Elizabeth Jane Howard “Il lungo sguardo”
Repubblica Duemila 3 euro 9,90
[A: 22/01/2018 – I: 20/07/2020 – T: 22/07/2020] - &&& e ¾
[tit. or.: The Long View; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 1956]
Un’altra
scrittrice che non conoscevo, se non di nome e se non perché, quando passo in
libreria, nello scaffale con i libri di Fazi Editore, ci sono sempre i cinque
volumi della sua saga dei Cazalet. Una scrittrice particolare, comunque con una
lunga storia alle spalle. Che divorzia dal primo marito e gli lascia la figlia
perché deve seguire la sua vocazione. Che avrà un lungo (diciotto anni) terzo
matrimonio con Kingsley Amis, dove, da matrigna, consiglierà e spingerà il
giovane Martin alla scrittura. Una scrittura che in certi passi ricorda
l’andatura di Nancy Mittford, aggiornata di trenta anni. Con la particolarità
che riesce sempre a non dare giudizi, a presentare situazioni e sentimenti, che
elenca, sviscera e ricompone con sapiente maestria.
Ovviamente,
il testo risente dei sessanta e passa anni dalla scrittura, ma solo per alcune
atmosfere molto inglesi, più che per il contenuto, il messaggio che intende
mandare. Non risente invece l’innovazione della sua forma inusuale. La
scrittrice cerca di entrare nel profondo di un matrimonio, di un rapporto tra
due persone, ma ce lo presente a ritroso, con una forma di scrittura poco usata
all’epoca. E non con flashback, ma proprio come un nastro che si riavvolge. Si
ha la sensazione di vedere dei vecchi filmini di famiglia, cinque per
l’esattezza, ma proiettati dall’ultimo al primo. Abbiamo così i cinque capitoli
della storia che ci viene presentata nel 1950, per poi riavvolgersi nel 1942,
nel 1937, nel 1927 e terminare nel 1926.
Si
parte dalla cena che Antonia Fleming organizza per il fidanzamento del figlio
Julian con la scialba Jane. Vediamo qualche attore di contorno, come anche
l’altra figlia Deidre ed i suoi problemi con l’amante da cui è incinta ma che
la vuole lasciare. Ma è soprattutto il marito Conrad che balza in primo piano.
Una personalità forte, che si mescola agli altri solo per metterli in difficoltà,
che, almeno a suo dire, pur amando Antonia, l’ha sempre bellamente tradita. Ed
ora, dopo ventitré anni di matrimonio decide di lasciarla. Cercheremo allora di
capire, ora, ed a ritroso, chi sia Antonia, chi sia realmente Conrad, e cosa
abbiano lasciato tutti questi anni. Praticamente, una vita.
La
bravura dell’autrice è di dirci subito dove siamo arrivati, e di farci vedere
come, Antonia e Conrad, sono arrivati lì. C’è il salto nella guerra, dove la
durezza esterna non permette altro che (ri-)trovare momenti di intimità che,
tornando indietro e andando avanti, capiamo essere isolati. C’è il secondo
salto nel decimo anniversario del matrimonio, nella sbandata di Conrad per
Imogen, dove vediamo e capiamo che tutto deve andare secondo le sue direttive,
altrimenti Conrad si stufa e molla. Poiché inoltre è intelligente e ricco, ne
esce sempre con la testa alta, forse non felice, ma degli altri se ne frega
assai. Nella parallela sbandata di Antonia per uno scialbo intrallazzone, forse
solo per sconforto. Ma che lei capisce non avere senso se non per alleviare la
sua personale solitudine. C’è il momento magico delle nozze, del rapimento, in
pratica, che Conrad fa di Toni (così la ragazza si faceva chiamare quando aveva
venti anni). Lui ne vede la bellezza, e la vuole per sé. Ne vede le
potenzialità, e la vuole plasmare per farne un suo possedimento fisico e
mentale. I momenti parigini sono, per noi che li vediamo in prospettiva, di una
allucinante illuminazione. Conrad è già cattivo. Toni è già votata all’infelicità.
E poi ancora un anno indietro, dove capiamo perché Toni si butti nelle braccia
di Conrad. Ha avuto un’esperienza devastante, per lei che non era ancora adusa
al mondo. Racchiusa come era in un bozzolo costituito da un padre
intelligentissimo e lontano, ed una madre che prendeva e lasciava amanti come
fiori da giardino. Rivelazioni sconvolgenti, che quando si presente il
tenebroso Conrad alla porta sfociano in un salto nel buio. Ovvio, il buio è per
Toni, che non riuscirà a capirlo neanche dopo tanti anni.
