domenica 15 dicembre 2024

Selleriana - 15 dicembre 2024

Mantengo il titolo, anche se con alcune piccole imprecisioni. In effetti, gli autori presenti sono tutti frutto della grande fucina editoriale palermitana. Malvaldi ed i vecchietti del BarLume, Savatteri e Saverio Lamanna, Robecchi e Carlo Monterossi, Manzini e Rocco Schiavone. Anche se qui, solo Savatteri e Manzini rimangono fedeli ai loro personaggi, con un ottimo risultato di lettura. Anche Robecchi sale in alto, pur in un romanzo pubblicato da Bompiani, senza il suo personaggio, ma con una storia che tocca le mie corde, dedicata al grande giallista Augusto De Angelis. Malvaldi compare insieme alla moglie Samantha in un nuovo episodio dedicato a Serena Martini, di buona fattura. Mentre sempre Malvaldi apre le danze con un libro uscito per Giunti, con al centro Leonardo da Vinci, ma che non raggiunge toni di interessante fattura.

Marco Malvaldi “La misura dell’uomo” Giunti euro 8,90

[A: 05/01/2021 – I: 22/06/2024 – T: 24/06/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 287; anno: 2018]

È inutile ripetere, tanto lo sapete già, ma per me Marco Malvaldi quando si allontana da Pineta e dal BarLume, perde buona parte della verve e della capacità di coinvolgere il lettore. L’avevo da poco sperimentato un anno fa con un’opera, comunque, con degli spunti interessanti (“Oscura e celeste”) dove il nostro faceva un po’ di conti con il grande Galileo.

Qui, con un libro scritto cinque anni prima, da un lato fa un po’ di conti, anche se non tanti, con Leonardo da Vinci, e dall’altro, purtroppo, ne inserisce la vicenda in un quasi giallo. Con il risultato che non è né un libretto curioso di ambientazione storica senza essere un libro di storia, né tantomeno un giallo storico come ne abbiamo letti tanti nel corso delle varie peregrinazioni bibliofile. Abbiamo visto tanti personaggi storici o quasi inseriti in improbabili vicende gialle, dal Dante Alighieri di Giulio Leoni fino almeno ad Oscar Wilde di Gyles Brandreth.

Rimane un ibrido, con una solita facilità di scrittura, e con un’idea di scrittura stessa che porta qualche buon risultato, ma che poteva essere migliorata. Infatti, lo scrittore onnisciente non si cala direttamente nel corso della storia, ma rimane un narratore moderno ed attuale, che ci racconta avvenimenti antichi, infiorettandoli con commenti e paragoni tra quel tempo (quello di Leonardo da Vinci e di Ludovico il Moro) ed il tempo attuale. Una scrittura scanzonata, ma che avrebbe potuto essere più coinvolgente, magari tranciando giudizi più duri e pesanti.

Il resto è calato nella storia e nei personaggi, quasi tutti storici. Con anche uno sforzo di inventarsi una scrittura italica del Quattrocento che spero sia coerente con i documenti di allora, ma che, pur nel possibile interesse cerebrale, non è che porta tanta acqua al mulino della storia.

Tra l’altro, dicevo, la storia gialla è molto ma molto esile. C’è un morto, ci sono le diatribe intorno alle cause della morte, c’è Leonardo che molto sa del morto ed anche ipotizza bene le cause, anche se le svelerà quasi in finale di romanzo. Mostrando quell’atteggiamento un po’ presupponente che credo il tosco abbia sempre avuto in vita. Se poi si ragione sul titolo (quale sarà mai il metro per misurare l’uomo) non si deve certo arrivare al disvelamento di pagina 247 per arrivare al denaro che muove tutte le cose. Certo, dall’idea bisogna arrivare alla pratica, cercando di capire cosa ha mosso il denaro in tutto il contesto giallo, e chi ha interesse a muoverlo. Ovvio che, non essendo Leonardo certificato come investigatore, il suo apporto è nel lato fantastico della vicenda, di modo che i colpevoli diretti possano essere individuati e giudicati. Di converso, il motore primo della vicenda rimane appunto sul lato fantastico della storia.

Più interessante è il contorno storico e ambientale ricostruito da Malvaldi, con l’aiuto delle tante persone citate nei ringraziamenti. La vita alla corte di Milano. I rapporti tra Leonardo e il potere in generale, e con Ludovico il Moro in particolare. L’orecchio lontano ma possibilmente in avvicinamento di Ercole d’Este da quel di Ferrara. Il risibile siparietto di Carlo VIII, detto l’Affabile, ripreso nella preparazione della discesa in Italia al fine di riprendersi il Regno di Napoli (cosa che avverrà un anno dopo la fine del romanzo).

