domenica 30 marzo 2025

Alcune forme di giallo - 30 marzo 2025

Questa settimana le nostre trame affrontano, attraverso alcuni esempi, anche se non sempre ottimi, alcune modalità in cui si presenta il racconto del mistero. Abbiamo due tipologie similari ma di diversa riuscita del genere hard-boiled (l’ottimo Dashiell Hammett e l’interessante ma non completamento riuscito Francisco González Ledesma). Abbiamo un classico mistero della camera chiusa (il maestro del genere, John Dickson Carr). Abbiamo un poliziotto seriale alla oltre ventesima uscita (uno dei miei “must”, Hieronymus Bosch di Michael Connelly). Ed abbiamo un thriller piscologico, che confesso non aver gradito (che con Ian McEwan non riesco ad entrare in sintonia).

E come vedrete dagli spiegoni, questa volta, “old is better”.

Francisco González Ledesma “Storia di un dio da marciapiede” Corriere Noir 19 euro 8,90

[A: 06/12/2022 – I: 30/11/2024 – T: 02/12/2024] - && 

[tit. or.: Historia de Dios en una Esquina; ling. or.: spagnolo; pagine: 351; anno 1991]

Francisco González Ledesma è stato un interessante scrittore e giornalista spagnolo. Forse per dirlo meglio, più che spagnolo, barcelloneta. Ha scritto per 25 anni su “La Vanguardia”, ed ha ambientato un gran numero di romanzi nella sua città. Non ha scritto solo “novela policiaca”, ma ha dato un grande impulso al genere, dove gli si riconosce il primato di aver scritto, primo in Spagna, dei “romanzi polizieschi sociali”. Ciò, dove il giallo, il poliziesco, è inserito nel contesto sociale reale, divenendone una espressione globale.

Lo scrittore, purtroppo, ci ha lasciato dieci anni fa, sulla soglia degli 88 anni, ma qui lo esploriamo in uno dei libri cardine della sua espressività. Scrisse infatti dieci romanzi ed una raccolta di racconti incentrati sulla figura di un ispettore di polizia, Ricardo Méndez, non proprio esemplare nel suo modo di vivere, nel suo modo di indagare.

Méndez (che viene sempre indicato con il cognome e solo attraverso una ricerca mirata ho scoperto chiamarsi Ricardo) è discretamente maleducato, sicuramente malvestito, onnivoro e bevitore impenitente di cognac a buon mercato, ma anche disincantato, moderatamente ironico, che sa come nel presente la virtù sia realmente assente. Ha una vita sessuale disastrosa, ma una forte empatia per il piccolo crimine, tanto che difficilmente decide per l’arresto al posto di un chiarimento in una sordida taverna. Vive, lavora, respira sempre e solo a Barcellona, da dove si allontana, costretto, solo due volte per recarsi a Madrid, ed una per andare in Egitto.

In fondo, ha un sacro dispetto (non è un errore di battuta) per le leggi, tanto che può essere preso ad emblema dello spirito poliziesco di transizione tra la dittatura e la democrazia. Non a caso, i libri con Méndez sono pubblicati tra il 1983 ed il 2013, con uno strano andamento: cinque nei primi dieci anni, poi dieci anni di pausa, poi altri cinque negli ultimi dieci anni.

Per venire a questo (che con molta probabilità rimarrà una lettura isolata), la narrazione è un fiume in piena, che travolge anche l’autore. Un hard boiled all’americana (alla fine ci saranno almeno una decina di morti uccisi con violenza) in salsa paella, con l’attenzione di cui si diceva all’inizio, al sociale, alle dinamiche di vita nei quartieri alti ed in quelli bassi, con un occhio attento anche alla politica nazionale.

Méndez comincia in sordina, cercando di salvare la vita ad un cagnolino randagio, inseguendo il quale, sin dentro il Cimitero Nuovo di Barcellona, scopre il corpo di una bambina uccisa. Si pensa sia la figlia di un detenuto (uno dei pochi da lui arrestato) che scappa di prigione per vendicarla. Ma è una falsa pista, che quella vera li porta ad un poliziotto corrotto, che viene ucciso mentre Méndez cerca di interrogarlo. Unico indizio sono le tracce di un delinquente di medio calibro che sembra avere le mani in pasta. Tant’è che dopo diversi giri e inseguimenti, il nostro aiutato dal detenuto fuggiasco, raggiunge il tizio, capisce che lui è l’esecutore, ma lo uccide prima di scoprire chi è il mandante.

Tutto chiuso? No, che siamo solo all’inizio. Méndez, senza motivi validi, viene quindi spedito a Madrid per far da guardia ad un imprenditore basco pare minacciato dalla mafia. Qui scopre: che la minaccia è reale, che forse le minacce sono due, che la bambina morta è una bambina cieca, adottata da una ragazza anche lei nata cieca, ma anche immensamente ricca. Tant’è che oltre alla bimba autistica ha adottato anche una seconda bimba down.

Interessante e politica è la storia della famiglia di Clara, la cieca, che non vi dico, altrimenti spoilero tutto. Ma qualcosa si intreccia. Tutti, Clara, la seconda figlia, l’imprenditore in pericolo nonché i vari killer, ed ovviamente il nostro, sono nello stesso albergo. C’è un tentativo di stupro di Clara, sventato non vi dico da chi. E c’è un primo tentativo di uccidere il basco, sventato uccidendo il killer. Poi, senza un vero perché, tutti decidono di andare in Egitto. Clara e la sua famiglia per allontanarsi dalla bimba morta, l’imprenditore per allontanarsi dal pericolo, e solo Méndez lo fa a sue spese, subodorando che qualcosa non vada per il suo verso.

In Egitto si scopre che tutto nasce da ricatti subiti dalla famiglia di Clara, che ogni volta vuole pagare, e qualche fatto improvviso lo impedisce. Non solo, l’imprenditore subisce un secondo attentato, anche questo sventato. E tutta l’azione finisce in due tappe. La prima nella Città dei Morti del Cairo, dove muoiono altri due killer ed un poliziotto. La seconda, nella nave da crociera dove sono tutti i protagonisti, dove Méndez fa il riassunto di tutto quanto è avvenuto sin lì, consentendo anche a noi poveri lettori di unire tutti i puntini del disegno criminale. E dove tutto si risolve. Se la soluzione sia secondo giustizia o meno, sarà il caso che lo decidano i fortunati lettori del libro.

Che ripeto, non è brutto, anzi. Ha sicuramente punte di validità notevoli, sia in sé che verso di me. Ma è troppo pieno di tutto, tanto che non solo io ma anche l’autore ogni tanto si fa prendere la mano. Tipo che all’inizio compare un giornalista che occupa un lungo capitolo di discorsi con Méndez e poi scompare. Forse è qualcuno di precedenti puntate. Come di altri episodi potrebbe essere un secondo giornalista scambiato per un possibile pedofilo. Così come i killer che pullulano nella seconda parte, che sembrano avere familiarità con il nostro ispettore, ma è un rapporto che non viene chiarito.

Il tutto messo sulla bilancia che ha sull’altro piatto, i discorsi sul sesso e sulle donne, che ora sarebbero “politically incorrect” ma che ci stanno nell’economia del testo. Le descrizioni delle periferie, di Barcellona, ma anche di Madrid. Un Barcellona che, ad esempio, non è solo bettole del Barrio Chino e marciapiedi del Poble Sec, o dei turisti delle Ramblas, ma giri e rigiri per zone che solo i migliori sanno collocare, come Sant-Estaciò e Horta.

Dal mio punto di vista, poi, tutta la deriva egiziana è degna di ricordo, a cominciare dall’albergo dove tutti convergono all’inizio, il Mena House, dove sostai anch’io esattamente due anni prima della scrittura del libro. Per poi non scordarsi, navigando con Méndez sulla “Nile Dream” le mie crociere sul Nilo stesso, e tutte le visite. Ogni parola egizia, mi risuonava nel cuore con note di bei e mai dimenticati ricordi. Come anche per l’Hotel Marriott a Zamalek, i passaggi per lo Shepard Hotel o per piazza Tahir. Insomma come si fa a dimenticare l’Egitto?

Per finire, però, c’è una domanda forte di cui non capisco le possibili risposte. Il libro è scritto nel 1991 (ed in effetti si parla di una Barcellona in ricostruzione in vista delle Olimpiadi del ’92) ma il riscatto richiesto viene espresso in euro. Poiché l’euro sarà introdotto in Spagna solo otto anni dopo, nel 1999, mi chiedo se sia una revisione (inutile) o un errore macroscopico dei traduttori. Che nella prima parte, quando si parla di soldi, si menzionano i “duros”, nome con cui veniva indicata la moneta da 5 pesetas. Un nome utilizzato poi anche nei suoi multipli, tanto che 100 pesetas venivano dette 20 duros. Allora, è facile pensare che duros sia un errore di battitura, dove si doveva scrivere “euros”. Ma se qualcuno lo ha pensato, io penso che debba essere licenziato su due piedi.