Un
romanzo amaro, duro, che non fa sconti. Dove ci si domanda spesso, non tanto
perché i protagonisti fanno quello che fanno, ma cosa pensano sia la loro vita.
Rimandandoci quindi facilmente a chiederci. Ma la nostra, com’è? Antonia, come
vediamo nei primi anni, ha delle difficoltà a fare delle scelte. Noi le abbiamo
fatte? E ne siamo soddisfatti? Uno dei momenti, stranamente, d’amore più
intenso, è il momento in cui sia Antonia che Conrad abbandonano i rispettivi
amanti, per continuare la loro vita insieme. Anche se i motivi sono
radicalmente diversi. L’altro messaggio che, anche se molto flebilmente, ci
manda la scrittrice è la necessità di indipendenza della donna per fare delle
scelte. Tutte e tre le generazioni femminili (Deidre, Antonia e la madre di
Antonia) si illudono, in un certo senso, di governare la propria vita. Ma
dovranno scendere a compromessi, che non hanno (ancora) basi per camminare da
sole.
Analisi
di un matrimonio, certo. Analisi di rapporti umani. Dissezione delle
cattiverie, reciproche, personali e sociali. In un mondo che vede, bene o male,
tutti sconfitti. Con un’attenzione bellissima e dolente ai silenzi che
pervadono i rapporti reciproci.
Un
libro che consiglierei di leggere due volte. Arrivati alla fine, rileggere i
precedenti capitoli in ordine temporale. Se ne ricava molto di più che da una
sola lettura.
“Immagino
che dal modo di fare il caffè si possa capire il carattere di una persona.”
(31)
“Uno
desiderava dei figli, li metteva al mondo e li allevava: e poi, in spregio ai
metodici sforzi con cui li avevi educati, quelli ti mettevano alle strette
producendo un risultato che era quantomeno sbagliato dal punto di vista
matematico.” (53)
“Quanto
odio la gente giovane! … Il bisogno indiscriminato di approvazione, la totale
imperizia, le aspettative assurde: sarebbero capaci di fare a pezzi un’infinità
di orologi aspettandosi che qualcun altro li ripari … L’incapacità di fare
tesoro delle esperienze degli altri, rifiutandosi di farle loro direttamente …
La presunzione di essere indispensabili.” (103)
“Ti
piace leggere, allora … Sì. Crea nuove aspettative, e certe volte i libri
davvero buoni riescono a soddisfarle.” (140)
“Non
tutti possiamo passare la vita a rimuginare sui libri mentre altri fanno le
cose al posto nostro.” (342)
Harper Lee “Va’, metti una sentinella”
Repubblica Duemila 9 euro 9,90
[A: 05/03/2018 – I: 10/08/2020 – T:
12/08/2020] - &&&
e ½
[tit. or.: Go Set a Watchman; ling. or.: inglese; pagine: 248; anno 2015]
Iniziamo dalla fine: ho messo la data
ufficiale del libro, ma tutti concordano che sia stato scritto molto tempo
prima. Tanto che il famoso buio della siepe, nella prima stesura, pare avesse
questo titolo. Poi è stato preso, allungato, smembrato. Una parte è diventata
il famoso e celebrato “To Kill a Mockingbird”, reso famoso anche da
un’interpretazione cinematografica maiuscola di Gregory Peck.
Una parte è rimasta nell’ombra, che troppo
dolorosa per il Sud Unionista ma anche per l’America in toto, con la sua
denuncia del sostrato razzista che negli anni Cinquanta permeava tutta una gran
parte del suolo americano. Ed è un peccato, questa scelta editoriale imposta
alla brava Lee, che, didascalicamente, aveva un senso presentare prima questa
America, e poi far capire come, per la correttezza e l’onestà personale, anche
una persona con posizioni borderline, avrebbe dovuto comportarsi. Ne sarebbe
uscito un manifesto per quella che ritengo una delle più belle frasi rimaste
nella mia memoria. Il Voltaire cui si faceva dire: “Non sono d’accordo in una
sola virgola di quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa
dirlo.” (Non entro sulla lunga esegesi della estraneità di Voltaire al testo
della frase ma non al suo senso di tolleranza).
