domenica 16 marzo 2025

Donne gipponesi - 16 marzo 2025

Ancora una settimana al femminile (e ci può stare), ma da un’angolazione diversa ed inusuale. Abbiamo qui un florilegio di autrici giapponesi, anche se l’ultima è una giap immigrata in America. Apriamo e chiudiamo con due letture significative: la piccola favola di Keiko Yoshimura ed il toccante affresco personale di Julie Otsuka. Nel mezzo altre prove, dalla poco esaltante Kito Aya, alle gradevoli riuscite di Junko Takase e Yuka Murayama.

Ho solo un appunto prima di lasciarvi alla lettura: i curatori di queste collane dovrebbero curare meglio un’introduzione verso autrici di cui poco o nulla si sa in Occidente.

Keiko Yoshimura “108 rintocchi” Repubblica Giappone 1 euro 8,90

[A: 29/09/2024 – I: 05/11/2024 – T: 07/11/2024] - &&&&---

[tit. or.: 108 チャイム 108 Chaimu; ling. or.: giapponese; pagine: 170; anno 2023]

In effetti, è un libro molto gradevole, letto in un momento che avevo bisogno di un libro come questo. Pur tuttavia, qualche piccolo gradimento in minore compare di necessità, a colpa degli editori dello scritto. Il romanzo è tradotto dal giapponese da Laura Imai Messina, che so essere profonda conoscitrice della cultura nipponica, per cui ipotizzo che il testo originale sia proprio giapponese. Tuttavia, né nei “credits” del libro né in altri possibili siti informativi, incluso OPAC, è stato possibile ricavare il titolo originale e notizie più approfondite sull’autrice. Per questo, un po’ di piacere si è perso per via.

Non ovviamente il piacere del testo, e della scrittura di Keiko. Della quale, non sapendo nulla se non le due linee informative della casa editrice che ha pubblicato per prima il testo (Piemme, per essere precisi), non parlo, accontentandomi di seguire la favola che ci propone con gli occhi di chi nulla sa di testo e contesto.

L’idea della favola è inserirsi in un mondo chiuso e circoscritto, vederne dinamiche e rapporti con l’universo mondo, ed indagare sul comportamento umano. Con un occhio attento, anche, alle tradizioni locali.

Il mondo è un’isola di difficile raggiungibilità, dovuta al fatto che, spesso e volentieri, il mare si ingrossa ed impedisce alle navi di arrivare. D’altra parte è una specie di piccola montagna con anche evidenti difficoltà di essere raggiungibile con altri mezzi di trasporto. Alla fine, si potrebbe identificare con Aogashima, la più meridionale delle isole Izu, un arcipelago di un centinaio di isole e isolette, di cui solo nove abitate. Dalle mie ricerche, Aogashima è quella che più si avvicina alle descrizioni di Keiko: alla data ha 162 abitanti, un’istruzione che prevede si arrivi alle medie, ed una costante difficoltà di essere raggiunta da Tokyo, da cui dipende amministrativamente.

In questo non facile mondo, la vita scorre abbastanza tranquillamente, con l’unico grosso dispiacere di tutti: i giovani (ma non solo loro) se ne vanno, e l’isola invecchia. In pochi rimangono per tenerla in vita (ma fino a quando?), con il grosso problema di tutte le cose e le persone anziane: ci si deteriora e si ha bisogno di manutenzione.

Nell’isola non c’è più l’ufficio postale, ma la posta arriva all’ex-postina, ormai su di una sedia a rotelle, che telefona ai destinatari delle lettere che passano da lei a prenderle. C’è un emporio cui ci si rifornisce di tutto, e dove tutti vanno quando c’è bisogno di sapere novità o di comunicarne. C’è una piccola pasticceria gestita da una donna che ha deciso di essere allegra qualunque cosa succede. C’è l’anziana che suona magistralmente il pianoforte. C’è il vecchio maestro che ha visto crescere praticamente tutti gli abitanti dell’isola.

Ma soprattutto ci sono le tradizioni relative al Capodanno giapponese, con in testa il Joyanokane, il rito per cui i templi buddisti in tutto il Giappone suonano le campane per un totale di 108 rintocchi, al fine di esorcizzare i 108 desideri mondani presenti nell’uomo. Nell’isola, questa festa è da sessanta anni circa unita alla festa per il compleanno di Sohara Mamoru, il protagonista della favola. Ed in effetti, è la vita, le decisioni, le attività, i drammi di Sohara che seguiamo per tutta la favola.