Dashiell Hammett “La chiave di vetro” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 30/12/2024 – T: 31/12/2024] - &&& e ½      

[tit. or.: The Glass Key; ling. or.: inglese; pagine: 215 anno 1931]

Una delle quattro liste che ho stilato nell’ultimo mese del 2024 riguardava l’elenco di una serie di gialli “storici” che l’opinione letteraria giudicava imperdibili. In questa lista, non poteva mancare uno dei padri putativi di un genere che, nato in America, ha poi pervaso molta letteratura poliziesca: il giallo “hard boiled” ed il suo primo ed elevato esponente, Dashiell Hammett.

Hammett non è stato un autore prolifico (ha in realtà scritto solo 5 romanzi, anche se ha al suo attivo molti racconti e un buon numero di sceneggiature), ed ha prodotto (o meglio pubblicato) la maggior parte delle sue opere tra il ’28 ed il ’40. Ma dopo la pausa della guerra, il suo essere sempre di sinistra (iscritto al tempo anche per un periodo al partito comunista americano) lo ha ben presto messo nella lista nera del senatore McCarthy. Non ha mai deviato dalla sua linea di condotta, ma non ha più avuto contratti, ha cominciato a bere pesantemente, ed è morto di cancro nel 1961, sei mesi prima del suicidio di Hemingway (non c’entra nulla, solo date coincidenti, come anche per la nascita di mio fratello Paolo).

L’estrema pulizia e chiarezza delle idee, portano Hammett a credere che, anche nella scrittura, siano i fatti a dover essere presentati. Noi che ne leggiamo, dobbiamo avere, con gli strumenti asettici che ci fornisce, il modo di farci meglio il quadro d’insieme, le motivazioni, le psicologie dei personaggi. Lui descrive, interrompe la narrazione con dei dialoghi (si vede la mano dello sceneggiatore), e soprattutto si fissa e ci fa fissare su dettagli. Come vestono i personaggi, come si muovono. Ci fa notare, ad esempio, che il protagonista spesso si tocca i baffi con un unghia quando è impegnato in un momento saliente della conversazione.

Oppure, nella sua insistenza su di un cappello. Che viene nominato quasi subito, senza che si capisca il motivo, che il protagonista trafuga, poi indossa pur essendo di una taglia più grande, e solo nel finale ne capiamo il motivo, ed il perché di tutta questa insistenza. Dicevo dei dettagli: sempre senza farci capire che la nostra attenzione deve seguire le azioni del protagonista, trova il modo di farcelo balzare agli occhi ad ogni capitolo. Dei 58 capitoli del libro  ben sedici iniziano con il nome del protagonista.

Intanto, pur non nominandola mai, ma facendoci intendere che è un esempio tipico di una città americana degli anni ’30, capiamo da alcuni accenni che possa trattarsi di Baltimora, nel Maryland dove Hammett visse molti anni. Una città corrotta, dove i gangster la fanno da padroni. In particolare, Paul Madvig è l’anima nera del luogo, le mani in pasta in molti traffici illeciti, e con al libro paga buona parte dell’amministrazione cittadina, nonché il senatore locale, Ralph Bancroft Henry. In vista delle elezioni, Paul cerca il modo di appoggiare il senatore, e di rifarsi una verginità, sia cercando di sposare Janet, la figlia del senatore, sia ostacolando il rapporto tra sua figlia Opal e l’altro figlio del senatore, Taylor. Il quale, si capisce dalla trama, è uno sfaccendato dilapidatore dei soldi di famiglia e dedito anche a loschi affari.

Quando Taylor viene trovato morto con la testa spaccata, Paul non può che affidarsi al suo confidente, consigliere nonché anche amico Ned Beaumont. Che diventa il fulcro delle azioni. Ned è anche lui luci ed ombre, giocatore di poker, scommettitore sui cavalli, ma dotato di una qualità fuori luogo nell’ambiente: è leale, e, nella misura dell’ambito in cui si muove, corretto. Così Ned si improvvisa investigatore, soprattutto per allontanare possibili sospetti di coinvolgimenti di Paul nella morte di Taylor. Assistiamo così ad una lunga cavalcata nel crimine e nel malaffare.

Opal sospetta del padre che gli ha allontanato Taylor. Janet sospetta di Paul perché non ne accetta la corte, e vede che nessuno sembra voler indagare seriamente sulla morte del fratello. Ned si muove in tutto ciò, dovendo anche far fronte al rivale di Paul, l’irlandese Shad O’Rery che, approfittando della debolezza di Paul, sta cercando di esautorarlo dalle manovre di potere. Ned si muove, toglie una serie di nomi dai possibili assassini, subisce percosse dagli scagnozzi di Shad, convince sia Opal che Janet dei loro errori, riesce anche a ribaltare le posizioni inducendo lo sgherro di Shad ad uccidere il suo capo (una delle scene più cruente e meglio descritte dell’hard boiled classico).

Ned sembra arrendersi solo quando, scartati molti sospetti, è Paul stesso che confessa di essere l’assassino. Ned non gli crede, e per questo rompe l’amicizia, anche perché durante le sue ricerche sembra essersi innamorato lui di Janet. Ma il fido Ned non può fermare le sue indagini, troverà il colpevole, andrà a New York con Janet ed Hammett, senza chiudere tutte le domande, ci lascia con Ned che guarda chiudersi una porta.

Come dire chiudere qualcosa potrà dire aprire altro? Un tocco di psicologia, che torna anche in un altro aspetto del romanzo. Il titolo, infatti, esce fuori da un sogno di Janet dove lei e Ned cercano di chiudere dei serpenti in una casa chiudendo la porta con una chiave di vetro. Che però si rompe e i due vengono assaliti dai rettili. Il sogno esemplifica probabilmente, e forse un po’ ingenuamente, l’impossibilità di sfuggire ai meccanismi criminali del potere.

Hammett scrive tutto da narratore, ma non onnisciente, che non dà mai giudizi, e con la creazione dell’atmosfera generale del romanzo ci fornisce una realtà forse semplificata, ma di certo molto vicina al vero. C’è denuncia sociale nel suo libro, c’è lo sconfortante panorama, ora come allora, della democrazia statunitense. Se facciamo un opera di sostituzione, ponendo la finanza al posto del crimine organizzato, e l’uso dei social media per manipolare l’informazione al posto dei metodi violenti dell’epoca, abbiamo un ritratto dell’oggi neanche troppo lontano dalla verità.

In tutto ciò, da buon conoscitore degli ambienti sociali di tutte le risme (non a caso ha fatto per anni anche l’agente dell’agenzia investigativa Pinkerton), Hammett realizza in Ned Beaumont il suo eroe più umano, meno ideale e fuori dal contesto sociale come Sam Spade. Ned infatti non è buono, ha i suoi lati oscuri (o grigi) ma ha un’indistruttibile codice d’onore.

Infine, pur contenendo molto, asciugando al meglio la sua scrittura, sembra quasi voler applicare la filosofia di Occam alla sua opera: “Non bisogna moltiplicare gli elementi più del necessario”. E qui, tutto è necessario.

Inciso, la massima riportata, seppur sintetizza la filosofia del rasoio di Occam, non compare mai nella sua opera, ma è presente nel commentario scritto dal filosofo John Punch alle opere di Duns Scoto. Piccolo gancio per i miei amici ed amiche filosofi.

Per concludere, sono contento di aver letto il libro nella traduzione di Sergio Altieri che, meglio della prima fatta dalla pur eccelsa Lisa Morpurgo, rende l’atmosfera cupa ed il gergo della malavita americana.

Ian McEwan “Cortesie per gli ospiti” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 01/02/2025 – T: 03/02/2025] - &&    

[tit. or.: The Comfort of Strangers; ling. or.: inglese; pagine: 134; anno 1981]

Come molti sanno, continuo a non essere un grande estimatore di Ian McEwan. Certo, nulla da dire su bravura, capacità, inventiva ed altro. Ma non riesco ad entrare nella sua cosmogonia, non riesco ad empatizzare con i suoi personaggi. Ho provato anche qui, in questo che è uno dei suoi primi scritti, di più di quaranta anni fa, che è anche inserito tra i cento libri noir e thriller assolutamente da leggere.

Beh, sarà forse un thriller psicologico, ma anche in quel senso, ho faticato nella lettura, con poco o nulla che mi è rimasto nella mente una volta lette le ultime righe.

Intanto, un primo appunto sul titolo, che non so quale editore ha portato verso una lettura di riferimento tra i personaggi centrali del testo ed i due che li intrattengono in varie situazioni. Che cioè li fanno diventare “ospiti”, riservando loro delle cortesie che mi sembrano molto ingannevoli. In realtà, l’originale riporta “Il conforto degli estranei”, dove meglio si gioca sulla non reciprocità delle posizioni (le due coppie in effetti sono reciprocamente estranee) e sul contrappasso tra la ricerca di un aiuto, di un conforto, e cosa viene effettivamente scambiato.

