domenica 29 dicembre 2024

Mondadoriana di fine anno - 29 dicembre 2024

Visto che nella seconda metà dell’anno ho dato uno sguardo più lungo verso le trame poliziesche, dove vi si riesce a descrivere mondi che presentano spesso analogie forti con quello che viviamo quotidianamente, mi piace, in quest’ultima trama del 2024 finire con un omaggio ai Gialli Mondadori. Ad agosto ne avevo letti due di buona fattura, usciti dalla penna di Maria Elisa Aloisi e dalla coppia Luca Di Gialleonardo & Liudmila Gospodinoff. Poi sono sprofondato ad ottobre nell’illeggibilità di Rino Cammilleri. Risalendo, pur non di molto, con una nuova prova di Matteo Guerrini. Tutti italiani, che guardo sempre con un occhio di riguardo.

Maria Elisa Aloisi “Il canto della falena” Mondadori euro 6,50

[A: 29/06/2021 – I: 07/08/2024 – T: 08/08/2024] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 185; anno: 2021]

L’avvocato penalista Maria Elisa Aloisi approfittando delle sue ampie conoscenze della materia, da qualche anno ha iniziato una piccola ma interessante carriera nella scrittura, dove con questo suo “Il canto della falena” nel 2021 vince il ben noto premio Tedeschi indetto dalla casa editrice Mondadori.

Non entro nelle particolarità del premio, di cui ho già spesso e volentieri parlato dato che dei circa 45 vincitori ho letto almeno una trentina di libri. Né ho molto altro da dire sull’autrice, di cui poche notizie si hanno in rete, se non che, originaria di Lentini, nella parte nord del siracusano, si sposta ben presto nel catanese, dove vive e lavora. E dove, per ovvio conoscenze locali, ambiente questo romanzo. In cui l’ambiente è ben utilizzato, non negli stereotipi dell’Etna, del caldo e di Sant’Agata, ma nelle minuzie quotidiane, del seltz con limone, delle cassatine, delle ville in collina, ed anche, per ovvia frequentazione, delle aule del Tribunale.

Intanto, fin dalle prime righe, impariamo a conoscere la protagonista del romanzo (dove, date alcune battute sparse, soprattutto nel finale, non ci sorprenderebbe se prima o poi, la scrittrice riuscisse a fare una seconda puntata), l’avvocato Emilia Moncada, detta Ilia. Giovane associata in uno studio di civilisti, si occupa del penale, dimostrando, nelle piccole digressioni dalla trama principali, una notevole empatia con il non sempre fortunato (e non sempre colpevole) mondo malavitoso. Rimasta orfana, il padre decide di trasferirsi in Toscana, e di risposarsi, lei restando con una simpatica zia, Ofelia (dove non entro nelle divagazioni del nome nel nostro ambito quotidiano familiare).

Ha avuto una storia, finita, con un avvocato, ora diventato PM e lasciato per l’arrivismo del tipo. Inoltre, ha una specie di narcolessia (ciao Luana) che la colpisce quando si sente in difficoltà. In tutto questo contesto, si trova, suo malgrado, ad assumere la difesa di Speranza Barone accusata dell’omicidio del marito Adriano Politi. Difesa piena di difficoltà: il PM è proprio il suo ex, la famiglia Barone chiede il suo aiuto che il primo avvocato nominato si rivela un narcisista incapace, i tempi per lavorare al caso sono strettissimi.

Qui apriamo una piccola parentesi. Questo è a tutti gli effetti un “legal thriller”, ma con il pregio di essere immerso non nelle trionfali esibizioni americane, ma nella realtà italiana. Dove la giurisprudenza non ha il fascino anglosassone, ma la scrittrice ci presenta modi e tempi di processi ed indagini, senza indulgere in nessuna scorciatoia. Fornendoci, di passaggio, un elemento di riflessione valido ovunque. La verità non conta, che ce ne sono due: la verità materiale, di come si sono svolti ed incatenati i fatti, e la verità processuale, suggerita dalle prove emerse nel dibattimento. E spesso le due verità non coincidono.

Comunque, Ilia studia le carte ed indaga e si pone i suoi ed i nostri dubbi. L’unica prova reale a carico della moglie è del DNA trovato su un bicchiere accanto al morto. Ma i marcatori sono pochi (8 invece che 13), quindi potrebbe essere di una qualsiasi persona della famiglia Barone: la sorella Giuliana o la figlia Tecla.

Pur nel breve tempo a disposizione, Ilia ricostruisce un piccolo mondo familiare: Adriano era violento e, come commercialista, vicino al fallimento, dove avrebbe trascinato il suocero, nonché la giovane terza moglie di lui, con la quale aveva aperto una società off-shore a Malta. Magda, la madre di Adriano, pur essendo la madre, si è sempre schierata dalle parti della nuora e della nipote. Così come Giuliana, anche sorella e cognata non erano mai riusciti a limitare i danni provocati dal morto. Che da sempre malmenava brutalmente la moglie, procurandole ecchimosi e financo fratture.

La scoperta di passati nascosti della famiglia Politi, porta Ilia ad intuire la verità, a trovare il modo di scagionare Speranza, e ad immergerci in una scatola cinese di finali un pochino scontati, e questo se vogliamo è uno dei punti minori del romanzo.

Mentre completamente a favore troviamo la genesi complessiva del romanzo, dove, la conoscenza di ciò di cui si narra, porta ad esporla con la semplicità che ne favorisce la comprensione al lettore meno ferrato. Inoltre, ho apprezzato la piccola platea di personaggi minori, zia Ofelia in primis, ma anche il segretario macchietta (che ripercorre strade alla Catarella di camilleriana memoria), i giovani di studio, gay e nerd, o il secondino dal cuore buono che si commuove leggendo i romanzi di Nicholas Sparks.

Ultimo punto a suo favore, sono le continue, utili ma purtroppo infruttuose, critiche all’invadenza deli media, televisione in primis, che lucrano sul dolore altrui. Impersonato da un personaggio ambiguo (non nell’accezione cattiva), il giornalista Andrea, che un po’ fa lo squalo per il suo programma TV, un po’ è coinvolto dall’umanità di Ilia. È troppo presto, e non è quello il fuoco su cui l’autrice punta, per capire se ci saranno sviluppi, che ora, dato l’intreccio che vi invito a leggere, non potrà che fermarsi e rimandare.

Come io rimando altri giudizi se e quando usciranno altri libri dell’avvocatessa Aloisi.

“Dentro ogni libro c’è un mondo intero da scoprire, storie, avventure e i personaggi sono lì pronti a diventare tuoi amici per sempre.” (81)

“In ogni esperienza, anche quella in apparenza peggiore, è possibile cogliere un aspetto positivo.” (183)

Luca Di Gialleonardo & Liudmila Gospodinoff “Il paradosso dell’arciere” Mondadori euro 5,90

[A: 09/05/2021 – I: 23/08/2024 – T: 24/08/2024] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 288; anno: 2021]

Non hanno vinto il Premio Tedeschi, ma la loro buona prova ha convinto Mondadori a pubblicare comunque il loro libro. Sono Luca Di Gialleonardo, modenese trapiantato in Ciociaria a lungo ed ora approdato nella capitale in un’azienda di servizi e Liudmila Gospodinoff, reatina ma da tempo immemore medico agopuntore a Roma.