Ragionando allora come se fossimo vicino alla
compianta Harper, quasi un suo secondo Truman Capote, vediamo come si possa
sviluppare il tutto. Il libro, nel suo complesso, si riferisce al “Libro di
Isaia” della Bibbia, dove nel sesto versetto del capitolo 21 si dice “Poiché
così mi ha detto il Signore: «Va', metti una sentinella che annunzi quanto
vede...”. È un brano dove il profeta Isaia annuncia la caduta di Babilonia. Un
brano che serve ad Harper per plasmare tutto il testo intorno alla caduta. Di
tutti gli eroi che ha costruito, ma anche, cosa più importante, del mondo
retrogrado dell’Alabama degli anni Cinquanta, ancora vicina all’Ottocento più
che al Duemila.
In terza persona, seguiamo la nostra eroina,
Jean Louise ‘Scout’ Finch, ventenne, emigrata in quel di New York, che torna
per le festività nel paesello natio. Dove ritrova i suoi affetti: il padre
Atticus, avvocato quasi pensionato, in declino fisico ma non mentale, la zia
Alexandra, separata e bigotta, lo zio Jack, con le sue sentenze dotte ed
iperboliche, ed Hank, quello che potrebbe essere il suo fidanzato, ma che forse
non lo diventerà mai. Non trova invece il fratello Jem, morto tragicamente da
qualche anno.
Vediamo subito che Scout ed il resto della
cittadina non sono in sintonia, soprattutto per quello che è il nodo principale
del profondo sud dell’America: il rapporto tra bianchi e negri (non sono
politically correct, ma non me ne importa). Vedendo i comportamenti dei suoi,
in special modo di Atticus ed Hank, Scout si trova sbalestrata. Ha sempre pensato
che comunque fossero tolleranti ed aperti al confronto raziale, mentre qui li
vede immersi in un tessuto sociale che, se non frequentato, rischia di
emarginarti. Scout non capisce che i suoi tentano di moderare gli animi, ma per
farlo devono entrare in contatto, devono convivere con le pulsioni più
retrograde. Lei, aperta e cittadina, vorrebbe invece affrontare tutto di petto.
Scout dovrà fare un doloroso percorso interiore per arrivare a capire, anche se
non ad accettare, quello che in particolare Atticus va facendo nella città. E
noi ci domandiamo ancora quale sia il giusto modo di affrontare il problema
(che ancora è aperto, in America ed in molte parti del mondo). Sarà un distacco
mentale penoso ma necessario. Che avrebbe aperto ai ricordi di ‘Scout’ di
quello che pensava essere l’atteggiamento aperto del padre, così che si poteva
sviluppare, ricordato in prima persona, tutto quello che noi abbiamo letto ed
ammirato ne “Il buio oltre la siepe”.
Ma se questo aveva un suo senso, non è questo
quello che abbiamo vissuto. Siamo cresciuti nel mito del buon Atticus, e qui ci
ritroviamo a doverlo far scendere dal piedistallo. Nel percorso inverso, non ci
saremmo fatti illusioni, ma avremmo avuto una storia più aderente al vissuto
locale, di Scout, ma anche di Harper, di Truman e di tutta la gente del Sud. A
prescindere quindi dalle costruzioni e dalle ricostruzioni, devo dire che, se
non ci fasciamo gli occhi con i pregiudizi, il libro è altrettanto potente
dell’altro. Dato che ci pone la domanda fondamentale: per cambiare, bisogna
sfasciare o cercare di erodere? Credo che sia una domanda che vada bene anche
in altri contesti. Ce la facemmo noi cinquanta anni fa, e, personalmente, non
ho ancora trovato una risposta convincente. Alla fine, quello che l’autrice mi
comunica è che siamo umani. Quello che dice in più, partendo dal suo retroterra
protestante, è che la Babilonia delle lotte raziali cadrà, come predice Isaia.
Ma questa, purtroppo, è una questione di fede.
Taiye Selasi “La bellezza delle cose
fragili” Repubblica Duemila 49 euro 9,90
[A: 03/04/2018 – I: 04/09/2020 – T: 07/09/2020] - &&& -
[tit. or.: Ghana Must Go; ling. or.: inglese; pagine: 401; anno 2013]
Un
libro dalla costruzione complicata, che tuttavia si lascia leggere abbastanza
bene, e provoca nella testa qualche spunto di riflessione. Sulla famiglia, in
primis, ma anche e soprattutto sulla condizione degli expat ovunque essi siano.
La
scrittrice di origini ghanesi, nata a Londra, ma vissuta da sempre in
Massachusetts, con una storia simile a quella descritta nel libro, anche se
diversa (in fondo, qualcuno diceva che gli scrittori scrivono sempre la loro
storia personale, con tutte le mutazioni del caso), è anche giornalista e
sceneggiatrice. Tanto per dire che sa usare la penna.