Uno dei pochi bambini rimasti, ormai sessantenne. Un solo amico in gioventù, Yomada, cui rimane fedele anche se tutti lo sconsigliano, e rimane fedele fino a rimanerne scottato in maniera forse irreparabile. Mentre Sohara è quello che ripara, tutto e di più. Sin da piccolo aveva talento per riparare le cose, ed a quel talento rimane legato per tutta la vita. Ampliandolo con aggiustare anche le cose che forse non sono rotte, ma solo storte.

Sohara è un animo buono, uno che ho amato per i riflessi che vi ho trovato, anche se io non so usare neanche un chiodo per apprendere un quadro. Ma Sohara c’è un tubo che perde, una finestra con spifferi, una teiera rotta, uno specchio con una crepa, e lui ripara, sostituisce, previene anche le richieste. Come tutti i giovani vorrebbe scappare dall’isola, come h fatto Yomada, ma dopo un anno a Tokyo, torna.

Perché lui serve a mantenere l’isola in vita. Serve a far nascere una tenera storia d’amore con Yoko. Serve a creare una nuova vita nella loro figlia Taro, che, forse, andrà a studiare a Firenze. Se ci sono i soldi, se tutto procede, se Sohara non crolla sotto i pesi delle cose da fare, o da inventare, da aggiustare o da creare.

Seguiamo Sohara in tutto il giro di questo suo mondo, con tanti microracconti che ci parlano delle più belle figure che incontriamo nell’isola. Ma soprattutto, nel suo interrogarsi se, realmente, lui è utile alla comunità, se il suo volerla mantenere in piedi sia un atto di orgoglio o di bontà. Ci suscita tanti pensieri, Sohara, anche se, personalmente, e con tutto l’ottimismo della volontà, io sarò sempre dalla sua parte. Io e Sohara vinceremo o saremo sconfitti? Forse qualcuno ci spiegherà la bellezza delle cose che non riusciremo a fare.

Intanto cominciano a suonare le campane, e noi ci si purifica in attesa di un nuovo anno.

Un libro giusto, giunto in un momento giusto, che ha anche il merito di parlare senza enfasi delle tradizioni giapponesi ma anche e soprattutto un libro comunitario, bello e delicato, come sanno esserlo i fiori giapponesi.

“Serve fare tutte le scelte per farne una soltanto … una scelta giusta viene fuori da almeno cinque scelte sbagliate.” (41)

“Non è unicamente ciò che sogniamo e realizziamo ma anche ciò che ci è interdetto, reso impossibile dalle circostanze, a renderci felici.” (164)

Kitō Aya “Un litro di lacrime” Corriere Giappone 11 euro 8,90

[A: 20/07/2021 – I: 25/11/2024 – T: 26/11/2024] - & +      

[tit. or.: 1リットルの涙, Ichi rittoru no namida; ling. or.: giapponese; pagine: 190; anno 1986]

Un libro complesso per molte ragioni: contesto e sviluppo del testo in primo luogo. Intanto, ci sarebbe un mistero da risolvere nelle solite righe editoriali. Nella parte referenze viene scritto trattarsi di un libro pubblicato nel 2005. Al contrario, la parte principale è uscita nel 1986 ed alcune considerazioni sono state fatte nel 1988 per una nuova edizione. Sono il solito “spagliuzzatore”, ma credo che il lettore, ogni lettore, abbia diritto a tutte le informazioni corrette.

Il secondo dubbio è l’assenza, nei siti giapponesi, di riferimenti diretti dell’autrice, mentre c’è un lungo articolo dedicato al libro ed al film che ne fu tratto nel 2004.

Venendo al testo, non è che non prenda, ma lo fa soprattutto in quanto descrizione autobiografica della nascita e dell’evolversi di una malattia terribile. Nata nel 1962, Aya comincia ad avere dei sintomi particolari all’età di 14 anni. Sintomi che, dopo un’attenta analisi, portano i medici a diagnosticarle un’atassia spinocerebellare (SCO), una malattia che colpisce il cervelletto, praticamente sconnettendolo dal cervello, in modo irreversibile.

Il testo è in effetti il diario di Aya dove lei descrive l’avanzare della malattia e le sue sensazioni. Vediamo quindi Aya che inizia con la perdita dell’equilibrio, poi con la difficoltà nel calcolare le distanze tra gli oggetti, quindi l’impossibilità di camminare senza aiuto, un aiuto che trova prima in famiglia, poi con una sedia a rotelle meccanizzata. Cominciano altre difficoltà: mangiare e deglutire correttamente, parlare in modo distinto, fino alla perdita completa della capacità di scrivere. Pur non arrendendosi mai, non può che prendere atto del progressivo avvicinarsi della fine annunciata. Che sarà poi descritto da una postfazione della madre.