Il loro “Il paradosso dell’arciere” è, per merito di Luca, ambientato in una cittadina non lontana da Frosinone, famosa, come molte nel circondario, per i ricordi medioevali. Soprattutto, per i palii periodici e le concomitanti gare di tiro con l’arco. E come si capisce dal titolo, proprio sul tiro con l’arco si incentra il giallo. In particolare, nel paradosso del titolo, elemento che viene doviziosamente spiegato, ma che non mi è risultato del tutto chiaro. Si capisce che c’è una stretta correlazione tra freccia ed arco da cui parte, e riguarda un’oscillazione della freccia dovuta alla reazione del suo rilascio. Il bravo arciere sa come costruire archi e frecce di modo che questi compensino le oscillazioni e la freccia possa al fine colpire il bersaglio.

So di non essere stato chiarissimo, ma ci sono in rete fior di articoli che approfondiscono l’argomento. Qui il paradosso serve agli autori per introdurci nel mondo della cittadina del frusinate, nelle personalità dei vari personaggi, e nella storia della morte, colpito da tre frecce, di un famoso “maestro d’arco”.

I personaggi centrali della storia sono direi due e mezzo. C’è il commissario capo Tiziano Agata, catapultato da Modena (ancora Luca direi) perché in preda ad una grossa crisi. Non accetta la separazione dalla moglie, ed avvia un periodo di alcolismo e stalkeraggio che solo un allontanamento dall’Emilia potrebbe far decantare. Certo, Tiziano è un buon poliziotto, dotato di acume investigativo, ma per tutto il libro alterna fasi di lucida concentrazione a crisi votate alla ricerca dell’ex-moglie che lo fanno sentire distante e poco empatico. Dovrebbe essere il centro della vicenda, e sebbene sia il motore della soluzione, non entra mai nel cuore del lettore.

Poi c’è il vicecommissario Rita Solvini, irritata perché il posto preso da Tiziano era destinato a lei, ed in crisi verticale con la figlia dodicenne, rompipalle come tutti i giovani e con lei, madre, decisamente troppo rigida. Dal punto di vista simpatia ed attività varie, sembra molto più simpatica di Tiziano, e meriterebbe di essere lei al centro della vicenda. Ha di certo un suo ruolo importante, soprattutto per indagini pregresse, ed anche per stemperare le intemperanze del capo. Inoltre, viene messa in difficoltà perché il mezzo personaggio, il capo della Mobile Attilio Cardini, oltre ad essere bello ed aitante, interviene ad ogni piè sospinto sia per mettere il suo cappello sull’inchiesta, sia per mettere altro sul corpo di Rita.

Dicevamo, comunque, che tutto ruota intorno agli archi. Ci sono quattro contrade che si disputano la palma per i migliori tiratori, ma sono due quelle che ci interessano. Una guidata da Renzo, il morto, di carattere collaborativo ed accudente. L’altra guidata dal fratello, Arduino (nome su cui torneremo) molto tradizionalista, tanto che i loro adepti si rifanno al Trono di Spade, con Arduino come Lord Comandante, ed arcieri come Arya, Jon Snow, Drogo e via tronando.

Arduino è il vero esperto, quello che fabbrica frecce, quello che spiega il paradosso, quello che caccia il suo miglior arciere e fabbricatore di archi e frecce, Jon Snow, avendolo sorpreso a fare il piccolo spacciatore. Renzo sembra più sereno, ma ha una moglie molto bella, e lui, inflessibile verso gli altri, ha comportamenti sessuali un poco ai margini. Renzo inoltre è stato colpito duramente dal suicidio del nipote Giacomo, e da quel momento in poi è diventato rigidamente duro con tutti.

Tanto che porta la giunta ed altri elementi comunali sul banco degli accusati per corruzione e tangenti varie. Dando modo di aumentare la platea dei possibili omicidi. Che però girano sempre intorno all’arco e le frecce. Tre sono quelle che hanno colpito Renzo, costruite in modo diverse, tanto da poter essere lanciate da archi diversi. Così da aumentare la problematica: uno o tre colpevoli? Entropia che aumenta dalle indagini di Rita, che scopre Giacomo aver paura di essere gay, paura che viene colpevolizzata da Renzo stesso. Magari, oltre alle tangenti ed agli arcieri, potrebbe insorgere una vendetta di qualcuno affezionato a Giacomo.

Il tris investigativo Tiziana, Rita con l’esperto Arduino, trova per vie parallele il bandolo della matassa, arrivando ad un finale un po’ convulso e forse leggermente affrettato rispetto all’andamento generale del testo. Cosa che rende il testo pienamente sufficiente, ma non molto di più.

Comunque, ho gradito i cenni ad alcuni punti della Ciociaria, ad un ristorante di Anagni, a Fiuggi che domina la vallata. Se si fosse nominato Guarcino sarebbe stato il massimo. Una platea di luoghi citati consoni a questa parte della mia vita. Come invece era consono con la mia più che infanzia, direi “tempi di nascita”, laddove Arduino era il padre di mio zio di parte paterna, per me ignoto, ma ricordato nelle saghe familiari in quanto morto una settimana prima della mia nascita. Ed al centro delle battaglie di mio padre, che allora si usava dare il nome del morto vicino al nuovo nato. Per fortuna, non mi chiamo Arduino.

Rino Cammilleri “Nuovi delitti nella camera chiusa” Mondadori euro 6,50

[A: 02/08/2021 – I: 30/09/2024 – T: 01/10/2024] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 214; anno: 2021]

Non ho fortunatamente letto il primo libro dei delitti della camera chiusa, dato che la lettura di questo mi conferma sia il poco interesse di brevi racconti che spesso non si concludono, sia la scarsa sintonia che ho verso l’autore. Ora, il buon Rino, agrigentino come si evince dall’assonanza onomastica, è, per i miei gusti, un po’ troppo concentrato su di sé e sulla sua bravura, per riuscirmi simpatico. Inoltre, sfoggia elementi molto forti di critiche estreme (che mi fanno venire in mente, purtroppo, momenti molto a destra della mia cultura) che trovo realizzati in modo poco convincente.

Non ho, per principio e per mia filosofia di vita, nulla contro chi ha idee diverse dalle mie. Tuttavia, anche quando le idee ed i credi sono gli stessi, il loro uso, o la lor forzatura per dimostrare qualcosa, non sempre (anzi mai) mi trova disposto alla condiscendenza. Ma qui stiamo di libri, e non di filosofia. E di racconti, non di romanzi (cosa che ben sapete, già mi mette un filo sull’attenzione).

Intanto, per chi fosse a digiuno della storia del giallo, con il termine “enigma della camera chiusa” vengono indicati crimini commessi entro uno spazio chiuso e da dove il colpevole si è allontanato, facendo perdere le proprie tracce. È uno dei “topos” maggiori del giallo, dato che ne viene indicato come primo esempio quello che è anche riportato come il primo giallo moderno, cioè “I delitti della rue Morgue” di Edgar Allan Poe. Senza dilungarmi molto sulla parte teorica, vorrei citare solo tre esempi eponimi: “Le tre bare” di John Dickson Carr (il miglior romanzo del genere), “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie (dove la stanza viene allargata ad isola, ma sempre luogo ristretto è) e “Il detective Kindaichi” di Seishi Yokomizo (che reinventa il genere, ponendo la camera chiusa contornata da neve, con impronte che vanno solo verso la casa, e mai se ne allontanano).

In questa esegesi di Cammilleri compaiono quattordici racconti che, pur incentrati sull’enigma iniziale, ne risolvono e spiegano i meccanismi, purtroppo lasciando a volte non risolto chi ha eseguito l’azione criminale. Un meccanismo che, se volete, è un po’ facile, e che lascia un po’ di amaro in bocca al cultore della materia. Non che io voglia vedere sempre arrestati e condannati i colpevoli, ma arrivarne all’indicazione materiale dona alla confezione “scrittura” un diverso e più coinvolgente piglio.

