Maria Elisa Aloisi “Il canto della falena” Mondadori
euro 6,50
[A: 29/06/2021
– I: 07/08/2024 – T: 08/08/2024] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 185; anno: 2021]
L’avvocato
penalista Maria Elisa Aloisi approfittando delle sue ampie conoscenze della
materia, da qualche anno ha iniziato una piccola ma interessante carriera nella
scrittura, dove con questo suo “Il canto della falena” nel 2021 vince il ben
noto premio Tedeschi indetto dalla casa editrice Mondadori.
Non
entro nelle particolarità del premio, di cui ho già spesso e volentieri parlato
dato che dei circa 45 vincitori ho letto almeno una trentina di libri. Né ho
molto altro da dire sull’autrice, di cui poche notizie si hanno in rete, se non
che, originaria di Lentini, nella parte nord del siracusano, si sposta ben
presto nel catanese, dove vive e lavora. E dove, per ovvio conoscenze locali,
ambiente questo romanzo. In cui l’ambiente è ben utilizzato, non negli
stereotipi dell’Etna, del caldo e di Sant’Agata, ma nelle minuzie quotidiane,
del seltz con limone, delle cassatine, delle ville in collina, ed anche, per
ovvia frequentazione, delle aule del Tribunale.
Intanto,
fin dalle prime righe, impariamo a conoscere la protagonista del romanzo (dove,
date alcune battute sparse, soprattutto nel finale, non ci sorprenderebbe se
prima o poi, la scrittrice riuscisse a fare una seconda puntata), l’avvocato
Emilia Moncada, detta Ilia. Giovane associata in uno studio di civilisti, si
occupa del penale, dimostrando, nelle piccole digressioni dalla trama
principali, una notevole empatia con il non sempre fortunato (e non sempre
colpevole) mondo malavitoso. Rimasta orfana, il padre decide di trasferirsi in
Toscana, e di risposarsi, lei restando con una simpatica zia, Ofelia (dove non
entro nelle divagazioni del nome nel nostro ambito quotidiano familiare).
Ha
avuto una storia, finita, con un avvocato, ora diventato PM e lasciato per
l’arrivismo del tipo. Inoltre, ha una specie di narcolessia (ciao Luana) che la
colpisce quando si sente in difficoltà. In tutto questo contesto, si trova, suo
malgrado, ad assumere la difesa di Speranza Barone accusata dell’omicidio del
marito Adriano Politi. Difesa piena di difficoltà: il PM è proprio il suo ex,
la famiglia Barone chiede il suo aiuto che il primo avvocato nominato si rivela
un narcisista incapace, i tempi per lavorare al caso sono strettissimi.
Qui
apriamo una piccola parentesi. Questo è a tutti gli effetti un “legal
thriller”, ma con il pregio di essere immerso non nelle trionfali esibizioni
americane, ma nella realtà italiana. Dove la giurisprudenza non ha il fascino
anglosassone, ma la scrittrice ci presenta modi e tempi di processi ed
indagini, senza indulgere in nessuna scorciatoia. Fornendoci, di passaggio, un
elemento di riflessione valido ovunque. La verità non conta, che ce ne sono
due: la verità materiale, di come si sono svolti ed incatenati i fatti, e la
verità processuale, suggerita dalle prove emerse nel dibattimento. E spesso le
due verità non coincidono.
Comunque,
Ilia studia le carte ed indaga e si pone i suoi ed i nostri dubbi. L’unica
prova reale a carico della moglie è del DNA trovato su un bicchiere accanto al
morto. Ma i marcatori sono pochi (8 invece che 13), quindi potrebbe essere di
una qualsiasi persona della famiglia Barone: la sorella Giuliana o la figlia
Tecla.
Pur
nel breve tempo a disposizione, Ilia ricostruisce un piccolo mondo familiare:
Adriano era violento e, come commercialista, vicino al fallimento, dove avrebbe
trascinato il suocero, nonché la giovane terza moglie di lui, con la quale
aveva aperto una società off-shore a Malta. Magda, la madre di Adriano, pur
essendo la madre, si è sempre schierata dalle parti della nuora e della nipote.
