domenica 29 dicembre 2024

Mondadoriana di fine anno - 29 dicembre 2024

Visto che nella seconda metà dell’anno ho dato uno sguardo più lungo verso le trame poliziesche, dove vi si riesce a descrivere mondi che presentano spesso analogie forti con quello che viviamo quotidianamente, mi piace, in quest’ultima trama del 2024 finire con un omaggio ai Gialli Mondadori. Ad agosto ne avevo letti due di buona fattura, usciti dalla penna di Maria Elisa Aloisi e dalla coppia Luca Di Gialleonardo & Liudmila Gospodinoff. Poi sono sprofondato ad ottobre nell’illeggibilità di Rino Cammilleri. Risalendo, pur non di molto, con una nuova prova di Matteo Guerrini. Tutti italiani, che guardo sempre con un occhio di riguardo.

Maria Elisa Aloisi “Il canto della falena” Mondadori euro 6,50

[A: 29/06/2021 – I: 07/08/2024 – T: 08/08/2024] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 185; anno: 2021]

L’avvocato penalista Maria Elisa Aloisi approfittando delle sue ampie conoscenze della materia, da qualche anno ha iniziato una piccola ma interessante carriera nella scrittura, dove con questo suo “Il canto della falena” nel 2021 vince il ben noto premio Tedeschi indetto dalla casa editrice Mondadori.

Non entro nelle particolarità del premio, di cui ho già spesso e volentieri parlato dato che dei circa 45 vincitori ho letto almeno una trentina di libri. Né ho molto altro da dire sull’autrice, di cui poche notizie si hanno in rete, se non che, originaria di Lentini, nella parte nord del siracusano, si sposta ben presto nel catanese, dove vive e lavora. E dove, per ovvio conoscenze locali, ambiente questo romanzo. In cui l’ambiente è ben utilizzato, non negli stereotipi dell’Etna, del caldo e di Sant’Agata, ma nelle minuzie quotidiane, del seltz con limone, delle cassatine, delle ville in collina, ed anche, per ovvia frequentazione, delle aule del Tribunale.

Intanto, fin dalle prime righe, impariamo a conoscere la protagonista del romanzo (dove, date alcune battute sparse, soprattutto nel finale, non ci sorprenderebbe se prima o poi, la scrittrice riuscisse a fare una seconda puntata), l’avvocato Emilia Moncada, detta Ilia. Giovane associata in uno studio di civilisti, si occupa del penale, dimostrando, nelle piccole digressioni dalla trama principali, una notevole empatia con il non sempre fortunato (e non sempre colpevole) mondo malavitoso. Rimasta orfana, il padre decide di trasferirsi in Toscana, e di risposarsi, lei restando con una simpatica zia, Ofelia (dove non entro nelle divagazioni del nome nel nostro ambito quotidiano familiare).

Ha avuto una storia, finita, con un avvocato, ora diventato PM e lasciato per l’arrivismo del tipo. Inoltre, ha una specie di narcolessia (ciao Luana) che la colpisce quando si sente in difficoltà. In tutto questo contesto, si trova, suo malgrado, ad assumere la difesa di Speranza Barone accusata dell’omicidio del marito Adriano Politi. Difesa piena di difficoltà: il PM è proprio il suo ex, la famiglia Barone chiede il suo aiuto che il primo avvocato nominato si rivela un narcisista incapace, i tempi per lavorare al caso sono strettissimi.

Qui apriamo una piccola parentesi. Questo è a tutti gli effetti un “legal thriller”, ma con il pregio di essere immerso non nelle trionfali esibizioni americane, ma nella realtà italiana. Dove la giurisprudenza non ha il fascino anglosassone, ma la scrittrice ci presenta modi e tempi di processi ed indagini, senza indulgere in nessuna scorciatoia. Fornendoci, di passaggio, un elemento di riflessione valido ovunque. La verità non conta, che ce ne sono due: la verità materiale, di come si sono svolti ed incatenati i fatti, e la verità processuale, suggerita dalle prove emerse nel dibattimento. E spesso le due verità non coincidono.

