Per ovvie
simpatie rispetto al testo, in prima posizione, con un gradimento che sfiora il
massimo assoluto, c’è il dizionario del giallo di Pierre Lemaitre. Subito sotto,
ma di poco, un altro classico personale, un libro sul jazz di Haruki Murakami,
insieme ad un autore che sta sempre nel mio pantheon preferito: Italo Calvino
(con uno scritto sull’America redatto nel 1959 ma che contiene frasi di un’attualità
impressionante).
In coda
due diverse delusioni. Mi aspettavo di più dal classico filosofico-psicologico
di Lou Marinoff su Prozac e Platone. E molto di più da Odifreddi, in un saggio
forse a volte troppo specifico per essere goduto da più ampio pubblico.
Piergiorgio Odifreddi “A piccole dosi.
Contro la crisi di astinenza dalla matematica” Raffaello Cortina editore s.p. (Regalo
di Benedetta)
[A: 25/12/2023
– I: 14/03/2024 – T: 30/03/2024] && ----
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 357; anno: 2023]
Personalmente
ho sempre avuto un sentimento ambivalente nei confronti di Odifreddi. È di
sicuro un potente conoscitore delle materie a me care (matematica, logica) ma
anche quelle cui meno sono interessato (geometria, fisica). Come tutti i
profondi sapienti, è anche generoso nello spargere cognizioni ed informazioni,
contrariamente a molti spiriti scientifici che spesso sono avari di
condivisione. D’altra parte, lo trovo anche un po’ troppo tuttologicamente
sapiente, mentre io sosterrei con forza la tesi, parafrasando Wittgenstein, che “quello di cui non si può sapere, è meglio
tacere”.
È
quindi con interesse che ho affrontato questa sua nuova prova divulgativa,
anche se, a lettura fatta, forse preferirei tornare indietro a leggere il
volume precedente, forse più adatto alle mie corde (“Pillole matematiche”).
Perché, come dice nel prologo, queste sono le supposte matematiche, che magari
curano più a fondo, ma che hanno bisogno di molta più attenzione nella
somministrazione e nel decorso.
Come
vedete in alto, un libro che mi ha seguito per quasi metà del mese di marzo,
che quasi ad ogni pagina ci sono rimandi ad altro, ci sono punti complicati da
interpretare, nonché, a volte (e qui sta la maggior critica verso l’autore) si
dà per scontato che il lettore sappia non dico quanto venga scritto, ma almeno
i capisaldi linguistici delle affermazioni contenute. Ebbene, io pur non
essendo un matematico di alta levatura, a volte posso trovarmi in difficoltà
davanti alla funzione “z” di Riemann o alla fisica dei bosoni.
Per
questo, il giudizio complessivo del libro è variegato. Alto per le idee, alto
per le connessioni che propone, basso per la velocità con cui si affrontano
argomenti complessi che il lettore potrebbe non conoscere. Anche se mi rendo
conto che una trattazione completa e fruibile di tutti gli argomenti non
sarebbe più a piccole dosi, ma necessiterebbe più pagine di “Guerra e Pace”.
Inciso,
non a caso cito il romanzo di Tolstoj, su cui disserta Odifreddi, ricordandoci
l’esistenza di una prima versione più corta intitolata shakespearianamente
“Tutto è bene quel che finisce bene”, ma che, cosa più importante, fu riassunta
in un grande paginone contenente tutte le informazioni della campagna
napoleonica e che viene considerata “un capolavoro della rappresentazione
grafica dei dati fattuali”.
Odifreddi
entra ed esce da molte materie scientifiche, letterarie, storiche e
geografiche, perché è interessato (giustamente) ai percorsi mentali dei
matematici ed alla influenze che sui di essi sono esercitate dal tempo e dal
luoghi in cui hanno vissuto (o vivono). Ne esce fuori una sorta di storia della
creatività (scientifica) che parte da Omero passa per Pitagora arrivando a
Nabokov, Escher, Bertrand Russell o ancora più vicini e viventi (cito solo
Grigori Perel’man su cui tornerò).
Per
essere oggettivi e fattuali, il testo si divide in due parti (Oggetti e
Concetti), ognuna con sei capitoli (il primo con Interi, Poligoni, Solidi,
Curve, Superfici, Curiosità, il secondo con Numeri, Nozioni, Teorie, Teoremi,
Problemi, Soluzioni) ognuno a sua volta composto da dieci paragrafi. E di certo
non ci tiriamo indietro pensando che il numero dieci era caro ad uno dei più
interessanti letterati della matematica, George Perec. Il quale utilizzò un
cammino hamiltoniano per descrivere le avventure dei suoi dieci personaggi che
abitano un condominio di cento stanze distribuite su dieci piani. Viene
descritta ogni storia che avviene in ogni stanza passando dall’una all’altra
seguendo le mosse di un cavallo sulla scacchiera. Così si visitano tutte le stanze
una ed una sola volta.
I
voli matematico-letterari di Odifreddi ci portano alla consapevolezza che
spesso la matematica viene troppo individuata in maniera eurocentrica, quando
molti risultati vengono dal passato e da altre zone del mondo. O anche
storicamente misconosciute, come le conclusioni di Ipparco che lo portano,
osservando le maree a Gibilterra ed in India, ad ipotizzare l’esistenza di un
grande continente posto tra le due maree. La scoperta dell’America teorica
prima di quella fisica dei vichinghi o di Cristoforo Colombo.