Così come Giuliana, anche sorella e cognata non erano mai riusciti a limitare i
danni provocati dal morto. Che da sempre malmenava brutalmente la moglie,
procurandole ecchimosi e financo fratture.
La
scoperta di passati nascosti della famiglia Politi, porta Ilia ad intuire la
verità, a trovare il modo di scagionare Speranza, e ad immergerci in una
scatola cinese di finali un pochino scontati, e questo se vogliamo è uno dei
punti minori del romanzo.
Mentre
completamente a favore troviamo la genesi complessiva del romanzo, dove, la
conoscenza di ciò di cui si narra, porta ad esporla con la semplicità che ne
favorisce la comprensione al lettore meno ferrato. Inoltre, ho apprezzato la
piccola platea di personaggi minori, zia Ofelia in primis, ma anche il
segretario macchietta (che ripercorre strade alla Catarella di camilleriana
memoria), i giovani di studio, gay e nerd, o il secondino dal cuore buono che
si commuove leggendo i romanzi di Nicholas Sparks.
Ultimo
punto a suo favore, sono le continue, utili ma purtroppo infruttuose, critiche
all’invadenza deli media, televisione in primis, che lucrano sul dolore altrui.
Impersonato da un personaggio ambiguo (non nell’accezione cattiva), il
giornalista Andrea, che un po’ fa lo squalo per il suo programma TV, un po’ è
coinvolto dall’umanità di Ilia. È troppo presto, e non è quello il fuoco su cui
l’autrice punta, per capire se ci saranno sviluppi, che ora, dato l’intreccio
che vi invito a leggere, non potrà che fermarsi e rimandare.
Come
io rimando altri giudizi se e quando usciranno altri libri dell’avvocatessa
Aloisi.
“Dentro
ogni libro c’è un mondo intero da scoprire, storie, avventure e i personaggi
sono lì pronti a diventare tuoi amici per sempre.” (81)
“In
ogni esperienza, anche quella in apparenza peggiore, è possibile cogliere un
aspetto positivo.” (183)
Luca
Di Gialleonardo & Liudmila Gospodinoff “Il paradosso dell’arciere” Mondadori
euro 5,90
[A: 09/05/2021
– I: 23/08/2024 – T: 24/08/2024] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 288; anno: 2021]
Il loro “Il paradosso dell’arciere”
è, per merito di Luca, ambientato in una cittadina non lontana da Frosinone,
famosa, come molte nel circondario, per i ricordi medioevali. Soprattutto, per
i palii periodici e le concomitanti gare di tiro con l’arco. E come si capisce
dal titolo, proprio sul tiro con l’arco si incentra il giallo. In particolare,
nel paradosso del titolo, elemento che viene doviziosamente spiegato, ma che
non mi è risultato del tutto chiaro. Si capisce che c’è una stretta
correlazione tra freccia ed arco da cui parte, e riguarda un’oscillazione della
freccia dovuta alla reazione del suo rilascio. Il bravo arciere sa come
costruire archi e frecce di modo che questi compensino le oscillazioni e la
freccia possa al fine colpire il bersaglio.
So
di non essere stato chiarissimo, ma ci sono in rete fior di articoli che
approfondiscono l’argomento. Qui il paradosso serve agli autori per introdurci
nel mondo della cittadina del frusinate, nelle personalità dei vari personaggi,
e nella storia della morte, colpito da tre frecce, di un famoso “maestro
d’arco”.
I
personaggi centrali della storia sono direi due e mezzo. C’è il commissario
capo Tiziano Agata, catapultato da Modena (ancora Luca direi) perché in preda
ad una grossa crisi. Non accetta la separazione dalla moglie, ed avvia un
periodo di alcolismo e stalkeraggio che solo un allontanamento dall’Emilia
potrebbe far decantare. Certo, Tiziano è un buon poliziotto, dotato di acume
investigativo, ma per tutto il libro alterna fasi di lucida concentrazione a
crisi votate alla ricerca dell’ex-moglie che lo fanno sentire distante e poco
empatico. Dovrebbe essere il centro della vicenda, e sebbene sia il motore
della soluzione, non entra mai nel cuore del lettore.