L’azione si svolge in una città mai nominata, ma che, per accenni e per modalità varie, possiamo identificare con Venezia. Soprattutto quando, per parlare di una chiesa, McEwan riporta quasi integralmente un passo del libro “Le pietre di Venezia” di John Ruskin che descrive la Basilica di San Marco. Per non parlare dei passaggi per viottoli (calli?), isolette e bar collegati (quasi verrebbe in mente anche l’Harry’s Bar).

La storia segue le vicende di una coppia di amanti, Colin e Mary, in vacanza nella suddetta città. Lei si sta separando dal marito, cui ha lasciato i due figli, per passare del tempo con l’amante. Anche perché la loro relazione si sta trascinando stancamente, quasi che non ritrovano stimoli ed altre motivazioni per continuare la loro storia. Non parlano la lingua del posto, quindi faticano anche a fare i turisti, ed a trovare luoghi di ristoro (bar, ristoranti e simili).

Casualmente, durante una di queste uscite senza costrutto, incontrano Robert che ben conosce i luoghi e che soprattutto parla la loro lingua. Robert che si attacca a loro come una cozza sullo scoglio, li porta a bere, li inonda di parole e di descrizioni della sua vita (sorelle tremende, un padre autoritario da dimenticare, ed altri fatti di vita a metà tra invenzioni e storie reali). Colin e Mary, pur contenti della serata, ne sono un po’ intimoriti e per qualche tempo non si muovono dall’albergo.

Ma Robert capita (casualmente?) nell’albergo, li costringe a venire con lui, portandoli nella sua casa, dove cominciano ad avere strane esperienze. Probabilmente drogati, o solo ubriachi, si ritrovano nudi e segregati sino al mattino. Quando, rivestiti, conoscono Caroline, la moglie di Robert, confinata su di una sedia a rotelle. E qui comincia uno strano gioco psicologico. Robert si rivela ambivalente: manesco e deferente. Dà un pugno a Colin che rimane tramortito, mentre Mary è intrattenuta da Caroline, che le narra le violenze che subisce quotidianamente da Robert, in un rapporto fortemente sado-maso.

Poi si scambiano i ruoli. Robert fa la corte a Mary mostrando le foto che ha scattato in giro per la città, mentre Caroline implora Colin di non lasciarla sola, di tornare ancora, che la sua presenza sembra calmare la rabbia di Robert. Dopo altre inutile pagine, e vertigini psicologiche, arriviamo ad un sorprendente finale tra tisane drogate, violenze gratuite, approcci sessuali espliciti ma non sempre graditi e/o corrisposti.

Forse qui si raggiungono quei momenti “thriller” che ne caratterizzano il modo in cui viene considerato dai critici tutto il romanzo. Anche se per me, pur essendo fortemente connotato dalla psicologia (e patologia) dei personaggi, non mi dà la sensazioni di una connotazione di genere. È un libro. Punto. Ci sono persone di diversa natura. Punto. E non per tutti finisce in modo positivo. Punto e fine.

Credo che, celate nelle pieghe delle vicende, McEwan voglia riflettere su due aspetti della vita di ognuno: le conseguenze delle nostre azioni e le maschere che indossiamo ogni giorno per nasconderci agli altri. Di certo punti non da poco nella vita di tutti, ma che, per il mio intendimento, vengono qui buttati allo sbaraglio, senza riuscire a coinvolgermi in un ragionamento che poteva essere ben strutturato.

McEwan scrive e scrive bene, ma non scrive per me.

Michael Connelly “La fiamma nel buio” Pickwick euro 10,90

[A: 01/12/2021– I: 16/02/2025 – T: 17/02/2025] - &&&  

[tit. or.: The Night Fire; ling. or.: inglese; pagine: 389; anno 2019]

HB25; RB3; MH10

Poiché è ben noto il mio affetto incondizionato verso il personaggio di Hieronymus “Harry” Bosch, non posso che cominciare parlandone sommariamente bene, anche se questa venticinquesima uscita del mio beniamino riserva qualche ruggine che dovrà essere sciolta prima o poi.

Intanto continua ad infittirsi il gioco di rimandi incrociati e di storie che si intrecciano, tanto che, pur basato su pochi attori, sta sempre più diventando un “procedural thriller”. Dal punto di vista dei personaggi, Bosch, purtroppo, sta invecchiando. Si avvia alla settantina (un pupo direte voi), ha avuto una pallottola nella gamba nel precedente romanzo, e qui, spesso, usa un bastone. Inoltre, si sente vulnerabile perché troppo legato ormai a Maddie la figlia ritrovata. Tuttavia, non esita a mettersi in gioco, ad agire ai limiti della legge ma sempre all’interno di una correttezza formale.

È anche un romanzo che vede il nuovo alter-ego di Bosch uscire sempre più allo scoperto. Renée è sempre anche lei ai limiti, essendo emarginata dal maschilismo poliziesco. Vive in una tenda sulla spiaggia, insieme alla sua cagnona Lola. Ed è contenta di continuare a lavorare in notturna, avendo così meno contatti con un ambiente che non ama.

Detto anche di un cammeo del fratellastro di Bosch, Mickey che coinvolge il nostro in un processo, per poi dargli via libera nel seguire il caso che ne consegue, ovviamente aiutato da Renée, visto che qualcuno deve pur accedere a fonti ufficiali, veniamo alla tramona.

Tutto inizia con la morte di John Jack Thompson, il mentore di Bosch quando questi entrò in polizia. E come lascito ereditario, la vedova consegna ad Harry un fascicolo d’indagine che JJ teneva nel cassetto. Una morte per arma da fuoco di quasi trent’anni prima. Mentre Bosch comincia a prendere notizie sul caso, Ballard è coinvolta nella morte in un rogo di un forse clochard o forse no. Capitando in situazioni che richiedono per lei informazioni in possesso di Bosch. Il tutto condito dal caso passato loro dal fratellastro. Una volta assolto un accusato, rimane il mistero della morte di un giudice.

Ecco allora che la premiata ditta B & B si pone all’opera con tutti i mezzi a disposizione. Il primo e più facile caso viene risolto con la scoperta di possibili connessioni ereditarie legate alla morte per fuoco del tizio (i famosi fuochi notturni che illuminano le scene losangeline). Ma una volta risolto questo, gli altri due sembrano più intrigati ed intriganti.

Intanto, il giovane morto anni prima, oltre ad essere legato al mondo degli spacciatori, era anche omosessuale. Un motivo di preoccupazione per Bosch che sapeva l’avversione di JJ verso i gay. Allora, il fascicolo lo teneva per indagare lui o per evitare che si indagasse nel mondo gay? Su questa domanda vi lascio interrogare anche voi, ma i nostri paladini tirano comunque avanti, riuscendo a ricostruire la trama di quella morte, nonché a trovarne l’esecutore materiale.

Più complesso è il caso della morte del giudice. Perché non si trovano prove. Perché una testimone sulla scena del delitto non è quella che dice di essere. Perché ci sono diverse morti sospette legate ad indagini effettuate dal giudice, ma anche legate ad un, sembra, insospettabile ufficio legale. Mentre tutto sembra svanire nel campo delle possibilità (un avvocato cerca di imbarcarsi per le Cayman, un galoppino fa un volo di trenta piani), con alcuni colpo di genio (questi sì al limite, come intercettazioni poco autorizzate ed altri interventi efficaci seppur dubbi), la nostra coppia collega il tutto ad altri avvenimenti successi a Las Vegas, arrivando a risolvere anche questo bandolo.

Insomma, pur con qualche caduta di tensione, e ricordando che, di fondo, uno dei costanti bersagli di Connelly è la corruzione nelle forze dell’ordine, devo dire appunto che il risultato complessivo è gradevole. Anche nell’ottica di una futura ed ancor più stretta collaborazione tra Bosch e Ballard.

Ricordato infine, qui come in molti dei libri di Connelly, l’ottimo lavoro di traduzione di Alfredo Colitto, vorrei menzionare due passaggi musicali che, al solito, mi hanno intrigato e legato sempre più al mondo Connelly – Bosch. Tra pagina 180 e pagina 185 si parla prima del sax tenore di Ben Webster, un musicista che percorse una lunghissima carriera (dal 1930 al 1970) alternando esibizioni strabilianti a momenti di cattiveria e violenza (dovute agli eccessi alcolici). Poi di un disco favoloso (che ho in CD), il concerto di Charlie Mingus alla Carnegie Hall che contiene due tracce stupende: “C Jam Blues” (24’41”) e “Perdido” (22’32”). Quasi cinquanta minuti di musica inarrivabile. Grazie Harry.

John Dickson Carr “Le tra bare” Polillo Editore euro 13,90 (in realtà, scontato a 13,20 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 23/02/2025 – T: 25/02/2025] - &&&&      

[tit. or.: The Three Coffins; ling. or.: inglese; pagine: 344 anno 1935]

Riprendo quanto detto con Dashiell Hammett, questo libro viene da una lista stilata qualche mese fa e riguardante l’elenco di una serie di gialli “storici” che l’opinione letteraria giudicava imperdibili. Non poteva quindi mancare questo classico del 1935 di uno degli autori più prolifici del genere. Ma soprattutto da quello che viene considerato il maestro dei “delitti in una camera chiusa”: John Dickson Carr.

