpe, più o meno cartonate, ma che, oltre a piccoli introiti, gli servono per
abbordare belle signorine. Come fa con Valeria Vergonesi, in possesso di un
“culo parlante” (scusando la volgarità), che prima cerca di accalappiare con
delle ballerine, poi coinvolgendola in una serata di balli e mangiate. Poiché
Valeria si accompagna con la Tina, badante di un vecchio signore, lui coinvolge
il Dubbio nella serata. Che andrà male in tutti i sensi: Biagio viene scaricato
da Valeria, Ernesto accompagna Tina a casa ma non fa neanche mezza avances.
Poi, tornando a casa, si imbatte in un corpo femminile nell’acqua, che sembra
spiccicato a Valeria. Ma che Valeria non è, essendo via, vegeta e partita il
giorno seguente per una vacanza di un mese in Inghilterra. Da qui nasce la
commedia degli equivoci: Dubbio coinvolge il dottore del paese perché teme i
carabinieri, il maresciallo ed il dottore cercano il corpo senza trovarlo,
ipotizzando uno scherzo macabro di Ernesto. Biagio viene preso di mira dai
parenti delle donne che ha cercato di abbordare, che gli rovinano sia il
commercio che ogni altra attività. Ma Tina ha un sentimento di poca chiarezza
nel tutto, che tempo prima Dalamonti, il suo commendatore, ricevette per errore
una lettera dall’Inghilterra, indirizzata ad una signorina un tempo levatrice
di paese. In cui si parla di due gemelle fatte partorire di nascosto e poi date
in adozione coatta. Ovvio che Dalamonti riconosce nella vicenda la morte di una
sua nipote per parto, si intristisce e dopo poco muore di crepacuore. Tina non
demorde, ritrova la levatrice, e capisce che una delle due gemelle è proprio
Valeria. Si intuisce che l’altra potrebbe essere il corpo ritrovato e poi perso
dal Dubbio.
La
vicenda si ingarbuglia con appuntati che fanno il filo a signorine che li rifiutano,
il Dubbio che viene assunto dalla Navigazione lacustre, il Trufa che lo
sostituisce nel piccolo contrabbando, e tante altre microstorie, che riempiono
i mini-capitoli che sono la caratteristica della scrittura di Vitali. Perché
derivano dal fatto che scrive sui fogli delle ricette mentre aspetta i pazienti
del suo consultorio medico. Ed anche se non esercita più, continua questo stile
narrativo.
Mentre
però in altre storie c’era ironia, c’erano fili che tiravano qua e là e si
finiva per avere un canovaccio completo, e discretamente coerente, qui si
rimane sospesi. La vicenda si perde in mille rivoli, che rimangono aperti senza
concludersi in nessun modo. Si rimane in attesa che succeda qualcosa che poi
non succede.
Anche
sulla onomastica rimaniamo un tantino perplessi. Che Vitali ci ha abituato ai
nomi locali, particolarmente “astrusi”, che anche qui abbondano, come Mistico
Bertazza, il mandriano, Estero Bisanciato, campione di chioccolo (su cui
torniamo), Infantina, la zia di Biagio, o Canterina, la madre di Ernesto. Ma
poi scivolano nel ridicolo e danno solo tocchi di banalità, come l’infermiera
Maria Teresa Supposta o il Colonnello Spaventa dei Carabinieri.
Dicevo
del chioccolo, un divertente inciso è la gara di imitazione del verso degli
uccelli, detta la sagra del Chioccolo, vinta con onore da un appuntato dei
Carabinieri.
Però
ci si aspetta di meglio da Vitali, una maggior coerenza narrativa, ed una più
pungente ironia. Continuiamo a sperare nei prossimi…
Alessandro Perissinotto “Quello che l’acqua
nasconde” Pickwick euro 10,90 (in realtà, scontato a 8,20 euro)
[A: 12/03/2018 – I: 17/09/2020 – T: 19/09/2020]
&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 293; anno:
2017]
Premetto
che ho sempre discretamente apprezzato Perissinotto, in particolare nella sua
trilogia di gialli storici pubblicata da Sellerio, nonché nei libri dedicati
alle indagini di Anna Pavesi. Questo è il primo romanzo non di genere che
leggo, e pur apprezzandone in giusta misura le doti di intreccio e di
scrittura, devo dire che alla fine mi aspettavo qualcosa di più.
