domenica 8 dicembre 2024

Natale non solo regali - 08 dicembre 2024

Perché anche a Natale si deve pensare, e quindi, con un po’ di anticipo, vi somministro una massiccia dose di non romanzi: niente fiction, niente gialli, ma saggi, anche se di diverse nature e tipologie.

Per ovvie simpatie rispetto al testo, in prima posizione, con un gradimento che sfiora il massimo assoluto, c’è il dizionario del giallo di Pierre Lemaitre. Subito sotto, ma di poco, un altro classico personale, un libro sul jazz di Haruki Murakami, insieme ad un autore che sta sempre nel mio pantheon preferito: Italo Calvino (con uno scritto sull’America redatto nel 1959 ma che contiene frasi di un’attualità impressionante).

In coda due diverse delusioni. Mi aspettavo di più dal classico filosofico-psicologico di Lou Marinoff su Prozac e Platone. E molto di più da Odifreddi, in un saggio forse a volte troppo specifico per essere goduto da più ampio pubblico.

Piergiorgio Odifreddi “A piccole dosi. Contro la crisi di astinenza dalla matematica” Raffaello Cortina editore s.p. (Regalo di Benedetta)

[A: 25/12/2023 – I: 14/03/2024 – T: 30/03/2024] &&  ----   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 357; anno: 2023]

Personalmente ho sempre avuto un sentimento ambivalente nei confronti di Odifreddi. È di sicuro un potente conoscitore delle materie a me care (matematica, logica) ma anche quelle cui meno sono interessato (geometria, fisica). Come tutti i profondi sapienti, è anche generoso nello spargere cognizioni ed informazioni, contrariamente a molti spiriti scientifici che spesso sono avari di condivisione. D’altra parte, lo trovo anche un po’ troppo tuttologicamente sapiente, mentre io sosterrei con forza la tesi, parafrasando Wittgenstein,  che “quello di cui non si può sapere, è meglio tacere”.

È quindi con interesse che ho affrontato questa sua nuova prova divulgativa, anche se, a lettura fatta, forse preferirei tornare indietro a leggere il volume precedente, forse più adatto alle mie corde (“Pillole matematiche”). Perché, come dice nel prologo, queste sono le supposte matematiche, che magari curano più a fondo, ma che hanno bisogno di molta più attenzione nella somministrazione e nel decorso.

Come vedete in alto, un libro che mi ha seguito per quasi metà del mese di marzo, che quasi ad ogni pagina ci sono rimandi ad altro, ci sono punti complicati da interpretare, nonché, a volte (e qui sta la maggior critica verso l’autore) si dà per scontato che il lettore sappia non dico quanto venga scritto, ma almeno i capisaldi linguistici delle affermazioni contenute. Ebbene, io pur non essendo un matematico di alta levatura, a volte posso trovarmi in difficoltà davanti alla funzione “z” di Riemann o alla fisica dei bosoni.

Per questo, il giudizio complessivo del libro è variegato. Alto per le idee, alto per le connessioni che propone, basso per la velocità con cui si affrontano argomenti complessi che il lettore potrebbe non conoscere. Anche se mi rendo conto che una trattazione completa e fruibile di tutti gli argomenti non sarebbe più a piccole dosi, ma necessiterebbe più pagine di “Guerra e Pace”.

Inciso, non a caso cito il romanzo di Tolstoj, su cui disserta Odifreddi, ricordandoci l’esistenza di una prima versione più corta intitolata shakespearianamente “Tutto è bene quel che finisce bene”, ma che, cosa più importante, fu riassunta in un grande paginone contenente tutte le informazioni della campagna napoleonica e che viene considerata “un capolavoro della rappresentazione grafica dei dati fattuali”.

Odifreddi entra ed esce da molte materie scientifiche, letterarie, storiche e geografiche, perché è interessato (giustamente) ai percorsi mentali dei matematici ed alla influenze che sui di essi sono esercitate dal tempo e dal luoghi in cui hanno vissuto (o vivono). Ne esce fuori una sorta di storia della creatività (scientifica) che parte da Omero passa per Pitagora arrivando a Nabokov, Escher, Bertrand Russell o ancora più vicini e viventi (cito solo Grigori Perel’man su cui tornerò).

Per essere oggettivi e fattuali, il testo si divide in due parti (Oggetti e Concetti), ognuna con sei capitoli (il primo con Interi, Poligoni, Solidi, Curve, Superfici, Curiosità, il secondo con Numeri, Nozioni, Teorie, Teoremi, Problemi, Soluzioni) ognuno a sua volta composto da dieci paragrafi. E di certo non ci tiriamo indietro pensando che il numero dieci era caro ad uno dei più interessanti letterati della matematica, George Perec. Il quale utilizzò un cammino hamiltoniano per descrivere le avventure dei suoi dieci personaggi che abitano un condominio di cento stanze distribuite su dieci piani. Viene descritta ogni storia che avviene in ogni stanza passando dall’una all’altra seguendo le mosse di un cavallo sulla scacchiera. Così si visitano tutte le stanze una ed una sola volta.

I voli matematico-letterari di Odifreddi ci portano alla consapevolezza che spesso la matematica viene troppo individuata in maniera eurocentrica, quando molti risultati vengono dal passato e da altre zone del mondo. O anche storicamente misconosciute, come le conclusioni di Ipparco che lo portano, osservando le maree a Gibilterra ed in India, ad ipotizzare l’esistenza di un grande continente posto tra le due maree. La scoperta dell’America teorica prima di quella fisica dei vichinghi o di Cristoforo Colombo.