L’autore è infatti un tal maestro teorico degli enigmi che dedica un intero capitolo del romanzo all’esame, per bocca del dr. Gideon Fell, di tutte le varie possibili situazioni di delitti apparentemente inspiegabili. Un capitolo che viene considerato uno degli elementi cardine della letteratura gialla, paragonabile al famoso elenco di S.S. Van Dine  sulle “Venti regole per scrivere romanzi polizieschi”.

Disquisizioni su cui torneremo, mentre ora, percorrendo il romanzo notiamo due sicuri fatti: una scrittura che risente molto degli anni Trenta in cui fu scritta, un po’ prolissa in alcuni punti ed a volte tendenzialmente ingannevole (bisogna fare attenzione a tutto quanto viene scritto e detto che indizi minuti vengono sapientemente sparsi nel testo) e un’idea generale della trama molto complessa, tanto che ci vorranno un congruo numero di pagine perché la soluzione del mistero venga spiegata (e qualche rilettura perché venga capita).

La trama principale, in sé, sembra essere lineare. Il professore di origini francesi Charles Grimaud, studioso di miti e leggende basate sul sovrannaturale, ad una cena viene minacciato da un attore illusionista, Pierre Fley, che rivela di essere fratello di Charles ed accenna ad un misterioso terzo fratello che potrebbe essere pericoloso per lo studioso. Sere dopo, Grimaud essendo chiuso nel suo studio, si sente uno sparo. Un’irruzione nello studio, chiuso dall’interno, rivela un Grimaud morente per un colpo di pistola. Ma né si trova la pistola, né si evince nessun luogo dove qualcuno possa essere uscito: porta chiusa dall’interno, finestre chiuse, e casa circondata da neve appena caduta senza nessuna impronta rilevabile.

La polizia si muove subito alla ricerca di Fley, che però viene ritrovato morto per un colpo di pistola, con la pistola stessa accanto al cadavere. Fley stava camminando in mezzo ad una strada senza uscita, dove due signori, di poco avanti a lui, sentono parole di minaccia, sentono il colpo d’arma da fuoco, si voltano e vedono solo Frey steso in terra, nessuna orma intorno al corpo ed un poliziotto che accorre dalla parte aperta della strada.

Due delitti, uno al chiuso ed uno all’aperto, apparentemente inspiegabili.

Come in altri ventidue romanzi (di cui questo è il sesto) l’investigatore principe è il dottor Gideon Fell. In realtà, più che investigatore in senso stretto, è un collaboratore di Scotland Yard, ma i suoi ragionamenti e le su scoperte portano, direttamente o indirettamente, alla soluzione del mistero. È una persona corpulenta (di sicuro supera i cento chili di peso e dovrebbe essere alta intorno al metro e novanta), ha una folta chioma di capelli quasi completamente grigi, baffi imponenti, voce tonante e soffre di asma. Indossa spesso un mantello e un cappellaccio dalla tesa larga.

Oltre a Grimaud e Fley, vediamo gli altri attori presenti agli avvenimenti. Ci sono Rosette Grimaud, la figlia di Charles, e Boyd Mangan, giornalista e fidanzato di Rosette che durante il primo delitto scoperto sono in una stanza a pian terreno della casa. C’è Stuart Mills, il segretario del professore, seduta ad una scrivania di fronte allo studio del professore. C’è Ernestine Dumont, governante del professore, ma anche madre di Rosette. Poi ci sono gli amici di Grimaud: Anthony Pettis, scrittore ed anche lui esperto di spiritismo, Jerome Burnaby, pittore ed autore di un quadro su cui torneremo, e Hubert Drayman, insegnante in pensione e sodale di lunga data di Grimaud. Mentre dalla parte di Fley, è presente il suo amico acrobata John L. Sullivan O'Rourke.

Gideon Fell interroga a più riprese tutti quanti, ed è interessante seguire quanto ognuno dice. Fell, inoltre, in base ad alcuni indizi, ricostruisce la storia a monte degli avvenimenti. Il professore in realtà si chiamava Karoly Grimaud Horvath, un ungherese che insieme ai suoi due fratelli, Pierre Fley Horvath e Nicholas Revei Horvath, rapinò una banca. Ma vennero presi e condannati a venti anni di lavori forzati. Fingendosi morti di peste, vengono seppelliti. Karoly riesce ad uscire dalla tomba ed aiutato da Drayman fugge all’estero lasciando (si pensa) morire i fratelli. Una scena che, descritta tra amici, il pittore Burnaby dipinge in un quadro che sarà presente nello studio dove muore Grimaud.

Tutto sembra quindi convergere sulla figura di questo terzo fratello. Esiste? È uno dei personaggi camuffatosi? Oppure, è morto?

Altri elementi si accumulano durante gli interrogatori: Ernestine dice che un uomo si presenta alle nove e trequarti chiedendo del professore, ed irrompe nello studio dicendo di chiamarsi Pettis. Una scena confermata dal segretario. Dopo di che, alle dieci e dieci, si sente lo sparo nello studio, e tutti (Ernestine, Stuart, Rosette e Boyd) si precipitano verso la porta chiusa. Inoltre, il poliziotto che constata la morte di Pierre la indica alle dieci e venti, basandosi su di una pendola presente in un negozio nella strada del secondo sparo. E nella stessa strada si ritrova una stanza presa in affitto dal pittore, che però sostiene di aver preso parte ad una partita a carte per tutta la serata.

Ma allora chi è che mente? Tante sono le possibilità. Ernestine che apre la porta dello studio allo sconosciuto. Stuart che dice di averlo visto entrare. Boyd che aveva sentito lo sconosciuto fare il nome di Pettis. Rosette che sostiene che Drayman (supposto dormiente) non era in casa. Burnaby che giocava a carte. L’acrobata che era in teatro. Il poliziotto che ha segnato l’ora. Tuttavia Fell, dopo i vari interrogatori, alla fine sostiene che tutti hanno detto la verità, meno una persona, che però non è il (o la) colpevole dei misfatti.

Ed in base a piccoli dettagli (che anche noi avevamo potuto vedere durante le prime trecento pagine, senza tuttavia riuscire ad isolarne il reale contenuto), Fell nel lungo finale ricostruisce tutte le azioni della serata, individuando la persona colpevole dei delitti. Una ricostruzione bella ed ingegnosa che invito tutti a leggere, un colpo di genio per la soluzione di quegli enigmi della camera chiusa, di cui Fell aveva fatto oggetto di concione pochi capitoli prima.

Ed è quel capitolo (ovviamente insieme a tutto il romanzo) che costituisce il punto di forza del romanzo. Anche perché, nell’introdurre il discorso, l’autore fa uso di un interessante stratagemma linguistico: si rivolge direttamente al lettore, usando una tecnica teorizzata pochi anni prima da Bertolt Brecht e nota come “la rottura della quarta parete”, quando l’attore si rivolge al pubblico facendogli capire che sta vivendo (leggendo) una finzione. Un modo esaltato anche da Pirandello in “Sei personaggi in cerca d’autore”. Ed una tecnica che negli stessi anni, la studiosa e scrittrice Dorothy Sayers in una sua conferenza su “Aristotele on Detective Fiction” sintetizza con il termine “paralogismo”, che è la ricetta regina del racconto poliziesco: l’arte di raccontare il falso.

Non è forse questo il luogo per addentrarci oltre nella disamina delle idee dell’autore sugli enigmi della camera chiusa, anche se prima o poi ci si tornerà. Qui ci basta dire che questo romanzo costituisce una delle pietre miliari del genere, per come è costruito, per quello che c’è intorno, per le idee dello scrittore e per come le porta avanti, senza mai stancarci, per più di trecento pagine.

Forse alla soluzione, senza l’aiuto di Fell, non saremmo arrivati, laddove lo stesso Fell a volte sembra volare troppo alto per i nostri neuroni troppo legati alla pagina. Fors’anche il delitto si avvolge troppo su sé stesso. Ma la trama alla fine affascina e l’autore coinvolge. Una soluzione così lascia dentro un piacevole stupore, per coronare un romanzo che mi ha conquistato.

Visto che abbiamo parlato di gialli, ci manteniamo su questo versante con uno dei grandi maestri del giallo scandinavo, il compianto Henning Mankell con alcune frasi tratte da “Il cinese”:

“La memoria è come un vetro. Quello che è sparito è ancora visibile, ma non possiamo più raggiungerlo.” (99)

“In me il pensiero di un mondo in cui la solidarietà abbia un significato è ancora vivo … Non eravamo soltanto studenti scatenati che credevano di essere al centro di un mondo in cui niente era impossibile. La solidarietà era reale.” (308)

“Mi capita di avere l’impressione che cerchiamo di dimenticare più che di ricordare … Alla fine l’unica cosa che ci rimane sono gli amici.” (313)

“In quei terribili mesi della primavera del 1968, vivevo in un’illusione. Poi mi sono rifugiata nella storia…” (349)

“Il nostro passato è l’unico che abbiamo.” (356) [ed anche il nostro futuro!]