Detto questo, è pur vero che l’autore è uomo di buona cultura, e di sicura consultazione di testi e riferimenti. Sia suoi interni, dove riprende personaggi e situazioni di altre sue storie, sia esterni, quando si collega a momenti storici o ad altre fiction di sicura fama.

Abbiamo così il ritorno di Corrado di Tours (“Uisge beatha”) già incontrato in “L’inquisitore” e di don Gaetano Alicante (“Fuoco a mare”) protagonista di “Immortale odium”. Primo inciso, il titolo del primo racconto citato è il termine gaelico per “acqua di vite”. Appare due volte il volutamente comico Shylock Homer (“Il mistero della conchiglia scomparsa” e “La molletta”) che si presenta sempre dicendo di non essere il quasi omonimo personaggio di Conan Doyle. Secondo inciso: nel primo di questi due racconti si parla di una conchiglia Meganoblaster locomotensis, origine dell’omicidio, ma assolutamente inventata.

L’astuzia enciclopedica di Cammilleri poi ci fa non solo viaggiare nel passato, nei già citati racconti con Corrado e don Gaetano, ma anche ne “La morte del generale” ambientato in guerre italiche e secondo l’autore ispirato a fatti reali, o “La perla di Tyburn” che riprende le vicende connesse a Margaret Ward su cui troneremo. E viaggiare nel futuro in un improbabile e mal riuscito “Bensalem”, costruito sulla base de “La Nuova Atlantide” di Francesco Bacone, immaginando un mondo distopico in cui è stata bandita la proprietà privata (ma che conflagrerà che il nostro di certo non ha occhi benevoli verso il comunismo). Ricordo di passaggio che Bacone aveva così battezzato il suo mondo come unione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme.

Ancora velleità da historic fiction in “L’enigma del kraal”, dove incontriamo il re zulu Shaka con il contorno del tenente Francis Farewell e del medico Henry Fynn, tutti personaggi reali, in una vicenda irrealistica. O ipotesi di citazioni auliche in “Assassinii nella cattedrale”, con una vicenda che si svolge in Ecuador cercando un rimando alle vicende di ben altro tenore incentrate sulla vita e la morte di San Tommaso di Canterbury.

Riprendendo elementi animal-vegetali abbiamo il fiore di Kudupul al centro della vicenda di “Il segreto della strega”, dove il fiore in oggetto è meglio noto come “Regina della notte” e benché sia indicato come asiatico da Cammilleri, a me risulterebbe un cactus centroamericano. Altro animale presente è il velenoso pese palla, in uno dei peggiori testi, “Hikikomori”, dove viene presentato in modo distorto il mondo giapponese, restando fedele alla verità solo nella rappresentazione dei giovani che si isolano volontariamente dai contatti sociali fisici.

Due elementi più moderni compaiono in “Caldo”, dove il colpevole usa un condizionatore d’aria per il suo omicidio, ed in “YouTube”, dove il canale social è veicolo di una storia da “divorzio all’italiana”. Per finire con il peggiore del lotto, “Il trucco delle scarpe”, dove quando il poliziotto dice che l’omicida ha le scarpe sporche di sangue, l’ingenuo assassino che fa? Si guarda le scarpe. Viene detto essere ripreso da un fatto accaduto nel 1937, ma è assolutamente inconsistente.

Come promesso ritorno su uno dei racconti, quello che porterà all’esecuzione capitale di Margaret Ward e di altri cattolici durante le persecuzioni anticattoliche di Elisabetta I, dove la vicenda storica è riportata con esattezza, mentre la fuga William Watson dalla prigione di Bridwell risulta un tantino inventata (non la fuga, ma la modalità di risigillare a ferro le inferriate della cella).

Come vedete, ho quasi o nulla parlato delle tecniche di fuga dalle camere chiuse, che sono tutte, più o meno, risibili, facendone come esempio eponimo una striscia di stoffa per richiudere un chiavistello.

Un libro letto per dovere di completezza libraria, ma che è valido solo per quanto mi ha concesso di approfondire sulle vicende storiche in altre sedi. Per il resto, meglio tacere.

Rino Cammilleri “I misteri della camera chiusa” Mondadori euro 6,50

[A: 28/08/2024 – I: 16/10/2024 – T: 17/10/2024] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 215; anno: 2024]

I libri cambiano ma il risultato no, che il buon Rino Cammilleri si rivela, al solito, prolifico nello scrivere ma poco piacevole nel leggere. Con questo siamo alla terza fatica del buon agrigentino che si affanna a proporre piccoli racconti più o meno gialli, dove il morto viene trovato all’interno della camera chiusa, e l’investigatore di turno deve capire come è avvenuto l’omicidio e a volte chi l’ha commesso.

A volte, che Rino, spesso una volta decodificato il mistero della camera si disinteressa delle meccaniche altre, di chi ha commesso il fatto, dei motivi ed altre “inezie”. Questo, in fondo, è uno dei motivi che fanno precipitare il gradimento delle sue confezioni. Capisco che lavorando su commissione e dovendo produrre in tempi dati un certo numero di testi, qualcosa scivoli via. Tuttavia, il buon lettore di gialli non può che rimanere sconcertato da queste scelte.

Anche perché, almeno in questi venti racconti, le modalità attraverso le quali le stanze rimangono chiuse dall’interno sono ormai state analizzate discretamente. Non rimangono che alcuni accenni, talvolta abbastanza risibili da far supporre che la testa dell’autore sia concentrata altrove. Non è certo un mistero quando, dato che la porta ha uno spazio tra lei ed il pavimento, chi la chiude non fa altro che prendere la chiave e farla scivolare sotto. Altri, con il chiavistello a cascata, sbattono la porta violentemente, facendo scivolare il chiavistello. C’è chi usa una lama, chi ha una doppia chiave a vite, chi si ingegna con pezzi di stoffa. Insomma, di tutto, di più, fino all’assurdo di avvelenare il malcapitato con un veleno ad effetto ritardato, e chiedergli di chiudersi al cesso, così da poter morire nella stanza chiusa.

Altra costante delle trame di Cammilleri, sono alcuni investigatori che ritornano più volte, di cui alcuni abbiamo già trovato in altre storie. Allora ritroviamo ben due storie con l’inquisitore Corrado da Tours (“La torre dell’alchimista” con il morto drogato tipo LSD che decide di volare dalla finestra della torre e “Morte di un inquisitore”, dove sia le modalità che i motivi della morte passano in secondo ordine rispetto all’idea dell’autore di lanciarsi in una pur giusta anche se un po’ manichea invettiva contro i Catari). Ed anche due storie con l’ormai noto Shylock Homer che fortunatamente riduce al minimo i richiami al suo illustre predecessore (“La costante X” con un ingegnoso omicidio attraverso i tubi, ed un blando errore di matematica, che X è incognita, mentre costante indica altro, e “Quadri & fiori” una improbabile storia di falsari con la soluzione affidata ad un fiore, la Diphylleia Grayi che vi invito ad andare a cercare).

Altre doppie storie sono affidate a nuovi personaggi. Uno antipatico, ligio al dovere sino all’eccesso il commissario Pincus (“Il caso dell’inquilino morto” incastrato nei diverbi condominiali e “Il libro perduto” che ho gradito solo per l’accenno della famiglia dei grandi enigmisti, i Bartezzaghi, anche se invece di Stefano che seguo in varie forme si accenna ad Alessandro, a me noto solo in quanto direttore della “Settimana Enigmistica”) ed uno a me simpatico, il detective Rocco Caldani (“Il segreto del vedovo” dove si scopre una morte inutile legata a vecchi giornali paleo-pornografici e “Una buccia di banana” uno dei pochi che hanno uno sprizzo di vitalità, sia per le punte ironiche sia per la decodificazione di un proverbio veneziano su cui torneremo), che risolve tutto con il ragionamento, visto che è difficile per lui non farsi notare dati i suoi due metri di altezza.