Perissinotto
e di Torino ed a Torino negli anni Sessanta e Settanta si è svolta una fetta
importante di contestazione prima, di movimenti operai dopo, per finire con
frange non banali di lotta armata. Non ho letto “Le colpe dei padri”, che verte
su argomenti similari e probabilmente ha avuto una presa maggiore arrivando
secondo al Premio Strega di quell’anno.
Da
quei moti e da quelle sensazioni, che nasce il romanzo, dove, mescolando
finzione e realtà, si narra una storia verosimile, cercando di farne eponimo
esempio di cosa sarebbe (anche) potuto succedere. E che forse è successo.
La
parte “reale” si ricollega ad alcune tappe della vita torinese e della
contestazione. La presenza di ospedali psichiatrici che usano metodi “nazisti”
sui pazienti, in quel di Villa Azzurra, guidati dall’inutilmente dottore
Giorgio Coda, non a caso soprannominato “l’elettricista di Collegno” per il
tipo di trattamento che usava con i pazienti. Questo alla fine degli anni
Sessanta, con inserti della Stampa in cui compaiono Pasolini e Basaglia. Poi si
ricorda che dopo il processo (da cui venne amnistiato) Coda nel 1977 viene
gambizzato nel suo studio da un comando di Prima Linea, senza che gli autori
reali siano mai stati scoperti.
Da
questo strato di reality, l’autore parte per incartarlo con una lunga pergamena
di fiction. Che gira intorno a quattro personaggi: Edoardo, ora quasi
sessantenne, luminare della genetica, emigrato negli anni ’80 in America, ed
ora tornato a Torino per degli esperimenti sulle cause dell’invecchiamento
precoce dei bambini (la “Sindrome di Hutchinson-Gilford”), insieme alla moglie
Susan (secondo personaggio), dove ritrova il vecchio sodale dei tempi giovanili
Aldo (il narratore), il tutto con il disturbo dell’ex-dottore Balistreri, ai
tempi assistente di Coda, e che interviene per mettere i bastoni tra le ruote
di un meccanismo di vita che sarebbe andato oliato in tutt’altra direzione.
Perché
Balistreri si presenta continuamente, a Susan e a Edoardo, come a ricordar loro
qualcosa, a memento di qualche avvenimento che di sicuro Susan non conosce, e
che Edoardo non sa o fa finta di non sapere. Dato che Edoardo ha seppellito il
suo passato dietro una montagna di menzogne. Che resterebbero ancora nascoste
se non ci fossero Balistreri da una parte e Aldo dall’altra a tirarne fuori
brandelli.
Così
veniamo, anche se con difficoltà, a saperne di più. Ma non ve ne dico molto
(che parte della non eccelsa bellezza del romanzo è questa scoperta di un
retroterra nascosto) se non che, ovviamente, dopo gli scontati passaggi
parrocchiali, e dopo l’attentato a Coda, Edoardo con altri suoi tre sodali
ipotizza una nuova e diversa azione verso gli ex-ospedali psichiatrici. Un lavoro
lungo di tre anni, con appostamenti e ipotesi varie. Ma alla fine, Edoardo si
laurea, va negli States e dimentica tutto. O quasi. Forse non i suoi tre amici.
Forse non Balistreri.
Di
lato prosegue l’agnizione di Susan, che, in una Torino descritta in modo
partecipato da Perissinotto, scopre sia la città sia i diversi lati oscuri del
marito. Che alla fine tutti ci verranno rivelati (o almeno tutti quelli di cui
si parla, che potrebbe esserci altro, ma se non si dice non esiste). Abbiamo
dei flash della vita di Aldo, che rimane sempre un po’ defilato, né carne, né
pesce, né amico né amante. Spettatore, anche se consapevole. Sapremo di più
anche su Villa Azzurra, su Collegno, sui compagni che sbagliano e quelli che
no. Ma non sarà una lettura gradevole. Non per i temi, ma per il trascinamento
delle sensazioni e per la scontatezza delle conclusioni.
Meglio,
senza dubbio, il Perissinotto di Colombano e di Rosetta.
“A
vent’anni non ero pronto per essere un ventenne, adesso, a cinquanta suonati,
lo ero molto di più.” (82)
“Tra
tutte le storie vere, sono quelle incredibili che devono essere raccontate, le
altre si raccontano da sé.” (293)
Pietro De Santis “Nove racconti e ½” Mauro
Pagliai Editore s.p. (regalo dell’autore)
[A: 09/09/2020 – I: 24/09/2020 – T: 25/09/2020]
&&&
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 137; anno:
2020]
Come vedete sopra, essendo un regalo dell’autore,
mi trovo per la seconda volta a parlare degli scritti del mio amico Pietro.