“Vorremmo che tutto potesse ripetersi, potesse tornare a essere precisamente come era … Ma invecchiare significa anche imparare a difendersi dal sentimentalismo. L’amicizia deve essere messa alla prova e rinnovarsi. Forse i vecchi amori non cambiano mai. Ma l’amicizia sì.” (513)

Con ciò, abbiamo da oggi l’ora legale che ci introduce ai mesi sempre più solatii e sempre più, si spera, dedicati ai viaggi ed alle amicizie. Per ora poco altro, se non un augurio di mantenervi tutti in buona salute, accomunati da un mio abbraccio.

domenica 23 marzo 2025

Filosofi? - 23 marzo 2025

Un punto interrogativo per una settimana dedicata ai pensieri. Con due scritti su tutti, una enciclica di papa Francesco, lettura sempre di interesse, ed il libro sull’errore di Carofiglio (dove ringrazio Renato per il suggerimento). A ruota, un classico florilegio di articoli degli anni Trenta del mio amato Simenon (ed anche qui con una domanda al mio amico skipper). In coda, ma sempre su livelli di interesse, due libri realmente “filosofici”: Alain de Botton e Gerd B. Aschenbach, direttamente dalla collana “Filosofia viva” di Repubblica.

Penso che ci sia bisogno, ogni tanto, di momenti più riflessivi, e questo è uno di quelli.

Francesco “Dilexit Nos” Libreria Editrice Vaticana euro 2,90 (in realtà scontato a 2,75 euro)

[A: 29/11/2024 – I: 02/12/2024 – T: 03/12/2024] &&&&  ----   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 206; anno: 2024]

Pur non essendo esperto in materia religiosa, leggo sempre con interesse gli scritti di Papa Francesco che con questa pubblica la sua quarta enciclica, “Dilexit Nos”, che esce in un giorno dai numeri significativi: 24/10/2024 (ripetizione inizio-fine del 24 e 10/20 mese con secolo doppio; ovvio che queste sono le paturnie mentali di un lettore matematico che non entrano nulla nella realtà del testo).

Ho deciso quindi di intraprenderne la lettura, anche sollecitato dal ricordo della terza enciclica, “Fratelli tutti”, dedicata alla fraternità universale. Tuttavia, ho avuto qualche difficoltà nell’entrare nel testo che, per alcuni aspetti, è molto legato all’aspetto teologico delle riflessioni del papa. È in realtà una lettera molto intima, in cui Francesco esprime il cuore della sua fede legandola agli aspetti religiosi dell’amore umano e divino. Tanto che viene giudicata, dagli esperti vaticanisti, quasi come un testamento religioso dello stesso Francesco.

Per quanto detto sopra, ho avuto appunto difficoltà ad entrare nei dettami teologici del discorso, motivo per cui, dal punto di vista letterario, ne risulta un testo non sempre in linea con la mia capacità di analisi e di critica (che si esprime nei piccoli “meno” del mio giudizio complessivo). Il senso generale che mi ha comunicato, comunque, è un’enunciazione di un modello di pensiero che invita, tutti, a superare le frammentazioni individuali.

Ad esempio, già nel primo capitolo si ritrova un’esortazione spesso presente nelle sue parole: la “compassione di questa terra ferita” (DN31), ricordandoci le parole di Sant’Agostino: “chi considera senza angoscia dell’animo i mali della guerra ha perduto il sentimento umano”. Un sentimento da ricostruire per poter “creare legami fraterni, riconoscere la dignità di ogni essere umano e prenderci cura insieme dell'ambiente”. Ponendo poi la base di tutto lo scritto: il cuore. Sede dei sentimenti, ma dove non possiamo che convenire con lui che “vedendo come si susseguono nuove guerre, con la complicità, la tolleranza o l’indifferenza di altri Paesi, o con mere lotte di potere intorno a interessi di parte, viene da pensare che la società mondiale stia perdendo il cuore” (DN22). E perdendolo non si può che cadere nell’angoscia.

Bisogna unirsi fraternamente agli altri per arrivare a rispondere e rispondersi sulle questioni che tutti ci siamo posti e ci poniamo: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine. Siamo allora tutti infelici?

Forse sì. O forse ci salva quel sentimento che trabocca di compassione attiva verso gli altri. Francesco ci ricorda il Vangelo di Matteo, dove Gesù dice “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Affermazione che negli stessi Vangeli ci viene illustrata negli incontri di Gesù con gli impuri e gli emarginati: l’adultera, il cieco, la samaritana.

Una misericordia che serve a rafforzare la fratellanza (quella già espressa nella precedente enciclica) per affrontare insieme le sfide mondiali, dalla povertà alla crisi ambientale alle crescenti diseguaglianze, per aiutare gli altri affinché soffrano meno e vivano meglio.

Una parte emotivamente (e narrativamente) coinvolgente si sviluppo nel centro del testo, quando Francesco narra le sue esperienze infantili. Come il racconto delle frittelle che la nonna friggeva a carnevale. Una pasta sottile che nell’olio si gonfiava ma che, mangiandole risultavano vuote. Dice Francesco: “Quelle frittelle in dialetto si chiamavano “bugie”. Ed era proprio la nonna che ci spiegava il motivo: ‘Queste frittelle sono come le bugie, sembrano grandi, ma non hanno niente dentro, non c’è niente di vero, non c’è niente di sostanza’” (DN7).

Ed altri ricordi ci fa spuntare dal fondo della memoria, la capacità di far sbocciare sorrisi con una battuta, di tracciare un disegno al controluce di una finestra. L’immagine che ci resta anche nel cuore di giocare la prima partita di calcio con un pallone di pezza, di conservare dei vermetti in una scatola di scarpe, di seccare un fiore tra le pagine di un libro, di prendersi cura di un uccellino caduto dal nido, di esprimere un desiderio sfogliando una margherita. E qui ci riporta all’oggi, al dibattito tra uomo ed intelligenza artificiale. “Tutti questi piccoli dettagli, l’ordinario-straordinario, non potranno mai stare tra gli algoritmi. Perché la forchetta, le battute, la finestra, la palla, la scatola di scarpe, il libro, l’uccellino, il fiore... si appoggiano sulla tenerezza che si conserva nei ricordi del cuore” (DN20).

Cosa mi resta allora di tutta questa parte che ci parla direttamente al cuore? La riflessione sull’importanza dell’amore e della speranza, su quanto conti essere solidale nel tempo di oggi. Per seguire le ultime esortazioni di papa Francesco: “Oggi tutto si compra e si paga, e sembra che il senso stesso della dignità dipenda da cose che si ottengono con il potere del denaro.  Siamo spinti ad accumulare, a consumare e a distrarci, intrappolati in un sistema degradante che non ci permette di vedere oltre i nostri bisogni” (DN218).

Pur se mi hanno interessato le citazioni di tanti preti e suore ed intellettuali cristiani, non ho la capacità di inquadrarli nel loro contesto. Penso solo all’unico che ho seguito nel suo percorso, san Charles de Foucault, di cui visitai l’eremo nel deserto algerino. Né entrerò per mie manifeste incapacità sul discorso relativo al “Sacro Cuore di Gesù”, su di cui Francesco basa molte sue riflessioni. Mi resta solo una citazione che non può che risuonare in questi tempi cupi. Dalla “Lettera ai Galati” di San Paolo: “amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”

Speriamo!

“Non perderò mai la mia speranza, la conserverò fino all’ultimo istante della mia vita … Alcuni possono sperare la loro felicità dalle loro ricchezze o dai loro talenti, altri confidano nell’innocenza della loro vita … Per me … tutta la mia fiducia è la fiducia stessa; una fiducia che non ha mai ingannato nessuno. Per questo ho la certezza che sarò eternamente felice, perché spero fermamente di esserlo.” (DN126) [da uno scritto di San Claudio de La Colombière]

Georges Simenon “Una Francia sconosciuta” Adelphi euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 23/11/2024 – I: 26/12/2024 – T: 27/12/2024] - &&& e ½   

[tit. or.: Une France inconnue ou L’aventure entre deux berges; ling. or.: francese; pagine: 187; anno 1931-1977]

Ogni tanto ci prendiamo un piccolo riposo dalle letture “serie” di Georges Simenon, grazie anche all’opera certosina dell’editrice Adelphi, cui vanno i miei più sentiti pensieri positivi. Come in una precedente piccola antologia (quella dedicata alla polizia francese), qui abbiamo una serie di articoli (cinque per la precisione) in cui il nostro belga parla di una delle sue esperienze più personali e sentite: l’andare in barca per i canali francesi.

Per essere precisi, poi, i primi quattro sono articoli degli anni Trenta, prima e durante la prima fase della scrittura “famosa” di Simenon, mentre l’ultimo è una ripresa tardiva di quanto scritto più estesamente nel primo articolo, come fosse un ricordo delle avventure di quasi cinquanta anni prima, stemperate dal tempo, e da questo, proprio per la lontananza, resi belli e degni di essere citati come “i più bei momenti della mia vita”.