Poi
c’è il vicecommissario Rita Solvini, irritata perché il posto preso da Tiziano
era destinato a lei, ed in crisi verticale con la figlia dodicenne, rompipalle
come tutti i giovani e con lei, madre, decisamente troppo rigida. Dal punto di
vista simpatia ed attività varie, sembra molto più simpatica di Tiziano, e
meriterebbe di essere lei al centro della vicenda. Ha di certo un suo ruolo
importante, soprattutto per indagini pregresse, ed anche per stemperare le
intemperanze del capo. Inoltre, viene messa in difficoltà perché il mezzo
personaggio, il capo della Mobile Attilio Cardini, oltre ad essere bello ed
aitante, interviene ad ogni piè sospinto sia per mettere il suo cappello
sull’inchiesta, sia per mettere altro sul corpo di Rita.
Dicevamo,
comunque, che tutto ruota intorno agli archi. Ci sono quattro contrade che si
disputano la palma per i migliori tiratori, ma sono due quelle che ci
interessano. Una guidata da Renzo, il morto, di carattere collaborativo ed
accudente. L’altra guidata dal fratello, Arduino (nome su cui torneremo) molto
tradizionalista, tanto che i loro adepti si rifanno al Trono di Spade, con
Arduino come Lord Comandante, ed arcieri come Arya, Jon Snow, Drogo e via
tronando.
Arduino
è il vero esperto, quello che fabbrica frecce, quello che spiega il paradosso,
quello che caccia il suo miglior arciere e fabbricatore di archi e frecce, Jon
Snow, avendolo sorpreso a fare il piccolo spacciatore. Renzo sembra più sereno,
ma ha una moglie molto bella, e lui, inflessibile verso gli altri, ha
comportamenti sessuali un poco ai margini. Renzo inoltre è stato colpito
duramente dal suicidio del nipote Giacomo, e da quel momento in poi è diventato
rigidamente duro con tutti.
Tanto
che porta la giunta ed altri elementi comunali sul banco degli accusati per
corruzione e tangenti varie. Dando modo di aumentare la platea dei possibili
omicidi. Che però girano sempre intorno all’arco e le frecce. Tre sono quelle
che hanno colpito Renzo, costruite in modo diverse, tanto da poter essere
lanciate da archi diversi. Così da aumentare la problematica: uno o tre
colpevoli? Entropia che aumenta dalle indagini di Rita, che scopre Giacomo aver
paura di essere gay, paura che viene colpevolizzata da Renzo stesso. Magari,
oltre alle tangenti ed agli arcieri, potrebbe insorgere una vendetta di
qualcuno affezionato a Giacomo.
Il
tris investigativo Tiziana, Rita con l’esperto Arduino, trova per vie parallele
il bandolo della matassa, arrivando ad un finale un po’ convulso e forse
leggermente affrettato rispetto all’andamento generale del testo. Cosa che
rende il testo pienamente sufficiente, ma non molto di più.
Comunque,
ho gradito i cenni ad alcuni punti della Ciociaria, ad un ristorante di Anagni,
a Fiuggi che domina la vallata. Se si fosse nominato Guarcino sarebbe stato il
massimo. Una platea di luoghi citati consoni a questa parte della mia vita.
Come invece era consono con la mia più che infanzia, direi “tempi di nascita”,
laddove Arduino era il padre di mio zio di parte paterna, per me ignoto, ma
ricordato nelle saghe familiari in quanto morto una settimana prima della mia
nascita. Ed al centro delle battaglie di mio padre, che allora si usava dare il
nome del morto vicino al nuovo nato. Per fortuna, non mi chiamo Arduino.
Rino Cammilleri “Nuovi delitti nella
camera chiusa” Mondadori euro 6,50
[A: 02/08/2021 – I: 30/09/2024 – T: 01/10/2024]
&
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 214; anno: 2021]
Non
ho fortunatamente letto il primo libro dei delitti della camera chiusa, dato
che la lettura di questo mi conferma sia il poco interesse di brevi racconti
che spesso non si concludono, sia la scarsa sintonia che ho verso l’autore.
Ora, il buon Rino, agrigentino come si evince dall’assonanza onomastica, è, per
i miei gusti, un po’ troppo concentrato su di sé e sulla sua bravura, per
riuscirmi simpatico. Inoltre, sfoggia elementi molto forti di critiche estreme
(che mi fanno venire in mente, purtroppo, momenti molto a destra della mia
cultura) che trovo realizzati in modo poco convincente.