Odifreddi ci parla anche, a lungo di matematica pura, attraverso i suoi concetti speculativi, quello di cui i matematici si occupano indipendentemente dalla possibilità che vi siano o meno delle applicazioni pratiche. O delle idee che esistono, vengono formulate ma non sono ancora state provate, come la sempre a me cara congettura di Goldbach che afferma che ogni numero pari maggiore di 2 è uguale alla somma di due numeri primi. Idea che, per la mia passione per i primi mi ha sempre attirato ed affascinato.

Mi piacerebbe poter scorrere con voi anche i nomi e le vite di matematici come i tanti che cita il nostro (io vi invito solo a ripercorrere il percorso attuale di un matematico russo contemporaneo Grigorij Jakovlevič Perel'man) o le infinte connessioni tra matematica e letteratura, con Gadda, Calvino ed il Perec già citato. Anche se mi dispiace l’autore non citi i “Cent Mille Milliards de Poèmes” di Raymond Queneau.

Ma andremo fuori dal seminato, rimarcando il denso ed interessante contenuto, unito ad una scrittura di certo accattivante, ma che poteva dare più confidenza a lettori interessati ma non così profondamenti dotti nella materia. Eppure, è un libro che sono contento di aver ricevuto.

Noto solo, in finale, il vezzo di Odifreddi di citare le date antiche con il segno “-“ invece che con l’indicazione a.C. o d.C., di cui so il motivo ma non mi ha mai convinto.

Direi quindi che posso concludere questo scritto con le parole stesse di Odifreddi: “Il che significa che è il mondo stesso a essere pazzo! E i matematici e i fisici si limitano ad accorgersene.”

Haruki Murakami “Ritratti in Jazz” Corriere – Murakami 21 euro 8,90

[A: 29/09/2020 – I: 07/05/2024 – T: 08/05/2024] - &&&&      

[tit. or.: ポ-トレイト・イン・ジャズ 1 – 2 Pōtoreito in jazu 1 – 2; ling. or.: giapponese; pagine: 233; anno 1997-2001]

Un'altra bella prova di Haruki, anche se, come altre, la dovrò inserire tra le varie, che poco entra in un filone critico della narrativa del grande giapponese.

Il libro è certamente composito e dalle molteplici facce. Intanto, come vedete dal titolo originale, si compone di due volumi, che lo scrittore scrisse una prima parte di ritratti nel ’97 e gli altri nel 2001. Ho detto “scrisse ritratti”, perché questo è in effetti il nodo centrale del libro, che nasce dalla collaborazione tra Haruki ed il grafico e illustratore nonché regista giapponese Wada Makoto, ora purtroppo scomparso.

Una trentina di anni fa Wada, per una sua personale intitolato “Sing” produsse una serie di ritratti di personaggi legati al mondo del jazz. Data la sua amicizia con Haruki nacque spontanea l’idea di associare ad ogni ritratto qualche breve nota. E qui interviene la grande passione di Haruki, che da sempre è un amante del jazz, che possiede centinaia (o forse migliaia) di dischi in vinile di tutti i più disparati jazzisti. Niente di più semplice che unire il tutto, condito con un tocco personale dello scrittore che, per ogni ritratto, non solo ci parla del musicista, ma lo accompagna con la citazione di uno dei dischi da lui posseduti, e da qualche tocco che ci porta nell’intimità e nel vissuto di Haruki.

La bellezza di questa confezione sta proprio nell’unione dei tre elementi: la riproduzione (a colori fortunatamente) dei ritratti di Wada, le indicazioni discografiche di Haruki e i suoi brevi interventi in punta di penna. Dove, anche in quei pochi autori che non sono sulla cima delle sue preferenze, riesce a fornircene un quadro colorito ed accattivante.

Chi sa di Murakami, sa che negli anni Settanta gestiva il Peter Cat, un piccolo jazz bar, che rimarrà sempre nei suoi pensieri, insieme a quella musica di sottofondo. Inoltre, da molte mie note, sappiamo che tutti i suoi libri hanno colonne musicali. Da queste note ai ritratti abbiamo un quadro in più: Haruki seduto in salotto, guardare i suoi vinili e scegliere quello o quelli da mettere sul piatto, magari sorseggiando in whiskey giapponese. Non lo seguo sul liquore, sul resto si, anche se il suo rifiutare i supporti digitali può creare qualche difficoltà.

Aprendo una digressione, ricordo ai meno addetti, che in Giappone il jazz è molto seguito, a livello della stessa musica classica, anche se con il solito atteggiamento giapponese un po’ di maniera. Haruki, da giapponese atipico, stravolge il modo di approcciare la musica, mostra una competenza di rara profondità, e scrive e descrive questo mondo scivolando spesso, e con gusto nostro, nei suoi personali mondi narrativi.

Così ci fa una carrellata di una nutrita schiera di musicisti di valore da Chet Baker a Bix Beiderbecke, da Charlie Parker a Miles Davis, da Fats Waller a Thelonious Monk, da Stan Getz a Gerry Mulligan, da Ella Fitzgerald a Louis Armstrong. Tanto per citare alcuni dei cinquantacinque artisti in coppie di significativi suoni. Fino, e qui vado nel personale, a rammentare e proporre episodi e momenti personali di due artisti che adoro: Django Reinhard e Bill Evans.