Odifreddi
ci parla anche, a lungo di matematica pura, attraverso i suoi concetti
speculativi, quello di cui i matematici si occupano indipendentemente dalla
possibilità che vi siano o meno delle applicazioni pratiche. O delle idee che
esistono, vengono formulate ma non sono ancora state provate, come la sempre a
me cara congettura di Goldbach che afferma che ogni numero pari maggiore di 2 è
uguale alla somma di due numeri primi. Idea che, per la mia passione per i
primi mi ha sempre attirato ed affascinato.
Mi
piacerebbe poter scorrere con voi anche i nomi e le vite di matematici come i
tanti che cita il nostro (io vi invito solo a ripercorrere il percorso attuale
di un matematico russo contemporaneo Grigorij Jakovlevič Perel'man) o le
infinte connessioni tra matematica e letteratura, con Gadda, Calvino ed il
Perec già citato. Anche se mi dispiace l’autore non citi i “Cent Mille
Milliards de Poèmes” di Raymond Queneau.
Ma
andremo fuori dal seminato, rimarcando il denso ed interessante contenuto,
unito ad una scrittura di certo accattivante, ma che poteva dare più confidenza
a lettori interessati ma non così profondamenti dotti nella materia. Eppure, è
un libro che sono contento di aver ricevuto.
Noto
solo, in finale, il vezzo di Odifreddi di citare le date antiche con il segno
“-“ invece che con l’indicazione a.C. o d.C., di cui so il motivo ma non mi ha
mai convinto.
Direi
quindi che posso concludere questo scritto con le parole stesse di Odifreddi:
“Il che significa che è il mondo stesso a essere pazzo! E i matematici e i
fisici si limitano ad accorgersene.”
Haruki
Murakami “Ritratti in Jazz” Corriere – Murakami 21 euro 8,90
[A: 29/09/2020
– I: 07/05/2024 – T: 08/05/2024] - &&&&
[tit. or.: ポ-トレイト・イン・ジャズ 1 – 2 Pōtoreito
in jazu 1 – 2; ling. or.: giapponese;
pagine: 233;
anno 1997-2001]
Un'altra
bella prova di Haruki, anche se, come altre, la dovrò inserire tra le varie,
che poco entra in un filone critico della narrativa del grande giapponese.
Il
libro è certamente composito e dalle molteplici facce. Intanto, come vedete dal
titolo originale, si compone di due volumi, che lo scrittore scrisse una prima
parte di ritratti nel ’97 e gli altri nel 2001. Ho detto “scrisse ritratti”,
perché questo è in effetti il nodo centrale del libro, che nasce dalla
collaborazione tra Haruki ed il grafico e illustratore nonché regista
giapponese Wada Makoto, ora purtroppo scomparso.
Una
trentina di anni fa Wada, per una sua personale intitolato “Sing” produsse una
serie di ritratti di personaggi legati al mondo del jazz. Data la sua amicizia
con Haruki nacque spontanea l’idea di associare ad ogni ritratto qualche breve
nota. E qui interviene la grande passione di Haruki, che da sempre è un amante
del jazz, che possiede centinaia (o forse migliaia) di dischi in vinile di
tutti i più disparati jazzisti. Niente di più semplice che unire il tutto,
condito con un tocco personale dello scrittore che, per ogni ritratto, non solo
ci parla del musicista, ma lo accompagna con la citazione di uno dei dischi da
lui posseduti, e da qualche tocco che ci porta nell’intimità e nel vissuto di
Haruki.
La
bellezza di questa confezione sta proprio nell’unione dei tre elementi: la
riproduzione (a colori fortunatamente) dei ritratti di Wada, le indicazioni
discografiche di Haruki e i suoi brevi interventi in punta di penna. Dove,
anche in quei pochi autori che non sono sulla cima delle sue preferenze, riesce
a fornircene un quadro colorito ed accattivante.
Chi
sa di Murakami, sa che negli anni Settanta gestiva il Peter Cat, un piccolo
jazz bar, che rimarrà sempre nei suoi pensieri, insieme a quella musica di
sottofondo. Inoltre, da molte mie note, sappiamo che tutti i suoi libri hanno
colonne musicali. Da queste note ai ritratti abbiamo un quadro in più: Haruki
seduto in salotto, guardare i suoi vinili e scegliere quello o quelli da
mettere sul piatto, magari sorseggiando in whiskey giapponese. Non lo seguo sul
liquore, sul resto si, anche se il suo rifiutare i supporti digitali può creare
qualche difficoltà.
Aprendo
una digressione, ricordo ai meno addetti, che in Giappone il jazz è molto
seguito, a livello della stessa musica classica, anche se con il solito
atteggiamento giapponese un po’ di maniera. Haruki, da giapponese atipico,
stravolge il modo di approcciare la musica, mostra una competenza di rara
profondità, e scrive e descrive questo mondo scivolando spesso, e con gusto
nostro, nei suoi personali mondi narrativi.
Così
ci fa una carrellata di una nutrita schiera di musicisti di valore da Chet
Baker a Bix Beiderbecke, da Charlie Parker a Miles Davis, da Fats Waller a
Thelonious Monk, da Stan Getz a Gerry Mulligan, da Ella Fitzgerald a Louis
Armstrong. Tanto per citare alcuni dei cinquantacinque artisti in coppie di
significativi suoni. Fino, e qui vado nel personale, a rammentare e proporre
episodi e momenti personali di due artisti che adoro: Django Reinhard e Bill
Evans.
Alla
fine, unendo tutti i puntini musicali si ricompone una playlist che ci racconta
sia una visione personale del mondo jazz sia uno scorcio privato sul modo anche
di vita di Haruki.