Sul fronte storico, sebbene come dice Malvaldi non è un libro di storia, seguiamo alcune vicende interessanti. Il progressivo tentativo di Ludovico il Moro di prendersi di Ducato di Milano (cosa anche questa che avverrà dopo la fine del romanzo). Il sodalizio con Galeazzo Sanseverino, che forse era anche l’amante di Beatrice moglie di Ludovico, o forse no. Le vicende costruite intorno a Cecilia Gallerani, amante di Ludovico dai quindici ai diciotto anni, poi presenza nella coorti delle arti milanesi, e stretta amica di Leonardo, che probabilmente la dipinge ne “La Dama con l’ermellino”, ora al Museo di Cracovia (bellissima, l’ho vista tre anni fa).

E poi Leonardo, con la sua corte dei miracoli, la presenza (probabile ma non certa) della madre Caterina, le mille attività, da pittore a scultore, da architetto a militare, con il motivo di fondo, che all’epoca era il suo punto più dolente, il tentativo di creare un gigantesco cavallo in bronzo per celebrare il padre di Ludovico. Dove vedremo che alla fine, per le difficoltà di fusione, del cavallo non se ne fa nulla, ma dal bronzo si faranno cannoni. Vediamo anche l’accenno all’avversità di Leonardo verso gli affreschi che, per velocità di esecuzione, erano in contrasto con la sua lentezza endemica nel dipingere (per la Gioconda impiegò un paio d’anni), anche se poco dopo la fine del romanzo porrà mano nel convento di Santa Maria delle Grazie alla sua “Ultima cena” (vista dopo il restauro).

Volendo ci sarebbero molti altri spunti storici e letterari che nascono dagli avvenimenti di quegli anni (la vicenda si svolge nel 1493, e sappiamo che poco prima partì Colombo per le Indie e scoprì l’America), ma ve ne lascio la lettura, insieme alla disamina della trama gialla, che, se seguite bene il testo, è già decifrabile prima della metà del romanzo. Che è di sicuro ben scritto, ripeto, ed anche foriero di spunti che ho approfondito durante e dopo la lettura. Cosa che di certo porta acqua al mulino del piacere.

Prima di chiudere una piccola notazione forse su di un errore veniale, ma che mi rode in testa. In un certo passo, a pagina 172, viene detto di usare i nomi delle persone per associarli a delle note e trarne delle composizioni armoniche. In particolare, sul nome latino di Dio, Deus, che, associando le vocali alle note, darebbe l’armonico Re-Ut (cioè Re-Do). Estendendo la binomia nomi musica a tutti i nomi di Dio. Ebbene Leonardo lì sostiene che sarebbe impossibile, dato che le lingue semitiche non hanno vocali. Dove ben sappiamo, e Leonardo credo lo sapesse (ma forse Malvaldi no) che le lingue semitiche non hanno vocali “espresse”, ma sono sempre sottese. Inoltre, l’unico nome sempre vocalizzato è il primo nome mussulmano di Dio, Allah.

Certo un peccato veniale rispetto ad altri. Che però sono voluti, mentre questo sembra un “sangiulianesimo” (indovinate da dove viene il neologismo).

Marco Malvaldi & Samantha Bruzzone “La regina dei sentieri” Sellerio euro 16 (in realtà scontato a 15,20 euro)

[A: 23/07/2024 – I: 23/07/2024 – T: 25/07/2024] &&& +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 334; anno: 2024]

Nella politica di usare più spesso attualità rispetto a storia libraria, ecco che, appena uscito, mi dedico all’ultimo libro della coppia Malvaldi & Bruzzone. Come dissi nella prima puntata, mi sembrava abbastanza plausibile la nascita di una serie (come puntualmente si verifica) con una accentuata propensione alla tipologia dei personaggi. Che, come nella prima uscita, sono incentrati massimamente su Serena Martini, casalinga ma anche altro. Ma che vedono crescere il secondo personaggio, il sovrintendente Corinna Stelea.

Non ripeto inoltre i possibili apporti individuali dei nostri due autori alla trama. Firmano in coppia? Ed allora, prendiamoci in coppia elogi e critiche (più i primi che i secondi). Comunque, l’impianto generale è il solito di questa tipologia di testi. Molta parte personale, incentrata sui personaggi, ed un po’ di trama giallo-noir, purtroppo abbastanza scoperta.