Alla fine, unendo tutti i puntini musicali si ricompone una playlist che ci racconta sia una visione personale del mondo jazz sia uno scorcio privato sul modo anche di vita di Haruki.

Certo, per i non appassionati del genere può essere un tour de force, che la narrazione ci porta spesso a date, confronti, incroci che non sempre sono facili da seguire. Ma per costoro suggerisco di guardare a lungo il ritratto di ogni artista come uscito dalla mani di Wada, e poi leggere lo scritto, focalizzandosi su quei punti dove emerge la pennellata dello scrittore, il suo sedersi ad ascoltare, le immagini che la musica stessa evoca. Seguiamo la musica andare su e giù, mentre le parole di Haruki ci spiegano ritornelli, a solo, entrate ed uscite dal coro, grandi band e piccole formazioni, fino ai solisti duri e puri.

Se mi consento qualche esempio, mi vengono in mente un paio di pennellate di Haruki. Parlando di Bix Beiderbecke ci descrive in poche parole il mondo della cornetta del giovane, riflessivo e immemore di chi lo sta ascoltando. Oppure, parlando del pianista Teddy Wilson, sottolinea come “a volte si dice che una persona sa parlare, ma sa anche ascoltare; ecco, esattamente questo è Teddy Wilson”.

Un ultimo piacere è poi dato dal fatto che la lettura di queste piccole pagine può essere fatta senza ordine o metodo. Aprite il bel libro (impreziosito da una carta robusta per riprodurre i ritratti) e leggetene qualche riga. Poi fate anche altro.

Unico neo, mio personale, sottolineato nella chiusa del libro da Haruki, e rivendicato come una sua precisa scelta, è la mancanza di due artisti che per me coronano il mio modo di vedere e sentire il jazz: il sax di John Coltrane ma soprattutto il pianoforte di Keith Jarrett.

Ma queste sarebbe le mie scelte, quindi rispettiamo quelle di Haruki, e diamo anche un pensiero alla memoria di Wada, venuto a mancare cinque anni fa.

PS: in allegato, per i più interessati, propongo la lista dei ritratti presenti, con l’indicazione dell’album che, secondo l’autore, meglio li rappresenta.

“Leggere un libro … significa proprio assorbire l’atmosfera di un mondo inesistente come se fosse reale.” (86)

Lou Marinoff “Platone è meglio del Prozac” Repubblica Filosofia Viva 1 euro 9,90

[A: 21/02/2020– I: 20/09/2024 – T: 23/09/2024] - &&& ---   

[tit. or.: Plato, not Prozac!; ling. or.: inglese; pagine: 426; anno 1999]

Venticinque anni fa, quando uscì il libro, rimasi colpito dal titolo, che mi sembrava interessante. Ma all’epoca non era una lettura nelle mie corde. Corde che in seguito, passando nella centrifuga della mia amica-maestra Luisa, ho dimenticato, rimosso e portato altrove. Ora lo ritrovo nella coda delle letture dedicate alla filosofia in una collana che ormai ha quasi cinque anni di vita.

Devo dire che ho fatto bene ad aspettare, che ora, conoscendo meglio anche il mondo degli aiuti, nonché la psicologia e la filosofia, posso serenamente affermare che è un libro da leggere … per prenderne le distanze. Ecco perché ne ho dato la sufficienza, abbastanza piena. È utile leggerlo, ma forse per motivi diversi da quello per cui è stato scritto.

Marinoff si definisce consulente filosofico, e su questa pretesa professione imposta tutto il libro, in particolare andando a scontrarsi contro i muri di psicologia e psichiatria. Scontro improbo, invero, che il nostro porta avanti sostenendo che andare alla ricerca sistematica delle radici dei problemi porta via molto tempo al paziente. Inoltre, seguendo la consuetudine americana, queste “cure” sono spesso sostenute da farmaci (anzi, psico-farmaci) portando il paziente soltanto verso altre dipendenze.

Il pensiero di Marinoff si sostanzia quindi in un approccio teso alla soluzione del problema di chi lo interpella, usando il suo sistema di riferimento, che individua con il termine PEACE, acronimo che sta per Problema, Emozioni, Analisi, Contemplazione, Equilibro. Banalizzando, cioè, individuazione del problema, espressione delle emozioni che ci suscita, analisi delle possibili vie risolutorie, bilancio delle varie alternative verso la contemplazione di quella che ci sembra la più adatta, pratica di questa decisione di modo da raggiungere l’equilibrio.

Ora, anche Marinoff sostiene che i primi due passi la persona problematizzata riesce a farli autonomamente. Il terzo scaturisce dal dialogo con l’altro, dialogo che se ben condotto porta alla quarta fase, nonché, in finale al raggiungimento dell’equilibrio. Quello che poco si capisce è perché devo pagare qualcuno per fare questo percorso, qual è il valore aggiunto di tutto ciò.

Marinoff dice che il valore è dato dagli agganci filosofici che lui come terapista filosofico inserisce nel discorso di stampo socratico con la persona problematica. A me sembra che, anche se non conosco l’aggancio filosofico del mio ragionamento, se la mia riflessione è seria e serena, posso procedere nella vita senza troppi intoppi.