Affrontati con un po’ di timore, che ben nota è la mia scarsa propensione verso
i racconti, dove spesso non riesco ad entrare in sintonia con lo scritto. Già,
sono un po’ diesel in questo, ho bisogno di scaldare i motori. Qui, quando sono
caldi, la pagina finisce e bisogna frenare.
In positivo, rispetto al solito, è che,
almeno nei racconti centrali, essendo spesso ricordi, pensieri e momenti
personali del narratore, il motore non si raffredda e riesco a rimanere concentrato.
Sapendone poi, per mia fortuna, alcuni altri punti, meglio gusto lo scritto di
Pietro. Che mi consente anche di sottolineare come, generalmente, la scrittura
scorre, il pensiero va e comunica in parallelo con le parole. Dico generalmente,
perché non tutti i racconti sono allo stesso livello, ed alcuni, per me,
decisamente ostici. Segnatamente, il primo e l’ultimo, marcati dalla presenza
di specchi, che hanno di certo una valenza per Pietro, ma che a me rimangono
molto esterni.
Ma prima di entrare nel merito, si pone
urgente la domanda: perché “e mezzo”? Ognuno darà le proprie risposte, anche
perché i racconti sono in effetti dieci. Io ripenso a quel bel romanzo atipico
di Julian Barnes (che ho adorato per “Il senso di una fine”) che si intitolava
“La storia del mondo in 10 capitoli e ½”. Nello specifico, personalmente reputo
il mezzo racconto quello dedicato al maestro di Pietro, Sandro Gindro, dove si
parla di specchi, ma come input da riflessioni del maestro. Tra l’altro, questo
ed il primo, anch’esso incentrato sugli specchi, come detto, sono quelli che
meno mi hanno preso.
Mentre ho trovato coinvolgenti i racconti “Pronto
soccorso” e “Jolanda”. Il primo perché mi rimanda, oltre il Pietro
personale, momenti che ho seguito, accompagnando, purtroppo, amici e parenti
nelle strutture ospedaliere, riuscendo a farmi rivivere (ora senza angosce) le
attese, le richieste, a volte anche i piccoli soprusi, ma anche le grandi e
piccole umanità che lì incrociano la loro vita. Il secondo, che narra a
brandelli il flashback della vita di Jolanda, che vediamo morire, e poi pian
piano ne scopriamo i momenti salienti tornando indietro nel tempo, mi ha
rimandato a quel bel romanzo, anche se non pienamente riuscito, di Luciano
Ligabue “La neve se ne frega”. Se non lo conoscete, andate a leggerlo.
Si sente anche, nelle righe di Pietro,
l’amore per la musica, sia in “Il concerto”, dove l’ansia per la musica
si accompagna allo stress nell’organizzazione di eventi. Uno stress che viene
comunicato in modo egregio, e che ci fa angosciare così come si arrovella il
protagonista. Sia, anche se il racconto è meno riuscito, in “KV 467 – II”,
dove vediamo l’amore per la musica nel direttore d’orchestra improvvisato, che
non riesce a suonare, ma che segue egregiamente i movimenti orchestrali. Dove,
con maestria, si percepisce in una bella pagina il movimento completo
dell’andante del concerto per pianoforte e orchestra n.21 di Mozart.
Non può mancare, per la storia stessa
dell’autore, un rimando alle piccole città, ed alle piccole e grandi cose che
vi avvengono, o possono avvenire. Penso a “Le scale”, che però scorre
senza sussulti. Ma soprattutto a “Solitudine”, dove il tema del mondo di
provincia si allaccia ad una riflessione, quasi da saggio, sul tema dell’arte
popolare. Un discorso che mi è rimasto molto caro, fin dalla giovinezza,
ripensando alla mia tesina per l’esame di maturità, incentrata su “Gramsci e la
letteratura nazional-popolare”.
Mentre scorre senza sussulti “La terra ha
tremato”, un nuovo piccolo piacere si rinnova in “Cane da guardia”,
per la delicatezza delle descrizioni comportamentali del cane Charlie, che mi
fanno rivenire a mente le dolci passeggiate con Trilly, il primo cane che abbia
conosciuto.