Dicevamo che le due protagoniste si stagliano meglio sulle pagine del testo. Serena perché oltre alla vita familiare, al bel rapporto con il marito Virgilio, alla conflittualità, forse in fondo anche bonaria, con la suocera Augusta (che fu tra l’altro sua insegnante di matematica al liceo), si ritaglia, o inizia a ritagliarsi, qualche ruolo autonomo. Per molta parte, legata al suo particolare talento, che avevamo già visto nella prima puntata: un diploma di sommelier, preso anche in virtù di un olfatto particolarmente sensibile (tanto che all’università era soprannominata “Naso”). E nell’ultima parte verso una ripresa dei suoi interessi da chimico ambientale che penso, nel caso ci siano altre puntate, verranno meglio approfonditi.

Dall’altra parte, anche Corinna va migliorando, ma qui, e devo dire che l’idea non è male, i nostri capiscono che non possono fare gestire Serena da Samantha e Corinna da Marco, per cui, i capitoli dedicati direttamente alle indagini vengono gestite dalla coscienza critica della nostra poliziotta, di modo che Marco riesce a gestire le indagini ed i loro contorni senza doversi calare in un personaggio femminile. Devo dire  un espediente ben riuscito, che Corinna, alla fine, risulta più simpatica rispetto alla prima uscita. Ed il connubio Serena-Corinna ha così più frecce al suo arco.

Questa volta lasciamo leggermente da parte i coinvolgimenti familiari, che morti ed indagini si concentrano in ambito enologico, cosa abbastanza plausibile dato il contesto “carducciano” del romanzo. In particolare, la parte enologica si svolge nei dintorni di Bolgheri, laddove i cipressi vanno in duplice filare. Non vi tedio con una delle poesie a me più care e note, ricordandovi solo di non scordare l’asin bigio.

Comunque, dieci anni prima delle vicende attuali scompare con la sua ape il grande produttore Crisante Oliveri Frangipane. Uno dei grandi produttori locali, una volta molto premiato, ma in calo. Anche perché surclassato dalla vicina tenuta della Tegolaia, dove un enologo con i contro (sui puntini decidete voi), riesce a produrre un Bolgheri DOC premiato sempre con i tre bicchieri dal Gambero Rosso.

Quindi nella tenuta Frangipane rimangono Ramona e Oreste, i figli di Crisante, lei per la parte economica, lui per l’enologia. Dall’altro versante, ci sono Walter e Augusto, i loro corrispettivi, con ben altre capacità. Tanto che dopo qualche anno, Augusto decide di dare una mano a Ramona, ed anche i Bolgheri di Frangipane cominciano a migliorare.

Da tenere presente che Crisante era un toscano “puro e duro”, incline allo scherzo, ma anche alle rancorose riserve verso quelli che non considera “buoni cristiani”. Tanto che i nostri lo paragonano al conte Mascetti di “Amici Miei”. Buono e gradevole se lo incontri una volta, ben pesante se lo devi sentire, incontrare e battagliare tutti i giorni.

Non vi sto di certo a raccontare la trama per cui il Crisante muore, l’ape si ritrova dieci anni dopo in un laghetto, Serena viene coinvolta da Corinna nelle indagini (involontariamente), e Serena stessa fornisce due indizi alla poliziotta: Crisante è morto ed il suo corpo deve trovarsi in un campo di fiori gialli e l’annata 2013 del Bolgheri (l’anno della scomparsa del nostro) ha di sicuro qualche problema su cui investigare.

Per la prima parte, vi posso dire che la soluzione deriva dall’etimologia stessa del nome, derivante dal greco “chrysos” e “antos”. Se non sapete il greco, vi invito ad una piccola ricerca in rete, sempre salutare, dove tra l’altro potrete incontrare i martiri cristiani Crisante e Daria e la loro interessante storia. Ma qui stiamo andando fuori dal seminato.

Sull’ampelografia dei Bolgheri, vi lascio alla pagina, dove le discussioni tra Serena ed il perito della polizia scientifica sono da leggere con gusto. Comunque, tra una gita in macchina, una lite con la suocera, un approfondimento con Corinna, ed altre amenità, il noir volge abbastanza presto alla sua felice conclusione, per altro abbastanza prevedibile, se si ragiona sulle persone presenti all’interno delle pagine del romanzo.