Certo,
per i non appassionati del genere può essere un tour de force, che la
narrazione ci porta spesso a date, confronti, incroci che non sempre sono
facili da seguire. Ma per costoro suggerisco di guardare a lungo il ritratto di
ogni artista come uscito dalla mani di Wada, e poi leggere lo scritto,
focalizzandosi su quei punti dove emerge la pennellata dello scrittore, il suo
sedersi ad ascoltare, le immagini che la musica stessa evoca. Seguiamo la
musica andare su e giù, mentre le parole di Haruki ci spiegano ritornelli, a
solo, entrate ed uscite dal coro, grandi band e piccole formazioni, fino ai
solisti duri e puri.
Se
mi consento qualche esempio, mi vengono in mente un paio di pennellate di
Haruki. Parlando di Bix Beiderbecke ci descrive in poche parole il mondo della
cornetta del giovane, riflessivo e immemore di chi lo sta ascoltando. Oppure,
parlando del pianista Teddy Wilson, sottolinea come “a volte si dice che una
persona sa parlare, ma sa anche ascoltare; ecco, esattamente questo è Teddy
Wilson”.
Un
ultimo piacere è poi dato dal fatto che la lettura di queste piccole pagine può
essere fatta senza ordine o metodo. Aprite il bel libro (impreziosito da una
carta robusta per riprodurre i ritratti) e leggetene qualche riga. Poi fate
anche altro.
Unico
neo, mio personale, sottolineato nella chiusa del libro da Haruki, e
rivendicato come una sua precisa scelta, è la mancanza di due artisti che per
me coronano il mio modo di vedere e sentire il jazz: il sax di John Coltrane ma
soprattutto il pianoforte di Keith Jarrett.
Ma
queste sarebbe le mie scelte, quindi rispettiamo quelle di Haruki, e diamo
anche un pensiero alla memoria di Wada, venuto a mancare cinque anni fa.
PS:
in allegato, per i più interessati, propongo la lista dei ritratti presenti,
con l’indicazione dell’album che, secondo l’autore, meglio li rappresenta.
“Leggere
un libro … significa proprio assorbire l’atmosfera di un mondo inesistente come
se fosse reale.” (86)
Lou
Marinoff “Platone è meglio del Prozac” Repubblica Filosofia Viva 1 euro 9,90
[A: 21/02/2020–
I: 20/09/2024 – T: 23/09/2024] - &&&
---
[tit.
or.: Plato, not Prozac!; ling. or.: inglese; pagine: 426;
anno 1999]
Venticinque
anni fa, quando uscì il libro, rimasi colpito dal titolo, che mi sembrava
interessante. Ma all’epoca non era una lettura nelle mie corde. Corde che in
seguito, passando nella centrifuga della mia amica-maestra Luisa, ho
dimenticato, rimosso e portato altrove. Ora lo ritrovo nella coda delle letture
dedicate alla filosofia in una collana che ormai ha quasi cinque anni di vita.
Devo
dire che ho fatto bene ad aspettare, che ora, conoscendo meglio anche il mondo
degli aiuti, nonché la psicologia e la filosofia, posso serenamente affermare
che è un libro da leggere … per prenderne le distanze. Ecco perché ne ho dato
la sufficienza, abbastanza piena. È utile leggerlo, ma forse per motivi diversi
da quello per cui è stato scritto.
Marinoff
si definisce consulente filosofico, e su questa pretesa professione imposta
tutto il libro, in particolare andando a scontrarsi contro i muri di psicologia
e psichiatria. Scontro improbo, invero, che il nostro porta avanti sostenendo
che andare alla ricerca sistematica delle radici dei problemi porta via molto
tempo al paziente. Inoltre, seguendo la consuetudine americana, queste “cure”
sono spesso sostenute da farmaci (anzi, psico-farmaci) portando il paziente
soltanto verso altre dipendenze.
Il
pensiero di Marinoff si sostanzia quindi in un approccio teso alla soluzione
del problema di chi lo interpella, usando il suo sistema di riferimento, che
individua con il termine PEACE, acronimo che sta per Problema, Emozioni,
Analisi, Contemplazione, Equilibro. Banalizzando, cioè, individuazione del
problema, espressione delle emozioni che ci suscita, analisi delle possibili
vie risolutorie, bilancio delle varie alternative verso la contemplazione di
quella che ci sembra la più adatta, pratica di questa decisione di modo da
raggiungere l’equilibrio.
Ora,
anche Marinoff sostiene che i primi due passi la persona problematizzata riesce
a farli autonomamente. Il terzo scaturisce dal dialogo con l’altro, dialogo che
se ben condotto porta alla quarta fase, nonché, in finale al raggiungimento
dell’equilibrio. Quello che poco si capisce è perché devo pagare qualcuno per
fare questo percorso, qual è il valore aggiunto di tutto ciò.
Marinoff
dice che il valore è dato dagli agganci filosofici che lui come terapista
filosofico inserisce nel discorso di stampo socratico con la persona
problematica. A me sembra che, anche se non conosco l’aggancio filosofico del
mio ragionamento, se la mia riflessione è seria e serena, posso procedere nella
vita senza troppi intoppi.
Quindi,
alla fin fine, il discorso di Marinoff è puramente un discorso di marketing:
vuole vendere il suo approccio e la sua consulenza, quindi ne parla e ne
descrive, cercando di fare tabula rasa del resto del mondo. E da buon venditore
infarcisce le sue parole con tanti esempi vittoriosi di quanto viene affermando
nel suo libro. Come se, sempre e comunque, usando Socrate ed i suoi derivati,
la soluzione della nostra vita è a portata di mano.