Quindi, alla fin fine, il discorso di Marinoff è puramente un discorso di marketing: vuole vendere il suo approccio e la sua consulenza, quindi ne parla e ne descrive, cercando di fare tabula rasa del resto del mondo. E da buon venditore infarcisce le sue parole con tanti esempi vittoriosi di quanto viene affermando nel suo libro. Come se, sempre e comunque, usando Socrate ed i suoi derivati, la soluzione della nostra vita è a portata di mano.

Per questo, ho dato ampio spazio alla votazione, perché pur non condividendo il pensiero di Marinoff, è un esempio da seguire con attenzione, in generale per fare cose diverse. Tanto per dire la prima che mi viene in mente, l’approccio di Marinoff mi sembra un modo di gonfiare un semplice modo di procedere, che a me viene in mente dopo aver letto i libri di Giorgio Nardone e Paul Watzlawick, utilizzando le Terapie strategiche. Cioè una modalità piscologica di affrontare il problema del paziente partendo non dal passato, ma dal qui ed ora (grazie ancora ad Alexander Lowen) e costruire così la soluzione al problema principale. Se ne sorgono altri, si affrontano uno alla volta, cercando di superarli.

Detto poi che non si può che concordare su alcune affermazioni di principio, del tipo che la filosofia aiuta l’esistenza o che leggere è importante (ditelo a me), veniamo a tutti i meno che il libro si porta appresso.

Il primo è secondo me lo sforzo troppo evidente ed immotivato di screditare la psicologia. Posso capire l’abuso di farmaci, ma ci sono situazioni (e non poche) dove la presenza di uno psicologo è di capitale importanza.

Il resto dei dubbi deriva da un approccio direi poco scientifico alla materia. Intendendo con scientifico non tanto un metodo in sé, ma il rispetto verso la materia stessa. Non sono io un filosofo, ma alcuni svarioni li ho notati anche io. Come inserire Platone tra i personaggi che parlano nel suo bellissimo “La Repubblica”, dove ovviamente il centro è Socrate, ma proprio su Socrate si fanno altri scivoloni. Che non solo Platone ne parla (secondo Marinoff sarebbe il solo), ma anche, ad esempio Diogene Laerzio o Senofonte (un ringraziamento alla mia insegnante di filosofia al liceo ed un saluto a mia cugina Giovanna). Senza fare altri ringraziamenti, credo che pochi siano convinti che Kant sia un razionalista. Ancor di più si palesa un’ignoranza della storia dell’umanità, quando Marinoff afferma che i filosofi del diciassettesimo secolo hanno segnato la fine del Medioevo, scordando bellamente tutto il Rinascimento italiano ed il suo sviluppo tra il Quattrocento ed il Cinquecento.

Infine, e qui termino le critiche che comprendo, quando cita Giovanni Paolo II penso che non abbia capito una parola del suo “Fides e ratio” o, peggio, non lo abbia letto. Solo una mente votata a volgere i fatti per rendere valide le proprie affermazioni può pensare che in quello scritto il Papa abbia voluto inglobare buddismo e confucianesimo nella religione cristiana.

E qui mi fermo.

Spero che i pochi libri di questa collana portino meglio il loro aspetto filosofico. Questo è un libro di marketing (ottimo nella sua votazione) rivestito di una patina filosofica errata (pessima questa parte).

Due ultimi accenni. Il primo riguarda al solito la traduzione del titolo, dove Marinoff non diceva che Platone è meglio del Prozac, ma solo di usare Platone al posto del Prozac per applicare la filosofia ai problemi quotidiani (come dice il sottotitolo inglese). Infine, da amante della musica, so bene che la “Hit Parade” è una classifica di qualcosa (musica in generale) che ne stabilisce un gradimento personale. Chiamare così la prima appendice del libro, dove invece i filosofi appaiono in ordine alfabetico mi sembra un ulteriore, poco convincente, tentativo di marketing.

“L’azione migliore è quella che lascia senza sensi di colpa e senza rimpianti.” (69)

“Giovanni Paolo II: a volte … [si preferisce] un rapido successo alla fatica di una paziente indagine volta a individuare che cosa rende la vita degna di essere vissuta.” (89)

“Se è facile immaginare una situazione in cui può esserti vantaggioso mentire, non vorresti che chiunque mentisse, perciò non farlo.” (97)

“Smettila di cercare e troverai. E se non trovi, non te la prendere, perché non stai cercando.” (122)

“Khalil Gibran: i vostri figli non sono vostri … non appartengono a voi. Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri perché hanno pensieri propri … Potete aspirare ad essere simili a loro, non però farli simili a voi.” (192)

“Confucio: ciò che non vuoi che sia fatto a te, non farlo ad altri.” (260)

“[Bisogna] riconoscere la morte quale parte integrante della vita” (322)

“Non è necessario che tu sia sulla soglia della morte per renderti conto che la tua vita è una sequenza di eventi e che, sebbene la sequenza possa comportare un evento finale, il tutto non viene cancellato da quell’evento.” (338)

Pierre Lemaitre “Dizionario amoroso del giallo” Mondadori euro 18 (in realtà, scontato a 17,10 euro)

[A: 28/08/2024 – I: 01/09/2024 – T: 16/10/2024] - &&&& e ½

[tit. or.: Dictionnaire amoureux du polar; ling. or.: francese; pagine: 741; anno 2020]

Pierre Lemaitre è uno scrittore francese di cui ho letto un paio di libri che non mi hanno particolarmente entusiasmato. Ma, visto questo dizionario, ho pensato, e con ragione, che potesse essere una lettura gradevole, e magari stimolante. Devo dire che, pur nella sua evidente lunghezza (l’ho letto con lentezza per cui, alla fine, ho impiegato un mese e mezzo per terminarlo) è stata una buona lettura, e Lemaitre si è dimostrato un gradevole anfitrione del suo mondo di “polar” (scusate se uso il termine francese che è più aderente dell’anodino italiano; visto che in effetti è una crasi di “policier” e “noir”).