Comunque, Ilia studia le carte ed indaga e si pone i suoi ed i nostri dubbi. L’unica prova reale a carico della moglie è del DNA trovato su un bicchiere accanto al morto. Ma i marcatori sono pochi (8 invece che 13), quindi potrebbe essere di una qualsiasi persona della famiglia Barone: la sorella Giuliana o la figlia Tecla.

Pur nel breve tempo a disposizione, Ilia ricostruisce un piccolo mondo familiare: Adriano era violento e, come commercialista, vicino al fallimento, dove avrebbe trascinato il suocero, nonché la giovane terza moglie di lui, con la quale aveva aperto una società off-shore a Malta. Magda, la madre di Adriano, pur essendo la madre, si è sempre schierata dalle parti della nuora e della nipote. Così come Giuliana, anche sorella e cognata non erano mai riusciti a limitare i danni provocati dal morto. Che da sempre malmenava brutalmente la moglie, procurandole ecchimosi e financo fratture.

La scoperta di passati nascosti della famiglia Politi, porta Ilia ad intuire la verità, a trovare il modo di scagionare Speranza, e ad immergerci in una scatola cinese di finali un pochino scontati, e questo se vogliamo è uno dei punti minori del romanzo.

Mentre completamente a favore troviamo la genesi complessiva del romanzo, dove, la conoscenza di ciò di cui si narra, porta ad esporla con la semplicità che ne favorisce la comprensione al lettore meno ferrato. Inoltre, ho apprezzato la piccola platea di personaggi minori, zia Ofelia in primis, ma anche il segretario macchietta (che ripercorre strade alla Catarella di camilleriana memoria), i giovani di studio, gay e nerd, o il secondino dal cuore buono che si commuove leggendo i romanzi di Nicholas Sparks.

Ultimo punto a suo favore, sono le continue, utili ma purtroppo infruttuose, critiche all’invadenza deli media, televisione in primis, che lucrano sul dolore altrui. Impersonato da un personaggio ambiguo (non nell’accezione cattiva), il giornalista Andrea, che un po’ fa lo squalo per il suo programma TV, un po’ è coinvolto dall’umanità di Ilia. È troppo presto, e non è quello il fuoco su cui l’autrice punta, per capire se ci saranno sviluppi, che ora, dato l’intreccio che vi invito a leggere, non potrà che fermarsi e rimandare.

Come io rimando altri giudizi se e quando usciranno altri libri dell’avvocatessa Aloisi.

“Dentro ogni libro c’è un mondo intero da scoprire, storie, avventure e i personaggi sono lì pronti a diventare tuoi amici per sempre.” (81)

“In ogni esperienza, anche quella in apparenza peggiore, è possibile cogliere un aspetto positivo.” (183)

Luca Di Gialleonardo & Liudmila Gospodinoff “Il paradosso dell’arciere” Mondadori euro 5,90

[A: 09/05/2021 – I: 23/08/2024 – T: 24/08/2024] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 288; anno: 2021]

Non hanno vinto il Premio Tedeschi, ma la loro buona prova ha convinto Mondadori a pubblicare comunque il loro libro. Sono Luca Di Gialleonardo, modenese trapiantato in Ciociaria a lungo ed ora approdato nella capitale in un’azienda di servizi e Liudmila Gospodinoff, reatina ma da tempo immemore medico agopuntore a Roma.

Il loro “Il paradosso dell’arciere” è, per merito di Luca, ambientato in una cittadina non lontana da Frosinone, famosa, come molte nel circondario, per i ricordi medioevali. Soprattutto, per i palii periodici e le concomitanti gare di tiro con l’arco. E come si capisce dal titolo, proprio sul tiro con l’arco si incentra il giallo. In particolare, nel paradosso del titolo, elemento che viene doviziosamente spiegato, ma che non mi è risultato del tutto chiaro. Si capisce che c’è una stretta correlazione tra freccia ed arco da cui parte, e riguarda un’oscillazione della freccia dovuta alla reazione del suo rilascio. Il bravo arciere sa come costruire archi e frecce di modo che questi compensino le oscillazioni e la freccia possa al fine colpire il bersaglio.

So di non essere stato chiarissimo, ma ci sono in rete fior di articoli che approfondiscono l’argomento. Qui il paradosso serve agli autori per introdurci nel mondo della cittadina del frusinate, nelle personalità dei vari personaggi, e nella storia della morte, colpito da tre frecce, di un famoso “maestro d’arco”.