Penna
che invece non sanno usare molto bene gli editor di casa nostra che con quel
titolo che significa veramente poco (anche se fragilità e bellezza pervadono
tutto il libro). Che il titolo originale non è un inno alla forza del Ghana, ma
un ricordo dell’emigrazione forzata cui i ghanesi che vivevano in Nigeria
furono costretti il 17 gennaio 1983 dal presidente locale. Con preavviso nullo,
potevano portare via poche cose. Tutte messe in una valigia di nylon con la
zip, che da allora prese in Africa il nome di “Ghana must go”. E che altrove è
conosciuta come “Valigia del Rifugiato”. Questo per dire che tutto il centro
della storia si avvolge attorno a persone che si trovano fuori dal proprio
contesto, che espatriano, che a volte hanno solo i ricordi di una vita da
portare con sé. Ricordi da mettere dentro la valigia, che avrei così chiamato
il libro, se fossi stato preposto alla titolazione.
La
nostra autrice quindi ripercorre, immagina e ripropone una vicenda
dall’andamento familiare (cioè di famiglia). Essendo lei nata da madre
nigeriana di stirpe yoruba e padre ghanese.
Ma
ci interessa meno la vicenda del contesto, meglio quella del testo.
Che
si sviluppa, in pochi giorni di lasso temporale, ma ripercorrendo vite intere.
Andiamo dalle prime pagine della morte di Kweku, il patriarca, il chirurgo
ghanese gloria degli ospedali americani, che, caduto in disgrazia, finisce la
sua vita under 60 con un infarto nella sua villa in periferia di Accra. Finendo
con il funerale, cui partecipano la prima moglie Fola, ed i quattro figli: Olu,
anche lui medico, sposato senza dirlo alla famiglia con l’asiatica Ling, Taiwo
e Kheinde, i due gemelli, l’una imbarcata in una storia con il suo professore
di legge, sposato, e l’altro artista di valore, ma senza un vero centro nella
vita, e Saidé, la piccola, sbandata, bruttina, forse, desiderosa d’affetti e
tendenzialmente gay.
Tra
questi due estremi, la scrittrice ci fa percorrere tutte le loro vite. Kweku,
chirurgo dalle abili mani, che viene però emarginato dall’ospedale per problemi
anche razziali. Che perde la causa, perde i soldi, si sente in colpa verso la
famiglia, e fugge. Così come fuggono tutti i maschi della sua famiglia. Come
suo padre. Fuga che lascia in braghe di tela la moglie Fola. Che riesce a far
andare avanti nello studio Olu, che prende borse di studio a rotta di collo. Ma
non i gemelli, che manda in Ghana dal fratello. E dove avranno degli shock da
cui si riprenderanno solo in finale di libro. Ma non vi dico quali. Solo che
Taiwo e Kheinde tornano senza riuscire più ad essere centrati. Faranno ognuno
la propria vita, magari di successo, ma sempre fuggendo da qualcosa. Fola che
rimane sola con la piccola Saidé, che però non riesce a maturare, sempre
all’ombra dei fratelli più grandi (lei essendo nata nove anni dopo i gemelli).
E mentre vediamo le crisi di Saidé, ci si narra anche la vita della madre,
nigeriana costretta a fuggire dalla patria dopo che nei pogrom del nord della
Nigeria vengono uccisi sia il padre, che i nonni. Tra cui (ed è questo uno dei
motivi delle diaspore di tutta la famiglia di parte femminile) la nonna
scozzese. Motivo della punta di bianco che hanno le figlie.
Insomma,
un bello spaccato di mondi familiari, in cui nessuno riesce a dire fino in
fondo quello che prova, e rimanendo così nel limbo, l’unica cosa che si
alimentano sono timori e cose non dette. Ma anche i problemi di chi va in giro
per il mondo a cercare di risolvere la propria vita. Kweku, che è abile con le
mani, che dovrebbe costruire le sue case di vita (e che lo farà solo alla fine
della propria), che fugge in America, per poi riparare in patria. Fole che
fugge dalla Nigeria prima, dal Ghana poi, che viene “fuggita” da Kweku, e che
troverà la pace solo tornando proprio in Ghana. E così, senza che ne ripercorro
i passi, tutte le fughe dei figli, fisiche e mentali.