Ho detto non a caso “suo mondo”, che, come dice il titolo e come racconta lui stesso nella prefazione, “amoroso” sta per tutto quello che rimane nel cuore dell’autore. Molto c’è, ma anche qualcosa manca. Ad esempio, uno dei miei autori cult, Michael Connelly, o un autore di cui ho amato i primi libri, come Jo Nesbø, mentre sono stato gratificato dall’inclusione di un autore che adoro come Colin Dexter. Ma Lemaitre, riprendendo la lezione dei “Frammenti” di Barthes ci ammonisce: è un innamorato che parla.

Un innamorato che, comunque, apre spazi enormi. Di discussione, ovvio, che è ragionevole non essere sempre e comunque d’accordo con le sue analisi ed i suoi giudizi. Ma anche uno spazio di riflessione su come si avvicina agli autori, ai generi, ai libri. Su come ne parla in poche righe, dandocene comunque il (suo) senso, il motivo per cui gli è venuto in mente in quel momento. Su come si possa collegare ad altro, laddove Lemaitre riesce sempre a suscitare pensieri “cross”, che vanno da Victor Hugo a Jean-Patrick Manchette, da Feuerbach a Manuel Vazquez Montalban. Per poi coinvolgerci in riflessioni che coinvolgono Wittgenstein ed Hitchcock, dalla logica della vita di ognuno alla percezione della realtà. A questo proposito, il grande cineasta sosteneva (e spero siano contenti i miei cugini cinefili) “Una storia può essere inverosimile ma non deve mai essere banale”.

Ora, fin dalle prime voci, ci sono alcune costanti del pensiero e dell’amore di Lemaitre: innanzi tutto il noir francese e l’hard boiled americano. Dato inoltre che i francesi, come ovvio, la fanno da leoni, all’interno dei vari scrittori, il nostro non nasconde il suo amore per Jean-Patrick Manchette, Didier Daeninckx e Serge Quadruppani, che non nascondono il lato impegnato della loro scrittura. Sui primi due, sono in sintonia. Quadruppani non lo conosco.

È altrettanto ovvio che, se c’è amore c’è anche odio (benché sia una parola forte, direi piuttosto insofferenza), che si manifesta principalmente per il giallo nordico (dove devo dire che a volte concordo anche per la valanga di proposte che vengono da Scandinavia e affini, a valle dei successi commerciali di Stieg Larsson, da apprezzare, e di Camilla Läckberg, parliamone), anche se poi non può non spezzare una lancia in favore dei dieci romanzi di Sjöwall e Per Wahlöö.

Altrettanto scettico si mostra per il giallo classico, anche se non può non riconoscere la validità quanto meno fondante degli scritti di Agatha Christie e suoi successori. Per alcuni autori, poi, è particolarmente cattivo. Non apprezzo la deriva psicologica di Ruth Rendell né la scrittura di Harlan Coben perché nella sua scrittura “è inutile cercare un senso, perché non c’è mai”.

Da buon lettore italiano, ho certo notato che i nostri autori hanno una rappresentanza significativa solo qualitativamente, dove compaiono Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Marcello Fois, Fruttero & Lucentini, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Umberto Eco e Giorgio Scerbanenco. Mi rendo conto che io ho una lista molto più lunga, ma Lemaitre si basa, ovvio, sugli scrittori tradotti in francese (per gli anglosassoni credo che ne legga anche in originale).

Infine, un altro punto che mi trova in forte sintonia, è quello del giallo con connotazioni sociali, come la bellissima trilogia di Jean-Claude Izzo ed alcuni scritti di Massimo Carlotto. Sono meno attratto dalle storie per me forti (droga e pedofilia in testa), ma ne apprezzo laddove la scrittura ne sorregge l’impianto. Purtroppo, è una mia carenza, mentre sul cinema sono in sintonia, non trovo interesse alle serie televisive (come le ben sei pagine dedicate a “The Wire”).

È altrettanto ovvio che, stimolato da questa lettura, abbia cercato tra le parole di Lemaitre ed i miei ricordi di lettura di tutti questi anni, qualche caposaldo da poter condividere con voi. Non tanto con l’origine di questa letteratura (tutti concordano che l'origine ufficiale del genere vada collocata nel 1841 con “I delitti della Rue Morgue” di Edgar Allan Poe), quanto per una suddivisione della letteratura in sottoprodotti dove ognuno si muoverà verso quello che più sente.

Allora abbiamo il giallo poliziesco, che include tutte le storie d'indagine con un antefatto delittuoso e con un'attività di ricerca per scoprirne l'autore, una platea talmente ampia che non riesco a citare autori isolati. Come anche nel caso di quello che viene definito giallo classico, quello alla cui base c’è la domanda "chi l'ha fatto?", "chi è stato?". Qui abbiamo quasi sempre un investigatore, spesso privato o dilettante, che indaga su un delitto e scopre il colpevole in base a indizi più o meno nascosti e fuorvianti. Un nome che salta agli occhi, Rex Stout.