Aya è una ragazza che ha lottato per tutta la sua breve vita, ma che alla fine non può che perdere, seppure con dignità e consapevolezza. La sua scrittura è molto semplice, lineare, i sentimenti che ci comunica sono chiari. Il problema è che tutto è pervaso dalla naturale ritrosia giapponese, dalla difficoltà di esternare i sentimenti. Certo, la vediamo piangere e rammaricarsi di essere un peso per gli altri, ma tutto soffuso da una freddezza assai poco comunicativa.

Leggendo siamo forse noi che veniamo presi da emozioni diverse. Vedere il sistema scolastico che emargina i diversi, per poi relegarli in scuole per disabili che sembrano solo ghetti di parcheggio per non far vedere i malati. Ci viene subito in mente la signora Tokue di Durian Sukegawa. Ugualmente accade nei vari ospedali che ospitano Aya durante gli anni. Attenti quando lei ancora ha alcuni gradi di autonomia, poi sempre più freddi e distanti.

Leggiamo come Aya pensi a sé stessa in modo progressivamente disperante. Vuole studiare, leggere, essere autonoma, sogna di avere una famiglia. Ma solo nei primi anni. Poi capisce la malattia, e l’unica sua ragione di vivere è di non morire. In questo, l’unica persona che le sta vicino è la madre. Il padre sparisce dal testo dopo poche pagine. I fratelli ci sono per un breve tratto, poi si ritirano nell’ombra. Solo la madre rimane, presente, costante. È lei che convince Aya, quando non riesce più a scrivere, a pubblicare il diario così com’è, per aiutare tutti i malati, più o meno gravi, ad affrontare la loro malattia, a non tirarsi indietro, a non piangersi addosso. Si capisce tutto ciò tra le righe, purtroppo, almeno a me occidentale e moderatamente sano, non comunica altre emozioni.

Questo è di certo il limite del testo e della sua non eccelsa diffusione fuori dal Giappone. Risulta in realtà decisamente noioso, con solo alcuni spunti, alcuni momenti di piccolo coinvolgimento. A me ne è rimasto uno, quando racconta, essendo ancora allo stadio iniziale della malattia, la visita scolastica a Hiroshima ed ai luoghi della Bomba Atomica. Ho rivisto nelle sue parole il deflagrante diorama posto nel mausoleo, ed ho rabbrividito ancora una volta. Ed ho sentito, nelle sue parole, la comunanza di dolore con le migliaia di morti di Hiroshima.

La parte meno fredda è forse la fine, quando il diario si interrompe e seguiamo le spiegazioni relative alla malattia ed al percorso medico di Aya nelle parole della dott.ssa Hiroko Yamamoto, suo medico curante. E nella postfazione finale della madre di Aya, dove traspare tutto il dramma di vedere ammalarsi una figlia senza possibilità di essere curata.

Inciso finale, ricordando che il libro è della fine degli anni Ottanta, solo nel 2011, un professore giapponese, Hirokazu Hirai, ha trovato delle ipotesi di sviluppo della malattia attraverso degli esperimenti sui topi. Un finale che, come anche nelle parole di Aya, deve infonderci per sempre una fiducia nella ricerca.

“Anziché contare ciò che hai perso, prenditi cura di quel che hai ancora.” (140)

Junko Takase “Le delizie della signorina Ashikawa” Repubblica Giappone 10 euro 8,90

[A: 28/11/2024 – I: 18/12/2024 – T: 19/12/2024] - &&

[tit. or.: おいしいご飯が食べられますように Oishii gohan ga taberare masu yō ni; ling. or.: giapponese; pagine: 118; anno 2022]

Junko Takase è una giovane scrittrice giapponese, di cui si hanno poche e scarse notizie in tutti i siti deputati in rete. Non sappiamo l’età, la storia, sappiamo solo che ha scritto questo libro delicato, con cui ha vinto importanti premi nazionali. Per cui non ci resta che parlarne attraverso la scrittura ed il modo in cui ha realizzato questo veloce racconto lungo.