Alla
fine, è piacevole, anche se per un po’ il continuo cambio di soggetto, mi aveva
destabilizzato. Una buona prova per riflettere sulle migrazioni (anche qui,
fisiche e mentali).
“Non
sa se un uomo può davvero mai conoscere una donna.” (68)
“Una
donna può immaginare di essere un uomo … ma non può immaginare cosa significa
‘non’ essere donna.” (337)
Lucia Berlin “La donna che scriveva
racconti” Repubblica Duemila 12 euro 9,90
[A: 26/03/2018 – I: 15/10/2020 – T: 19/10/2020] - &&&& ---
[tit. or.: A Manual for Cleaning Women. Selected Stories; ling. or.: inglese; pagine: 443; anno 2015]
Non meravigliatevi dell’alto gradimento di un
libro di racconti. Come diceva un amico di mio padre “quanno ce vo’, ce vo’”. È
sì un libro di racconti, anzi come recita una parte del titolo, di “storie
selezionate”, ma non ti danno mai il senso dell’incompiuto, del finito troppo
presto. Perché, alla fine, sembrano soltanto un pezzo di descrizione di un
mondo complesso, il nostro.
Lucia Berlin non è mai stata portata in palmo
di mano nella sua vita (se ne volete leggere, la migliore descrizione si trova
sul sito spagnolo di Wikipedia), con una serie infinita di problemi. La
scoliosi, tre matrimoni e quattro figli prima dei trentacinque anni, per
trovarsi da solo a sbarcare il lunario. Adattandosi a tutti i mestieri, che
trovava con difficoltà, risultando troppo istruita per le cose cui si riduceva
a fare, anche per stare con i figli. Infermiera in uno studio dentistico,
centralinista in un centro ginecologico, donna delle pulizie, professoressa mal
pagata in una scuola secondaria. Circondata da tante vite derelitte, Lucia
Brown (questo il suo nome alla nascita), ne accumula i sapori. Come quello del
suo terzo marito, il jazzista Buddy Berlin (da cui prende il cognome), da cui
ha il terzo ed il quarto dei suoi figli. Ma Buddy, pur avendo un grosso peso
nella maturazione di Lucia, è perso nella sua eroina. Ed anche questa storia
finisce, e si ritorna a quanto sopra detto. Lucia seguiva il padre addetto alle
miniere di mezzo continente americano (nord e sud), tanto che vive a lungo in
Cile ed in Messico. Dove rimane sua sorella Sally. Che lei raggiungerà quando
si scopre che Sally ha un cancro terminale e Lucia vivrà con lei sino alla
fine. Per poi tornare in California, alla sua vita.
A 68 anni, nel giorno del suo compleanno,
stremata dalla scoliosi e dal sopraggiunto cancro, Lucia si addormenta per
sempre. Sarà solo dopo una decina di anni che un accorto editore prenderà in
mano il lascito di Lucia, ne tira fuori un bel numero di storie, e le accorpa
in questo volume, che prende il titolo, in originale, di una delle sue
meravigliose avventure di scrittura (“Manuale per donne delle pulizie”). Per
quale motivo il primo traduttore italiano (credo della Bollati Boringhieri) ne
abbia stravolto il titolo con questo che poi non è nessuno dei racconti
presenti, ma solo una possibile definizione della vita stessa di Lucia Berlin,
devo ancora cercare di comprenderlo.
Avrei
potuto descrivere più a fondo la vita di Lucia Berlin, ma se leggete questi
racconti, sembra quasi che formino un unico grande romanzo. Sono
cronologicamente sparsi, ma seguendo i nomi, seguendo le vicissitudini dei
personaggi si riesce a ricostruire la storia di questa scrittrice,
riscoprendone a fondo l’empatia e la capacità di raccontare e di farti
partecipe di quello che stai leggendo.
Sembrerà
di essere a Oakland, come donna delle pulizie, oppure di essere seduti in una
lavanderia a gettoni sulla quindicesima, dove state simpatizzando con un indiano
alcolizzato. L’universo di Lucia, ma anche la sua vita, è la periferia
dell’Impero americano. Non stiamo sulla Quinta strada, e neanche al Fisherman
Wharf, ma nel profondo del Nord, del Centro e del Sud America, con gli
immigrati, le famiglie scombinate, ma regolate da un orologio sempre puntuale.
Ci sono i bambini, ci sono le suore, ci sono i castighi, ma anche quel
meraviglioso puzzle in cui manca un pezzo con un angolo di cielo. Ci sono le
discariche, la moquette, le roulotte dove vivono molti sbandati, ci sono fiumi
di whiskey e c’è la mattina dopo la sbornia. Ci sono preghiere, ospedali,
sigarette, figli che si vergognano di madre alcoliste, sorelle che si
ritrovano, qualcuno che muore di cancro. Ci sono teppisti che parlano di
Mishima.