Un costante, o quasi, è il tentativo di Cammilleri di inserire la vicenda in un contesto storico “reale” o con un buon grado di approssimazione. Abbiamo così John Drake, fratello di Sir Francis che indaga ne “Il fratello del corsaro” (anche se fonti storiche dicono che John fosse cugino del corsaro), Conone di Atene al tempo di Artaserse II Mnemone indaga sulla morte di Ctesia di Cnido in “Il libro di Ctesia” (anche se in realtà Ctesia dopo le vicissitudini con i persiani si ritirò a fare il medico nella nativa Cnido dove morì di vecchiaia), il poliziotto reale Jean-Christophe Lebrune de Labergere attivo nella Francia di Luigi XVI in “Il mistero del duca” (si, ai tempi della Rivoluzione Francese) o Antonio Paltrinieri delegato di polizia di Sua Maestà Vittorio Emanuele II (parliamo di circa il 1877) in “Un’ammazzatina a Cianciana” (sinceramente uno dei racconti più confusi).

Altra fascinazione del nostro è verso gradi militari o assimilabili. Abbiamo così il capitano russo della NKVD (la prima polizia segreta sovietica) Arcady Chelypin indagare sulla morte di una suora in “La foto a colori”, il colonnello tedesco Paul von Lettow-Vorbeck (questo veramente esistito) cercare di capire la morte in una latrina di un tanzaniano nel Tanganika germanico in “Omicidio in Afrika”, oppure il comandante navale Thomas J. Bradley indagare sulla morte dovuta ad una mistura di arsenico in “Delitto sulla USS Baltimore”.

Dimenticandoci di due quasi inutili racconti americani (un improbabile Jefferson Madison, con il nome di due presidenti americani, che indaga in “La strana morte di Josiah Smith” o Charles Carroll, un cattolico schiavista, che sembrerebbe un ossimoro anche se poi fu l’unico non protestante ad entrare nel gruppo che redasse la Costituzione Americana, cercare di capire i motivi dell’invasione nella sua piantagione della talpa calva africana in “La frana di Carrollton”) ed altrettanti sconclusionati episodi italici (il già noto monsignore don Gaetano Alicante che si muova ne “La macchina da bagno” o il commissario Giuseppe Lucane detto Peppiniello aggirarsi nei misteri di “L’enigma del cesso”), citiamo l’ultimo racconto interessante per alcuni richiami storici, pur se, nel suo impianto da “camera chiusa” oltremodo inventato e senza troppo sugo.

Mi riferisco a “Il dilemma del mimo”, che, inquadrando un delitto con veleno durante un banchetto che non ci colpisce minimamente, riporta la storia (reale) del mimo Genesio, della sua conversione durante una rappresentazione teatrale alla presenza dell’imperatore Diocleziano e del suo conseguente martirio. Racconto inutile, richiamo storico interessante.

Volendo fare anche un elenco delle modalità che il nostro sceglie per far morire i suoi personaggi, ci sarebbe da riempire un’altra trama. Io mi accontento di citare altro, l’unica cosa che mi ha divertito, cioè l’uso del proverbio veneziano “Te fasso veder mi che ora che xe” (anche se nel testo viene citata in italiano ed in inglese).

Un proverbio che deriva dal fatto che, al tempo, in piazza San Marco, tra le colonne di San Marco e San Todaro venivano eseguite le condanne capitali. Tra quelle colonne, i condannati prima di venire ammazzati guardavano dritto alla torre dell'orologio che avevano davanti che segnava l'ora della propria morte. Una locuzione quindi usata per minacciare qualcuno.

Al fine, ripeto, Cammilleri non mi piace, trovo divertente l’uso di alcuni rimandi storici, mentre risulta sempre pesante quando tenta di inserire il suo bigottismo all’interno delle storie. Chissà se riuscirò a non leggerne più.

Matteo Guerrini “Jiko Identità oscura” Mondadori euro 7,90

[A: 15/11/2024 – I: 26/11/2024 – T: 27/11/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 185; anno: 2024]

Di Matteo Guerrini avevo letto il primo libro dedicato agli episodi polizieschi del commissario Jo Hara, e lo avevo trovato decisamente sottotono e sopravalutato. Ora esce il secondo episodio che, devo dire, pur ribadendo alcune pecche, risulta decisamente più leggibile del primo.

Certo non per il titolo, dove al solito mescolando italiano e giapponese, si riesce a far confusione, che “Jiko” serve ad indicare la propria persona, auto referenziandosi, e la parte italiana avrà senso forse nel corso della lettura, anche se, sinceramente, quell’aggettivo “oscuro” mi ha lasciato perplesso, prima e dopo la lettura.

Intanto, chi non ha letto “La rabbia” perde subito alcuni riferimenti. Come già si evince da alcuni accenni fatti, l’azione si svolge in Giappone, paese d’elezione di Matteo Guerrini. In un ambiente poliziesco dove Jo e i suoi assistenti, Masato Suzuki e la signorina Oyama vengono demansionati in quanto, pur avendo risolto le vicende del primo libro, hanno coinvolto personaggi di rango, e quindi vengono bellamente messi da parte, passando dalla Omicidi alla sezione “Persone Scomparse”.

Jo non si lascia abbattere, essendo poliziotto tutto d’un pezzo, e inizia il nuovo lavoro con calma ma senza fare passi indietro. Ha la fortuna, o il caso, di imbattersi in uno e poi in svariati altri casi di persone che scompaiono. Cominciando ad indagare nei loro contorni familiari e sociali anche quando le stesse persone, o almeno la prima, vengono trovate morte. Nel corso del libro, poi, tutte e quattro le persone che risultano scomparse, in vari modi muoiono, con imitazioni di suicidi che non convincono il nostro commissario.

Sebbene ostacolato da un parte delle gerarchie, Jo si accorge che i casi degli scomparsi, e poi delle loro morti, presentano notevoli similitudini. Tutti da un certo periodo cominciavano ad isolarsi dagli altri, da mogli, soci, segretarie ed altre persone con cui avevano familiarità. Non solo, ma esprimevano il disagio sostenendo che le stesse persone fossero state sostituite da dei sosia, come nel bellissimo film “L’invasione degli ultracorpi”.

Altre similitudini sono nella presenza, in tutte le case degli scomparsi, di integratori alimentari. Seguendo questo filone, Jo risale prima alla ditta che li produce, poi alla società che li ordina. Una società all’avanguardia, dedita alla profilazione genetica. Una tecnica che ha senso solo in questi nostri tempi, dopo che si è scoperto come leggere il DNA delle persone. In pratica questa società ha una sempre più vasta banca-dati, con il profilo di un numero elevato di persone. Quando qualcuno, ha interesse di fare delle ricerche (mediche, di mercato o altro), chiede di avere una lista di persone con una possibile tendenza relativa alla ricerca. Così da poter utilizzare il campione come soggetto-cavia: metà verso la ricerca e metà come gruppo di controllo.

Ma fatto tutto ciò, e non ottenendo altro, l’unica speranza è trovare chi, trafugando una lista, possa aver dato avvio ad una sperimentazione folle. Infatti, le sostanze reperite non sono integre, ma hanno delle componenti di sostanze alteranti, di cui non vi dico gli effetti. Tuttavia è ovvio, pur con qualche salto logico, che Jo individui una possibile sequenza di avvenimenti che possa spiegare tutto quanto è successo. Con una soluzione inversa a quella del film, dove i protagonisti sembrano affetti dalla sindrome di Capgras invece erano sosia, mentre qui succede il contrario. Un contrario che potevamo capire molto prima, se avessimo prestato più attenzione ai voli narrativi di Guerrini.