Intanto notiamo che in Italia viene proposto con un titolo, “Le delizie della signorina Ashikawa”, che rimanda immediatamente al bel libro di Durian Sukegawa di cui ho già tramato. Mentre il titolo originale giapponese dovrebbe essere tradotto con qualcosa del tipo “Spero che tu possa mangiare cibo delizioso”. Un cambiamento che non rende giustizia al testo. Dove seppur è vero che Ashikawa è una degna preparatrice di cibo, è proprio il cibo il centro intorno a cui ruotano le poco più di cento pagine.

Perché si parla di cibo al fine di inserire il discorso nell’analisi di microcosmi comportamentali e relazionali, che costituiscono l’ossatura del testo. Centro che, alla base, riporta il nascere e l’evolversi di un triangolo amoroso, stretto tra le pareti di un ufficio non meglio identificato, con le ramificazioni verso pub ed altri ritrovi per bere e mangiare e la casa di uno dei protagonisti.

Che sono appunto Ashikawa, una signorina da tempo impiegata nell’ufficio, timida, impacciata, totalmente non arrivista, che, tra mal di testa ed altri veri o falsi malesseri, riesce a mantenere un orario d’ufficio accettabile, anche se così il suo lavoro ricade sugli altri. Che sono due impiegati da poco arrivati nell’ufficio. Oshio che invece è arrivista e competitiva, con uno spiccato senso teso al raggiungimento di nuove mansioni, non disdegnando quindi di lavorare fino a tardi, anche se ogni volta sbuffa nel doversi sobbarcare il lavoro non eseguito da Ashikawa. Nitani che anche lui lavora sino a tardi, ma senza lamentarsi, che per lui il lavoro è vita, e tutto il resto, compreso il cibo, un accidente che bisogna controllare e minimizzare.

Anche se Ashikawa è poi il deus ex-machina della trama, la scrittrice ci presenta gli avvenimenti alternando una narrazione in prima persona di Oshio, ed una in terza persona incentrata sui pensieri e sulle azioni di Nitani. Nitani e Oshio, lavorando sino a tardi, spesso escono insieme la sera, si ritrovano a bere in locali vicino all’ufficio, parlando di cosa vi succede, e sovente sparlando di Ashikawa. Dalle parole di Oshio, capiamo anche che lei si è presa una cotta per Nitani, ma la deontologia del lavoro le impedisce di fare la prima mossa.

Nitani, invece, è attratto da Ashikawa, trovando la sua natura fragile ed inassertiva consona ad un possibile rapporto duraturo. Che la famiglia di Nitani preme a che si sposi e faccia una famiglia, e Ashikawa rappresenta una tipica moglie che incarna gli ideali remissivi della tipica cultura giapponese classica. Il forte problema è che Nitani è assolutamente refrattario al cibo, mangerebbe solo “noodles cup”, quei barattolini contenenti gli spaghetti giapponesi, cui si aggiunge acqua calda. Un cibo di cui la sua casa è piena.

Comunque, Nitani comincia ad uscire con Ashikawa, poi i due cominciano a frequentare la casa di Nitani, fanno l’amore, facendo crescere il loro rapporto. Così che Ashikawa esce dal suo bozzolo, si fa più espansiva, e per farsi perdonare la scarsità del suo apporto lavorativo, comincia a portare le sue realizzazioni di pasticceria in ufficio. Creando un momento di rottura tra la routine d’ufficio tesa al lavoro sempre e comunque ed i momenti per sé stessi, in cui vengono gustati i manicaretti di Ashikawa.

Il contrasto sul cibo si fa sempre più aspro in Nitani, che rifiuta i dolci, buttandoli nel cestino ed in Oshio che li riprende mettendoli sul tavolo di Ashikawa. Tutto ciò crea una rottura in ufficio: chi vincerà? La remissiva Ashikawa o la rampante Oshio? Chi verrà allontanato dall’ufficio? Chi andrà verso le nozze con Nitani? Si scoprirà solo leggendolo.

Il libro è in linea con la delicatezza giapponese, dove anche i contrasti vengono descritti e vissuti con un understatement generalizzato. Il cibo, punto centrale del testo, diventa solo un espediente per sollevare e risolvere le tensioni che si generano in quei bozzoli di persone, emblema dell’esistenza giapponese. Il riprendersi del tempo per Ashikawa sembra voler affermare la cura e l’accudimento di sé e degli altri come protesta all’interno di un paese contradditorio, dove regole e tradizioni imperano e condizionano i comportamenti individuali.