Per
questo, ho dato ampio spazio alla votazione, perché pur non condividendo il
pensiero di Marinoff, è un esempio da seguire con attenzione, in generale per
fare cose diverse. Tanto per dire la prima che mi viene in mente, l’approccio
di Marinoff mi sembra un modo di gonfiare un semplice modo di procedere, che a
me viene in mente dopo aver letto i libri di Giorgio Nardone e Paul Watzlawick,
utilizzando le Terapie strategiche. Cioè una modalità piscologica di affrontare
il problema del paziente partendo non dal passato, ma dal qui ed ora (grazie
ancora ad Alexander Lowen) e costruire così la soluzione al problema
principale. Se ne sorgono altri, si affrontano uno alla volta, cercando di
superarli.
Detto
poi che non si può che concordare su alcune affermazioni di principio, del tipo
che la filosofia aiuta l’esistenza o che leggere è importante (ditelo a me),
veniamo a tutti i meno che il libro si porta appresso.
Il
primo è secondo me lo sforzo troppo evidente ed immotivato di screditare la
psicologia. Posso capire l’abuso di farmaci, ma ci sono situazioni (e non
poche) dove la presenza di uno psicologo è di capitale importanza.
Il
resto dei dubbi deriva da un approccio direi poco scientifico alla materia.
Intendendo con scientifico non tanto un metodo in sé, ma il rispetto verso la
materia stessa. Non sono io un filosofo, ma alcuni svarioni li ho notati anche
io. Come inserire Platone tra i personaggi che parlano nel suo bellissimo “La
Repubblica”, dove ovviamente il centro è Socrate, ma proprio su Socrate si
fanno altri scivoloni. Che non solo Platone ne parla (secondo Marinoff sarebbe
il solo), ma anche, ad esempio Diogene Laerzio o Senofonte (un ringraziamento
alla mia insegnante di filosofia al liceo ed un saluto a mia cugina Giovanna).
Senza fare altri ringraziamenti, credo che pochi siano convinti che Kant sia un
razionalista. Ancor di più si palesa un’ignoranza della storia dell’umanità,
quando Marinoff afferma che i filosofi del diciassettesimo secolo hanno segnato
la fine del Medioevo, scordando bellamente tutto il Rinascimento italiano ed il
suo sviluppo tra il Quattrocento ed il Cinquecento.
Infine,
e qui termino le critiche che comprendo, quando cita Giovanni Paolo II penso
che non abbia capito una parola del suo “Fides e ratio” o, peggio, non lo abbia
letto. Solo una mente votata a volgere i fatti per rendere valide le proprie
affermazioni può pensare che in quello scritto il Papa abbia voluto inglobare
buddismo e confucianesimo nella religione cristiana.
E
qui mi fermo.
Spero
che i pochi libri di questa collana portino meglio il loro aspetto filosofico.
Questo è un libro di marketing (ottimo nella sua votazione) rivestito di una
patina filosofica errata (pessima questa parte).
Due
ultimi accenni. Il primo riguarda al solito la traduzione del titolo, dove
Marinoff non diceva che Platone è meglio del Prozac, ma solo di usare Platone
al posto del Prozac per applicare la filosofia ai problemi quotidiani (come
dice il sottotitolo inglese). Infine, da amante della musica, so bene che la
“Hit Parade” è una classifica di qualcosa (musica in generale) che ne
stabilisce un gradimento personale. Chiamare così la prima appendice del libro,
dove invece i filosofi appaiono in ordine alfabetico mi sembra un ulteriore,
poco convincente, tentativo di marketing.
“L’azione
migliore è quella che lascia senza sensi di colpa e senza rimpianti.” (69)
“Giovanni
Paolo II: a volte … [si preferisce] un rapido successo alla fatica di una
paziente indagine volta a individuare che cosa rende la vita degna di essere
vissuta.” (89)
“Se
è facile immaginare una situazione in cui può esserti vantaggioso mentire, non
vorresti che chiunque mentisse, perciò non farlo.” (97)
“Smettila
di cercare e troverai. E se non trovi, non te la prendere, perché non stai
cercando.” (122)
“Khalil
Gibran: i vostri figli non sono vostri … non appartengono a voi. Potete dar
loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri perché hanno pensieri propri …
Potete aspirare ad essere simili a loro, non però farli simili a voi.” (192)
“Confucio:
ciò che non vuoi che sia fatto a te, non farlo ad altri.” (260)
“[Bisogna]
riconoscere la morte quale parte integrante della vita” (322)
“Non
è necessario che tu sia sulla soglia della morte per renderti conto che la tua
vita è una sequenza di eventi e che, sebbene la sequenza possa comportare un
evento finale, il tutto non viene cancellato da quell’evento.” (338)
Pierre
Lemaitre “Dizionario amoroso del giallo” Mondadori euro 18 (in realtà, scontato
a 17,10 euro)
[A: 28/08/2024 – I: 01/09/2024 – T: 16/10/2024]
- &&&& e ½
[tit. or.: Dictionnaire
amoureux du polar; ling. or.: francese; pagine: 741; anno 2020]
Pierre Lemaitre è uno scrittore francese di
cui ho letto un paio di libri che non mi hanno particolarmente entusiasmato.
Ma, visto questo dizionario, ho pensato, e con ragione, che potesse essere una
lettura gradevole, e magari stimolante. Devo dire che, pur nella sua evidente
lunghezza (l’ho letto con lentezza per cui, alla fine, ho impiegato un mese e
mezzo per terminarlo) è stata una buona lettura, e Lemaitre si è dimostrato un
gradevole anfitrione del suo mondo di “polar” (scusate se uso il termine francese
che è più aderente dell’anodino italiano; visto che in effetti è una crasi di
“policier” e “noir”).