I personaggi centrali della storia sono direi due e mezzo. C’è il commissario capo Tiziano Agata, catapultato da Modena (ancora Luca direi) perché in preda ad una grossa crisi. Non accetta la separazione dalla moglie, ed avvia un periodo di alcolismo e stalkeraggio che solo un allontanamento dall’Emilia potrebbe far decantare. Certo, Tiziano è un buon poliziotto, dotato di acume investigativo, ma per tutto il libro alterna fasi di lucida concentrazione a crisi votate alla ricerca dell’ex-moglie che lo fanno sentire distante e poco empatico. Dovrebbe essere il centro della vicenda, e sebbene sia il motore della soluzione, non entra mai nel cuore del lettore.

Poi c’è il vicecommissario Rita Solvini, irritata perché il posto preso da Tiziano era destinato a lei, ed in crisi verticale con la figlia dodicenne, rompipalle come tutti i giovani e con lei, madre, decisamente troppo rigida. Dal punto di vista simpatia ed attività varie, sembra molto più simpatica di Tiziano, e meriterebbe di essere lei al centro della vicenda. Ha di certo un suo ruolo importante, soprattutto per indagini pregresse, ed anche per stemperare le intemperanze del capo. Inoltre, viene messa in difficoltà perché il mezzo personaggio, il capo della Mobile Attilio Cardini, oltre ad essere bello ed aitante, interviene ad ogni piè sospinto sia per mettere il suo cappello sull’inchiesta, sia per mettere altro sul corpo di Rita.

Dicevamo, comunque, che tutto ruota intorno agli archi. Ci sono quattro contrade che si disputano la palma per i migliori tiratori, ma sono due quelle che ci interessano. Una guidata da Renzo, il morto, di carattere collaborativo ed accudente. L’altra guidata dal fratello, Arduino (nome su cui torneremo) molto tradizionalista, tanto che i loro adepti si rifanno al Trono di Spade, con Arduino come Lord Comandante, ed arcieri come Arya, Jon Snow, Drogo e via tronando.

Arduino è il vero esperto, quello che fabbrica frecce, quello che spiega il paradosso, quello che caccia il suo miglior arciere e fabbricatore di archi e frecce, Jon Snow, avendolo sorpreso a fare il piccolo spacciatore. Renzo sembra più sereno, ma ha una moglie molto bella, e lui, inflessibile verso gli altri, ha comportamenti sessuali un poco ai margini. Renzo inoltre è stato colpito duramente dal suicidio del nipote Giacomo, e da quel momento in poi è diventato rigidamente duro con tutti.

Tanto che porta la giunta ed altri elementi comunali sul banco degli accusati per corruzione e tangenti varie. Dando modo di aumentare la platea dei possibili omicidi. Che però girano sempre intorno all’arco e le frecce. Tre sono quelle che hanno colpito Renzo, costruite in modo diverse, tanto da poter essere lanciate da archi diversi. Così da aumentare la problematica: uno o tre colpevoli? Entropia che aumenta dalle indagini di Rita, che scopre Giacomo aver paura di essere gay, paura che viene colpevolizzata da Renzo stesso. Magari, oltre alle tangenti ed agli arcieri, potrebbe insorgere una vendetta di qualcuno affezionato a Giacomo.

Il tris investigativo Tiziana, Rita con l’esperto Arduino, trova per vie parallele il bandolo della matassa, arrivando ad un finale un po’ convulso e forse leggermente affrettato rispetto all’andamento generale del testo. Cosa che rende il testo pienamente sufficiente, ma non molto di più.

Comunque, ho gradito i cenni ad alcuni punti della Ciociaria, ad un ristorante di Anagni, a Fiuggi che domina la vallata. Se si fosse nominato Guarcino sarebbe stato il massimo. Una platea di luoghi citati consoni a questa parte della mia vita. Come invece era consono con la mia più che infanzia, direi “tempi di nascita”, laddove Arduino era il padre di mio zio di parte paterna, per me ignoto, ma ricordato nelle saghe familiari in quanto morto una settimana prima della mia nascita. Ed al centro delle battaglie di mio padre, che allora si usava dare il nome del morto vicino al nuovo nato. Per fortuna, non mi chiamo Arduino.