Pur con queste punte di immersione coerente nella cultura giapponese, in special modo in quella del lavoro, il testo rimane leggero ed in realtà poco approfondito nel tratteggiare i tre personaggi. Dove, ad esempio, seguendo da vicino Oshio e Nitani ne capiamo, in parte, motivi ed atteggiamenti, mentre Ashikawa rimane sempre un agente di sottofondo, quasi che la sua presenza dovesse risaltare solo per contrasto. Non una lettura indimenticabile.

“- Anche a te piacciono i libri? – Si, credo di sì. – In che senso? – Mi piacciono ma non sono un’esperta. Ora come ora ne leggo giusto uno al mese.” (42) [non esiste…]

Yuka Murayama “La stanza del kimono” Corriere Giappone 20 euro 8,90

[A: 15/09/2021 – I: 01/01/2025 – T: 02/01/2025] - && e ½       

[tit. or.: 花良い, Hanayoi; ling. or.: giapponese; pagine: 344; anno 2012]

Continuiamo le letture di interessanti autrici giapponesi, come questa sessantenne Yuka Murayama, vincitrice di alcuni premi e di una fortunata serie dal titolo “Come fare un buon caffè”. Se seguite la letteratura, avrete certo visto molti titoli simili, tra caffè, libri e gatti (niente cani per ora, a mia memoria).

Fatta questa premessa, veniamo ai misteri del titolo. Ora, seppur vero che in alcuni parti del racconto, il kimono ha una sua funzione, così come una stanza in cui ne sono conservati esemplari interessanti, non è di kimono che parla l’autrice. Il titolo che compare nella bibliografia giapponese di Yuka è “花酔ひ”, ideogramma che è composto da due termini “hana” che sono i fiori e “ei” che indica alterazione, ubriachezza. Già questo ci fa entrare in una simbologia potente per l’animo giapponese, anche considerando che la pubblicazione originale della prima uscita del libro presenta in copertina una donna nuda di schiena. E ne vedremo il significato.

La complicazione è quando, facendo saltare la parte inferiore dell’ideogramma “ei” () questo diventa “yoi” (), con un titolo che a questo punto verrebbe tradotto “i fiori sono buoni” che porta tutto il libro fuori contesto.

Perché, allora, i fiori (hana) sono fondamentali nel testo? Innanzi tutto, si sa che alcune delle ricorrenze più sentite nel mondo giapponese sono legati ai fiori, come “hanami”, la cerimonia per osservare la fioritura dei ciliegi. In secondo luogo, i kimono spesso e volentieri hanno dei complicati disegni floreali che ne impreziosiscono la fattura. Alterarli, facendoli ubriacare, serve a condurre il lettore in un periglioso territorio, quello dell’erotismo giapponese, che, non ho remore nel dirlo, mi rende sempre un po’ inquieto. Non capisco mai dove finisce il rispetto reciproco e dove inizia la morbosità. Se prendiamo ad esempio i manga, vediamo che molto presto i giapponesi sono introdotti in un mondo pervaso da un erotismo spesso sotterraneo. Un erotismo che per loro si manifesta in situazioni di estrema delicatezza che noi a fatica riusciamo a comprendere. Un esempio per tutti: la cerimonia del tè officiata da una geisha.

Per venire al testo in sé, non è che prende molto, in particolare per quel vezzo molto moderno ma a me poco congeniale, di saltare punto di vista da un capitolo all’altro. Come avviene qui, dove siamo presenti a 12 capitoli ed un epilogo. Ed incontriamo quattro personaggi. Così, ognuno di loro diventa il protagonista di un capitolo (tre a testa, è ovvio), dove seguiamo le vicende, spesso le stesse, da un diverso punto di vista. Non riuscendo mai ad ottenere un “effetto Rashomon”, che sarebbe stato il massimo. Motivo quindi del gradimento a metà.

Veniamo allora ai quattro personaggi. Yuki Asako è l’erede di una grande tradizione di commercianti di kimono a Tokyo. Lavorava in un’agenzia di organizzazione di matrimonio, dove ha incontrato suo marito, Seiji (il quarto personaggio). Asako per aiutare il padre malato, si licenzia dalla ditta, e con l’aiuto della nonna (che ogni tanto le dona qualche perla della rigida organizzazione sociale giapponese) che le dono una stanza piena di antichi kimono, si mette a gestire un negozio di “kimono da antiquariato”. In questa veste viene contattata da Masataka (il terzo protagonista), un gestore di pompe funebri a Kyoto, che le propone l’acquisto di una interessante partita di kimono, provenienti dall’eredità della moglie Chisa (il secondo personaggio). Kimono anch’essi stipati in una stanza (ecco che ritorna) che ha visto altre cose di cui sapremo nel corso del testo.