Ho detto non a caso “suo mondo”, che, come
dice il titolo e come racconta lui stesso nella prefazione, “amoroso” sta per
tutto quello che rimane nel cuore dell’autore. Molto c’è, ma anche qualcosa
manca. Ad esempio, uno dei miei autori cult, Michael Connelly, o un autore di
cui ho amato i primi libri, come Jo Nesbø, mentre sono stato gratificato
dall’inclusione di un autore che adoro come Colin Dexter. Ma Lemaitre,
riprendendo la lezione dei “Frammenti” di Barthes ci ammonisce: è un innamorato
che parla.
Un innamorato che, comunque, apre spazi
enormi. Di discussione, ovvio, che è ragionevole non essere sempre e comunque
d’accordo con le sue analisi ed i suoi giudizi. Ma anche uno spazio di
riflessione su come si avvicina agli autori, ai generi, ai libri. Su come ne
parla in poche righe, dandocene comunque il (suo) senso, il motivo per cui gli
è venuto in mente in quel momento. Su come si possa collegare ad altro, laddove
Lemaitre riesce sempre a suscitare pensieri “cross”, che vanno da Victor Hugo a
Jean-Patrick Manchette, da Feuerbach a Manuel Vazquez Montalban. Per poi
coinvolgerci in riflessioni che coinvolgono Wittgenstein ed Hitchcock, dalla
logica della vita di ognuno alla percezione della realtà. A questo proposito,
il grande cineasta sosteneva (e spero siano contenti i miei cugini cinefili)
“Una storia può essere inverosimile ma non deve mai essere banale”.
Ora, fin dalle prime voci, ci sono alcune
costanti del pensiero e dell’amore di Lemaitre: innanzi tutto il noir francese
e l’hard boiled americano. Dato inoltre che i francesi, come ovvio, la fanno da
leoni, all’interno dei vari scrittori, il nostro non nasconde il suo amore per Jean-Patrick
Manchette, Didier Daeninckx e Serge Quadruppani, che non nascondono il lato
impegnato della loro scrittura. Sui primi due, sono in sintonia. Quadruppani
non lo conosco.
È altrettanto ovvio che, se c’è amore c’è
anche odio (benché sia una parola forte, direi piuttosto insofferenza), che si
manifesta principalmente per il giallo nordico (dove devo dire che a volte
concordo anche per la valanga di proposte che vengono da Scandinavia e affini,
a valle dei successi commerciali di Stieg Larsson, da apprezzare, e di Camilla Läckberg,
parliamone), anche se poi non può non spezzare una lancia in favore dei dieci
romanzi di Sjöwall e Per Wahlöö.
Altrettanto scettico si mostra per il giallo
classico, anche se non può non riconoscere la validità quanto meno fondante
degli scritti di Agatha Christie e suoi successori. Per alcuni autori, poi, è
particolarmente cattivo. Non apprezzo la deriva psicologica di Ruth Rendell né
la scrittura di Harlan Coben perché nella sua scrittura “è inutile cercare un
senso, perché non c’è mai”.
Da buon lettore italiano, ho certo notato che
i nostri autori hanno una rappresentanza significativa solo qualitativamente,
dove compaiono Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Marcello Fois, Fruttero
& Lucentini, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Umberto Eco e Giorgio
Scerbanenco. Mi rendo conto che io ho una lista molto più lunga, ma Lemaitre si
basa, ovvio, sugli scrittori tradotti in francese (per gli anglosassoni credo
che ne legga anche in originale).
Infine, un altro punto che mi trova in forte
sintonia, è quello del giallo con connotazioni sociali, come la bellissima
trilogia di Jean-Claude Izzo ed alcuni scritti di Massimo Carlotto. Sono meno
attratto dalle storie per me forti (droga e pedofilia in testa), ma ne apprezzo
laddove la scrittura ne sorregge l’impianto. Purtroppo, è una mia carenza,
mentre sul cinema sono in sintonia, non trovo interesse alle serie televisive
(come le ben sei pagine dedicate a “The Wire”).
È altrettanto ovvio che, stimolato da questa
lettura, abbia cercato tra le parole di Lemaitre ed i miei ricordi di lettura
di tutti questi anni, qualche caposaldo da poter condividere con voi. Non tanto
con l’origine di questa letteratura (tutti concordano che l'origine ufficiale
del genere vada collocata nel 1841 con “I delitti della Rue Morgue” di Edgar
Allan Poe), quanto per una suddivisione della letteratura in sottoprodotti dove
ognuno si muoverà verso quello che più sente.
Allora abbiamo il giallo poliziesco, che
include tutte le storie d'indagine con un antefatto delittuoso e con
un'attività di ricerca per scoprirne l'autore, una platea talmente ampia che
non riesco a citare autori isolati. Come anche nel caso di quello che viene
definito giallo classico, quello alla cui base c’è la domanda "chi l'ha
fatto?", "chi è stato?". Qui abbiamo quasi sempre un
investigatore, spesso privato o dilettante, che indaga su un delitto e scopre
il colpevole in base a indizi più o meno nascosti e fuorvianti. Un nome che
salta agli occhi, Rex Stout.
Per omaggio a Lemaitre, bisogna citare l’Hard
boiled, dove il crimine viene combattuto da un detective privato con metodi
spesso non meno violenti o più corretti di quelli usati dal delinquente.
Ricordiamone allora gli esponenti che mi rimangono in testa, come James Hadley
Chase, Dashiell Hammett, James M. Cain (il mitico “Postino…”) e Raymond
Chandler. Sul versante opposto troviamo invece il Police procedural, dove le
indagini su un caso sono affidate all'opera di una squadra di investigatori
istituzionali appartenenti alla polizia, con un esponente su tutti: Ed McBain.