Rino Cammilleri “Nuovi delitti nella camera chiusa” Mondadori euro 6,50

[A: 02/08/2021 – I: 30/09/2024 – T: 01/10/2024] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 214; anno: 2021]

Non ho fortunatamente letto il primo libro dei delitti della camera chiusa, dato che la lettura di questo mi conferma sia il poco interesse di brevi racconti che spesso non si concludono, sia la scarsa sintonia che ho verso l’autore. Ora, il buon Rino, agrigentino come si evince dall’assonanza onomastica, è, per i miei gusti, un po’ troppo concentrato su di sé e sulla sua bravura, per riuscirmi simpatico. Inoltre, sfoggia elementi molto forti di critiche estreme (che mi fanno venire in mente, purtroppo, momenti molto a destra della mia cultura) che trovo realizzati in modo poco convincente.

Non ho, per principio e per mia filosofia di vita, nulla contro chi ha idee diverse dalle mie. Tuttavia, anche quando le idee ed i credi sono gli stessi, il loro uso, o la lor forzatura per dimostrare qualcosa, non sempre (anzi mai) mi trova disposto alla condiscendenza. Ma qui stiamo di libri, e non di filosofia. E di racconti, non di romanzi (cosa che ben sapete, già mi mette un filo sull’attenzione).

Intanto, per chi fosse a digiuno della storia del giallo, con il termine “enigma della camera chiusa” vengono indicati crimini commessi entro uno spazio chiuso e da dove il colpevole si è allontanato, facendo perdere le proprie tracce. È uno dei “topos” maggiori del giallo, dato che ne viene indicato come primo esempio quello che è anche riportato come il primo giallo moderno, cioè “I delitti della rue Morgue” di Edgar Allan Poe. Senza dilungarmi molto sulla parte teorica, vorrei citare solo tre esempi eponimi: “Le tre bare” di John Dickson Carr (il miglior romanzo del genere), “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie (dove la stanza viene allargata ad isola, ma sempre luogo ristretto è) e “Il detective Kindaichi” di Seishi Yokomizo (che reinventa il genere, ponendo la camera chiusa contornata da neve, con impronte che vanno solo verso la casa, e mai se ne allontanano).

In questa esegesi di Cammilleri compaiono quattordici racconti che, pur incentrati sull’enigma iniziale, ne risolvono e spiegano i meccanismi, purtroppo lasciando a volte non risolto chi ha eseguito l’azione criminale. Un meccanismo che, se volete, è un po’ facile, e che lascia un po’ di amaro in bocca al cultore della materia. Non che io voglia vedere sempre arrestati e condannati i colpevoli, ma arrivarne all’indicazione materiale dona alla confezione “scrittura” un diverso e più coinvolgente piglio.

Detto questo, è pur vero che l’autore è uomo di buona cultura, e di sicura consultazione di testi e riferimenti. Sia suoi interni, dove riprende personaggi e situazioni di altre sue storie, sia esterni, quando si collega a momenti storici o ad altre fiction di sicura fama.

Abbiamo così il ritorno di Corrado di Tours (“Uisge beatha”) già incontrato in “L’inquisitore” e di don Gaetano Alicante (“Fuoco a mare”) protagonista di “Immortale odium”. Primo inciso, il titolo del primo racconto citato è il termine gaelico per “acqua di vite”. Appare due volte il volutamente comico Shylock Homer (“Il mistero della conchiglia scomparsa” e “La molletta”) che si presenta sempre dicendo di non essere il quasi omonimo personaggio di Conan Doyle. Secondo inciso: nel primo di questi due racconti si parla di una conchiglia Meganoblaster locomotensis, origine dell’omicidio, ma assolutamente inventata.

L’astuzia enciclopedica di Cammilleri poi ci fa non solo viaggiare nel passato, nei già citati racconti con Corrado e don Gaetano, ma anche ne “La morte del generale” ambientato in guerre italiche e secondo l’autore ispirato a fatti reali, o “La perla di Tyburn” che riprende le vicende connesse a Margaret Ward su cui troneremo. E viaggiare nel futuro in un improbabile e mal riuscito “Bensalem”, costruito sulla base de “La Nuova Atlantide” di Francesco Bacone, immaginando un mondo distopico in cui è stata bandita la proprietà privata (ma che conflagrerà che il nostro di certo non ha occhi benevoli verso il comunismo). Ricordo di passaggio che Bacone aveva così battezzato il suo mondo come unione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme.