Per omaggio a Lemaitre, bisogna citare l’Hard boiled, dove il crimine viene combattuto da un detective privato con metodi spesso non meno violenti o più corretti di quelli usati dal delinquente. Ricordiamone allora gli esponenti che mi rimangono in testa, come James Hadley Chase, Dashiell Hammett, James M. Cain (il mitico “Postino…”) e Raymond Chandler. Sul versante opposto troviamo invece il Police procedural, dove le indagini su un caso sono affidate all'opera di una squadra di investigatori istituzionali appartenenti alla polizia, con un esponente su tutti: Ed McBain.

La giravolta tra ordine e criminalità, a volte viene rappresentata con il termine “Noir”, tout court, che rappresenta l'altra faccia della storia di un crimine, quella vista dalla parte del criminale o dalla parte di chi vi è coinvolto senza volerlo. Con le sue varianti localizzate. Il giallo sociale, come già detto, con Jean-Claude Izzo o Massimo Carlotto. Ma anche il giallo concentrato in una città, il Noir metropolitano. Dove la città con la sua violenza, la sua criminalità e tutto ciò che comporta diventano i protagonisti. Ed ecco che abbiamo, ad esempio, Ed McBain per New York, James Ellroy per Los Angeles, Jean-Claude Izzo per Marsiglia, Paolo Roversi per Milano. O ancora il “noir mediterraneo” fondato sempre dall’ottimo Izzo, e che in Italia ha esponenti di valore come Sandrone Dazieri, Bruno Morchio, Gianrico Carofiglio, Valerio Varesi, Gianni Biondillo, Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli.

Vedremo bene in questa lista il giallo psicologico, dove l'autore si concentra, sulla figura del protagonista, spesso eroe negativo, e sui rapporti tra i vari personaggi. E noi pensiamo subito a Patricia Highsmith. O anche il Giallo storico che colloca nel passato la vicenda narrata, spesso inventandosi un personaggio famoso come detective dilettante (penso a Dante o Aristotele). Per questa categoria ricordo allora autori come Ellis Peters, Anne Perry, Margaret Doody, Danila Comastri Montanari e Giulio Leoni. In particolare, poi, c’è un sotto-sotto filone che si dedica alla prima metà del Ventesimo secolo (la Trilogia berlinese di Philip Kerr, l’ispettore De Luca di Carlo Lucarelli o Martin Bora di Ben Pastor).

Infine, l’ampia sezione dedicata al thriller, dove il lettore assiste direttamente alla preparazione e all'esecuzione del crimine, subendo un forte coinvolgimento emotivo in un clima di crescente tensione. Con le sue principali sottosezioni, il thriller legale, dove seguiamo i processi giudiziari relativi a un certo crimine e con autori come Erle Stanley Gardner, Scott Turow, John Grisham o in Italia con Gianrico Carofiglio e Gianni Simoni. Oppure il thriller medico, dove diventa centrale l’operazione del medico legale e dalla polizia scientifica, esemplificata da autori come Patricia Cornwell e Kathy Reichs.

Una volta aperto l’armadio del giallo è difficile fermarsi, e soprattutto è difficile tornare a Lemaitre. Ma noi siamo buoni, ed oltre alla citazione, sempre valida che riporto, devo riconoscere che questa lettura è stata utile, coinvolgente con una grande pecca: mi ha convinto ad allungare di molto la lista dei libri da comprare.

“La letteratura è una chiave per decifrare la realtà.” (191)

Italo Calvino “Un ottimista in America (1959-1960)” Repubblica Calvino 22 euro 9,90

[A: 16/03/2021 – I: 28/11/2024 – T: 30/11/2024] - &&&&   

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 223+XXXIX; anno 2014]

Nell’ambito delle mie letture dell’opera di Calvino, pur rimanendo in ambito cronologico, ho preferito privilegiare questo scritto che, pur essendo uscito come inedito in volume solo nel 2014, raccoglie gli scritti degli appunti che lo scrittore redasse durante una lunga visita negli Stati Uniti, dal novembre 1959 al maggio 1960. Il viaggio era stato organizzato grazie ad un finanziamento della Ford Foundation, con lo scopo principale di incontrare personaggi e strutture culturali americane.

Calvino è un romanziere, è un intellettuale immerso nella cultura italiana dal dopoguerra in poi, ma è anche un viaggiatore. Nasce a Cuba, vive in Liguria, poi si sposta tra Torino e Roma, e sempre viaggia, dall’Unione Sovietica a Cuba, da Parigi all’America. Sempre con il suo occhio pronto a cogliere il cuore di quello che vede. Anche perché, per sua caratteristica e scelta, spesso viaggia da solo, o si isola, per vedere la gente che vive nei luoghi dove la vita lo sta facendo spostare.

Tutto ciò, si ripropone in questo testo, che nel ’60, dopo averlo redatto, letto, modificato, e riletto, giudica troppo debole, senza un vero filo conduttore. O quanto meno, senza delle idee che per il Calvino del tempo dovevano uscire dagli scritti. Ed è un peccato. Non solo perché di idee ce ne sono tante ed interessanti. Ma anche perché una serie di schizzi, di descrizioni, di momenti sono ancora attuali, ed avrebbero avuto un peso interessante se già discussi al tempo della scrittura.