Purtroppo, ma è più colpa dell’editore che
dell’autore, ci sono alcuni errori tipografici, forse evitabili. Un “chissà se
lui capisse” (29) invece che capisce. Un “anche se mi avvii in qualche
direzione” (75) invece che avviassi. Poi c’è un bellissimo “la donna è stata traferita”
(33), invece che trasferita, ma quella ferita inferta, trafitta, sarebbe un
fantastico neologismo. Infine, ma qui è Pietro che dovrebbe rispondere, ho
difficoltà nell’accettare l’uso delle virgole nella frase “certifica la lotta
contro il desiderio di non mancare, a quegli appuntamenti così pericolosi, per
lei.” (43)
Finiamo quindi con l’augurarci che Pietro
continui ancora a scrivere, e magari ad invitarci a qualche suo evento. Buona
lettura.
Andrea Vitali “A cantare fu il cane”
Garzanti euro 13
[A: 26/06/2018 – I: 16/11/2020 – T:
20/11/2020] &&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 421; anno: 201x]
Ed
ecco un “prossimo”, come richiesto dalla precedente trama. Un nuovo capitolo
della saga del dottore di Bellano, che, seppur non ritorna ai fasti dei giorni
migliori, decisamente è più gradevole ed anche meglio articolato. Devo dire che
lo spezzettamento usuale un po’ fa perdere il ritmo, così come quell’andare su
e giù nel tempo, anche di poco, che spiazza alquanto. Mi spiego, in un capitolo
si descrive un evento in presa diretta, ed il capitolo seguente (se va bene, se
no alcuni capitoli dopo) si descrive quello che accadde poco prima in modo che
si capisce e si segue meglio quanto già scritto. Vedete bene, che se nel descriverlo
mi ingarbuglio, figuratevi nel leggerlo.
Dicevo
anche più gradevole perché si torna ad avventure situate nel Ventennio, che
resta l’epoca più congeniale agli scritti di Vitali. L’altro ago della bilancia
del romanzo è che, al solito, Vitali inzeppa la trama di una miriade di
personaggi, di cui alla fine, riesce difficile tener conto. Per fortuna, un
filo rosso si lega intorno al maresciallo Ernesto Maccadò che diviene un punto
fermo, un ago della bilancia narrativa, cui si torna sempre, dopo aver divagato
sugli altri personaggi e sulle altre situazioni.
A
voler essere stringati, la vicenda narrativa potrebbe essere di una semplicità
disarmante: una donna urla nella notte e si teme un furto, un ladro di
passaggio, molti fuggono, e nel parapiglia, uno sbandato, ladro davvero, che
cercava di fuggire da altri luoghi in cui provava rapine poco riuscite, va a
sbattere con una guardia giurata. Tutti in ospedale, mentre Maccadò indaga.
Dopo un giro di 360° il maresciallo risolve il problema dell’urlo, grazie anche
ad un cane che abbaia solo alle persone che non sono di casa (un po’ come il
nostro Argo). Quindi, urlo si abbaiare no, capite bene che non può essere
furto.
La
vicenda così stringata però viene condita da Vitali con altri elementi
“succulenti” per rimpolpare il romanzo, e fornirci un quadro della vita paesana
negli anni Trenta. Per questo, nel calderone ci mettiamo la fuga di Filippo
Buonavigna, secondo il prevosto fuggito sulle tracce di Omosupe, artista del
Circo da poco passato per Bellano, ma in realtà fuggito per arruolarsi nella
Legione Straniera in Spagna e combattere contro Franco. Fuga sulle cui tracce
viene posto l’appuntato Misfatti, che, dopo diverse peripezie, raggiunge il
circo e scopre il segreto di Omosupe (che io non vi dico, ma che sconvolge non
poco le forze dell’ordine di Bellano).
In
contemporanea, c’è il calderone giornalistico montato dal sedicente cronista
locale Fiorentino Crispini, che fa convergere molti occhi sulle vicende
bellanesi, prima di accorgersi dell’errore, ma tardi per correggerlo sui
giornali locali e provinciali. Nell’ospedale poi, dove convergono lo sbandato
Serafino Caiazzi, il finto – vero ladro, e l’appuntato Misfatti (in base ad
altre peripezie di lunga descrizione), c’è anche Agnesina Garavagna, smemorata
novantenne che si era smarrita durante una gita ai santuari mariani della zona.
Finendo poi all’ospedale anche Vinci Panicarli, speranza del ciclismo locale,
nonché figlio di Emerita Diachini, quella che lanciò l’urlo che diede il via
alla storia.