Il tono generale del libro è gradevolmente rilassato, la scrittura procede con facilità da tipica lettura sotto l’ombrellone. Certo, da Malvaldi mi aspetto sempre qualcosa in più, ma gli anni passano e non è facile trovare modalità di rinnovamento.

Per tornare un attimo ai vini, devo riconoscere la serietà delle disquisizioni enologiche (memore anche dei miei passati all’AIS), dove correttamente si conferma che il Bolgheri DOC deve essere fatto da un uvaggio (cioè una mescola) di tre vitigni locali: Merlot e i due Cabernet, Franc e Sauvignon. In più, è possibile l’aggiunta di una percentuale di altro vitigno, purché prodotto in zona. E qui, i nostri suggeriscono appunto l’addizione con Schiava Gentile, un accostamento ardito ma plausibile.

Un accenno finale alla parte chimico-culinaria di Serena. Devo dire, benché forse un po’ troppo tecnica, la ricetta chimicamente corretta della “carbonara” è da prendere e riproporre. Sottolineo solo, non volendo entrare nei dettagli, che l’importante è il dosaggio dell’uovo (Serena impiega un uovo ed un tuorlo a testa) ed i gradi della cottura delle uova sbattute: rigidamente (e Serena spiega perché, ma voi ve lo andate a leggere) 62°. Un plauso!

Gaetano Savatteri “La Magna Via” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 13,50 euro)

[A: 08/10/2024 – I: 17/10/2024 – T: 19/10/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 283; anno: 2024]

Dopo un paio d’anni di attesa e saltando di proposito i libri con i racconti per due ottimi motivi personali (non amo in genere i racconti e questi sono poi stati sviluppati nella serie televisiva, pur ottima), passo direttamente al quarto romanzo dedicato alle avventure di Saverio Lamanna. Che, ovviamente, tengono conto degli sviluppi televisivi, onde mi aspetto che, se ci sarà una nuova serie, questo potrebbe essere un “magno” inizio.

Torneremo più avanti sulla via, intanto dobbiamo rilevare che, pur avendo un intarsio quasi giallo ad un certo punto, non ha la verve nero-comica degli altri libri di Lamanna. È più centrata sui personaggi, sulle battute ironiche ed anche sul recupero paesaggistico del tratto Palermo-Agrigento. Da non disprezzare, e che mi ricorda una mia personale gita di una ventina di anni fa, quando decisi di fare lo stesso tratto, ai primi di maggio, ma in treno. E dove godetti di paesaggi irlandesi con l’erica fiorita ed un transito, sempre gradito, per Racalmuto.

Tra l’altro, il tema centrale, con tutti le attenuanti possibili, rimanda di fatto ai libri di Jerome K. Jerome, anche se ne cambia non tanto il contesto, ma le modalità di viaggio. Il grande umorista britannico, infatti, scrisse due esilaranti libretti con uomini a spasso e con una serie di scenette comiche d’accompagno. Il primo era “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)” (dove i nostri viandanti percorrevano in barca il Tamigi) ed il secondo “Tre uomini a zonzo” (dove i tre amici girellano per la Germania in bicicletta). Qui, né barca né bici, ma il caval di San Francesco. Tra l’altro lo stesso Savatteri cita il secondo libro (pagina 80) e ad un certo punto della via ai nostri si aggrega anche un cane. Piccolo mix di citazioni.

I personaggi, comunque, sono i soliti che abbiamo imparato a conoscere. Il nostro scrittore riluttante Saverio, Suleima, la sua donna (con cui ormai si è pacificato dopo qualche burrasca) e il prode Piccionello, l’anima comica del trio con le immancabili infradito e le magliette con le frasi ironiche della nipote. Una non piccola parte hanno questa volta il padre di Saverio (che ha lasciato i furori senili con la giovanile Olga) e lo zio Mimì, un’enciclopedia narrante che ci illustra tutto del paesaggio, città, chiese, cibi tipici e tutti i personaggi che vi transitavano. Un piccolo cammeo non poteva che offrirci qualche battuto del commissario Randone.

Il via alla “Magna Via” ce lo forniscono i due arzilli vecchietti, che decidono, prima di cedere alle loro avanzate età, di concedersi una lunga gita per le strade che collegano due lati della Sicilia, lungo i circa 190 km della camminata. Ovvio che Saverio, preoccupato per la salute dei due, non possa esimersi dall’aggregarsi alla gita, coinvolgendo il buon Peppe a seguirlo e la dolce Suleima a raggiungerli di quando in quando per fornire conforto a Saverio e aiuti materiali ai viandanti.