Da viaggiatore, fa anche alcune scelte sugli spostamenti. Decide di arrivare a New York in nave, si sposta in America da una costa all’altra in aereo, fa dei tratti in macchina, e torna sulla costa atlantica usando i Greyhound. Un modo di assaporare le diverse facce degli States, che nelle sue descrizioni risultano poi vivide, realistiche, partecipate, mai asettiche.

Sulle città, ad esempio, ha delle immagini folgoranti. New York la città che ha un ritmo, elettrica, che ti dà una scossa. Chicago come immagine della “vera” essenza americana: produttiva e brutale, contraddittoria tra i sobborghi di ville agiate, il centro industriale, le zone degradate. E per citare solo quello che più mi ha colpito, la delicata descrizione della città secondo Calvino più bella di tutte: Savannah in Georgia (se non la conoscete cercate le foto in rete).

Ma il suo girovagare lo porta là dove c’è quella che definiamo “l’altra America”, ma che, forse, “è” l’America. Quella povera del New Mexico, quella segregazionista in Georgia e in Alabama, quella delle prostitute e dei trans di New Orleans, quella dei ghetti delle grandi città.

Calvino gira incontra e parla con tutti, dagli imprenditori ai clienti dei bar del “French Quarter” di New Orleans (come facevo io, senza però gli imprenditori), coglie i particolari più rilevanti, e ci restituisce parole da meditare su molte tematiche, attuali allora ed ora. L’America dei sogni, l’America delle contraddizioni, l’America anticomunista, l’America politica, l’America delle classi sociali, quella delle migrazioni e dei quartieri ghetto.

Vediamo descritto il sogno Americano, quell’ideale di libertà e opportunità che aveva attratto ed in un certo senso attrae milioni di persone a tentare la loro strada nel mondo americano. Questo delle libertà, delle possibilità è comunque un discorso che si intreccia grandemente sul concetto di diversità, concetto fondante della società locale, composta da persone di culture e provenienze diverse, ma che nella mente americana fa fatica ad avere il suo posto. Calvino lo esemplifica con le ragazze con cui cerca un dialogo i primi mesi a New York. Un dialogo che sembra difficile, insormontabile, per poi scoprire che in realtà sono quasi tutte oriunde dell’Europa dell’Est.

Analizzando, quindi, gli aspetti variegati della società americana, le sue parole ci portano a riflettere sull’identità che loro si costruiscono, e su quella che ci siamo costruiti noi nel tempo. Nel tempo passato a Montgomery (dove incontra anche Martin Luther King), non può che riflettere sul razzismo, sulle sue forme estreme come si stavano presentando in quegli anni. Con un epitaffio in cui dice che certo ci sono (lì e qui) il razzismo, l’intolleranza religiosa, le minoranze nazionali alle frontiere. Ma sono problemi che non dovrebbero esser più problemi. Peccato che lo sono ancora dopo più di sessanta anni da allora.

C’è una considerazione che mi aveva colpito la prima volta che andai a New York, e che Calvino riesce ad esprimere bene. La “way of life” americana fatta di efficienza lavorativa e di modi per godersi la vita mi sembrava un modo di vivere praticabile. D’altra parte l’altra faccia per ottenerlo (solitudine, lotta a coltello con gli altri) mi rendeva (e Calvino con me) ambivalente nel giudicarla.

Visto che Calvino girava l’America nel 1960, l’anno delle elezioni che portarono Kennedy alla Casa Bianca, non può che parlare proprio di quelle e delle discussioni che nascevano. Ne riporto in coda il brano centrale, che mi ha spaventato per la sua attualità.

Calvino, con la sua responsabile analisi del presente, ci regala, con queste, ma anche con altre descrizioni che vi invito a leggere, una fotografia di un mondo assolutamente presente e reale.

“Una certa aliquota di deficienti c’è sempre stata in tutte le classi dirigenti.” (62)

“Uno dei presenti … spiegava perché teneva per un determinato candidato … Diceva che, nei momenti difficili che attendevano gli Stati Uniti, quello era l’uomo che ci voleva, perché era un tough guy, un duro, un tipo ruthless (spietato), uno che non fa tanti complimenti. Provai a obiettare che i momenti difficili vengono quando non ci si rende conto di quali siano i problemi dei paesi del mondo e, allo studio e all’impegno per risolvere quei problemi, si antepongono la politica della forza e l’appoggio a regimi screditati e polizieschi: era tempo di persone sagge e riflessive … non da tipi tough. Non mi capiva; sì, tutte belle cose, diceva, ma innanzitutto bisogna mostrare che siamo i più forti, che teniamo testa, che non diamo segni di debolezza” (163)

Parlavamo di saggi? Eccovi allora alcune belle frasi riprese da “Due” di Irène Némirovsky.

“Quanta maturità ci vuole per scoprire aspetti umani nei nostri genitori.” (123) [e forse solo che dopo che ci hanno lasciato ne riusciamo a capire]

“Tra i venticinque e i quaranta anni ogni uomo modella il proprio monumento.” (129)

“La felicità coniugale non somiglia alla felicità più di quanto l’amore coniugale non somigli all’amore.” (191) [qui aprirei un dibattito]

“Il giovane predilige la realtà; l’uomo maturo, la subisce, e il vecchio, più saggio, la evita.” (213) [noi la si deve ancora capire…]

Ancora 23 giorni di questo inutile, insopportabile anno. Ma già all’orizzonte si profilano nuove sfide che ci fanno ipotizzare in un anno quadrato che di più non si può (d’altra parte ho letto Odifreddi, e non vi svelo il senso di tutto ciò, ma spero me lo rivelate voi…). Quindi più caldi si fanno i miei abbracci, che vedono possibili aerei in lontananza. 