Il
fatto poi che Emerita conosca anche Gersico Buonavigna, padre del fuggitivo
Filippo, ci consente di chiudere, almeno per ora il cerchio. Non senza
ricordare la funambolica bravura di Vitali nel reperire nomi astrusi, come
quelli delle tre figlie del pasticcere Gaspare Armonia, che si chiamano
Priscilla, Scintilla e Scilla, o del medico condotto di Colico, il dottor Ambio
Gonico.
Direi
che possiamo finirla qui, rammentando solo l’indovinello che propone il
prevosto e che farà impazzire tutta Bellano: “Davanti a chi anche il Papa deve
togliersi il cappello?”. Indovinello quanto mai sciocchino, ma ben trattato da
Vitali nel corso della narrazione.
Che
ripeto è sempre gradevole, scorre placida come le acque del lago, ma non
ritorna ancora ai fasti dei primi romanzi.
Un’ultima
riflessione, legata al passaggio per quel di Bellano e dintorni, di un agronomo
e genetista illustre ed illuminato, Nazzareno Strampelli. Non particolare il
suo apporto alla trama, ma fondamentale nella storia della mia famiglia. Visto
che mia madre per tutta la sua vita lavorativa, ha svolto ricerche sulle
malattie del grano presso l’Istituto Nazionale di Genetica per la
Cerealicoltura a lui intitolato. Vi ha dedicato tutto il suo ingegno, e sono
contento che se ne sia andata prima che l’Istituto (come molte istituzioni di
punta della ricerca italiana) si stato dismesso.
Per non farci mancare nulla, anche oggi
abbiamo un allegato dedicato ad una felicità non proprio di stagione: l’andar
per mare e soffrire il mal di mare.
Mi scuso ancora per i piccoli stravolgimenti
di invii, dovuti, come ho detto all’inizio, ad alcuni problemi nella gestione
dei miei account. D’altra parte, tra smart working e passaggi di dati e
sincronismi vari, può esserci qualche problema con l’inizio dell’anno.
Andremo di certo a migliorare, anche perché molto
dovrà migliorare nel contorno. Si dovrà trovare una via di uscita a questi
giorni bui. E noi saremo lì, nelle prime file, per tornare ad incontrarci ed a
viaggiare. Quindi prima di lasciarvi, ecco un’altra perla delle mie vaste
citazioni. Viene dalla svedese Liza Marklund dove nel suo “I dodici sospetti”
ci chiede: “Dove trova, una donna, la pazienza e la sicurezza, la certezza di
aver scelto bene? Dove trova il coraggio di fidarsi dell’amore?”.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GENNAIO 2021
Poiché siamo a gennaio, perché non riprendere qualche
rimedio per viaggi in nave?
MALANNI DI STAGIONE (I)
PILLOLE PER IL
MAL DI MARE
Tre
uomini in barca (per non parlar del cane), Jerome K. Jerome
Questo piccolo romanzo è un
gioiellino di divertimento e spensieratezza, una girandola di gag umoristiche
surreali, una lettura di pura evasione grondante pungente humor inglese.
Perfetto come lettura estiva, equivale a una boccata d’aria fresca in una
giornata afosa, a un bicchierone di tè freddo. Nato come guida turistica sulla
storia del Tamigi, si è poi trasformato in uno dei romanzi umoristici di maggior
successo della letteratura inglese. È il racconto della spassosissima gita sul
fiume di tre amici maldestri e un cane la cui unica ambizione di vita è quella
di stare tra i piedi.
Tre uomini in barca è un rimedio
efficace per i seguenti malesseri (che in estate tendono ad acutizzarsi):
ü
Ipocondria: se come Jerome, Harris e George
soffrite di qualsiasi malattia tranne il ginocchio della lavandaia, una vacanza
in loro compagnia può essere d’aiuto quantomeno per distrarvi dai vostri
fantomatici acciacchi. Sembra che una gita in barca sul Tamigi possa fare miracoli.
ü
Tristezza da vacanze mancate: se siete
appassionati di barca e mare, ma quest’anno avete dovuto rinunciare (magari a
causa del ginocchio della lavandaia) o anche se non siete lupi di mare ma la
vacanza è saltata lo stesso, tiratevi su il morale con le divertentissime
disavventure dei tre amici alle prese con le gioie e i dolori della vita da
marinai. La lettura è molto utile anche se vi hanno convinto a trascorrere le
vacanze a bordo di un caicco ma vi sentite in appropriati. Il libro sarà
un’iniezione di fiducia: se sono sopravvissuti i tre amici e pure il cane,
potete farlo anche voi. Ma fate attenzione e leggetelo tutto, perché il finale
potrebbe aiutarvi a capire se la vacanza in barca sia davvero opportuna.