Ancora velleità da historic fiction in “L’enigma del kraal”, dove incontriamo il re zulu Shaka con il contorno del tenente Francis Farewell e del medico Henry Fynn, tutti personaggi reali, in una vicenda irrealistica. O ipotesi di citazioni auliche in “Assassinii nella cattedrale”, con una vicenda che si svolge in Ecuador cercando un rimando alle vicende di ben altro tenore incentrate sulla vita e la morte di San Tommaso di Canterbury.

Riprendendo elementi animal-vegetali abbiamo il fiore di Kudupul al centro della vicenda di “Il segreto della strega”, dove il fiore in oggetto è meglio noto come “Regina della notte” e benché sia indicato come asiatico da Cammilleri, a me risulterebbe un cactus centroamericano. Altro animale presente è il velenoso pese palla, in uno dei peggiori testi, “Hikikomori”, dove viene presentato in modo distorto il mondo giapponese, restando fedele alla verità solo nella rappresentazione dei giovani che si isolano volontariamente dai contatti sociali fisici.

Due elementi più moderni compaiono in “Caldo”, dove il colpevole usa un condizionatore d’aria per il suo omicidio, ed in “YouTube”, dove il canale social è veicolo di una storia da “divorzio all’italiana”. Per finire con il peggiore del lotto, “Il trucco delle scarpe”, dove quando il poliziotto dice che l’omicida ha le scarpe sporche di sangue, l’ingenuo assassino che fa? Si guarda le scarpe. Viene detto essere ripreso da un fatto accaduto nel 1937, ma è assolutamente inconsistente.

Come promesso ritorno su uno dei racconti, quello che porterà all’esecuzione capitale di Margaret Ward e di altri cattolici durante le persecuzioni anticattoliche di Elisabetta I, dove la vicenda storica è riportata con esattezza, mentre la fuga William Watson dalla prigione di Bridwell risulta un tantino inventata (non la fuga, ma la modalità di risigillare a ferro le inferriate della cella).

Come vedete, ho quasi o nulla parlato delle tecniche di fuga dalle camere chiuse, che sono tutte, più o meno, risibili, facendone come esempio eponimo una striscia di stoffa per richiudere un chiavistello.

Un libro letto per dovere di completezza libraria, ma che è valido solo per quanto mi ha concesso di approfondire sulle vicende storiche in altre sedi. Per il resto, meglio tacere.

Rino Cammilleri “I misteri della camera chiusa” Mondadori euro 6,50

[A: 28/08/2024 – I: 16/10/2024 – T: 17/10/2024] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 215; anno: 2024]

I libri cambiano ma il risultato no, che il buon Rino Cammilleri si rivela, al solito, prolifico nello scrivere ma poco piacevole nel leggere. Con questo siamo alla terza fatica del buon agrigentino che si affanna a proporre piccoli racconti più o meno gialli, dove il morto viene trovato all’interno della camera chiusa, e l’investigatore di turno deve capire come è avvenuto l’omicidio e a volte chi l’ha commesso.

A volte, che Rino, spesso una volta decodificato il mistero della camera si disinteressa delle meccaniche altre, di chi ha commesso il fatto, dei motivi ed altre “inezie”. Questo, in fondo, è uno dei motivi che fanno precipitare il gradimento delle sue confezioni. Capisco che lavorando su commissione e dovendo produrre in tempi dati un certo numero di testi, qualcosa scivoli via. Tuttavia, il buon lettore di gialli non può che rimanere sconcertato da queste scelte.