Non
ho, per principio e per mia filosofia di vita, nulla contro chi ha idee diverse
dalle mie. Tuttavia, anche quando le idee ed i credi sono gli stessi, il loro
uso, o la lor forzatura per dimostrare qualcosa, non sempre (anzi mai) mi trova
disposto alla condiscendenza. Ma qui stiamo di libri, e non di filosofia. E di
racconti, non di romanzi (cosa che ben sapete, già mi mette un filo
sull’attenzione).
Intanto,
per chi fosse a digiuno della storia del giallo, con il termine “enigma della
camera chiusa” vengono indicati crimini commessi entro uno spazio chiuso e da
dove il colpevole si è allontanato, facendo perdere le proprie tracce. È uno
dei “topos” maggiori del giallo, dato che ne viene indicato come primo esempio
quello che è anche riportato come il primo giallo moderno, cioè “I delitti
della rue Morgue” di Edgar Allan Poe. Senza dilungarmi molto sulla parte
teorica, vorrei citare solo tre esempi eponimi: “Le tre bare” di John Dickson
Carr (il miglior romanzo del genere), “Dieci piccoli indiani” di Agatha
Christie (dove la stanza viene allargata ad isola, ma sempre luogo ristretto è)
e “Il detective Kindaichi” di Seishi Yokomizo (che reinventa il genere, ponendo
la camera chiusa contornata da neve, con impronte che vanno solo verso la casa,
e mai se ne allontanano).
In
questa esegesi di Cammilleri compaiono quattordici racconti che, pur incentrati
sull’enigma iniziale, ne risolvono e spiegano i meccanismi, purtroppo lasciando
a volte non risolto chi ha eseguito l’azione criminale. Un meccanismo che, se
volete, è un po’ facile, e che lascia un po’ di amaro in bocca al cultore della
materia. Non che io voglia vedere sempre arrestati e condannati i colpevoli, ma
arrivarne all’indicazione materiale dona alla confezione “scrittura” un diverso
e più coinvolgente piglio.
Detto
questo, è pur vero che l’autore è uomo di buona cultura, e di sicura
consultazione di testi e riferimenti. Sia suoi interni, dove riprende
personaggi e situazioni di altre sue storie, sia esterni, quando si collega a
momenti storici o ad altre fiction di sicura fama.
Abbiamo
così il ritorno di Corrado di Tours (“Uisge beatha”) già incontrato in
“L’inquisitore” e di don Gaetano Alicante (“Fuoco a mare”) protagonista
di “Immortale odium”. Primo inciso, il titolo del primo racconto citato è il
termine gaelico per “acqua di vite”. Appare due volte il volutamente comico Shylock
Homer (“Il mistero della conchiglia scomparsa” e “La molletta”)
che si presenta sempre dicendo di non essere il quasi omonimo personaggio di
Conan Doyle. Secondo inciso: nel primo di questi due racconti si parla di una
conchiglia Meganoblaster locomotensis, origine dell’omicidio, ma assolutamente
inventata.
L’astuzia
enciclopedica di Cammilleri poi ci fa non solo viaggiare nel passato, nei già
citati racconti con Corrado e don Gaetano, ma anche ne “La morte del
generale” ambientato in guerre italiche e secondo l’autore ispirato a fatti
reali, o “La perla di Tyburn” che riprende le vicende connesse a
Margaret Ward su cui troneremo. E viaggiare nel futuro in un improbabile e mal
riuscito “Bensalem”, costruito sulla base de “La Nuova Atlantide” di Francesco
Bacone, immaginando un mondo distopico in cui è stata bandita la proprietà
privata (ma che conflagrerà che il nostro di certo non ha occhi benevoli verso
il comunismo). Ricordo di passaggio che Bacone aveva così battezzato il suo
mondo come unione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme.
Ancora
velleità da historic fiction in “L’enigma del kraal”, dove incontriamo
il re zulu Shaka con il contorno del tenente Francis Farewell e del medico
Henry Fynn, tutti personaggi reali, in una vicenda irrealistica. O ipotesi di
citazioni auliche in “Assassinii nella cattedrale”, con una vicenda che
si svolge in Ecuador cercando un rimando alle vicende di ben altro tenore
incentrate sulla vita e la morte di San Tommaso di Canterbury.