Elenco degli album consigliati da Haruki Murakami in “Ritratti in Jazz”. 

Musicista

Strumento

Album consigliato

Anno

Louis Armstrong

Tromba

Un ritratto di Louis Armstrong

1928

Bix Beiderbecke

Tromba

Bix Beiderbecke 1927-1929

1929

Hoagy Carmichael

Pianoforte

V-Disc Cats Party/Vol.1 con Hoagy Carmichael

1930

Charlie Parker

Sassofono

Charlie Parker/ Dizzy Gillespie – Bird e Diz

1952

Chet Baker

Tromba

Chet Baker Quartet

1953

Benny Goodman

Clarinetto

Benny Goodman presents Eddie Sauter Arrangements

1953

Cab Calloway

Voce

Chu Berry and His Stompy Stevedores with the Cab Calloway Orchestra

1955

Modern Jazz Quartet

-

Concorde

1955

Teddy Wilson

Pianoforte

Sig. Wilson (Il favoloso Teddy Wilson al pianoforte)

1955

Clifford Brown

Tromba

Clifford Brown e Max Roach – Studia in Brown

1955

June Christy

Voce

June Christy e Stan Kenton - Duetto

1955

Eddie Condon

Chitarra

Bixieland

1955

Jackie e Roy

Voce

Storyville presenta Jackie e Roy

1955

Frank Sinatra

Voce

Oscilla facile! E canzoni per giovani amanti

1955

Charles Mingus

Contrabbasso

Pithecantropus Erectus

1956

Jack Teagarden

Trombone

Bobby Hackett - Concerto sulla costa

1956

Duke Ellington

Pianoforte

Duke Ellington e la sua orchestra - In un mellotone

1956

Count Basie

Pianoforte

Count Basie Orchestra – Basie a Londra

1956

Nat King Cole

Pianoforte

Nat 'King' Cole e il suo trio - After Midnight

1956

Dizzy Gillespie

Tromba

A Newport

1956

Lester Young

Sassofono

Lester Young-Teddy Wilson Quartet – Presidente e Teddy

1956

Gil Evans

Pianoforte

Helen Merrill con Gill Evans Sogno di te

1956

Fats Waller

Pianoforte

Herb Geller Fire in the West

1957

Ella Fitzgerald

Voce

Ella Fitzgerald e Louis Armstrong - Ella e Louis Again (Vol. 2)

1957

Oscar Peterson

Pianoforte

Jazz Alla Filarmonica - Jazz Alla Filarmonica di Norman Granz vol. 16

1957

Art Pepper

Sassofono

Incontra la sezione ritmica

1957

Anita O'Day

Voce

Dal signor Kelly

1958

Jimmy Rushing

Voce

Il piccolo Jimmy Rushing e i grandi ottoni

1958

Gene Krupa

Batteria

Gene Krupa suona gli arrangiamenti di Gerry Mulligan

1958

Gerry Mulligan

Sassofono

Gerry Mulligan Quartet - Cosa c'è da dire?

1959

Thelonious Monk

Pianoforte

Thelonious Monk Quintetto – 5 di Monk By 5

1959

Eric Dolphy

Sassofono

Là fuori

1960

Ray Brown

Contrabbasso

Barney Kessel, Shelly Manne e Ray Brown: i tre vincitori del sondaggio!

1960

Shelley Mann

Batteria

Shelly Manne e i suoi uomini - Al Black Hawk vol. 1

1960

Bobby Timmons

Pianoforte

Art Blakey & The Jazz Messengers – Notte in Tunisia

1960

Bill Evans

Pianoforte

Bill Evans Trio - Valzer per Debby

1961

Art Blakey

Batteria

Jazz Messengers di Art Blakey - Les Liaisons Dangereuses

1962

Billie Holiday

Voce

Billie Holiday The Golden Years

1962

Sonny Rollins

Sassofono

Il ponte

1962

Glenn Miller

Trombone

Musica resa famosa da Glenn Miller: album del Giubileo d'argento

1962

Wes Montgomery

Chitarra

Tutto esaurito

1962

Lee Morgan

Tromba

Il Sidewinder

1963

Horace Silver

Pianoforte

Horace Silver Quintet - Canzone per mio padre

1964

Lionel Hampton

Vibrafono

Faresti meglio a saperlo!!!

1964

Julian Cannonball Adderley

Sassofono

Cannonball Adderley - Dal vivo!

1965

Django Reinhard

Chitarra

Djanologia

1965

Ornette Coleman

Sassofono

Concerto al Municipio 1962

1965

Hancock Herbie

Pianoforte

Viaggio inaugurale

1965

Tony Bennet

Voce

Ralph Sharon Trio, The - Musica per le ore tarde: il libro delle canzoni di Tony Bennett

1965

Miles Davis

Tromba

"Four" & More - Registrato dal vivo in concerto

1966

Mel Tormé

Voce

Mel Tormé con Billy May - Olé Tormé

1966

Herbie Mann

Flauto

Finestre aperte

1968

Stan Getz

Sassofono

Stan Getz - A Storyville

1969

Charlie Christian

Chitarra

Album commemorativo di Charlie Christian

1977

Dexter Gordon

Sassofono

Ritorno a casa - Dal vivo al Village Vanguard

1977

 

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