Anche perché, almeno in questi venti racconti, le modalità attraverso le quali le stanze rimangono chiuse dall’interno sono ormai state analizzate discretamente. Non rimangono che alcuni accenni, talvolta abbastanza risibili da far supporre che la testa dell’autore sia concentrata altrove. Non è certo un mistero quando, dato che la porta ha uno spazio tra lei ed il pavimento, chi la chiude non fa altro che prendere la chiave e farla scivolare sotto. Altri, con il chiavistello a cascata, sbattono la porta violentemente, facendo scivolare il chiavistello. C’è chi usa una lama, chi ha una doppia chiave a vite, chi si ingegna con pezzi di stoffa. Insomma, di tutto, di più, fino all’assurdo di avvelenare il malcapitato con un veleno ad effetto ritardato, e chiedergli di chiudersi al cesso, così da poter morire nella stanza chiusa.

Altra costante delle trame di Cammilleri, sono alcuni investigatori che ritornano più volte, di cui alcuni abbiamo già trovato in altre storie. Allora ritroviamo ben due storie con l’inquisitore Corrado da Tours (“La torre dell’alchimista” con il morto drogato tipo LSD che decide di volare dalla finestra della torre e “Morte di un inquisitore”, dove sia le modalità che i motivi della morte passano in secondo ordine rispetto all’idea dell’autore di lanciarsi in una pur giusta anche se un po’ manichea invettiva contro i Catari). Ed anche due storie con l’ormai noto Shylock Homer che fortunatamente riduce al minimo i richiami al suo illustre predecessore (“La costante X” con un ingegnoso omicidio attraverso i tubi, ed un blando errore di matematica, che X è incognita, mentre costante indica altro, e “Quadri & fiori” una improbabile storia di falsari con la soluzione affidata ad un fiore, la Diphylleia Grayi che vi invito ad andare a cercare).

Altre doppie storie sono affidate a nuovi personaggi. Uno antipatico, ligio al dovere sino all’eccesso il commissario Pincus (“Il caso dell’inquilino morto” incastrato nei diverbi condominiali e “Il libro perduto” che ho gradito solo per l’accenno della famiglia dei grandi enigmisti, i Bartezzaghi, anche se invece di Stefano che seguo in varie forme si accenna ad Alessandro, a me noto solo in quanto direttore della “Settimana Enigmistica”) ed uno a me simpatico, il detective Rocco Caldani (“Il segreto del vedovo” dove si scopre una morte inutile legata a vecchi giornali paleo-pornografici e “Una buccia di banana” uno dei pochi che hanno uno sprizzo di vitalità, sia per le punte ironiche sia per la decodificazione di un proverbio veneziano su cui torneremo), che risolve tutto con il ragionamento, visto che è difficile per lui non farsi notare dati i suoi due metri di altezza.

Un costante, o quasi, è il tentativo di Cammilleri di inserire la vicenda in un contesto storico “reale” o con un buon grado di approssimazione. Abbiamo così John Drake, fratello di Sir Francis che indaga ne “Il fratello del corsaro” (anche se fonti storiche dicono che John fosse cugino del corsaro), Conone di Atene al tempo di Artaserse II Mnemone indaga sulla morte di Ctesia di Cnido in “Il libro di Ctesia” (anche se in realtà Ctesia dopo le vicissitudini con i persiani si ritirò a fare il medico nella nativa Cnido dove morì di vecchiaia), il poliziotto reale Jean-Christophe Lebrune de Labergere attivo nella Francia di Luigi XVI in “Il mistero del duca” (si, ai tempi della Rivoluzione Francese) o Antonio Paltrinieri delegato di polizia di Sua Maestà Vittorio Emanuele II (parliamo di circa il 1877) in “Un’ammazzatina a Cianciana” (sinceramente uno dei racconti più confusi).

Altra fascinazione del nostro è verso gradi militari o assimilabili. Abbiamo così il capitano russo della NKVD (la prima polizia segreta sovietica) Arcady Chelypin indagare sulla morte di una suora in “La foto a colori”, il colonnello tedesco Paul von Lettow-Vorbeck (questo veramente esistito) cercare di capire la morte in una latrina di un tanzaniano nel Tanganika germanico in “Omicidio in Afrika”, oppure il comandante navale Thomas J. Bradley indagare sulla morte dovuta ad una mistura di arsenico in “Delitto sulla USS Baltimore”.