Riprendendo
elementi animal-vegetali abbiamo il fiore di Kudupul al centro della vicenda di
“Il segreto della strega”, dove il fiore in oggetto è meglio noto come
“Regina della notte” e benché sia indicato come asiatico da Cammilleri, a me
risulterebbe un cactus centroamericano. Altro animale presente è il velenoso
pese palla, in uno dei peggiori testi, “Hikikomori”, dove viene
presentato in modo distorto il mondo giapponese, restando fedele alla verità
solo nella rappresentazione dei giovani che si isolano volontariamente dai
contatti sociali fisici.
Due
elementi più moderni compaiono in “Caldo”, dove il colpevole usa un
condizionatore d’aria per il suo omicidio, ed in “YouTube”, dove il
canale social è veicolo di una storia da “divorzio all’italiana”. Per finire
con il peggiore del lotto, “Il trucco delle scarpe”, dove quando il
poliziotto dice che l’omicida ha le scarpe sporche di sangue, l’ingenuo
assassino che fa? Si guarda le scarpe. Viene detto essere ripreso da un fatto
accaduto nel 1937, ma è assolutamente inconsistente.
Come
promesso ritorno su uno dei racconti, quello che porterà all’esecuzione
capitale di Margaret Ward e di altri cattolici durante le persecuzioni
anticattoliche di Elisabetta I, dove la vicenda storica è riportata con
esattezza, mentre la fuga William Watson dalla prigione di Bridwell risulta un
tantino inventata (non la fuga, ma la modalità di risigillare a ferro le
inferriate della cella).
Come
vedete, ho quasi o nulla parlato delle tecniche di fuga dalle camere chiuse,
che sono tutte, più o meno, risibili, facendone come esempio eponimo una
striscia di stoffa per richiudere un chiavistello.
Un
libro letto per dovere di completezza libraria, ma che è valido solo per quanto
mi ha concesso di approfondire sulle vicende storiche in altre sedi. Per il
resto, meglio tacere.
Rino Cammilleri “I misteri della camera
chiusa” Mondadori euro 6,50
[A: 28/08/2024 – I: 16/10/2024 – T: 17/10/2024]
&
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 215; anno: 2024]
I
libri cambiano ma il risultato no, che il buon Rino Cammilleri si rivela, al
solito, prolifico nello scrivere ma poco piacevole nel leggere. Con questo
siamo alla terza fatica del buon agrigentino che si affanna a proporre piccoli
racconti più o meno gialli, dove il morto viene trovato all’interno della
camera chiusa, e l’investigatore di turno deve capire come è avvenuto
l’omicidio e a volte chi l’ha commesso.
A
volte, che Rino, spesso una volta decodificato il mistero della camera si
disinteressa delle meccaniche altre, di chi ha commesso il fatto, dei motivi ed
altre “inezie”. Questo, in fondo, è uno dei motivi che fanno precipitare il
gradimento delle sue confezioni. Capisco che lavorando su commissione e dovendo
produrre in tempi dati un certo numero di testi, qualcosa scivoli via.
Tuttavia, il buon lettore di gialli non può che rimanere sconcertato da queste
scelte.
Anche
perché, almeno in questi venti racconti, le modalità attraverso le quali le
stanze rimangono chiuse dall’interno sono ormai state analizzate discretamente.
Non rimangono che alcuni accenni, talvolta abbastanza risibili da far supporre
che la testa dell’autore sia concentrata altrove. Non è certo un mistero
quando, dato che la porta ha uno spazio tra lei ed il pavimento, chi la chiude
non fa altro che prendere la chiave e farla scivolare sotto. Altri, con il
chiavistello a cascata, sbattono la porta violentemente, facendo scivolare il
chiavistello. C’è chi usa una lama, chi ha una doppia chiave a vite, chi si
ingegna con pezzi di stoffa. Insomma, di tutto, di più, fino all’assurdo di
avvelenare il malcapitato con un veleno ad effetto ritardato, e chiedergli di
chiudersi al cesso, così da poter morire nella stanza chiusa.