In effetti, il nostro continua a fare salti quantici tra personaggi e situazioni, introducendone una quantità che alla fine ne fa dimenticare i connotati. Mentre, se non ci si distrae, si possono tirare le fila molto prima. Nel finale poi, non ci sorprendiamo nel vedere il capo di Jo estromesso per aver preso una cantonata, e Jo stesso reintegrato al suo posto con tutti gli onori. Né ci meravigliamo che Jo cominci ad avere una storia d’amore, che sono entrambi elementi che possono portare ad una terza puntata della serie.

Spero che sappiate cosa sia la sindrome di Capgras, o che, se non lo sapete, possiate avere la curiosità di cercarne in rete. Tuttavia, oltre questo che è un piccolo elemento, diversivo e simpatico, il libro ribadisce molte delle carenze presenti nel primo episodio (salti narrativi, personaggi che entrano ed escono  volte senza apparentemente motivo, descrizioni poco utili di paesaggi). Aggiungendovi una descrizione minuta di alcuni usi e costumi giapponesi, con una esposizione didascalicamente noiosa. Se avessi voluto una guida al Giappone, avrei comprato altro. In un libro giallo, se pur complesso e articolato, tutto ciò fa perdere ritmo allo scritto. Continuo ad essere dubbioso su altre uscite di Guerrini.

Parlando di gialli italiani, mi piace quindi porgervi tre frasi che vengono dal freddo Nord Europa, uscite dalla penna di Håkan Nesser e tratti da “Carambole”:

“I vivi devono curarsi gli uni degli altri, pensò. La cosa peggiore è morire senza aver vissuto.” (190) [una riflessione intima e potente]

“Da qualche parte aveva letto che un uomo deve fare tre cose nel corso della sua esistenza. Crescere un figlio, scrivere un libro e piantare un albero.” (190)

“A quattordici anni … vediamo il mondo con chiarezza perfetta. Poi devono passare altri cinquant’anni prima che riusciamo a trovare un linguaggio con cui fissare queste impressioni.” (263) [ed anche dopo sessanta non mi sembra facile esprimersi]

Mancano tre giorni per lasciarci dietro quest’anno bisesto, ed auguri a tutte le persone di buona volontà di poterlo iniziare secondo i propri desideri e di raggiungere le proprie mete. E siccome non posso non rivolgermi ai miei numi scrittori, finisco l’anno con un pensiero di Robert Louis Stevenson: “Tieni per te le tue paure, ma condividi con gli altri il tuo coraggio”.

Per cui ancora e sempre tanti abbracci.

domenica 22 dicembre 2024

Pulixi e gli altri - 22 dicembre 2024

In attesa della fine di un anno non certo allegro, porgo una trama quasi tutta dedicata a Piergiorgio Pulixi, uno scrittore interessante con delle trame che mantengono un buon tenore di riuscita. Gli fanno di contorno altre due buone prove di due scrittori diversi: le trame soft-noir di Alice Basso e le vicende molto veneziane di Paolo Forcellini.

Alice Basso “L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome” Garzanti euro 9,90

[A: 01/08/2021 – I: 17/07/2024 – T: 19/07/2024] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 269; anno: 2015]

Alice Basso è un’altra delle tante penne italiane di cui avevo sentito parlare ma di cui non avevo, ancora, letto nulla. Rimedio con questo che è il primo libro della serie dedicata a Vani Sarca (che credo sia di cinque libri), e devo dire che è una scrittura godibile, con alcune punte di ironia che mi hanno divertito, ed un impianto globale interessante. Non sono ancora sicuro se il finale mi convince del tutto, ma ci sarà tempo di parlarne.

La scrittura è decisamente gradevole, frutto ovvio della frequentazione di Alice con l’ambiente letterario. Soprattutto Vani, pur con delle palesi contraddizioni tipiche degli esseri umani, è ben tratteggiata ed esce prepotentemente con simpatia dalle pagine. Cosa purtroppo poco vera per gli altri personaggi, forse a me è piaciuta solo la ragazza vicina di casa, Morgana.

Intanto, per una definizione della scrittura stessa si potrebbe coniare un termine tipo “chick noir”, visto che questo è un tipico esempio di una struttura di scrittura degli ultimi anni. Un giallo abbastanza leggero con spiccati elementi umoristici o quanto meno ironici, unito ad una buona dose di quello che viene indicato con “chick lit”. Un termine che etichetta un certo modo di scrivere, cominciato se vogliamo dai diari di Bridget Jones, la cui definizione è composta da  chick un termine informale usato per indicare le "ragazze" e derivato da chicken (nel senso di “pollastrella"), mentre lit è l'abbreviazione di literature ("letteratura").

Questi romanzi sono in genere con un taglio umoristico e post-femminista, con protagoniste delle donne dinamiche, fra i venti e i quarant'anni, che vivono in grandi città  e lavorano in settori come l'editoria, la pubblicità, la finanza o la moda. Esattamente come la nostra.

La protagonista è infatti Silvana Cassandra Sarca detta Vani, di professione ghostwriter per la sua capacità camaleontica di entrare in sintonia con lo scrittore per cui deve scrivere un libro, riuscendo ad immedesimarsi in una storica dell’età moderna, in un tipografo, in un cabarettista, in una divulgatrice di educazione musicale innovativa, in un ciclista, arrivando anche a scrivere testi per la bibliografia di un imprenditore cui servivano per curriculum.

Sarcastica e scanzonata, dark prima che esistesse il dark, ha due svolte all’inizio del libro, che diventeranno l’ossatura della trama: il suo editore, Enrico, la costringe ad incontrare un autore, Riccardo, ed a visitare una possibile futura autrice, Bianca Dell’Arte Cantavilla.

Con Riccardo aveva scritto piccole cose, ma l’incontro è fulminante, e da chiacchiere ed altro nascono un nuovo best-seller “Più dritta di una corda di chitarra” ed una storia d’amore. Alice riesce a mescolare vicinanze e lontananze, così che i due inevitabilmente si lasciano, anche perché Riccardo potrebbe nascondere qualche scheletro, che prima o poi si sollevano e vanno altrove, lasciando la possibilità che nelle successive opere (che ci sono) potrebbero avere ancora un percorso insieme.

Foriera di maggior trama è l’incontro con Bianca, un’autrice presa dal blocco della scrittura che le chiede aiuto per proseguire la saga delle “Cronache Angeliche” (nel senso che parla con gli angeli). Peccato che subito dopo Bianca scompare e tutta la parte ironico-noir è tesa alla ricerca della scomparsa. Conosciamo così un altro simpatico personaggio, il commissario Romeo Braganza, che, intuite le doti camaleontiche di Vani, la spinge ad entrare nei personaggi.

Seguiamo così il percorso di Vani, che ovviamente prende molte strade senza uscita, prima di imboccare quella maestra, complice un’attenta lettura dei giornali e qualche connessione tra messaggi, scritti ed intuizioni. Certo è un po’ un cilindro da cui esce fuori un gatto, visto che per i conigli è troppo facile. Ma è certo da gustare l’invenzione letteraria della strategia che Vani adotta per portare a compimento il salvataggio di Bianca.

L’idea migliore è propria la capacità “alla Zelig” di Vani, mentre qualche punto di perplessità lascia una parte dell’impianto generale, che sembra ricalcare, in modo molto lontano ma paragonabile, un simile impianto del primo libro di Alessia Gazzola: donna, con capacità, non fortunata (o non portata) per le storie d’amore, commissario intelligente che ne sfrutta le capacità per risolvere problemi noir. Certo, le differenze sono molto, e ci sta, ma qualche idea è germogliata, e con successo, nell’orto di Alice.