Dimenticandoci di due quasi inutili racconti americani (un improbabile Jefferson Madison, con il nome di due presidenti americani, che indaga in “La strana morte di Josiah Smith” o Charles Carroll, un cattolico schiavista, che sembrerebbe un ossimoro anche se poi fu l’unico non protestante ad entrare nel gruppo che redasse la Costituzione Americana, cercare di capire i motivi dell’invasione nella sua piantagione della talpa calva africana in “La frana di Carrollton”) ed altrettanti sconclusionati episodi italici (il già noto monsignore don Gaetano Alicante che si muova ne “La macchina da bagno” o il commissario Giuseppe Lucane detto Peppiniello aggirarsi nei misteri di “L’enigma del cesso”), citiamo l’ultimo racconto interessante per alcuni richiami storici, pur se, nel suo impianto da “camera chiusa” oltremodo inventato e senza troppo sugo.

Mi riferisco a “Il dilemma del mimo”, che, inquadrando un delitto con veleno durante un banchetto che non ci colpisce minimamente, riporta la storia (reale) del mimo Genesio, della sua conversione durante una rappresentazione teatrale alla presenza dell’imperatore Diocleziano e del suo conseguente martirio. Racconto inutile, richiamo storico interessante.

Volendo fare anche un elenco delle modalità che il nostro sceglie per far morire i suoi personaggi, ci sarebbe da riempire un’altra trama. Io mi accontento di citare altro, l’unica cosa che mi ha divertito, cioè l’uso del proverbio veneziano “Te fasso veder mi che ora che xe” (anche se nel testo viene citata in italiano ed in inglese).

Un proverbio che deriva dal fatto che, al tempo, in piazza San Marco, tra le colonne di San Marco e San Todaro venivano eseguite le condanne capitali. Tra quelle colonne, i condannati prima di venire ammazzati guardavano dritto alla torre dell'orologio che avevano davanti che segnava l'ora della propria morte. Una locuzione quindi usata per minacciare qualcuno.

Al fine, ripeto, Cammilleri non mi piace, trovo divertente l’uso di alcuni rimandi storici, mentre risulta sempre pesante quando tenta di inserire il suo bigottismo all’interno delle storie. Chissà se riuscirò a non leggerne più.

Matteo Guerrini “Jiko Identità oscura” Mondadori euro 7,90

[A: 15/11/2024 – I: 26/11/2024 – T: 27/11/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 185; anno: 2024]

Di Matteo Guerrini avevo letto il primo libro dedicato agli episodi polizieschi del commissario Jo Hara, e lo avevo trovato decisamente sottotono e sopravalutato. Ora esce il secondo episodio che, devo dire, pur ribadendo alcune pecche, risulta decisamente più leggibile del primo.

Certo non per il titolo, dove al solito mescolando italiano e giapponese, si riesce a far confusione, che “Jiko” serve ad indicare la propria persona, auto referenziandosi, e la parte italiana avrà senso forse nel corso della lettura, anche se, sinceramente, quell’aggettivo “oscuro” mi ha lasciato perplesso, prima e dopo la lettura.

Intanto, chi non ha letto “La rabbia” perde subito alcuni riferimenti. Come già si evince da alcuni accenni fatti, l’azione si svolge in Giappone, paese d’elezione di Matteo Guerrini. In un ambiente poliziesco dove Jo e i suoi assistenti, Masato Suzuki e la signorina Oyama vengono demansionati in quanto, pur avendo risolto le vicende del primo libro, hanno coinvolto personaggi di rango, e quindi vengono bellamente messi da parte, passando dalla Omicidi alla sezione “Persone Scomparse”.

Jo non si lascia abbattere, essendo poliziotto tutto d’un pezzo, e inizia il nuovo lavoro con calma ma senza fare passi indietro. Ha la fortuna, o il caso, di imbattersi in uno e poi in svariati altri casi di persone che scompaiono. Cominciando ad indagare nei loro contorni familiari e sociali anche quando le stesse persone, o almeno la prima, vengono trovate morte. Nel corso del libro, poi, tutte e quattro le persone che risultano scomparse, in vari modi muoiono, con imitazioni di suicidi che non convincono il nostro commissario.

Sebbene ostacolato da un parte delle gerarchie, Jo si accorge che i casi degli scomparsi, e poi delle loro morti, presentano notevoli similitudini. Tutti da un certo periodo cominciavano ad isolarsi dagli altri, da mogli, soci, segretarie ed altre persone con cui avevano familiarità. Non solo, ma esprimevano il disagio sostenendo che le stesse persone fossero state sostituite da dei sosia, come nel bellissimo film “L’invasione degli ultracorpi”.