ü
Cattivo umore: depressioni, disagi e malesseri
tendono generalmente ad acuirsi d'estate, quando siamo tutti più suscettibili a
causa del caldo, della stanchezza, delle notti in bianco molestate da afa e
zanzare, delle città che si svuotano e dello scombussolamento degli abituali
ritmi biologici. Non c’è niente di meglio che un cambio di location. Ma se non
potete partire, basta anche un cambio di prospettiva. Le avventure dei tre
uomini in barca e del fedele cane Montmorency favoriscono la naturale
produzione di sana spensieratezza, facendo rivalutare il piacere dell’ozio
(sacrosanto in vacanza), recuperando quell’innocenza che predispone l'animo a
godere delle cose più semplici, come anche delle disavventure. Soprattutto, il
libro garantisce al cervello una vacanza dai pensieri che lo affollano tutto
l’anno.
Una
cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace
Come Tre uomini in barca in origine doveva essere una guida turistica,
il saggio di David Foster Wallace avrebbe dovuto essere un reportage che lo
scrittore americano, impareggiabile osservatore delle nevrosi della società
contemporanea, avrebbe dovuto scrivere per la rivista «Harper’s». Ma la
settimana passata a bordo di una lussuosissima nave da crociera diretta ai
Caraibi è stata così sconvolgente che l’autore ne ha tratto un vero e proprio
saggio di antropologia vacanziera. Una cosa divertente che non farò mai più è
un capolavoro di virtuosismo in cui grazie a una scintillate e spudorata
comicità, unita a un pizzico di perfidia, l'autore racconta un’umanità
volontariamente imprigionata in una gabbia dorata di divertimento forzato a
cinque stelle, tra intrattenimenti a tutte le ore e sorrisi indotti, specchio
di una società consumistica che annega la propria inconsistenza nell’opulenza e
nel benessere a tutti i costi.
Il saggio (mai parola fu più
appropriata vista la saggezza idi rappresentare lo spettacolo-carrozzone della
vacanza) è un medicinale molto efficace in caso di:
ü
Stress di vario genere: vista la sua alta dose
di spudorato e dissacrante umorismo, favorisce la naturale produzione di
sorrisi incontrollati che aiutano ad allentare le tensioni. Ma attenzione, si
ride a denti stretti e la medicina lascia un retrogusto amaro. Nel recensirlo,
«The Guardian» lo ha definito un libro così divertente che non si riesce a
smettere di leggerlo neanche quando ci si lavano i denti. Probabilmente lavarsi
i denti aiuterebbe a contrastare il sapore amarognolo che lascia in bocca la
lettura.
ü
Rodimenti da vacanze mancate: se, causa lavoro,
situa-zione economica disastrosa o qualsiasi altro motivo, avete dovuto
rinunciare alle vacanze, salite con David Foster Wallace a bordo della lussuosa
nave da crociera per prendervi gioco con intelligenza dei vacanzieri senza
iniziativa e del personale perennemente euforico. Già dalle prime pagine, il
rodimento comincerà ad attenuarsi e vi sentirete subito meglio.
Avvertenza: se avete già prenotato
una crociera, è sincera-mente sconsigliata la lettura perché potreste decidere
di annullarla. Ma la medicina non ha lo stesso effetto su tutti i lettori e non
sempre si verifica un calo del desiderio di partire. D’altra parte lo dice
Wallace stesso, la crociera è un’esperienza divertente (che probabilmente non
vorrete fare mai più). Al contrario, è molto probabile che vorrete leggere
altri libri di questo arguto e dissacrante autore.