Altra
costante delle trame di Cammilleri, sono alcuni investigatori che ritornano più
volte, di cui alcuni abbiamo già trovato in altre storie. Allora ritroviamo ben
due storie con l’inquisitore Corrado da Tours (“La torre dell’alchimista”
con il morto drogato tipo LSD che decide di volare dalla finestra della torre e
“Morte di un inquisitore”, dove sia le modalità che i motivi della morte
passano in secondo ordine rispetto all’idea dell’autore di lanciarsi in una pur
giusta anche se un po’ manichea invettiva contro i Catari). Ed anche due storie
con l’ormai noto Shylock Homer che fortunatamente riduce al minimo i richiami
al suo illustre predecessore (“La costante X” con un ingegnoso omicidio
attraverso i tubi, ed un blando errore di matematica, che X è incognita, mentre
costante indica altro, e “Quadri & fiori” una improbabile storia di
falsari con la soluzione affidata ad un fiore, la Diphylleia Grayi che vi
invito ad andare a cercare).
Altre
doppie storie sono affidate a nuovi personaggi. Uno antipatico, ligio al dovere
sino all’eccesso il commissario Pincus (“Il caso dell’inquilino morto”
incastrato nei diverbi condominiali e “Il libro perduto” che ho gradito
solo per l’accenno della famiglia dei grandi enigmisti, i Bartezzaghi, anche se
invece di Stefano che seguo in varie forme si accenna ad Alessandro, a me noto
solo in quanto direttore della “Settimana Enigmistica”) ed uno a me simpatico,
il detective Rocco Caldani (“Il segreto del vedovo” dove si scopre una
morte inutile legata a vecchi giornali paleo-pornografici e “Una buccia di
banana” uno dei pochi che hanno uno sprizzo di vitalità, sia per le punte
ironiche sia per la decodificazione di un proverbio veneziano su cui
torneremo), che risolve tutto con il ragionamento, visto che è difficile per
lui non farsi notare dati i suoi due metri di altezza.
Un
costante, o quasi, è il tentativo di Cammilleri di inserire la vicenda in un
contesto storico “reale” o con un buon grado di approssimazione. Abbiamo così
John Drake, fratello di Sir Francis che indaga ne “Il fratello del corsaro”
(anche se fonti storiche dicono che John fosse cugino del corsaro), Conone di
Atene al tempo di Artaserse II Mnemone indaga sulla morte di Ctesia di Cnido in
“Il libro di Ctesia” (anche se in realtà Ctesia dopo le vicissitudini
con i persiani si ritirò a fare il medico nella nativa Cnido dove morì di
vecchiaia), il poliziotto reale Jean-Christophe Lebrune de Labergere attivo
nella Francia di Luigi XVI in “Il mistero del duca” (si, ai tempi della
Rivoluzione Francese) o Antonio Paltrinieri delegato di polizia di Sua Maestà
Vittorio Emanuele II (parliamo di circa il 1877) in “Un’ammazzatina a
Cianciana” (sinceramente uno dei racconti più confusi).
Altra
fascinazione del nostro è verso gradi militari o assimilabili. Abbiamo così il
capitano russo della NKVD (la prima polizia segreta sovietica) Arcady Chelypin
indagare sulla morte di una suora in “La foto a colori”, il colonnello
tedesco Paul von Lettow-Vorbeck (questo veramente esistito) cercare di capire
la morte in una latrina di un tanzaniano nel Tanganika germanico in “Omicidio
in Afrika”, oppure il comandante navale Thomas J. Bradley indagare sulla
morte dovuta ad una mistura di arsenico in “Delitto sulla USS Baltimore”.
Dimenticandoci
di due quasi inutili racconti americani (un improbabile Jefferson Madison, con
il nome di due presidenti americani, che indaga in “La strana morte di
Josiah Smith” o Charles Carroll, un cattolico schiavista, che sembrerebbe
un ossimoro anche se poi fu l’unico non protestante ad entrare nel gruppo che
redasse la Costituzione Americana, cercare di capire i motivi dell’invasione
nella sua piantagione della talpa calva africana in “La frana di Carrollton”)
ed altrettanti sconclusionati episodi italici (il già noto monsignore don
Gaetano Alicante che si muova ne “La macchina da bagno” o il commissario
Giuseppe Lucane detto Peppiniello aggirarsi nei misteri di “L’enigma del
cesso”), citiamo l’ultimo racconto interessante per alcuni richiami
storici, pur se, nel suo impianto da “camera chiusa” oltremodo inventato e
senza troppo sugo.