La giravolta tra ordine e criminalità, a
volte viene rappresentata con il termine “Noir”, tout court, che rappresenta
l'altra faccia della storia di un crimine, quella vista dalla parte del
criminale o dalla parte di chi vi è coinvolto senza volerlo. Con le sue
varianti localizzate. Il giallo sociale, come già detto, con Jean-Claude Izzo o
Massimo Carlotto. Ma anche il giallo concentrato in una città, il Noir
metropolitano. Dove la città con la sua violenza, la sua criminalità e tutto
ciò che comporta diventano i protagonisti. Ed ecco che abbiamo, ad esempio, Ed
McBain per New York, James Ellroy per Los Angeles, Jean-Claude Izzo per
Marsiglia, Paolo Roversi per Milano. O ancora il “noir mediterraneo” fondato
sempre dall’ottimo Izzo, e che in Italia ha esponenti di valore come Sandrone
Dazieri, Bruno Morchio, Gianrico Carofiglio, Valerio Varesi, Gianni Biondillo,
Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli.
Vedremo bene in questa lista il giallo
psicologico, dove l'autore si concentra, sulla figura del protagonista, spesso
eroe negativo, e sui rapporti tra i vari personaggi. E noi pensiamo subito a
Patricia Highsmith. O anche il Giallo storico che colloca nel passato la
vicenda narrata, spesso inventandosi un personaggio famoso come detective
dilettante (penso a Dante o Aristotele). Per questa categoria ricordo allora
autori come Ellis Peters, Anne Perry, Margaret Doody, Danila Comastri Montanari
e Giulio Leoni. In particolare, poi, c’è un sotto-sotto filone che si dedica alla
prima metà del Ventesimo secolo (la Trilogia berlinese di Philip Kerr,
l’ispettore De Luca di Carlo Lucarelli o Martin Bora di Ben Pastor).
Infine, l’ampia sezione dedicata al thriller,
dove il lettore assiste direttamente alla preparazione e all'esecuzione del
crimine, subendo un forte coinvolgimento emotivo in un clima di crescente
tensione. Con le sue principali sottosezioni, il thriller legale, dove seguiamo
i processi giudiziari relativi a un certo crimine e con autori come Erle
Stanley Gardner, Scott Turow, John Grisham o in Italia con Gianrico Carofiglio
e Gianni Simoni. Oppure il thriller medico, dove diventa centrale l’operazione
del medico legale e dalla polizia scientifica, esemplificata da autori come Patricia
Cornwell e Kathy Reichs.
Una volta aperto l’armadio del giallo è
difficile fermarsi, e soprattutto è difficile tornare a Lemaitre. Ma noi siamo
buoni, ed oltre alla citazione, sempre valida che riporto, devo riconoscere che
questa lettura è stata utile, coinvolgente con una grande pecca: mi ha convinto
ad allungare di molto la lista dei libri da comprare.
“La letteratura è una chiave per decifrare la
realtà.” (191)
Italo
Calvino “Un ottimista in America (1959-1960)” Repubblica Calvino 22 euro 9,90
[A: 16/03/2021
– I: 28/11/2024 – T: 30/11/2024] - &&&&
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 223+XXXIX; anno 2014]
Nell’ambito
delle mie letture dell’opera di Calvino, pur rimanendo in ambito cronologico,
ho preferito privilegiare questo scritto che, pur essendo uscito come inedito
in volume solo nel 2014, raccoglie gli scritti degli appunti che lo scrittore
redasse durante una lunga visita negli Stati Uniti, dal novembre 1959 al maggio
1960. Il viaggio era stato organizzato grazie ad un finanziamento della Ford
Foundation, con lo scopo principale di incontrare personaggi e strutture
culturali americane.
Calvino
è un romanziere, è un intellettuale immerso nella cultura italiana dal
dopoguerra in poi, ma è anche un viaggiatore. Nasce a Cuba, vive in Liguria,
poi si sposta tra Torino e Roma, e sempre viaggia, dall’Unione Sovietica a
Cuba, da Parigi all’America. Sempre con il suo occhio pronto a cogliere il
cuore di quello che vede. Anche perché, per sua caratteristica e scelta, spesso
viaggia da solo, o si isola, per vedere la gente che vive nei luoghi dove la
vita lo sta facendo spostare.
Tutto
ciò, si ripropone in questo testo, che nel ’60, dopo averlo redatto, letto,
modificato, e riletto, giudica troppo debole, senza un vero filo conduttore. O
quanto meno, senza delle idee che per il Calvino del tempo dovevano uscire
dagli scritti. Ed è un peccato. Non solo perché di idee ce ne sono tante ed
interessanti. Ma anche perché una serie di schizzi, di descrizioni, di momenti
sono ancora attuali, ed avrebbero avuto un peso interessante se già discussi al
tempo della scrittura.
Da
viaggiatore, fa anche alcune scelte sugli spostamenti. Decide di arrivare a New
York in nave, si sposta in America da una costa all’altra in aereo, fa dei
tratti in macchina, e torna sulla costa atlantica usando i Greyhound. Un modo
di assaporare le diverse facce degli States, che nelle sue descrizioni
risultano poi vivide, realistiche, partecipate, mai asettiche.
Sulle
città, ad esempio, ha delle immagini folgoranti. New York la città che ha un
ritmo, elettrica, che ti dà una scossa. Chicago come immagine della “vera”
essenza americana: produttiva e brutale, contraddittoria tra i sobborghi di
ville agiate, il centro industriale, le zone degradate. E per citare solo
quello che più mi ha colpito, la delicata descrizione della città secondo
Calvino più bella di tutte: Savannah in Georgia (se non la conoscete cercate le
foto in rete).