Se andiamo velocemente sui diversi articoli, i primi due sono del 1931. Il primo, che poi dà il titolo al volume, è “Una Francia sconosciuta o L’avventura tra due sponde” [Une France inconnue ou L’aventure entre deux berges] che è anche il più corposo, ripropone il primo viaggio in barca sui canali francesi, e ci ritorneremo sopra più avanti. Il secondo, invece, “Marinai da strapazzo, ma pur sempre marinai” [Marins pour rire, marins quand même] è un piccolo divertimento su chi si avvicina all’acqua senza saperne “i segreti”; Simenon si diverta ad ingigantire i possibili problemi, anche se, alla fine, concede al futuro marinaio la sua indulgenza (“in barca siamo tutti un frammento dell’oceano…”).

Il terzo, del 1932, “Seguendo la corrente” [Au fil de l’eau] è un articolo, brevissimo, che gli è stato commissionato per spronare ad usare le vie d’acqua francesi, tentando in poco più di 200 righe, di dare un immagine della Francia fluviale.

Il quarto, dove siamo già nel 1937, “Navigazione di lungo corso su fiumi e canali” [Long cours sur les rivières e les canaux] riprende il tono scanzonato dei primi, ma con la consapevolezza di essere ormai un autore con della fama alle spalle. Con toni leggeri, entra nel merito dei quindicimiladuecentocinquantaquattro (15.254) chilometri di vie navigabili presenti sul territorio francese, accennando ai possibili incontri fluviali: le chiuse, i battellieri, i piccoli villaggi sul bordo dei canali.

L’ultimo, e siamo orami nel 1977, “La Francia sorridente” [La France souriante] riprende succintamente le descrizioni del primo articolo, ripassate dal filo della memoria lontana. Ci ricorda che attraverso le vie d’acqua si può andare da Le Havre, sulla Manica, a Marsiglia, nel Mediterraneo. Si vede molta Francia andando piano, si vede, secondo lui, una Francia che sorride, una Francia piena di risorse. Ma soprattutto lui conserva nella sua memoria tutte queste immagini, queste persone, queste situazioni. Poi basta un accenno, e da lì partono molti dei suoi testi. Ricordo, solo per citarne alcuni a memoria, testi che si svolgono nei canali o in loro prossimità, come “Il Cavallante della Providence”, “La Chiusa n. 1”, “Firmato Picpus” (tutti con Maigret).

Tutto nasce dall’insoddisfazione del giovane Simenon (ha venticinque anni), costretto a scrivere di tutto, articoli e romanzetti quasi scomparsi, per racimolare di che vivere a Parigi dove si è trasferito da tempo, e dove vive con la moglie Tigy. Frequenta gli ambienti giusti, ma non ha fatto quello scatto in avanti che avverrà da lì a poco. Decide allora di imbarcarsi su di una piccola barca, la “Ginette” (quattro metri per uno e sessanta con un motore da tre cavalli) per affrontare con la moglie Tigy, la domestica Boule ed il suo amato cane Olaf (un danese di sessanta chili), un viaggio di sei mesi per i canali francesi.

Dovrà affrontare molti problemi, tutti però con lo spirito e l’incoscienza della gioventù. Dormire sotto una pioggia torrenziale, gareggiare con le chiatte trainate dai cavalli per arrivare alle chiuse prima di loro, sguazzare nel fango, sfiorare rocce e pietre a pelo d’acqua. Ma incontrerà anche paesaggi riposanti, battellieri comprensivi, momenti “folli” (sbarcare per andare in un paesino a cercare acqua potabile in costume da bagno). E poi giocare a bocce con i rivieraschi, fare grigliate sull’acqua, insomma incontrare tante piccole sfaccettature della vita francese lontano dalle grandi città. Un momento di riposo del cervello, e di slancio verso il futuro.

È un passaggio che non solo gli consente di conoscere altri e profondi aspetti della vita, ma che gli darà slancio anche per conoscere sé stesso. Anche se anche in questi mesi non smette mai di scrivere (si è portato la sua fedele macchina da scrivere), tanto che a volte, si sistema in un porticciolo e porta avanti la sua opera forsennata (bisogna pur trovare di che sostentarsi).

Alla fine, anche la “Ginette” è esausta, e Simenon, anche con un grande sforzo economico, decide di passare ad una barca più grande, facendosi costruire un dieci metri, l’Ostrogoth, sul quale continuerà a navigare. Ed è lì, trovandosi in Olanda nel porto di Delfzijl, che a bordo dell’Ostrogoth, trova l’ispirazione per un romanzo che abbia al centro un commissario di polizia. Lì, nasce il commissario Maigret nel suo primo romanzo “Pietro il Lettone”. Inciso: non ho mai capito perché, essendo lituano, il titolo sia sempre stato indicato come lettone.

Simenon rimarrà sempre legato sentimentalmente sia ai canali sia all’acqua stessa (di fiume o di mare che sia), tanto che si troverà a dire: “Ho fatto tre volte il giro del mondo, ma se chiudo gli occhi è questo il primo ricordo che mi torna in mente: sugli argini le lavandaie battevano la biancheria ridendo a crepapelle”.

Il libro, oltre ad un utile postfazione di Ena Marchi, è poi corredato da una sessantina di fotografie di Hans Oplatka, forse un po’ piccole nel formato presentato, ma di un buon interesse iconografico. Successe infatti che, dato il successo dei primi Maigret, gli viene richiesto da una rivista di rifare il tour della Ginette, in macchina, accompagnato dal giovane (diciannovenne) Oplatka, un promettente fotografo ceco, che dopo la guerra emigrerà in Inghilterra, morendo a Liverpool più che ottantenne. Queste foto vengono dal Museo delle Arti Decorative di Praga.

Non è un’opera indimenticabile, ma significativa della nascita del Simenon che conosciamo. Leggendone facciamo un salto nel passato, sorretti da un bell’aforisma di Umberto Eco (“La lettura è un’immortalità all’indietro”).

“Ha visto … quelle magnifiche barche da regata … [dove] tutto è sacrificato alla velocità. Non c’è posto per le comodità. Manovrarle non è affatto semplice.” (57) [e che ne dice Renato?]

Alain De Botton “Le consolazioni della filosofia” Repubblica Filosofia Viva 3 euro 9,90

[A: 06/03/2020 – I: 12/01/2025 – T: 14/01/2025] - &&&  

[tit. or.: The Consolations of Philosophy; ling. or.: inglese; pagine: 303; anno 2000]

Sono un po’ deluso, che in genere gli scritti di De Botton sono discretamente stimolanti (ed anche questo lo è) ma anche ironici e coinvolgenti (e questo lo è meno). Alain De Botton, secondo i suoi detrattori, è un filosofo dell’ovvio mentre i suoi estimatori ne traggono un’immagine di divulgatore senza troppi fronzoli.

Personalmente, ho sempre trovato curiosi i suoi scritti, certo a volte sconfina in banalità “alla Catalano” o in ironie “alla De Crescenzo”, ma se facciamo la tara alle sue parole, ne rimangono elementi di curiosità e voglie di approfondimento che ne rivalutano gli scritti stessi. Ritengo infatti che, laddove qualcuno riesca a stimolare i nostri poveri neuroni, magari da lì possono partire sentieri diversi ed approfondimenti personali.

Intanto, cominciamo dalla consolazione del titolo, che riprende (nei modi non nelle forme) le scritture utilizzate in tempi antichi per confortare un lutto, ma anche per illustrare modalità di vita e di pensiero. Inoltre, è sempre rimpolpata da citazioni, da rimandi ed altro. E non a caso, il testo presenta (anche se in bianco e nero non sempre vengono bene) foto, disegni, ed altri elementi meta testuali. Manca solo la poesia, come è invece nel testo di riferimento (almeno nel titolo) che fu quel “De philosophiae consolatione” scritto nel VI secolo da Anicio Manlio Torquato Severino Boezio.

Riprendendo l’idea di Boezio, De Botton confeziona sei capitoli in cui la filosofia viene applicata a momenti della vita di ognuno, utilizzando come guida sei illustri filosofi. Abbiamo così Socrate che ci conforta nel disaccordo con le opinioni prevalenti (impopolarità), Epicuro che ci consola per la mancanza di denaro, Seneca ci consola dalla frustrazione, Montaigne ci consola dall’inadeguatezza, Schopenhauer ci dà conforto quando abbiamo il cuore spezzato e Nietzsche ci consola nelle difficoltà della vita.

Quello che più mi ha incuriosito nella sua costruzione è il conforto socratico, che parte dalla disamina di un quadro bellissimo, la “Morte di Socrate” di Jean-Louis David conservata al Moma di New York. Un quadro che riassume la filosofia di Socrate (discorrente, maestro sino in fondo, unico sereno in tanta disperazione), facendone anche, nella testa del pittore, un antesignano del Cristo (non a caso sono dodici gli ascoltatori dell’ultima lezione). E Socrate, pur nell’imminenza della morte, non fa che ribattere il suo tema prediletto: pensate con la vostra testa, perché bisogna sempre affidare le proprie azioni al conforto della logica che li sostiene, avendo la costanza di rimanere coerenti e non appiattirsi al giudizio dell’opinione pubblica, non sempre accettabile nelle sue manifestazioni.