Mi
riferisco a “Il dilemma del mimo”, che, inquadrando un delitto con
veleno durante un banchetto che non ci colpisce minimamente, riporta la storia
(reale) del mimo Genesio, della sua conversione durante una rappresentazione
teatrale alla presenza dell’imperatore Diocleziano e del suo conseguente
martirio. Racconto inutile, richiamo storico interessante.
Volendo
fare anche un elenco delle modalità che il nostro sceglie per far morire i suoi
personaggi, ci sarebbe da riempire un’altra trama. Io mi accontento di citare
altro, l’unica cosa che mi ha divertito, cioè l’uso del proverbio veneziano “Te
fasso veder mi che ora che xe” (anche se nel testo viene citata in italiano ed
in inglese).
Un
proverbio che deriva dal fatto che, al tempo, in piazza San Marco, tra le
colonne di San Marco e San Todaro venivano eseguite le condanne capitali. Tra
quelle colonne, i condannati prima di venire ammazzati guardavano dritto alla
torre dell'orologio che avevano davanti che segnava l'ora della propria morte.
Una locuzione quindi usata per minacciare qualcuno.
Al
fine, ripeto, Cammilleri non mi piace, trovo divertente l’uso di alcuni rimandi
storici, mentre risulta sempre pesante quando tenta di inserire il suo
bigottismo all’interno delle storie. Chissà se riuscirò a non leggerne più.
Matteo
Guerrini “Jiko Identità oscura” Mondadori euro 7,90
[A: 15/11/2024
– I: 26/11/2024 – T: 27/11/2024] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 185; anno: 2024]
Di Matteo
Guerrini avevo letto il primo libro dedicato agli episodi polizieschi del
commissario Jo Hara, e lo avevo trovato decisamente sottotono e sopravalutato.
Ora esce il secondo episodio che, devo dire, pur ribadendo alcune pecche,
risulta decisamente più leggibile del primo.
Certo
non per il titolo, dove al solito mescolando italiano e giapponese, si riesce a
far confusione, che “Jiko” serve ad indicare la propria persona, auto
referenziandosi, e la parte italiana avrà senso forse nel corso della lettura,
anche se, sinceramente, quell’aggettivo “oscuro” mi ha lasciato perplesso,
prima e dopo la lettura.
Intanto,
chi non ha letto “La rabbia” perde subito alcuni riferimenti. Come già si
evince da alcuni accenni fatti, l’azione si svolge in Giappone, paese
d’elezione di Matteo Guerrini. In un ambiente poliziesco dove Jo e i suoi
assistenti, Masato Suzuki e la signorina Oyama vengono demansionati in quanto,
pur avendo risolto le vicende del primo libro, hanno coinvolto personaggi di
rango, e quindi vengono bellamente messi da parte, passando dalla Omicidi alla
sezione “Persone Scomparse”.
Jo
non si lascia abbattere, essendo poliziotto tutto d’un pezzo, e inizia il nuovo
lavoro con calma ma senza fare passi indietro. Ha la fortuna, o il caso, di
imbattersi in uno e poi in svariati altri casi di persone che scompaiono.
Cominciando ad indagare nei loro contorni familiari e sociali anche quando le
stesse persone, o almeno la prima, vengono trovate morte. Nel corso del libro,
poi, tutte e quattro le persone che risultano scomparse, in vari modi muoiono,
con imitazioni di suicidi che non convincono il nostro commissario.
Sebbene
ostacolato da un parte delle gerarchie, Jo si accorge che i casi degli
scomparsi, e poi delle loro morti, presentano notevoli similitudini. Tutti da
un certo periodo cominciavano ad isolarsi dagli altri, da mogli, soci,
segretarie ed altre persone con cui avevano familiarità. Non solo, ma
esprimevano il disagio sostenendo che le stesse persone fossero state
sostituite da dei sosia, come nel bellissimo film “L’invasione degli
ultracorpi”.