Ma
il suo girovagare lo porta là dove c’è quella che definiamo “l’altra America”,
ma che, forse, “è” l’America. Quella povera del New Mexico, quella
segregazionista in Georgia e in Alabama, quella delle prostitute e dei trans di
New Orleans, quella dei ghetti delle grandi città.
Calvino
gira incontra e parla con tutti, dagli imprenditori ai clienti dei bar del
“French Quarter” di New Orleans (come facevo io, senza però gli imprenditori),
coglie i particolari più rilevanti, e ci restituisce parole da meditare su
molte tematiche, attuali allora ed ora. L’America dei sogni, l’America delle
contraddizioni, l’America anticomunista, l’America politica, l’America delle
classi sociali, quella delle migrazioni e dei quartieri ghetto.
Vediamo
descritto il sogno Americano, quell’ideale di libertà e opportunità che aveva
attratto ed in un certo senso attrae milioni di persone a tentare la loro
strada nel mondo americano. Questo delle libertà, delle possibilità è comunque
un discorso che si intreccia grandemente sul concetto di diversità, concetto
fondante della società locale, composta da persone di culture e provenienze
diverse, ma che nella mente americana fa fatica ad avere il suo posto. Calvino
lo esemplifica con le ragazze con cui cerca un dialogo i primi mesi a New York.
Un dialogo che sembra difficile, insormontabile, per poi scoprire che in realtà
sono quasi tutte oriunde dell’Europa dell’Est.
Analizzando,
quindi, gli aspetti variegati della società americana, le sue parole ci portano
a riflettere sull’identità che loro si costruiscono, e su quella che ci siamo
costruiti noi nel tempo. Nel tempo passato a Montgomery (dove incontra anche
Martin Luther King), non può che riflettere sul razzismo, sulle sue forme
estreme come si stavano presentando in quegli anni. Con un epitaffio in cui
dice che certo ci sono (lì e qui) il razzismo, l’intolleranza religiosa, le
minoranze nazionali alle frontiere. Ma sono problemi che non dovrebbero esser
più problemi. Peccato che lo sono ancora dopo più di sessanta anni da allora.
C’è
una considerazione che mi aveva colpito la prima volta che andai a New York, e
che Calvino riesce ad esprimere bene. La “way of life” americana fatta di
efficienza lavorativa e di modi per godersi la vita mi sembrava un modo di
vivere praticabile. D’altra parte l’altra faccia per ottenerlo (solitudine,
lotta a coltello con gli altri) mi rendeva (e Calvino con me) ambivalente nel
giudicarla.
Visto
che Calvino girava l’America nel 1960, l’anno delle elezioni che portarono
Kennedy alla Casa Bianca, non può che parlare proprio di quelle e delle
discussioni che nascevano. Ne riporto in coda il brano centrale, che mi ha
spaventato per la sua attualità.
Calvino,
con la sua responsabile analisi del presente, ci regala, con queste, ma anche
con altre descrizioni che vi invito a leggere, una fotografia di un mondo
assolutamente presente e reale.
“Una
certa aliquota di deficienti c’è sempre stata in tutte le classi dirigenti.”
(62)
“Uno
dei presenti … spiegava perché teneva per un determinato candidato … Diceva
che, nei momenti difficili che attendevano gli Stati Uniti, quello era l’uomo
che ci voleva, perché era un tough guy, un duro, un tipo ruthless (spietato), uno
che non fa tanti complimenti. Provai a obiettare che i momenti difficili
vengono quando non ci si rende conto di quali siano i problemi dei paesi del
mondo e, allo studio e all’impegno per risolvere quei problemi, si antepongono
la politica della forza e l’appoggio a regimi screditati e polizieschi: era
tempo di persone sagge e riflessive … non da tipi tough. Non mi capiva; sì,
tutte belle cose, diceva, ma innanzitutto bisogna mostrare che siamo i più
forti, che teniamo testa, che non diamo segni di debolezza” (163)
Parlavamo
di saggi? Eccovi allora alcune belle frasi riprese da “Due” di Irène Némirovsky.
“Quanta
maturità ci vuole per scoprire aspetti umani nei nostri genitori.” (123) [e
forse solo che dopo che ci hanno lasciato ne riusciamo a capire]
“Tra
i venticinque e i quaranta anni ogni uomo modella il proprio monumento.” (129)
“La
felicità coniugale non somiglia alla felicità più di quanto l’amore coniugale
non somigli all’amore.” (191) [qui aprirei un dibattito]
“Il
giovane predilige la realtà; l’uomo maturo, la subisce, e il vecchio, più
saggio, la evita.” (213) [noi la si deve ancora capire…]
Ancora 23 giorni di questo inutile, insopportabile anno. Ma già all’orizzonte si profilano nuove sfide che ci fanno ipotizzare in un anno quadrato che di più non si può (d’altra parte ho letto Odifreddi, e non vi svelo il senso di tutto ciò, ma spero me lo rivelate voi…). Quindi più caldi si fanno i miei abbracci, che vedono possibili aerei in lontananza.
Elenco degli album
consigliati da Haruki Murakami in “Ritratti in Jazz”.