In
fondo, ci sono quarantatré vite diverse con cui entrare in sintonia.
Quarantatré vinti che ti guardano dalle pagine, che sono sempre un po’ sporche
di vomito, ed altre lordure. Si vivono tante vite insieme a Lucia, sembra di
entrare nella sua vita, di essere presente quando Buddy si buca, quando si
tuffa nell’oceano, quando aiuta il nonno a togliersi i denti.
Come
disse suo figlio, non importa se è realmente accaduto, o se è frutto
dell’immaginazione, in ogni caso sembra più bello di quanto si ricordi.
Ed
a proposito di ricordi, Sally, mentre sta morendo di cancro, dice alla sorella
“Non vedrò più gli asini” (422), ed io sono stato violentemente portato in
ospedale da mio padre che mi diceva: “Che peccato, non riuscirò più ad andare a
New York”.
Comunque,
penso che abbiate capito, che il libro mi è piaciuto, ed ho penato alquanto nel
finirlo, che avrei voluto trovare sempre nuove storie, nuove vite di Lucia
Berlin.
“Le
dispiace di non aver visto sua madre prima che morisse … Dopo la morte dei tuoi
genitori, ti trovi faccia a faccia con la tua.” (201)
“Non
esiste una guida per la morte. Nessuno che ti dica cosa fare, come sarà.” (277)
Seconda
trama, seppur ravvicinata, ed allora continuiamo con gli allegati, ormai quasi
agli sgoccioli, alla ricerca del partner ideale.
La fine della scorsa trama mi ha fatto venire in mente l’ingente massa di citazioni accumulate in questi anni. Così ho pensato di riproporvi la prima in assoluto del primo libro letto da quando tengo traccia delle mie letture. Si trattava della “Lettera sulla felicità” di Epicuro, dove rimase nella mia memoria: “non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per cercare la felicità”. Sono certo che sarà un’epigrafe anche per questo anno, per cui ve la dono.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
GENNAIO 2021
Sono contento di poter aprire
quest’anno anche qui con dei libri al femminile.
UOMO/DONNA IDEALE, CERCARE
Nancy
Mitford “Inseguendo l’amore”
Jane
Austen “Emma”
Jane
Austen “Orgoglio e pregiudizio”
Ann
Patchett “Bel Canto”
Trovare
il partner ideale – migliore amico, amante, compagno, finanziatore, chef, tutto
in un unico, accattivante pacchetto – è considerato generalmente il biglietto
vincente nella grande lotteria della vita, il modo migliore per garantirsi
felicità, salute e longevità. Per molti è la principale ossessione
dell’adolescenza e dei vent’anni, e se la ricerca fallisce, la causa
dell’infelicità dei decenni successivi. Dal XIX secolo, molti romanzi hanno
condiviso – o riflesso, o alimentato, a seconda del punto di vista – questa ossessione.
Centinaia di ricerche del partner ideale sono state offerte al nostro
divertimento e alla nostra crescita. Eppure, due secoli di letture ci hanno
forse reso migliori, più saggi? Oppure siamo diventati così perfezionisti che
rischiamo di cercare un ideale che non esiste?
Sembra
di no. Molti di noi seguono ancora il terribile esempio di Linda Radlett, la
protagonista di “Inseguendo l’amore” di Nancy Mitford, che, pur partendo dalla
certezza che il vero amore arriva solo una volta nella vita, lo cerca
utilizzando lo stesso metodo con cui compra i vestiti: li prova per vedere se
le stanno bene, sposando due partner sbagliati prima di trovare finalmente
quello giusto in Fabrice, un ricco nobile francese. Fabrice finanzia il suo
shopping selvaggio e per un po’ la rende la donna più felice del mondo ma,
ahimè, non per molto. Oh, se Linda non avesse avuto tanta fretta e avesse aspettato
«quello giusto» fin dall’inizio!
Certo,
spesso capita che «quello giusto» lo incontriamo presto – a volte ce l’abbiamo
proprio davanti, in effetti – ma o per una nostra mancanza, o per colpa sua,
non riusciamo a riconoscerlo. Un esempio del primo caso è Emma, l’eroina di Jane
Austen: ci mette un intero romanzo a sviluppare abbastanza consapevolezza di sé
da essere finalmente colpita dalla freccia di Cupido e capire, con assoluta
certezza, che il suo uomo ideale è il vicino di casa, il signor Knightley (Toh!