Altre
similitudini sono nella presenza, in tutte le case degli scomparsi, di
integratori alimentari. Seguendo questo filone, Jo risale prima alla ditta che
li produce, poi alla società che li ordina. Una società all’avanguardia, dedita
alla profilazione genetica. Una tecnica che ha senso solo in questi nostri
tempi, dopo che si è scoperto come leggere il DNA delle persone. In pratica
questa società ha una sempre più vasta banca-dati, con il profilo di un numero
elevato di persone. Quando qualcuno, ha interesse di fare delle ricerche
(mediche, di mercato o altro), chiede di avere una lista di persone con una
possibile tendenza relativa alla ricerca. Così da poter utilizzare il campione
come soggetto-cavia: metà verso la ricerca e metà come gruppo di controllo.
Ma
fatto tutto ciò, e non ottenendo altro, l’unica speranza è trovare chi,
trafugando una lista, possa aver dato avvio ad una sperimentazione folle.
Infatti, le sostanze reperite non sono integre, ma hanno delle componenti di
sostanze alteranti, di cui non vi dico gli effetti. Tuttavia è ovvio, pur con
qualche salto logico, che Jo individui una possibile sequenza di avvenimenti
che possa spiegare tutto quanto è successo. Con una soluzione inversa a quella
del film, dove i protagonisti sembrano affetti dalla sindrome di Capgras invece
erano sosia, mentre qui succede il contrario. Un contrario che potevamo capire
molto prima, se avessimo prestato più attenzione ai voli narrativi di Guerrini.
In
effetti, il nostro continua a fare salti quantici tra personaggi e situazioni,
introducendone una quantità che alla fine ne fa dimenticare i connotati.
Mentre, se non ci si distrae, si possono tirare le fila molto prima. Nel finale
poi, non ci sorprendiamo nel vedere il capo di Jo estromesso per aver preso una
cantonata, e Jo stesso reintegrato al suo posto con tutti gli onori. Né ci
meravigliamo che Jo cominci ad avere una storia d’amore, che sono entrambi
elementi che possono portare ad una terza puntata della serie.
Spero
che sappiate cosa sia la sindrome di Capgras, o che, se non lo sapete, possiate
avere la curiosità di cercarne in rete. Tuttavia, oltre questo che è un piccolo
elemento, diversivo e simpatico, il libro ribadisce molte delle carenze
presenti nel primo episodio (salti narrativi, personaggi che entrano ed
escono volte senza apparentemente
motivo, descrizioni poco utili di paesaggi). Aggiungendovi una descrizione
minuta di alcuni usi e costumi giapponesi, con una esposizione didascalicamente
noiosa. Se avessi voluto una guida al Giappone, avrei comprato altro. In un
libro giallo, se pur complesso e articolato, tutto ciò fa perdere ritmo allo
scritto. Continuo ad essere dubbioso su altre uscite di Guerrini.
Parlando
di gialli italiani, mi piace quindi porgervi tre frasi che vengono dal freddo
Nord Europa, uscite dalla penna di Håkan
Nesser e tratti da “Carambole”:
“I vivi devono curarsi gli uni degli
altri, pensò. La cosa peggiore è morire senza aver vissuto.” (190) [una
riflessione intima e potente]
“Da qualche parte aveva letto che un uomo
deve fare tre cose nel corso della sua esistenza. Crescere un figlio, scrivere
un libro e piantare un albero.” (190)
“A quattordici anni … vediamo il mondo
con chiarezza perfetta. Poi devono passare altri cinquant’anni prima che
riusciamo a trovare un linguaggio con cui fissare queste impressioni.” (263)
[ed anche dopo sessanta non mi sembra facile esprimersi]
Mancano
tre giorni per lasciarci dietro quest’anno bisesto, ed auguri a tutte le
persone di buona volontà di poterlo iniziare secondo i propri desideri e di
raggiungere le proprie mete. E siccome non posso non rivolgermi ai miei numi
scrittori, finisco l’anno con un pensiero di Robert Louis Stevenson: “Tieni per
te le tue paure, ma condividi con gli altri il tuo coraggio”.
Per cui ancora e sempre tanti abbracci.
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