Musicista |
Strumento |
Album
consigliato |
Anno |
Tromba |
Un ritratto di Louis Armstrong |
1928 |
|
Bix Beiderbecke |
Tromba |
Bix Beiderbecke
1927-1929 |
1929 |
Hoagy Carmichael |
Pianoforte |
V-Disc Cats
Party/Vol.1 con Hoagy Carmichael |
1930 |
Charlie Parker |
Sassofono |
Charlie Parker/
Dizzy Gillespie – Bird e Diz |
1952 |
Chet Baker |
Tromba |
Chet Baker Quartet |
1953 |
Benny Goodman |
Clarinetto |
Benny Goodman
presents Eddie Sauter Arrangements |
1953 |
Cab Calloway |
Voce |
Chu Berry and His Stompy
Stevedores with the Cab Calloway Orchestra |
1955 |
Modern Jazz Quartet |
- |
Concorde |
1955 |
Teddy Wilson |
Pianoforte |
Sig. Wilson (Il favoloso Teddy Wilson al
pianoforte) |
1955 |
Clifford Brown |
Tromba |
Clifford Brown e
Max Roach – Studia in Brown |
1955 |
June Christy |
Voce |
June Christy e Stan Kenton - Duetto |
1955 |
Eddie Condon |
Chitarra |
Bixieland |
1955 |
Jackie e Roy |
Voce |
Storyville presenta Jackie e Roy |
1955 |
Frank Sinatra |
Voce |
Oscilla facile! E canzoni per giovani
amanti |
1955 |
Charles Mingus |
Contrabbasso |
Pithecantropus
Erectus |
1956 |
Jack Teagarden |
Trombone |
Bobby Hackett -
Concerto sulla costa |
1956 |
Duke Ellington |
Pianoforte |
Duke Ellington e la sua orchestra - In un
mellotone |
1956 |
Count Basie |
Pianoforte |
Count Basie
Orchestra – Basie a Londra |
1956 |
Nat King Cole |
Pianoforte |
Nat 'King' Cole e il suo trio - After
Midnight |
1956 |
Dizzy Gillespie |
Tromba |
A Newport |
1956 |
Lester Young |
Sassofono |
Lester Young-Teddy
Wilson Quartet – Presidente e Teddy |
1956 |
Gil Evans |
Pianoforte |
Helen Merrill con Gill Evans Sogno di te |
1956 |
Fats Waller |
Pianoforte |
Herb Geller Fire in
the West |
1957 |
Ella Fitzgerald |
Voce |
Ella Fitzgerald e
Louis Armstrong - Ella e Louis Again (Vol. 2) |
1957 |
Oscar Peterson |
Pianoforte |
Jazz Alla Filarmonica - Jazz Alla
Filarmonica di Norman Granz vol. 16 |
1957 |
Art Pepper |
Sassofono |
Incontra la sezione
ritmica |
1957 |
Anita O'Day |
Voce |
Dal signor Kelly |
1958 |
Jimmy Rushing |
Voce |
Il piccolo Jimmy Rushing e i grandi ottoni |
1958 |
Gene Krupa |
Batteria |
Gene Krupa suona gli arrangiamenti di Gerry
Mulligan |
1958 |
Gerry Mulligan |
Sassofono |
Gerry Mulligan Quartet - Cosa c'è da dire? |
1959 |
Thelonious Monk |
Pianoforte |
Thelonious Monk Quintetto – 5 di Monk By 5 |
1959 |
Eric Dolphy |
Sassofono |
Là fuori |
1960 |
Ray Brown |
Contrabbasso |
Barney Kessel, Shelly Manne e Ray Brown: i
tre vincitori del sondaggio! |
1960 |
Shelley Mann |
Batteria |
Shelly Manne e i suoi uomini - Al Black
Hawk vol. 1 |
1960 |
Bobby Timmons |
Pianoforte |
Art Blakey &
The Jazz Messengers – Notte in Tunisia |
1960 |
Bill Evans |
Pianoforte |
Bill Evans Trio -
Valzer per Debby |
1961 |
Art Blakey |
Batteria |
Jazz Messengers di Art
Blakey - Les Liaisons Dangereuses |
1962 |
Billie Holiday |
Voce |
Billie Holiday The
Golden Years |
1962 |
Sonny Rollins |
Sassofono |
Il ponte |
1962 |
Glenn Miller |
Trombone |
Musica resa famosa da Glenn Miller: album
del Giubileo d'argento |
1962 |
Wes Montgomery |
Chitarra |
Tutto esaurito |
1962 |
Lee Morgan |
Tromba |
Il Sidewinder |
1963 |
Horace Silver |
Pianoforte |
Horace Silver Quintet - Canzone per mio
padre |
1964 |
Lionel Hampton |
Vibrafono |
Faresti meglio a
saperlo!!! |
1964 |
Julian Cannonball
Adderley |
Sassofono |
Cannonball Adderley
- Dal vivo! |
1965 |
Django Reinhard |
Chitarra |
Djanologia |
1965 |
Ornette Coleman |
Sassofono |
Concerto al
Municipio 1962 |
1965 |
Hancock Herbie |
Pianoforte |
Viaggio inaugurale |
1965 |
Tony Bennet |
Voce |
Ralph Sharon Trio, The - Musica per le ore
tarde: il libro delle canzoni di Tony Bennett |
1965 |
Miles Davis |
Tromba |
"Four" & More - Registrato
dal vivo in concerto |
1966 |
Mel Tormé |
Voce |
Mel Tormé con Billy
May - Olé Tormé |
1966 |
Herbie Mann |
Flauto |
Finestre aperte |
1968 |
Stan Getz |
Sassofono |
Stan Getz - A
Storyville |
1969 |
Charlie Christian |
Chitarra |
Album commemorativo di Charlie Christian |
1977 |
Dexter Gordon |
Sassofono |
Ritorno a casa - Dal vivo al Village
Vanguard |
1977 |
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