Ma a quanti di noi è capitato?). Un esempio del secondo caso, invece, è Elizabeth
Bennet in “Orgoglio e pregiudizio”; il suo signor Darcy deve risolvere qualche difetto
di carattere prima di essere il candidato perfetto per lei.
A
volte, invece, il nostro partner ideale sembra davvero molto lontano, e la vita
non fa nulla per fare incrociare le nostre strade. Questo è il caso del signor
Hosokawa, dirigente di una società giapponese di elettronica, che sicuramente
avrebbe continuato a pensare di poter amare davvero solo l’opera, e non un altro
essere umano, se non fosse stato preso in ostaggio mentre assisteva a un
concerto in suo onore. In una delle storie migliori che conosciamo su come
l’amore possa sbocciare nelle circostanze più improbabili, il brillante “Bel
Canto” di Ann Patchett descrive la nascita di tre veri amori: quello del signor
Hosokawa per la bella soprano Roxanne Coss, quello del suo coltissimo
traduttore Gen per un contadino semianalfabeta diventato terrorista, e quello del
diplomatico francese Thibault, che fino a poco prima aveva dato per scontata l’elegante
moglie Edith. Trasformati dalla bellezza del canto della soprano – e Patchett descrive
in modo meraviglioso la quasi dolorosa, viscerale capacità di commuovere della
musica – e costretti a vivere intensamente quel momento anche dalla costante
minaccia della morte, il risultato straordinario per quelli che si trovano nel
palazzo del Vice Presidente (dove sono trattenuti) è che tutti, ostaggi e
terroristi allo stesso modo, si sentono spinti verso l’arte e la cultura –
verso il canto, la lettura, lo studio, la cucina, gli scacchi e, naturalmente, l’amore.
Non
stiamo dicendo che dovreste cercare di farvi prendere in ostaggio. E nemmeno
che dovreste perseguitare la persona famosa che amate a distanza. La letteratura
lascia intendere che cercare il partner ideale è in ogni caso una perdita di
tempo, perché probabilmente ce l’avete proprio sotto il naso. Al contrario,
rivolgete la vostra attenzione alle cose che vi appassionano – che si tratti
dell’opera, come per il signor Hosokawa, dei cavalli o dei racconti di
Hemingway. Crescerete e diventerete persone migliori, più interessanti, e ne
sarete felici. Allora, e solo allora, sarà il vostro partner ideale a trovare
voi.
Bugiardino
Purtroppo,
Jane Austen non è molto nelle mie corde, ed anche se penso che prima o poi ne
possa leggere, per ora rimane lontano dai miei occhi. Come la Patchett ma solo perché
poco se ne trova in italiano. Rimane Nancy Mitford, che ho letto in questo ed
altre letture, con risultati devo dire soddisfacenti.
Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” Giunti s.p. (regalo di
Sara&Giampaolo)
[tramato
il 21 febbraio 2016]
Libro nato dalla congiuntura di
una segnalazione delle ormai troppo citate libropeute e dal desiderio dei due
carissimi S&G di farmi gradito regalo. E libro che non si apprezza fino in
fondo se non si segue anche un po’ di contesto. Che ad una lettura diretta (la
prima che ho dato) è un libro gradevole con qualche puntata verso il
divertente.
Poi ho approfondito il
personaggio – autore e la lettura si è approfondita di tutto il contorno che
Nancy Freeman-Mitford si porta appresso. Come figlia primogenita di David
Freeman-Mitford, secondo Barone Redesdale, come una delle sei “sorelle Mitford”
che riempirono la scena londinese nel periodo delle due guerre, come pronipote
di quel Bertie Mitford (il primo Lord della famiglia) che si imparentò con la
casata di Ogilvy, conti di Airlie, dove un loro discendente sposò la
principessa Alexandra, cugina della regina Elisabetta II.
Ed a proposito delle
“sorelle”, da segnalare da un lato dello “schieramento politico” Diana (che
prima sposa un Guinness erede della birra omonima, poi sir Mosley, capo
indiscusso del Partito Fascista Britannico, a cui darà il figlio Max ora uno
dei grandi capi della Formula 1 automobilistica) e Unity (che cercò la morte
per il conflitto di essere inglese e seguace di Hitler) e dall’altra Jessica
(fuggita in USA ed una dei leader del comunismo americano).