Un tipico libro estivo, rilassante con quelle punte ironiche che di certo non guastano. Mi ha incuriosito e qualche altra cosa ne leggerò.

Paolo Forcellini “Vipere a San Marco” Marsilio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 25/04/2021 – I: 25/10/2024 – T: 27/10/2024] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 312; anno: 2021]

Paolo Forcellini, come dicevo già altrove, è un amico per “buffa” interposizione, per cui ho sempre piacere di leggere i suoi scritti (anche se con moderazione) e tramarli senza lasciarmi prendere da nessun tentennamento: mi piace se mi piace, trovo errori se ci sono. Gli amici servono (anche) a questo.

Qui errori non ne ho trovati, ma il risultato complessivo del libro è stato leggermente inferiore alle aspettative. Forcellini nasce giornalista, e la qualità della scrittura ne risente positivamente. Mentre, a livello di intreccio e di tensione si rimane molto in superficie. Ci sono fatti delittuosi, ci sono coscienziosi indagatori, ci sono begli intarsi della coprotagonista della vicenda, cioè Venezia, sia con l’accenno ad alcuni piatti locali, sia, e con più interesse da parte mia, un ondivagare tra le mille cose che la città offre. Campielli, porteghi e sottoporteghi, chiese, cripte, passaggi segreti, bellezze nascoste o palesi.

Quello che meno mi ha preso, nella “venezianità”, è l’uso del dialetto. Forse è funzionale ai personaggi, ma in alcuni punti ho avuto una grossa difficoltà ad interpretarlo, a decodificarlo. E in parallelo, anche la figura del protagonista, il cronista del quotidiano “L’Istrice”, Alvise Selvadego, non mi ha preso completamente. Simpatico, imbranato il giusto e con tanti contatti (ma se ne hai così tanti perché fai ancora il cronista da battaglia?).

A parte la trama, a cui arriveremo, ed oltre al manuale turistico e culinario, Forcellini ha due frecce che ha intenzione di scoccare. Una, palese, sull’ambiente giornalistico, sulla sua ipocrisia, sui suoi falsi valori. Ecco così che mette in scena la redazione de “L’Istrice” piena di epigoni dei giornalisti che lo stesso Paolo ha incontrato nella sua carriera. C’è Piero Zambo, il direttore, rude e scontroso, tanto che si merita il soprannome di Grizzly, e c’è l’editorialista, che era anche il precedente direttore, tanto che viene chiamato Ex (sceso di grado, ma sempre con stipendio alto), c’è il caposervizio Marco Bertoli, detto l’Ovvio (autoesplicativo) c’è il generico tuttofare Baldo Nordio, detto Culodipietra dato che non è stato mai visto muoversi dalla sua scrivania, e c’è il vaticanista bigotto, Nazareno Deogratias. A dare un tocco di leggerezza, fortunatamente, ci pensa l’addetta alla cultura, Gaspara Meravegia detta Gas. Penso abbiate già capito l’intento ironico di questa pittura di redazione.

A dirigere le indagini, in realtà, ci sarebbe il vicequestore Bastiano Possamai, per inciso anche grande amico e sodale di Alvise, tanto che proverà (ci riuscirà?) per tutto il libro a spingere Gas (descritta proprio come una meraviglia) tra le braccia di Alvise.

La trama prende il via dalla sparizione di Franco Bisato, l’anziano patriarca di Venezia. Sparito e morto, volutamente o accidentalmente? Sparito per un attacco di dissociativo con perdita di memoria? Sparito in seguito a rapimento?

Le indagini si muovono con i piedi di piombo, data la figura scomparsa. Ma cominciano a prendere una discreta velocità alla scoperta di un tassista marino ucciso a colpi di pistola. Così si comincia a seguirne le piste, scoprendone pregresse frequentazioni seminariali. Ed a questo punto, Alvise gioca duro mettendo in mezzo l’aiutante di don Bisato, che gli fornisce alcuni indizi, ma, forse per devozione curiale o per altro, ne nasconde anche.

Seguendo comunque le fila della giovinezza del morto, le sue frequentazioni, un prete tedesco che di sicuro ha delle ombre (non mi ero dimenticato, questo è il facile secondo bersaglio dell’autore verso la poco raccomandabile gestione dei seminari, in presenza di elementi non allineati), ed altri piccoli jolly che scopre durante le sue ricerche, Alvise si persuade che il bersaglio sono tesori nascosti nella cripta della Chiesa di San Marco, dove, con l’aiuto di Bastiano e di Gas, farà quadrare il cerchio.

Insomma, Forcellini è sempre una lettura distensiva, impreziosita dal fatto di averlo letto nella breve vacanza ai bordi del Lago di Garda.

Finisco con il proverbio che riporto, e che, commentandolo a valle di un libro di Rino Cammilleri, ne scrivevo la genesi. Infatti, un tempo tra le colonne di San Marco e San Todaro venivano eseguite le condanne capitali. Tra quelle colonne, i condannati prima di venire ammazzati guardavano dritto alla torre dell'orologio che avevano davanti che segnava l'ora della propria morte. Una locuzione quindi usata per minacciare qualcuno. Cosa che usa sapientemente anche Forcellini.

“Te fasso veder mi che ora che xe.” (229) [vedi Cammilleri]

Piergiorgio Pulixi “Per mia colpa” Mondadori euro 8,90

[A: 24/06/2024 – I: 11/08/2024 – T: 12/08/2024] &&& --  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 279; anno: 2021]

Come dissi altrove, avevo seguito i primi passi di Piergiorgio Pulixi quando scriveva, su ispirazione di Massimo Carlotto, nel collettivo Mama Sabot. Avendone lasciato altrove le successive prove, ne ritrovai traccia un paio di anni fa in un’interessante ma non riuscitissimo libro isolato (“Lo stupore della notte”) per poi rendermi conto che ora ho diversi libri suoi nella mia libreria, così tanto vale che ne torni a leggere.

Con un libro che, per la mia indole, è superiore alle precedenti letture, anche se non mi ha convinto sino in fondo. È certo un libro che pone interrogativi, che interroga sull’animo umano e sulle scelte di vita che si effettuano. Pur tuttavia, la trama gialla ha qualche buco qua e là, e la parte più personale, anche avendo introdotto punti interessanti, rimane sospesa.

Per una ragione semplice, che avevo già indicato sia in lui, ma anche su tanti altri autori. Non sono mai a mio agio quando un autore utilizza un personaggio dell’altro sesso, in special modo quando parla in soggettiva. Anche qui, ci sono capitoli in cui Giulia Riva parla in prima persona, e sono quelli che mi convincono di meno. Certo, vengono dette cose, seguiti ragionamenti, ma domando alle mie lettrici: riuscite ad immedesimarvi in quanto viene scritto?

Questo ci porta ad un altro punto debole del testo. Si passa spesso da capitoli in soggettiva in cui seguiamo i ragionamenti e le azioni del vicecommissario Giulia Riva, ed altri in terza persona, da scrittore onnisciente, che ci porta a spasso per le pieghe del libro (e che ci porterà alla non banale conclusione). Un’alternanza che si presenta anche nelle parti in corsivo, dove seguiamo l’altra donna del testo, Virginia Piras, che nel presente del romanzo risulta scomparsa da un anno.

Le colpe personali dei vari personaggi del testo, venendo al romanzo vero e proprio, sono spesso quelle di non aver seguito le proprie passioni, di aver anteposto altro a sé stessi. Così è per Giulia da anni invischiata in una relazione senza sbocco con il suo capo. Così è per Virginia che pur vivendo un matrimonio senza intoppi, è insoddisfatta, non riesce ad esternare sino in fondo l’amore per la figlia Elisa, e si ritrova in una situazione erotica che anche lì, per sua colpa, non riesce a gestire.