Da godere, allora, è tutto lo svolgersi dei battibecchi tra i camminatori, le sempre più frequenti soste in trattorie ed affini, ed altri spunti che rendono gradevole e leggero leggerne. Ovvio che ci deve essere quella punta di giallo, laddove spunta una comitiva di viandanti, al seguito di un immigrato di ritorno, un canadese figlio di siciliani riparati nel continente americano.

Qui, Savatteri cerca di colpire due bersagli. Da un lato l’epopea che gli emigrati trasmettevano ai loro figli e nipoti, di come fosse bella e generosa la lor terra, in particolari con tutte le eroiche gesta di chi doveva difenderla. Peccato che, letta correttamente, quella non era altro che la storia della Mafia in Sicilia, ricoperta dell’oro della lontananza. Ma passando per Corleone, non si può pensare al Padrino di Ford Coppola, senza ricordarsi di Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e via discorrendo. Un’epopea che l’ingenuo canadese aveva preso per gesta minori mentre era di sicuro un racconto di mafia quello del nonno.

Come corollario, c’è proprio la Mafia, così come rimane ancora nelle pieghe della campagna siciliana, e che imbastisce una storiella di terre ed eredità, che non può che comportare rischi e “ammazzatine” alla Camilleri. Cosa, appunto, che ci permette di trovare Randone, alle prese con i cattivi, ma anche con del pane cunzato che fa venire l’acqua alla gola.

Senza particolare stress, né particolare tensione, la gita finisce, i nostri tornano chi a Palermo chi a Màkari chi altrove, e noi ci mettiamo nell’attesa di una nuova avventura, ricordando solo che la bellezza (o la grazia) del testo è anche di fare un bagno nelle continue citazioni presenti. Dove cito solo una sbagliata, quando si ricorda un ultramaratoneta che dice “Don’t stop when you’re tired, stop when you’re done”, che invece deve essere correttamente attribuita a Marylin Monroe. E cito di passaggio il fatto che tutto il libro è permeato di questa tensione padre – figlio, interessante nelle idee, ma sviluppata non in modo che attragga il lettore.

Per finire, come accennato, torniamo sulla “Magna Via”, che finalmente pochi anni fa è stata completamente riaperta, ed anche moderatamente attrezzata, con una serie di iniziative che ricordano in piccolo il cammino di Santiago. Di mode che (visitate il sito “Mettici Manu” per altre notizie, ora è possibile effettuare un periplo completo della Sicilia utilizzando la “Magna Via Francigena” (189 km da Palermo ad Agrigento), la “Via Fabaria” (317 km da Agrigento a Catania) e la “Via Normanna” (378 km da Palermo a Messina che si congiunge con la precedente a Randazzo sulle pendici dell’Etna).

Forse non un libro indimenticabile alla fine, ma si è meritato un buon punteggio per la scrittura scorrevole e per gli spunti di viaggio.

Alessandro Robecchi “Le verità spezzate” Rizzoli euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 22/10/2024 – I: 24/10/2024 – T: 25/10/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 267; anno: 2024]

All’annuncio di un nuovo libro di Robecchi, avevo sperato in una nuova avventura di Carlo Monterossi e della sua banda, anche se le ultime prove non mi avevano convinto granché. Così non è stato, che qui abbiamo un doppio giallo di altra fattura. E devo dire discreta fattura, anche perché affronta un caso che mi ha sempre intrigato, sia nei prodromi che nell’epilogo. Anche se, per tutto il libro, cercavo di immaginarmi Carlo nei panni di Manlio e la lotta al conformismo strangolante come lotta di Carlo contro le storture televisive.

Nel libro, intanto, si parla della vita, ma soprattutto della morte, di Augusto De Angelis, il padre nobile del giallo italiano. Un autore che ho letto abbastanza (non tutto, ancora), che interessa per la sapienza delle trame, degli ambienti e per la lucida presenza del suo commissario, Carlo De Vincenzi. Per chi ne fosse digiuno, ricordo che stiamo parlando degli anni Trenta, con epilogo tragico nel penultimo anno di guerra, il 1944.

Il modo che ha scelto Robecchi di imbastire la sua storia è abbastanza efficace e, almeno fino ad un certo punto, coinvolgente. Si parte da un vecchio regista, da anni a riposo dopo aver fatto film memorabili, come il sempre citato ma mai analizzato “Le verità spezzate”, che, ragionando sulle sue letture e su alcuni spunti da queste partite, comincia a pensare ad un ultimo film, quasi un lascito del suo pensiero. Un film, appunto, su Augusto De Angelis.