Interessante anche il ribaltamento dell’epicureismo, dove, giustamente, non è da perseguire il denaro e la ricchezza come fonte del piacere. L’amicizia e l’amore della conoscenza saranno sempre i nostri alleati, nella buona e nella cattiva sorte. Con una citazione sghemba che però ne riassume il senso: “che cosa ci serve un bel lenzuolo con gli angoli perfetti quando soffriamo d’insonnia?”.

Affondando ancor di più il coltello nei dolori, quando, ripercorrendo la vita e la morte di Seneca conveniamo con lui che il mondo non è giusto, che non possiamo ottenere tutto ciò che vogliamo e che quindi solo attraverso la ragione possiamo raggiungere uno stato di felicità. Tutto questo, appunto, mentre l’allievo di Seneca, l’imperatore Nerone, lo condanna a morte.

Poiché De Botton sa di filosofia, sa anche che ci sono non solo gli “antichi” ma anche i “moderni” filosofi. Come Montaigne e i suoi Saggi. Una raccolta di testi ponderosa, che varia in molti campi, ma che racconta anche le minute attività del corpo. Anche le donne vanno al bagno, questa una delle sue massime (espressa forse i modo più colorito). Così che tutto quello che facciamo e pensiamo possa essere passato al vaglio delle sue domande esistenziali. Che cosa conosco? Che cosa devo dire? Che cosa devo fare?

Saltando nell’Ottocento, poi, ci propone un altro paradosso: l’utilizzo di Schopenhauer per alleviare le pene del cuore. Poiché se la vita è tutta un’illusione, l’amore è di forza un sentimento irrazionale, quindi lo si può escludere dal nostro orizzonte.

Per terminare con Nietzsche, la sua visione nera del mondo, dove solo la sofferenza e le difficoltà aiutano alla realizzazione della propria esistenza. Non dobbiamo aspettarci nulla dalla vita, anzi, dobbiamo aspettarci il peggio. E quando questi arri-va ne saremmo preparati e non saremo infelici. E se invece non arriva, possiamo continuare a vivere un’esistenza quanto meno serenamente incosciente.

Ho volutamente fatto una scorribanda tra la filosofia (e qui c’è sempre il pensiero a chi di filosofia ha studiato) e le argute scritture di De Botton. Però, alla fine, è meno coinvolgente di altri testi, seppur con qualche spunto che costringe il lettore meno onnisciente a cercare di più nelle forme a lui congeniali. Percorrere la morte di Socrate come quella di Seneca, o seguire Montaigne nei suoi ritiri e nei suoi viaggi (e non è una contraddizione).

Ecco, a me questo è servito, anche perché una delle stelle polari è proprio la frase di Montaigne che cito sotto.

“Dobbiamo … riconciliarci con la necessaria imperfezione della nostra esistenza.” (108)

“Le più alte opere d’arte ci parlano … senza sapere nulla di noi.” (246)

“Montaigne: bisogna imparare a sopportare quello che non si può evitare.” (274)

“Non tutto ciò che ci fa sentire meglio è realmente un bene per noi. Non tutto ciò che ci fa soffrire deve per forza essere un male.” (297)

Gianrico Carofiglio “Elogio dell’ignoranza e dell’errore” Einaudi s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 15/01/2025 – I: 19/01/2025 – T: 20/01/2025] &&&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 87; anno: 2024]

Frutto di una triplice congiuntura, l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, benché sia un saggio e non un romanzo dell’avvocato Guerrieri, è entrato di volata sia nella mia libreria che nelle mie letture. Triplice perché Carofiglio lo leggo sempre volentieri, perché il mio amico Renato me ne ha parlato, e perché Alessandra me ne ha fatto dono.

Da un certo punto di vista non è un saggio eccelso, dove si dicono cose che le persone sensate dicono e pensano. Ma la domanda ovvia è: quante sono le persone sensate? Anche perché poi si dovrebbe leggerlo dalla fine, cioè dai motivi che, ad un certo punto della sua esistenza, hanno spinto lo scrittore a ragionare su questi temi. Leggendo il suo personale aneddoto sugli errori e sulla fortuna (bocciato per un posto di responsabilità, decide di scrivere un libro, che farà la sua fortuna editoriale; quindi, errore di presentarsi al concorso e fortuna di trovare altro) viene da riflettere anche sulle nostre personali fortune e sui nostri errori. Su cui magari torneremo in finale di trama.

Quali sono quindi i caposaldi del discorso di Carofiglio? Primo, gli errori nella vita ci sono e ci sono sempre stati. Bisogna includerli nel nostro sistema esistenziali, per cui si possa, da loro, progredire verso altre conoscenze. Secondo, e molto legato al primo, è l’ignoranza, quella verso cui ci possono portare gli errori ben spesi. Che, sulla scia di Socrate (almeno nella vulgata popolare), non sapere implica la volontà, il desiderio di sapere. Quindi, ignorare, se non porta alla chiusura, è foriero di nuove aperture mentali.

Infatti, se chiudo i confini della mia sapienza, ignorando la possibilità di altro, non faccio che costruire un mondo chiuso e di sicuro, alla lunga, portato all’autodistruzione.

Altri due sono i concetti fondanti del castello di Carofiglio: l’improvvisazione e la preterintenzionalità. Infatti, improvvisare non significa andare allo sbaraglio senza schemi, ma essere pronti a mutare il corso dei pensieri e delle azioni a fronte di un evento che non era previsto, che non era contemplato nello schema iniziale. Ed andare al di là delle proprie intenzioni (anche se il termine deriva ovviamente dell’esperienza giudiziaria dell’autore) significa anche capire che se a fronte di un evento, avviene qualcosa che non avevo previsto, la capacità cognitiva dell’individuo dotato di coscienza critica non è rifiutare il risultato, ma capirne le nuove possibili portate.

Ultimo elemento che chiude il cerchio della ricerca umana del sapere è la fortuna. Non ovviamente nel senso di sperare di cambiare la propria vita comprando milioni di gratta e vinci (cosa che servirà solo a spendere milioni), ma a moltiplicare le occasioni e le iniziative, così che, a fronte dei tanti e possibili fallimenti, ci possa essere quell’elemento fortuna che ci porta nella direzione sperata. Anche qui, per la sua esperienza, l’autore fa riferimento alle indagini poliziesche, laddove potrei farne anch’io, per la massa di letture in tal senso, esempi probanti.

Ma non voglio addentrarmi nelle pur scarne pagine del testo, che è breve, leggibile e scorrevole. Vorrei solo fare qualche corollario su errori, ignoranze ed altri accidenti fortuiti che, in piccola o grande parte, hanno dato vita al nostro mondo.

Come dimenticare, per esempio, l’ignoranza di Colombo che, partito verso i lidi che credeva delle Indie, scopre nuove terre. Purtroppo però Colombo rimane nella sua ignoranza, e solo Vespucci capì di essere arrivati in nuove terre, che in effetti si chiamano America. C’è la fortuna, ad esempio, nella vicenda del ricercatore Percy Spencer che, mentre lavorava alla produzione di valvole per radar, aveva in tasca una barretta di cioccolata. Le onde emesse dalle valvole squagliarono la barretta, e Spencer inventò il forno a microonde.

Se vogliamo parlare di preterintenzionalità possiamo fare un salto nel 1853, a Saratoga, nello stato di New York, dove il cuoco George Crum era alle prese con un cliente particolarmente odioso, che più volte rimanda in cucina le patatine fritte, perché non le ritiene cotte a dovere. George, indispettito, taglia le patate sottilissime, le frigge il giusto, le sparge di sale e le porta al cliente che non può usare la forchetta e deve mangiarle con le mani. Al di là delle sue intenzioni, George dà vita alla “chips”.

Potrei continuare pagine e pagine sulla bontà dei ragionamenti di Carofiglio. Mi accontento da un lato a rimandare (anche) al libro di Rita Levi-Montalcini “Elogio dell’imperfezione”, che fa un pendant mirabile con questo. Dall’altra ripenso (e qui è la bontà dei libri che ti colpiscono) a parte delle mie decisioni vitali. Impiegandomi in un industria informatico ero convinto di trascorrervi poco tempo. Un errore che portai avanti per trentacinque anni. Ma quell’errore, ad un certo punto, mi inserì in un meccanismo di lavori fuori dal contesto nazionale, facendomi capire la mia vera natura di viaggiatore. Cosa che, alla fine, sono riuscito e riesco ancora a fare.

Comunque, tornando al libro, è una prosa che si legge, forse anche troppo facilmente ma che, per tutti gli spunti che dà e che mi ha dato, l’ho rivalutata forse un po’ al di sopra delle sue reali capacità narrative e ragionative.