Altre similitudini sono nella presenza, in tutte le case degli scomparsi, di integratori alimentari. Seguendo questo filone, Jo risale prima alla ditta che li produce, poi alla società che li ordina. Una società all’avanguardia, dedita alla profilazione genetica. Una tecnica che ha senso solo in questi nostri tempi, dopo che si è scoperto come leggere il DNA delle persone. In pratica questa società ha una sempre più vasta banca-dati, con il profilo di un numero elevato di persone. Quando qualcuno, ha interesse di fare delle ricerche (mediche, di mercato o altro), chiede di avere una lista di persone con una possibile tendenza relativa alla ricerca. Così da poter utilizzare il campione come soggetto-cavia: metà verso la ricerca e metà come gruppo di controllo.

Ma fatto tutto ciò, e non ottenendo altro, l’unica speranza è trovare chi, trafugando una lista, possa aver dato avvio ad una sperimentazione folle. Infatti, le sostanze reperite non sono integre, ma hanno delle componenti di sostanze alteranti, di cui non vi dico gli effetti. Tuttavia è ovvio, pur con qualche salto logico, che Jo individui una possibile sequenza di avvenimenti che possa spiegare tutto quanto è successo. Con una soluzione inversa a quella del film, dove i protagonisti sembrano affetti dalla sindrome di Capgras invece erano sosia, mentre qui succede il contrario. Un contrario che potevamo capire molto prima, se avessimo prestato più attenzione ai voli narrativi di Guerrini.

In effetti, il nostro continua a fare salti quantici tra personaggi e situazioni, introducendone una quantità che alla fine ne fa dimenticare i connotati. Mentre, se non ci si distrae, si possono tirare le fila molto prima. Nel finale poi, non ci sorprendiamo nel vedere il capo di Jo estromesso per aver preso una cantonata, e Jo stesso reintegrato al suo posto con tutti gli onori. Né ci meravigliamo che Jo cominci ad avere una storia d’amore, che sono entrambi elementi che possono portare ad una terza puntata della serie.

Spero che sappiate cosa sia la sindrome di Capgras, o che, se non lo sapete, possiate avere la curiosità di cercarne in rete. Tuttavia, oltre questo che è un piccolo elemento, diversivo e simpatico, il libro ribadisce molte delle carenze presenti nel primo episodio (salti narrativi, personaggi che entrano ed escono  volte senza apparentemente motivo, descrizioni poco utili di paesaggi). Aggiungendovi una descrizione minuta di alcuni usi e costumi giapponesi, con una esposizione didascalicamente noiosa. Se avessi voluto una guida al Giappone, avrei comprato altro. In un libro giallo, se pur complesso e articolato, tutto ciò fa perdere ritmo allo scritto. Continuo ad essere dubbioso su altre uscite di Guerrini.

Parlando di gialli italiani, mi piace quindi porgervi tre frasi che vengono dal freddo Nord Europa, uscite dalla penna di Håkan Nesser e tratti da “Carambole”:

“I vivi devono curarsi gli uni degli altri, pensò. La cosa peggiore è morire senza aver vissuto.” (190) [una riflessione intima e potente]

“Da qualche parte aveva letto che un uomo deve fare tre cose nel corso della sua esistenza. Crescere un figlio, scrivere un libro e piantare un albero.” (190)

“A quattordici anni … vediamo il mondo con chiarezza perfetta. Poi devono passare altri cinquant’anni prima che riusciamo a trovare un linguaggio con cui fissare queste impressioni.” (263) [ed anche dopo sessanta non mi sembra facile esprimersi]

Mancano tre giorni per lasciarci dietro quest’anno bisesto, ed auguri a tutte le persone di buona volontà di poterlo iniziare secondo i propri desideri e di raggiungere le proprie mete. E siccome non posso non rivolgermi ai miei numi scrittori, finisco l’anno con un pensiero di Robert Louis Stevenson: “Tieni per te le tue paure, ma condividi con gli altri il tuo coraggio”.

Per cui ancora e sempre tanti abbracci.

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