Il regista, Manlio Perrini, vive in una dépendance di una vecchia villa, regalatagli da un anziano ed ormai morto produttore cinematografico, cui era legato professionalmente. Nella villa vive ancora l’ottuagenaria vedova del produttore. Manlio coinvolge Sara, una sceneggiatrice molto fuori linea dai canoni hollywoodiani imperanti, e con lei avvia una ricerca per approfondire i temi del film. Andandosi ben presto a scontrare con il mondo americanizzato delle produzioni, che le vogliono patinate, con attori noti, ed altre “fesserie”, direbbe Manlio.

La vicenda si complica quando la vecchia vedova viene trovata strangolata ed il nostro si trova coinvolto nelle indagini. In quanto vicino, ma anche perché stabilisce un sodalizio trasversale con Chiara Sensini, la PM delle indagini e con un giornalista di cronaca nera.  Le due ricerche, per la sceneggiatura da parte di Manlio e dell’assassino da parte di Chiara. Entrambi arriveranno a delle conclusioni, tutte guidate, come insegnava il maestro De Angelis, dal caso.

Per caso la Sensini arriva a scoprire che il nipote della morte trasportava denaro in nero verso la Svizzera, per conto della vedova. E per caso scopre altri tasselli indiziari che potrebbero portare alla colpevolezza del giovane, o a quella del malcapitato domestico. Essendo uno ricco e l’altro povero, il pensiero sinistro di Robecchi ci fa capire dove penderà la bilancia, anche se, visto che non è quello il bersaglio principale, non ci farà scoprire tutte le soluzione e la risoluzione definitiva del caso giudiziario.

Per caso, Sara e Manlio scoprono dei documenti risalenti al tenente dei carabinieri che si occupò del caso De Angelis nel ’44. Inoltre, un incontro fortuito di Manlio con una giornalista francese permette ai nostri di abbandonare i giochi americaneggianti e trovare finanziamenti che permettono di girare il film così come lo avevano pensato. Anche se noi ci fermiamo durante la lavorazione dello stesso, che a Robecchi interessa altro.

Veniamo allora alla parte di verità note. De Angelis è lo scrittore che con una serie di romanzi ha “inventato” il giallo italiano. Un commissario milanese, Carlo De Vincenzi. Fatti criminosi che si svolgono nella bella Milano, spesso coinvolgendo persone di media e alta collocazione. Con De Vincenzi che adotta metodologie tutte sue per entrare nel mondo in cui si è sviluppato il crimine, e capirne le motivazioni, prima che gli esecutori. Se non li avete letti, sono libri filologicamente interessanti.

Tuttavia siamo nell’era fascista, e la censura non può che intervenire. Così che libro dopo libro, vengono chiesti a De Angelis piccoli aggiustamenti, il più importante dei quali è fare in modo prima che il colpevole sia straniero e poi che anche tutto l’ambiente del crimine sia pullulato di persone non italiane. In ultimo, che il colpevole venga sempre trovato, che in quell’Italia il crimine non poteva restare impunito (anche a costo di inventare i colpevoli).

E De Angelis, per poter vivere e sopravvivere, accetta, modifica, lima. Riuscendo, tuttavia, a mantenere il rigore giallistico che gli è proprio. La situazione precipita allo scoppio della guerra, quando tutti i romanzi e romanzetti polizieschi vengono soppressi, costringendo i pochi scrittori che riescono a sopravvivere, ad usare mezzi e mezzucci per andare avanti. Tutto sembra cambiare nel luglio del ’43. De Angelis torna a fare anche il giornalista, esprime le sue opinioni, velate, ma sempre antifasciste. Ma tutto precipita che dopo l’8 settembre, lui che è rimasto al Nord, si trova subito emarginato. Ed anche incarcerato dai Repubblichini per motivi di opinione, anche se non verrà mai esplicitato.

Dopo mesi di carcere, debilitato nel fisico e nello spirito, torna nella natia Bellagio. Dove viene preso di mira da un rude fascista della prima ora, malmenato, ridotto in fin di vita, sino a morire per le percosse nel luglio del ’44.

Vi lascio alla lettura del libro per sapere quello che prima dice Manlio e poi scoprono lui e Sara, che non si può dire tutto.