In mezzo a tutta questa
confusione (vogliamo ricordare tra l’altro che la figlia della zia materna
sposò Winston Churchill, e che il nonno materno fu il fondatore di “Vanity
Fair”?) si colloca la nostra scrittrice ed il suo romanzo. Fatte tutte queste
premesse, qualcuno si sarebbe aspettato un romanzo alla Casati Modignani o
Danielle Stell. Ed invece, pur avendo dei tratti singolarmente convergenti, la
scrittura di Nancy ci porta altrove. Sicuramente ad uno sguardo ironico sulla
società presente. Non è un caso, che, ironia per ironia, negli anni Cinquanta
la scrittrice divenne la maestra dello snobismo inglese scrivendo una
dissertazione sulla distinzione tra i termini U e quelli nonU (intesi come
Upper e nonUpper class, dove ad esempio i primi usano il termine graveyard ed i
secondi cemetery, come da noi i primi userebbero camposanto ed i secondi
cimitero).
Con questo sguardo ironico,
seguiamo allora la vita di una tipica famiglia U, che vive in campagna, con
padre alla camera dei Lord, e figlie femmine con istitutrici (perché una donna
che studia è nonU). La storia è narrata da Fanny, la cugina che entra ed esce
dalla famiglia, che ha i genitori divorziati e vive con la zia Emily. Fanny ci
parla un po’ della sua famiglia: quasi nulla del padre, molto di sfuggita della
madre molto amata, chiamata in famiglia la Puledra, perché scalpita ed entra ed
esce da situazioni amorose le più improbabili.
Ma soprattutto, Fanny ci parla
di sua cugina Linda, sua coetanea, con la quale condivide gioie e pene
dell’adolescenza, con la quale cresce insieme, e che lei prende
(inconsapevolmente lei, consapevolmente Nancy) come esempio di rotture nel
tessuto borghese degli U. E con lo sguardo di Fanny vediamo Linda convolare a
nozze con il banchiere Tony (di progenie tedesca e quindi inviso allo zio
Matthew). Fa una figlia, Moira, che non riuscirà mai ad amare.
E mentre Fanny sposa un decano
di Oxford con il quale condurrà una vita ritirata ed amorosa, Linda, dopo nove
anni di matrimonio si innamora perduratamene di Christian, un comunista di
razza. Christian pensa alla rivoluzione e non agli uomini, si imbarca in
situazioni sempre più improbabili. Siamo nella metà degli anni ’30, e Christian
e Linda si trasferiscono a Perpignano, per aiutare i profughi spagnoli dalla
guerra civile. Lì incontrano Matt, il fratello di Linda fuggito in Spagna a combattere.
Ma soprattutto c’è Lavander, una vecchia amica londinese. Quando Linda si
accorge della passione tra lei e Christian decide di lasciarlo e di tornare a
casa.
Ma a Parigi finisce i soldi, e
lì incontra casualmente ma proficuamente il ricco duca Fabrice de Sauveterre,
di cui ben presto diviene amante e mantenuta. Scoppia la Seconda guerra
mondiale. Fabrice, che lavora per i Servizi segreti, rimanda Linda in
Inghilterra. Lì Linda si scopre incinta, anche se i medici le avevano
sconsigliato un nuovo parto. E durante i bombardamenti si ritrovano tutti
riuniti. Fanny, anche lei incinta, la madre di Fanny con il suo nuovo amante,
il simpatico cuoco spagnolo Juan, quel che resta dei fratelli Radlett, e Linda.
La quale, benché Fabrice sia alquanto stralunato, sa di aver con lui trovato
finalmente l’amore che inseguiva da tutta la vita. In una cupa notte, Fanny e
Linda partoriscono, ma Linda non sopravvive al parto. Ed arriva anche la
notizia della morte in guerra di Fabrice. Fanny allora decide di adottare il
figlio di Linda e di chiamarlo Fabrice. Quanti avvenimenti in meno di trecento
pagine. Allietati da una scrittura coinvolgente. E che alla fine, con le
premesse che ho detto in apertura, mi ha convinto ad assegnare un buon posto al
libro, ed una menzione alla scrittrice nel mio pantheon letterario.
“I compagni sono molto cari,
ma non chiacchierano mai, fanno solo discorsi.” (127)
Conclusioni
Sono assolutamente d’accordo sia
sui libri scelti, sia sulla conclusione pragmatica di cercare di essere sé stessi,
che l’amore (e quanto ne consegue) verrà da solo. O se non verrà almeno avrete
fatto le cose che vi piacciono.
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