“Confucio: la vera conoscenza sta nel conoscere l’estensione della propria ignoranza.” (25)

“[Un uomo bravo e capace] sa che la fortuna è importante e cerca di mettersi nelle condizioni perché gli eventi propizi siano più probabili. Ed esiste una sola tecnica per fare questo … moltiplicare i tentativi, senza preoccuparsi che molti di essi saranno dei fallimenti. I migliori sono quelli che sanno fallire rapidamente, con eleganza e senza conseguenze. Sono quelli che sanno usare l’errore e il dubbio come strumento di lavoro.” (66)

“La categoricità è uno dei sintomi della mediocrità.” (73)

Gerd B. Achenbach “Il libro della quiete interiore. Trovare l’equilibrio in un mondo frenetico” Repubblica Filosofia Viva 7 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 07/03/2025 – T: 09/03/2025] - &&  

[tit. or.: Das kleine Buch der inneren Ruhe; ling. or.: tedesco; pagine: 220; anno 2001]

Gerd Böttcher, filosofo tedesco, ad un certo punto sintetizza il suo nome per aggiungervi un termine, Achenbach, con il quale diventa noto, per la sua attività ed i libri scritti. Non so da dove viene questa scelta, certo ha un suo senso ragionando come al suo interno si possa rilevare un concetto di “flusso di dolore”, una condizione, che, bene o male, pervade la nostra esistenza, e che dobbiamo comprendere per arrivare al cuore del pensiero e dell’azione di Achenbach.

Comunque, prima di entra nel vivo dell’esposizione filosofico, di certo interessante, pur con dei limiti, per me, nello spacciarsi per completamente originale, veniamo al titolo. Innanzi tutto, non capisco perché, nella traduzione, sia sparito il termine “kleine”. Forse definire piccolo un libro sembravo forse riduttivo. Ed allora, non solo sparisce, ma vi viene appiccicato un sottotitolo che non compare nell’edizione originale tedesca.

Facendo un passo indietro, in questa altalenante collana filosofica di Repubblica, è di sicuro corretto presentare, anche se a me non è piaciuto, colui che si definisce il fondatore della pratica di consulenza filosofica. Un termine che trovo orrendo. Ora ritengo che, aiutati da vari strumenti e conoscenze, persone con alti gradi di empatia, riescano ad aiutare gli altri utilizzando i “loro” strumenti. Filosofia, letteratura, musica, e, trasversalmente, un approccio psicologico alla vita. Che poi questi aiuti li chiamiamo musicoterapia, biblioterapia, psicologia d’aiuto, terapia strategica, o, come qui, consulenza filosofica, lo trovo un nominalismo inutile.

Veniamo allora a Gerd, al suo libro, ed alla sua proposta. Che in fondo è di una semplicità unica: vivere la propria vita “concentrati” ed attenti ad accettarla. Per far ciò, in questo che poi risulta un dialogo tra Gerd ed i suoi numi filosofici, la maggior attenzione viene posta a tutta quella linea filosofica che va sotto il nome di stoicismo, partendo dalle sue basi classiche, da Zenone, passando per Seneca, attraversando la romanità con Marco Aurelio, per arrivare a formulazione moderne, se non contemporanee, con Montaigne, Schopenhauer ed altri. L’unico che in tutto il libro, non ho né digerito né condiviso, è Nietzsche, verso il quale ho probabilmente una chiusura preconcetta, ma a me non piace.

Gerd avanza di capitolo in capitolo, appunto fornendoci un delizioso bignami di filosofia, e dove, come vedete sotto, molte frasi mi sono rimaste nel cervello a sollecitare i nostri scarsi neuroni. Ma, riducendo tutto all’essenziale, si vuole arrivare alle “sei regole della saggezza”, seguendo le quali potremmo trovare la quiete in questo nostro mondo caotico. Regole che possiamo così sintetizzare:

1.    Non è importante la filosofia ma vivere filosoficamente”. Bisogna vivere applicando la filosofia, così come insegnavano appunto gli stoici, non essendoci distinzione tra pensiero e vita

2.    “Che cosa conta veramente? Sei tu quello che conta” La cosa che conta veramente è, non egoisticamente, sé stessi, cioè riconoscere il proprio essere ed il suo valore

3.    Orientati su te stesso e non sugli altri”.  Di conseguenza, bisogna prestare attenzione a sé stessi.

4.    Un conto è ciò che succede, un conto è la tua idea di ciò che succede. Altro corollario è la comprensione della differenza tra ciò che succede e la propria idea soggettiva di ciò che succede

5.    Devi essere indifferente verso le cose indifferenti”. Nel finale i due precetti più duri: distacco dalle cose, non perché non siamo sereni nel godere di una vita serena, ma, come dice Plutarco: più grande è il desiderio di possesso, più è grande la paura della sua perdita.

6.    Devi volere ciò che accade così com’è” dove mi viene in mente una favoletta su Platone narrata da Plutarco: la vita ad un lancio di dadi dove l’esito del lancio non dipende da noi, mentre accettarne e gestirne il risultato si

In fondo, e per questo alla fine non è che mi ha stravolto la vita, l’autore ci vuole dire che dobbiamo comprendere le ragioni ed il senso di quanto ci accade, capendo fortemente che tutto quanto avviene deve (può) essere ricondotto alla nostra responsabilità. Per poi finire, come tutti i buoni imbonitori di questo mondo, che dovrà essere il lettore a “scrivere” le proprie conclusioni.

Detto quindi che, pur se come compendio è stato utile per ripassare qualche nozione (ed anche scoprirne di nuove, perché no), alla fine non mi è piaciuto il tono compiaciuto dell’autore, anche e soprattutto non avendo messo un rigo di bibliografia che sarebbe stata utile ed importante. Come sarebbe stato utile evitare errori di citazioni (e spero sia solo refuso), come laddove si cita un passo di Cicerone (vedi sotto) come estratto da un inesistente “De petitione consultatus” invece che dal corretto “De petitione consulatus”. Spero che mia cugina filosofa apprezzi questo puntiglio ciceroniano.

“Si pensa con l’orologio alla mano … si vive come uno che continuamente potrebbe farsi sfuggire qualcosa.” (34) [parafrasi da “La gaia Scienza” di Nietzsche del 1882. Sostituite cellulare a orologio e…]

“L’anima trova la sua pace solo nel momento in cui impara ad accettare ciò che le succede, e quando trova l’accordo con ciò che accade.” (110) [tratto dai “Saggi” di Michel de Montaigne del 1580]

“Non bisogna prendersela con i guai che ci capitano. Ad essi, infatti, nulla importa, ma, se chi vi si imbatte li porrà nella giusta prospettiva, ne trarrà giovamento.” (118) [parafrasi da “La serenità interiore” di Plutarco, estratto da “Moralia I” del 100 circa]

“Finché si è in vita … è possibile dire questo non lo farò: non mentirò, non agirò slealmente, non ruberò…” (135) [parafrasi da “Frammenti” di Menandro del 295 a.C. circa]

“Tutto deve essere così come noi lo desideriamo, e ciò che non corrisponde al nostro desiderio va modificato in base ad esso.” (163) [fotografia della società attuale in stile trumpiano, che va combattuta sempre e ovunque]

“Il mondo è come un unico vivente, dotato di un corpo unico e di un’anima pure unica …[così] qualunque cosa ti accada da secoli è stata preparata, tessendo insieme la tua esistenza a quella singola cosa.” (166) [parafrasi da i “Colloqui con sé stesso” dell’imperatore Marco Aurelio del 179]

“Io non insegno, racconto.” (176) [tratto dai “Saggi” di Michel de Montaigne del 1580]

“Bisogna essere svegli per raccontare i propri sogni.” (179) [tratto dalle “Epistulae morales ad Lucilium” di Seneca del 62 d.C.]

“Sempre calmo per natura, e ancor più oggi, per la mia età.” (187) [tratto da “De petitione consulatus” di Cicerone del 64 a.C.]

“Tutto ciò che accade, dalla cosa più grande alla cosa più piccola, accade necessariamente.” (204) [parafrasi dagli “Aforismi sulla saggezza del vivere” di Schopenhauer, estratti dall’opera “Parerga e paralipomena” del 1851]

Ovvio che, in una settimana filosofica, senta il bisogno di continuare ancora su questo filone. Ed allora cosa meglio che un classico come “La nausea” di Jean - Paul Sartre? Eccovene alcuni estratti che mi sono rimasti nella penna:

“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare.” (16)

“Se mai dovessi fare un viaggio credo che prima di partire noterei per iscritto i più piccoli tratti del mio carattere per poter poi fare un paragone, al ritorno, tra quello che ero e quello che son diventato.” (48)

“Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.” (54)

“Ed io dove potrei conservare il mio [passato]? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo.” (85)

“Se soltanto potessi smettere di pensare andrebbe già meglio. … Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso … e non posso impedirmi di pensare.” (126)

“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in qualche posto dove sia veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.” (153)

“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento … C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si riflette non lo si fa.” (180)

“Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?” (220)

Caro Jean-Paul, penso di rispondere affermativamente all’ultima domanda. Nonostante tutto. Ciò detto, vi invito a leggere e rileggere gli spiegoni filosofici di questa settimana, e di pensarci mentre con tutto il mio affetto vi abbraccio.