Robinson
Crusoe, Daniel Defoe
Dal Titanic fino ai più recenti
avvenimenti, le grandi navi sembrano perfino meno sicure della barca dei tre
amici pasticcioni del romanzo di Jerome K. Jerome. Per i lettori
particolarmente suggestionabili e vagamente ansiosi, la lettura di un classico
come Robinson Crusoe potrebbe essere considerata poco opportuna. Invece, se
assunta nella giusta modalità, può risultare molto efficace. Come quasi tutti
sanno, anche solo per sentito dire, il celebre romanzo di Daniel Defoe racconta
le avventure di un uomo che, dopo un naufragio, sopravvive da solo su un’isola
deserta. Naufragare non è una prospettiva allettante, tanto meno passare
ventotto anni su un’isola in quasi totale solitudine (sparire su un atollo in mezzo
al mare è il sogno di molti in periodi di particolare stress, ma nella realtà
si trasformerebbe in un incubo, anche perché l’esperienza non sarebbe di certo
quella paradisiaca di Laguna blu). Probabilmente vi state ancora chiedendo
quale sia lo scopo terapeutico di Robinson Crusoe e perché dovreste leggerlo
proprio d’estate. Non è una cattiveria simile a quella dei palinsesti
televisivi che, in prossimità delle partenze, si divertono a programma-re film
su disastri aerei, treni che deragliano e navi che affondano. La
somministrazione preventiva di Robinson Crusoe è consigliata in tutte le
condizioni caratterizzate dalla necessità di aumentare il fabbisogno di
ottimismo e intraprendenza, con l’obiettivo di ripristinarne i depositi in modo
da esserne sufficientemente provvisti nel malaugurio caso in cui la vacanza
naufragasse (in senso lato) e non andasse secondo i piani. Dopo la lettura,
invece di abbandonarsi alla disperazione, il lettore dovrebbe essere
naturalmente portato a rimboccarsi le maniche come Robinson, cercando di
trovare sempre il modo di aggiustare le cose. Se lui riesce a cavarsela su
un’isola deserta per ventotto an-ni, noi possiamo sopravvivere a una vacanza
mal riuscita. Se la cura ha effetto, si può anche sperare di arrivare al
raggiungimento degli stessi livelli di ottimismo del protagonista, i cui valori
sono così alti da convincerlo che, sebbene sia difficile pensare a una
condizione più miserevole della sua, c’è sempre qualcosa di positivo per cui
essere grati. Se la medicina viene correttamente assimilata dall’organismo il
lettore è vaccinato contro il pessimismo anche nella vita, che è un viaggio ben
più impegnativo di qualsiasi vacanza.
Un
consiglio in più, per non affondare
A proposito di vacanze che non
vanno secondo i piani, litigi, convivenze coatte con familiari, isole, mare ed
estate, consiglio la lettura di “Gita al faro” di Virginia Woolf. La numerosa
famiglia Ramsay è in villeggiatura nelle isole Ebridi in compagnia di amici.
Una sera organizzano, non senza contrasti, una gita al faro che poi sono
costretti a rimandare a causa del maltempo. Solo dieci anni dopo, alcuni dei
Ramsay riusciranno a realizzare il vecchio desiderio della gita al faro in una
giornata in cui riaffioreranno ricordi e vecchie ferite. Come la gita è solo un
pretesto usa-to dall’autrice per compiere un intenso viaggio nel cuore di una
famiglia, così l’estate è solo un pretesto per consigliarvi la lettura di
questo romanzo di Virginia Woolf e suggerirvi di trovare l’audacia di
avventurarvi nella mente caleidoscopica, diligente, ironica, tormentata,
introspettiva, lucida e dolente di questa impareggiabile autrice. Virginia
Woolf si è suicidata annegando in un fiume, ma la sua opera è un flusso di
coscienza in grado di salvare un lettore che si sente affondare trascinato
dalla corrente.
Commenti
Alcuni di questi libri li ho letti
ed a volte riletti già da molti anni. Lessi di Robinson ancora giovinetto, e lo
rilessi l’ultima volta nel 2001. Lessi l’impareggiabile Virginia prima della
caduta del muro di Berlino, nel 1988, e poi nel nuovo Millennio, nel 2003. Ho
letto e tramato gli “Uomini in barca” nel 2007. Ora che ne ho letto, posso
anche parlare di David Foster Wallace.
David Foster Wallace
“Una cosa divertente che non farò mai più” Minimum fax s.p. (prestito di Fako)
[trama pubblicata il 27 ottobre 2019]
Confesso che
continuo ad avere difficoltà nella lettura di Wallace. Non per la scrittura, né
per i libri in sé, ma per il modo in cui ci ha lasciato, e che non mi fa
affrontare serenamente la lettura. Cercando allora di estraniarmi il più possibile,
devo subito dire che questa è stata una lettura decisamente rilassante.
Leggera, eppure sempre con qualche spunto (o più fi qualche, forse).
Leggendone, mi veniva in mente il tentativo di Francesco Piccolo, in “Allegro
occidentale”, di rinverdirne i fasti pochi anni dopo, anche senza crociera, ma
con uno spirito affine.