Sono due presenze femminili, poi, che fanno scattare i meccanismi di Giulia: una donna che uccide l’amante del marito che la stalkerava, ed una bambina che chiede a Giulia di non dimenticarsi di sua madre, scomparsa da un anno. Il primo meccanismo innesca una presa di coscienza in Giulia che capisce e lascia l’amante-capo. Il secondo provoca una spirale di empatia, che convince Giulia a dedicarsi a corpo morto nel caso.

Qui veniamo alla parte solidale-comica del testo (ironia che in Pulixi è sempre fortunatamente presente), per merito di Flavio, collega di Giulia. Un tempo punta di diamante, ma che, per motivi che scopriremo solo nell’ultimo capitolo, cade in una spirale di alcool e autodistruzione. Peccato che proprio lui sia stato il titolare delle prime indagini sulla scomparsa di Virginia. E non sembra proprio che sia riuscito a portarle avanti con il dovuto rigore.

Mentre Giulia, magari un po’ più attenta, magari un po’ più fortunata, riesce ad unire una serie di puntini sparsi che non pareva volessero unirsi. Trova quindi traccia di una relazione clandestina di Virginia con Raffaele, cosa che nessuno sospettava. Ma mentre ipotizziamo o che Virginia sia fuggita con lui o che lui l’abbia uccisa per qualche suo motivo o che l’abbia fatto il marito di Virginia se avesse scoperto la tresca, il castello di carte cade nel nulla: Raffaele si suicida alcuni mesi prima della scomparsa di Virginia. Ma ormai il filo della ricostruzione è innescato e Giulia riuscirà a rimettere insieme tutti i pezzi scomposti del puzzle ed a portarci al sorprendente finale, forse uno dei punti migliori del romanzo. Non come sia scritto, che arriva un po’ troppo senza scosse, ma per come sia stato pensato dall’autore.

Ciò detto, e ribadendo i primi punti poco entusiasmanti sopra esposti, altri elementi vengono a mettere in crisi un giudizio troppo ottimistico del romanzo nel complesso. Di sicuro, il fatto che tutti i personaggi siano di bell’aspetto, sembrano positivi, anche quando sono psicologicamente labili. Positivo appare anche Flavio, pur nella spirale di negatività che lo contorna.

L’altro punto fortemente critico è una serie di approssimazioni nelle indagini, sia nelle prime di Flavio, sia nella prima parte di quelle di Giulia. Pare poco professionale non seguire le tracce sulle ultime cellule occupate dal cellulare di Virginia prima di scomparire, come poco realistico l’acquisto di SIM non rintracciabili. Posso, in Italia, comprare delle prepagate, e se nessuno sa che le ho, non mi si può rintracciare, ma è il massimo che si può fare in Italia. C’è poi una multa che compare assai presto nelle parole che descrivono un sopralluogo. E come il grande Anton Céchov in uno dei principi della drammaturgia moderna: “Se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari.” Ma sarebbe stato più professionale seguirne le tracce cento pagine prima. Non entro in altre piccole disavventure narrative che già stiamo addentrandoci in una spirale di spoiler poco piacevole per chi non ha letto il libro.

E pur con i tanti piccoli punti neri, ci sono tanti altri punti colorati e piacevoli, come, e questo è un punto fisso dell’autore, la descrizione dei luoghi sardi, ed in particolare di Cagliari, delle sue strade, dei suoi caffè, della sua atmosfera. Si percepisce che, pur se da lontano, il cuore di Pulixi batta sempre nell’isola, riuscendone a scriverne con gradevolezza e amore.

Siccome come ho detto abbiamo altri e non pochi libri di Pulixi in via di lettura, rimandiamo altro ad altra trama.

Piergiorgio Pulixi “Un colpo al cuore” Rizzoli euro 16

[A: 16/03/2021 – I: 27/08/2024 – T: 29/08/2024] &&& --  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 506; anno: 2021]

“A promise is a promise”, come direbbe Schwarzenegger, e quindi torniamo a Pulixi, a questo libro scritto lo stesso anno del precedente, ma con una storia diversa, che ho scoperto solo a libro finito, e che lo mette anche in una luce ed in una prospettiva diversa.

Perché, leggendone, e cercandone in rete, questo risulta essere il quarto episodio di una serie che l’autore ha intitolato “I canti del male”, laddove il titolo del libro, ogni volta si riferisce ad una canzone. Inoltre, vede i “destini incrociati” (scusa Calvino) di due tipologie di poliziotti. Dove c’era il commissario Vito Strega nei primi due canti (“Il canto degli innocenti” e “La scelta del buio”) mentre le ispettrici Mara Rais ed Eva Croce si erano presentate nel terzo (“L’isola delle anime”). Qui i tre si riuniscono e credo che poi ci saranno ancora indagini incrociate che, alla fine di questa, Strega coinvolge le due ed il suo fido Pavan in un corso a Roma per costituire una squadra estesa sul territorio nazionale per la caccia ai criminali.

In questo episodio, Pulixi, sempre attento anche ai fenomeni globali del mondo in cui viviamo, ci offre due bersagli su cui riflettere: la giustizia e l’informazione. Per costruire il suo castello di notizie ed accuse si serve di un fantomatico “Dentista”, che rapisce delle persone, strappa loro i denti, poi manda un messaggio broadcasting chiedendo ai riceventi di emettere una sentenza. Elenca le colpe del rapito, e chiede, tipo le lotte al Colosseo, pollice verso o meno per deciderne le sorti.

Il fatto che la prima “sentenza” venga emessa nel territorio sardo fa sì che vediamo subito coinvolte Mara ed Eva. Il fatto che sia complicato e di grande risonanza fa in modo che venga coinvolto Vito, che noi sappiamo oltre essere di colore e con molti screzi con i superiori, un poliziotto molto in gamba anche se (ma questo è un rilievo personale) milanese.

Si susseguono così, mentre seguiamo sia le indagini dei nostri tre, sia le loro interazioni, una serie abbastanza complicata di delitti simili al primo perpetrato. Non sappiamo le storie precedenti dei detective ma capiamo che Vito ha avuto problemi con le gerarchie, che Eva ha problemi personali da risolvere e che Mara ha di sicuro qualche interesse non professionale verso qualche elemento della squadra.

Ma l’interesse dell’autore è sempre più appuntato sui due punti sopra esposti. Il Dentista sceglie le sue vittime tra coloro che, pur commettendo un reato, attraverso cavilli legali o altre astuzie giudiziarie, riescono ad ottenere pene non consone al reato commesso. Ed ecco che il cattivo si erge a giudice punendo comunque il reo. Non a caso gli strappa i denti, come a mostrare che non potrà più essere cattivo, non potrà mordere. In soprammercato, il suo comportamento emana una sentenza di condanna verso il sistema giudiziario non capace di assolvere alla propria funzione.

Il secondo punto che Pulixi pone all’attenzione è il sistema mediatico che sta sempre più prendendo la mano nel nostro mondo. Ci sono condanne che avvengono attraverso i media prima che sia acclarata la reità del soggetto. Inoltre, il Dentista coinvolge un’ampia platea di fruitori dei social, mostrando, attraverso l’uso di cellulari e WhatsApp, lo svolgimento del crimine e chiedendo un coinvolgimento del pubblico. Sarà il pubblico che deciderà della condanna del reo alla massima pena (che non sono previste soluzioni intermedie). Si mostra così il potere deviato dei social, che invece di divenire strumenti di comunicazione e contatto positivo vengono stravolti e portati ad essere dei “tronisti” estremi, capaci di assolvere o condannare, senza minimamente essere coinvolti in un procedimento di discussione.