Quello che preme a Robecchi di mostrare, tra la vicenda di un tempo di De Angelis, le peripezie di trovare finanziamenti autonomi e la vicenda attuale dell’omicidio della vedova, è quello spezzarsi delle verità di fronte alla realtà. Perché, ci dice l’autore per bocca di Manlio, la verità si adatta all’ottusità del potere, alla volgarità di chi la ostacola. Per questo, mostrando l’ultima parte della vita del giallista, Manlio vuole fare un film «sulla dittatura del conformismo, sul nostro piccolo cedere spazi di libertà perché́ ci sembrano dettagli trascurabili».

Ma quando cominciamo a cedere spazi di libertà, non potremmo più essere liberi, non ci sarà mai più mostrata non solo la verità, ma una verità. Tutto verrà adattato e distorto. Robecchi dice forse una cosa ovvia, ma la dice bene, e ce la mostra, così che anche noi poveri mono-neuronici possiamo capirla.

Un solo suggerimento culturale: provate a leggere i brani del “Corriere della Sera” del ’43 sui bombardamenti sopra Milano, con l’occhio ai bombardamenti mediorientali di oggi.

Antonio Manzini “Il passato è un morto senza cadavere” Sellerio euro 17 (in realtà, scontato a 16,15 euro)

[A: 22/10/2024 – I: 30/10/2024 – T: 01/11/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 564; anno: 2024]

Non ci si può esimere, per la simpatia verso l’autore, verso il protagonista (ed anche verso l’attore che lo ha portato sullo schermo) di leggere a spron battuto una nuova avventura di Rocco Schiavone. Forse non a livello dei suoi migliori episodi, ma di certo molto meglio dell’ultima nonché quasi illeggibile prova.

Ormai inserito nel filone dei più classici noir di tipo “procedural”, cioè con un protagonista acclarato, ma anche con tanti comprimari che gli si muovono intorno, è un libro che segue di certo più filoni, con due episodi polizieschi da seguire con cura. Ma anche con un occhio vigile verso gli altri. In primis, la squadra di Rocco, ed in secondo piano, i suoi amici romani sempre pronti a dare una mano quando serve. Per non dimenticare i pochi ma essenziali interventi onirici della mai dimenticata Marina, di cui spero ci si potrà liberare prima o poi (vi spiegherò poi cosa intendo con “liberare”).

Lasciando da parte i sempre simpatici Brizio e Furio, vediamo la squadra. I corifei: il vice Antonio Spinelli è ormai una ombra fissa nel cammino di Rocco, un aiutante quando serve, una spalla, a volte anche dog-sitter per la bella Lupa; gli agenti Ugo Casella, utile per i contatti informatici del figliastro Carlo, e Michele Deruta, il portatore di paste sfornate dal suo Federico. L’anatomopatologa Michela Gambino, sempre sul pezzo anche se sta per sposarsi, e la ritornante Caterina Rispoli, un tempo quasi amante fissa di Rocco, poi allontanatasi (leggete le mie trame per sapere il perché) ed ora di nuovo ad Aosta, anche se in un’altra sezione.

Ho lasciato per ultimo Mimmo D’Intino, l’abruzzese di scarso italiano che dopo la rottura con la pessima fidanzata arrivista, è alla ricerca di un nuovo amore, che spera di conquistare a suon di poesie. Un racconto nel romanzo che però ci interessa il giusto.

Ed infine la trattoria di Ciro, dove Rocco si rifugia quando vuole pensare e mangiare e che fornisce spunti a diversi momenti della vicenda. Poco ci interessa quando e come, sappiate che ci sono e tanto basta (come ci bastano le descrizioni dei piatti che Ciro prepara).

Veniamo allora alle due storie intrecciate nello svolgimento temporale, anche se si occupano di due diversi casi. Pur se a me sembrano unite da un intento di critica ad alcuni sistemi di vita, rimanendo un po’ equidistanti da possibili estremismi, a volte più comportamentali che altro.

Nel “grande” caso ci sono una serie di morti che cominciano, o meglio, di cui vediamo la luce con la morte di un ciclista, non per un banale incidente di strada, ma per un voluto tamponamento verso le rocce ed il vuoto. Non sembrano esserci motivi, se non una strana ritrosia del morto verso ogni manifestazione esterna, quasi volesse nascondersi o avesse qualcosa da celare. Visto che anche negli ultimi decenni ha spesso cambiato modi di vita e di città. D’altra parte ha un ricco patrimonio familiare, per cui non ha interesse a sviluppare nessuna attività lavorativa.