Ma veniamo al
libro. Intanto, rilevo la solita poca cura nella titolazione italiana. Perché
leggendo il titolo sembra che quanto faccia Wallace nel libro sia “divertente”,
e che quindi per lui sia un dispiacere non farla più. Il titolo originale parla
invece di una cosa “presumibilmente divertente”, cioè che è divertente per
molta gente, non certo per lui, che dopo questa esperienza non la ripeterà più.
E lo posso capire. Che personalmente sono assolutamente concorde: la crociera è
una cosa che molti trovano interessante, e non io. Che ho fatto anni fa in
Norvegia, e che, come Wallace, non ripeterò.
Wallace intraprende
una crociera “7 notti ai Caraibi” per conto della rivista Harper’s. Guarda con
la sua acuta intelligenza, scrive, appunta, elabora. Ovviamente la rivista non
pubblicherà il resoconto, che risulta tutt’altro che “attirevole” per i mondani
lettori. Allora, Wallace riprende, allarga e ne fa un breve libro (questo) dove
riesce a farci entrare nello spirito del 7NC, ed a farcene uscir presto. Perché
sulla nave (e siamo nel 1995) bisogna divertirsi, bisogna rilassarsi. Quindi i
gitanti sono in spirito per farlo, e tutto il personale si adopera per farvi
sentire a vostro agio. Ogni momento è riportato con lo spirito con cui anch’io
lo vedrei: le enormi masse, quasi greggi votate al macello, che attendono in
una specie di hangar a duemila gradi di essere chiamati verso la propria nave e
la propria crociera. Con un’età media elevata (e conseguenti malori ed altre
avversità). Ed è un bene che Wallace la faccia 25 anni fa, che ora avrebbe
anche un’invasione insopportabile dei neoricchi ex-sovietici.
Wallace analizza
il dépliant che magnifica il benessere ed il lusso atteso. Ma non ne troverà
traccia, per lui, nei sette giorni. Anche se gli anziani, e tutti quelli che
salendo a bordo lasciano a terra cervello e remore, si sentiranno coccolati.
Anche se faranno la fila ai ristoranti, la resse alle piscine, brontolii e
lamentale se si decide di fare una gita a terra. Badate bene, e lo
sappiamo ora che le crociere sono diventate un oggetto del desiderio anche per
una fascia di noi europei, ogni cosa, ogni azione, ogni spazio è stato pensato,
calcolato e installato affinché il “ricco” passeggero (o almeno, anche se non
ricco, tale che la servitù lo faccia sentire così) si riduca ad uno stato di
vizio quasi materno, quasi si fosse ancora nella culla.
Non
è neanche il caso di cercare chi siano i membri dell’equipaggio che vi servono,
come il professionale Àgoston, cameriere del tavolo di Wallace, serio,
impeccabile, anti-umoristico, refrattariamente ironico. Wallace si domanda, nei
suoi ritiri in cabina lontano da tutti chi siano i personaggi alla Àgoston e si ripete che forse non è proprio il caso
di porsi simili domande. Sono lì per coccolarvi, anche se, e Wallace lo sente,
forse siete loro neanche tanto cordialmente antipatici. Anzi, Wallace ha la
sensazione che tutto tenda a farlo sentire così. Ne escono fuori pagine di una
tristezza unica, con degli spunti di feroce ironia, che, purtroppo, sono anche
molto datati.
Certo,
si legge, certo siamo con Wallace a detestare tutta la massa intorno. Ed
ovviamente apprezziamo il suo stile, fatto anche di tante note 8quasi alla
Nabokov) che sono una parte integrante e complementare al testo. A me, tra
tante spigolature, è rimasta impressa, e ne ho cercato per approfondire, tutta
la disquisizione sull’angolo di Brewster, con quella particolare incidenza
della luce sul piano del mare, che ne permette la polarizzazione, con effetti
visuali notevoli sulla superficie marina. Se capita, si leggerà ancora di
Wallace, anche se non lo andrò a cercare direttamente. Troppa è la tristezza,
ed il rimpianto.
“Gli uomini dopo una certa età non dovrebbero
semplicemente più portare i pantaloncini; le loro gambe senza peli sono
raccapriccianti.” (32)
“Il modo migliore per descriverlo … è questo:
perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.” (131)
Finalino
Continuo a ritenere (ed a maggior ragione dopo queste
letture) che la barca non sia un mezzo a me consono. Né tanto meno che io
riesca a fare una crociera seria prima di raggiungere il crepuscolo dei miei
anni. E quindi va bene così, io leggo e voi andate pure per mare. Ci si manderà
una cartolina…
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