Seguiamo con attenzione le dinamiche dei nostri investigatori, capiamo anche abbastanza presto che non può essere un serial killer isolato, ma che deve inserirsi in una trama complessa. Pulixi ha una buona mano per condurci ad un finale che toglie il respiro, dove, seppur soluzioni si trovano, ci sono sorprese che non ci si aspettava e che avranno sicuramente ripercussioni future.

Alfine, una buona prova, che dispiace solo aver iniziato in corso d’opera, cosa che ci lascia alcuni dubbi sulla costruzione complessiva dei personaggi. Ma l’autore a me non dispiace, e ritengo abbia ben utilizzato il suo apprendistato di modo che ora cammina con le sue gambe. Ricordo che nasce in una scuola di scrittura sotto la guida dell’ottimo Massimo Carlotto, e che l’ho apprezzato fin dalla sua prima uscita, con il collettivo Mama Sabot in un ormai lontano “Perdas de Fogu”.

Inoltre, ho gradito i luoghi teatro dell’azione, dalla spiaggia del Poetto a Cagliari al Teatro dell’Elfo a Milano, luoghi che ho visitato, passando per altri, come il ristorante Brellin e la libreria ora intitolata a Pietro Germi, di cui ho sentito parlare.

Piergiorgio Pulixi “La libreria dei gatti neri” Repubblica Profondo Noir euro 8,90

[A: 08/01/2024 – I: 08/11/2024 – T: 09/11/2024] &&& --  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 238; anno: 2023]

Un libro interessante, anche se non completamente riuscito. Con un’insolita pervicacia, infatti, Pulixi prova a scrivere un libro che si muove come un canto a più voci, come una struttura polifonica che tenta di cantare una canzone all’unisono.

C’è una trama nera che sottende tutto il testo, di una brutalità quasi eccessiva e c’è la storia di Marzio e della libreria del titolo, che si potrebbe reggere da sola, però non sarebbe più un vero e proprio giallo. Per cui Pulixi ci mette un paio di poliziotti che indagano sulla trama e che, conoscendo Marzio, lo coinvolgono nelle indagini.

Dicevo la trama nera è forte e brutale. C’è un killer spietato che si introduce nelle case di qualcuno. Nello specifico, lo vediamo entrare a casa Vincis, dove ci sono padre, madre e figlio di dieci anni. A casa Atzori, dove c’è Sabrina ed i suoi due anziani genitori. A casa Patteri, dove c’è il padre, malato di SLA su di una sedia a rotelle, ed i suoi due figli grandi.

Il killer entra, li narcotizza, li lega, e quando si svegliano chiede ad uno dei presenti di decidere in un minuto chi debba uccidere degli altri due. Se non decide, li uccide entrambi, mentre lascia in vita gli altri. Una vita con il rimorso di una scelta. All’inizio sembra un gioco, ma il killer uccide davvero, e non lascia tracce.

Così che la polizia non ha all’apparenza elementi per indagare. Quando però Marzio ed i suoi sodali vengono coinvolti nelle indagini, utilizzando i tanti elementi derivanti dalle loro conoscenze giallistiche, si intravede un barlume. Come nella “Lettera rubata” di Poe c’è un indizio talmente evidente da confondersi con il rumore di fondo delle indagini. Una volta individuato, il resto viene con disarmante facilità, e porta ad una soluzione congruente, ma traballante dal punto di vista della casualità.

Insomma, nella parte noir si parte con una Ferrari e si arriva al traguardo con una Topolino.

Meglio, di contro, la storia di Marzio, che spiega un punto che ho sopra esposto e non spiegato. Marzio era un ottimo insegnante di matematica, molto empatico con i suoi alunni. Scoperto uno evidentemente maltrattato, anche fisicamente, dal padre, perde il controllo e prende a pugni il padre, con conseguente licenziamento in tronco. Non perché abbia sbagliato, ma per il modo con cui si è vendicato.

Per sbarcare il lunario, allora Marzio decide di dedicarsi alla sua passione, i libri gialli. Aprendo una libreria specializzata, “La libreria del Mistero”. Ma le librerie di genere non hanno grande spazio, a fronte dei colossi della distribuzione, finché l’anziana Nunzia lo costringe ad aprire il locale il martedì per una discussione assembleare su di un libro giallo diverso ogni volta. Così il locale si ricicla come “La libreria del Martedì”. Con il successone che dura fino a quando Nunzia non scivola nell’Alzheimer.

Potrebbe essere un colpo mortale, ma due gatti neri adottano il busto di Agatha Christie e i librai decidono di utilizzarli come sponsor per proporre libri. Questo porta ad una vendita stabile e sufficiente a mantenere in piedi le sorti di Marzio. Che per riconoscenza, cambia ancora il nome della libreria, che diviene definitivamente quello del titolo.

Ma i consessi che con Nunzia portavano decine di lettori e compratori, non tornano più, rimanendo un piccolo nucleo di quattro eletti, che continuano le discussioni del martedì intorno ai testi più interessanti della letteratura poliziesca. E ce ne sono assai, credetemi. Comunque sono loro i sodali cui accennavo prima, dalle cui discussioni ed analisi si rilevano elementi nuovi di indagine, che, per l’appunto porteranno alla soluzione del caso.

Rimangono da seguire, e Pulixi lo fa per tutto il libro, le vicende private e pubbliche di Marzio, che danno un tono ironico e fresco a buona parte del testo. Anche se nella convergenza finale delle varie storie, compreso il mai palesemente espresso innamoramento di Marzio per la bella poliziotta, tutto si sfalda in un finale scontato in alcune parti e leggermente improbabile in altre.

Quello che di certo ho apprezzato sono gli elementi di cultura giallistica, da cui traspare la conoscenza e l’amore di Pulixi per il genere, le descrizioni di luoghi e scorci di Cagliari, belli da leggere e spero altrettanto interessanti da vedere se, spero, si tornerà nell’isola, e le frecciate ironiche ma non tanto verso i frequentatori, spesso casuali, delle librerie e le loro richieste, spesso venate di un surrealismo bellissimo.

Per sottolineare questo punto, che ritengo il migliore del libro, non posso esimermi dal citare le richieste di alcuni clienti. Che vanno da “Sequestro un uomo” di Primo Levis a “Il nome della sposa” di Eco. C’è chi chiede un libro di Carrisi, ma non Donato bensì Albano. C’è chi chiede “Innaffiare i fiori” cercando il libro di Valerie Perrin. Infine, ci sono le tre bellissime pagine del contraddittorio tra un Marzio all’inizio condiscendente poi, via via, sempre più irritato, con una cliente il cui unico indizio è “il libro ha una copertina gialla”. Tre pagine mirevoli.

Tuttavia, il libro non è riuscito benissimo, forse tolto dal forno troppo presto, che alcune parti non si sono cotte bene. Mentre altre sembrano far intravedere un possibile secondo episodio che, alla data, non è né previsto né prevedibile.

“[era] lassista come ogni uomo davanti allo spettro delle grandi pulizie.” (12)

In una settimana, ma anche in un anno complicato mi sono venute sulla penna due frasi di Liza Marklund tratte da “Il lupo rosso”:

“Mi piacerebbe avere una vita come la sua … Sentirmi a casa da qualche parte.” (64)

“Se due persone devono vivere la loro vita insieme devono essere d’accordo entrambe.” (301)

Speriamo che passino in fretta questi dieci giorni dell’infausto 2024, che anche in questo finale ci mostra la sua potenza negativa, mostrandomi, come non mai, che la cattiveria degli uomini è spesso superiore alla nostra immaginazione. Ma il mio ottimismo di fondo non può che portarmi verso le persone buone che saluto ancora e sempre con un sentito abbraccio.