Unica traccia che sembra poter essere seguita sono i (pochi) nomi presenti nel cellulare della vittima. Nonché nei pochi amici che la cognata anconetana riesce a ricordare. Il problema è che seguendo questo filo rosso, si scopre che, per cause apparentemente naturali o per inspiegabili incidenti, una serie di queste persone siano morte negli ultimi anni. Quando poi si scopre che almeno cinque morti avevano fatto il militare nello stesso battaglione in forza ad Erbacore (località fittizia eponima di tante caserme sparse nelle terre friulane), si accendono i primi bagliori di qualche possibile soluzione.

Da qui parte una lunga serie di inchieste che coinvolge la squadra di Rocco, ma alla quale intervengono anche Brizio e  Furio, i suoi due sodali romani sempre sul bordo della legge. Aiuti dovuti, che molte possibili prove vengono occultate dai vertici militari, che entrano in conflitto con la caparbietà di Rocco di trovare risposte a tutte le sue domande. Qui Manzini spara molte cartucce a questa parte dolente delle istituzioni, anche se poi affonda i colpi fino ad un certo punto. Sempre per l’equidistanza su cui torneremo. Comunque, Rocco riesce a presentarci il quadro completo degli avvenimenti, lasciando qualche punto in sospeso. Sia volutamente, sia, ma non credo, per possibili riprese future.

L’altra trama si concentra sulla sparizione improvvisa di Sandra, la giornalista con cui aveva tentato di avere un rapporto, del cui mal funzionamento ho già parlato. Qui Rocco agisce quasi in solitaria, dopo aver visto Sandra incontrare un tizio sgarrupato che poi si rivela essere un ex-terrorista che ha scontato anni di carcere per le sue attività ma che non sembra aver ripreso una vita regolare. Rocco sente odore di bruciato, che anche i genitori di Sandra hanno comportamenti strani. Fino a scoprire che il bersaglio era Susanna la sorella più grande di Sandra, anche lei invischiata in torbide trame giovanili.

Non vi spoilero i come ed i perché attraverso cui Rocco riesce a risolvere anche questo problema, dove colpisce a fondo l’altra parte del cerchio politico, ribadendo quell’equidistanza un po’ democristiana di cui accennavo. Anche se da “compagni che sbagliano” a “criminali senza se e senza ma” il passo è stato a volte breve.

Tutto per arrivare ad una resa dei conti di Rocco con sé stesso, e, tornando a quanto detto all’inizio, con Marina. Rocco continua ad interrogarsi sui suoi sentimenti verso Sandra, con Marina che continua a prospettargli una vita da affrontare senza altri legami inutili (secondo lei). Qui Manzini non sa ancora quale strada percorrere: continuare a tormentare noi e Rocco con le sue indecisioni o affrontare finalmente ed in maniera salvifica un’elaborazione positiva del lutto che io aspetto ormai da diversi episodi del nostro benamato vicequestore.

Comunque, nonostante la lunghezza è un libro che si legge agilmente, e con alcuni passaggi che ti tengono sulla pagina a riflettere. In particolare, alcune riflessioni, dritte o storte, di Rocco sulla solitudine, ma anche sul rapporto con gli altri. Un Manzini più in palla ed una prossima puntata delle avventure che non mancherà di apparire, prima o poi.

Questa volta, preso dallo spirito natalizio, rimarrei in una citazione concorde, riportando due frasi dello stesso Marco Malvaldi inserite nel selleriano “Il re dei giochi”. La prima mi fa senza dubbio pensare ai nostri giorni pieni di guerre: “La tua libertà finisce dove inizia quella degli altri.” (117) La seconda, è un mantra che mi ripeto fin da giovane sulla necessità di saper gestire gli errori: “Non capisco cosa ci sia di vergognoso nello sbagliarsi. Sbagliare è umano. Un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo, e se li ricorda tutti uno per uno. Sbagliando si cresce. Perché allora uno ammette di potersi sbagliare quando fa un dolce, e crede di essere infallibile quando giudica le azioni degli esseri umani?” (121)

È passata un’altra settimana che ci avvia a quell’anno di cui aspetto la soluzione. Intanto, archiviamo un viaggio che non si può impostare verso una regione potenzialmente a rischio, pensiamo a viaggi magari “verso l’altra parte del mondo”, prima che anche lì scoppino delle guerre. Un mondo brutto pieno anche di brutte persone, ma il nostro ottimismo continua a farci andare avanti, a farmi mandare un caloroso abbraccio.

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