Ora, elencati così i personaggi, le ambientazioni, e tutto il contorno, sembrerebbe che ci si avvii ad un testo sulla vita giapponese al giorno d’oggi. E così sembra per tutto il primo capitolo dedicato ad Asako ed ai kimono. Poi comincia la parte “erotica”. Masataka incontra Asako e si invaghisce della sua algidità. Entriamo nell’animo di Chisa e dei soprusi da lei subiti in gioventù da parte dello zio. Che le hanno lasciato scoperta una sensualità che non sa esprimere con il marito. E poi vediamo il povero Seiji, con la sua voglia di essere dominato, voglia che Asako non capisce e non sa esprimere.

Sarebbe tutto più “semplice” se ci fosse uno scambio totale delle coppie. Ma per dieci capitoli assistiamo solo agli intrecci erotici che si complicano per le ritrosie di alcuni o per desideri inespressi di altri (uso il plurale maschile che è grammaticamente corretto in italiano, ma non nelle situazioni complicate.

Ne esce fuori un sacco di giapponesità. Difficoltà ad esprimersi, solitudine, gesti rituali e situazioni senza sbocchi apparenti. Tipico sarà il discorso della nonna di Asako, cosciente dei tradimenti del marito, ma che continuerà a fare la brava moglie, così che lui, alla fine, sempre da lei torna. Se ne leggete bene capirete molto dell’animo giapponese.

Unico scatto in un piatto susseguirsi di situazione di diverso erotismo, è la scelta di un finale non scontato. Non un banale happy end, né una drastica rottura, ma una soluzione ancora una volta nello spirito che pervade tutto il romanzo.

Pur nella sua scorrevolezza, e con dei bei scorci di Tokyo e Kyoto, non ne sono rimasto particolarmente coinvolto.

Julie Otsuka “Nuoto libero” Bollati Boringhieri s.p. (Regalo di Mario&Ines)

[A: 18/01/2025 – I: 23/01/2025 – T: 25/01/2025] - &&&&    

[tit. or.: The Swimmers; ling. or.: inglese; pagine: 140; anno 2022]

Avevo letto il secondo libro scritto da Julie Otsuka, “Venivamo tutti dal mare”, che avevo trovato interessante per la struttura ed i temi narrati, provenienti dalle esperienze personali della scrittrice, americana nata da genitori giapponesi immigrati, anche se non completamente riuscito, come se mi mancasse qualcosa. Quel qualcosa che invece ho trovato in questo testo, che ha impegnato per dieci anni l’autrice, ma che trovo emozionante e terribile.

Intanto, come per il precedente, c’è al solito una riflessione sul titolo, che, in ogni lingua cui viene tradotto il testo, assume colori diversi. Come vedete in alto, il titolo originale è “I nuotatori”. Ma in francese viene pubblicato come “La Ligne de nage”, cioè “La corsia del nuoto”. Oppure in tedesco con “Solange wir schwimmen”, che sta per “Finché nuotiamo”. In italiano, sempre rimanendo l’accenno al nuoto, viene aggiunto l’aggettivo “libero”. E noi ci domandiamo il perché di tutto ciò.

Certo, ed è giusto sia così, l’inizio, le prime due parti del testo, sono legate al nuoto, alla piscina, usata in un certo senso come metafora comportamentale. Per poi prendere quella piega intima e portarci, quasi come in una sequenza di polaroid scattate nel tempo, verso il nodo narrativo. Verso il dolore che il testo vuole esorcizzare. Verso Alice, il nome della madre dell’io narrante, e la sua discesa verso la malattia.

Il libro è diviso in cinque parti, che ci conducono per mano verso quel terribile punto finale.

Si incomincia, in modo quasi straniante, con “La piscina sotterranea”, dove sembra si elenchino i pregi del nuoto, a farne un trattato di benessere in acqua. C’è tutto un elenco di frequentatori della piscina, con le loro diverse motivazioni, con i diversi stili di nuoto, chi va lento, chi va veloce, chi va a rana e chi in stile. Poi si comincia ad avvertire un segnale diverso con “La crepa”. Una fessura nel fondo della vasca, che viene a contaminare il mondo acquatico. Certo è risolvibile, forse si allarga, forse no. Di sicuro, cambia i comportamenti e preoccupa. Ed Alice che nel primo capitolo nuotava quasi a lasciarsi alle spalle la routine quotidiana, comincia anche qui ad avere la crepa.

Perché Alice, avanti negli anni, mostra la sua crepa, la sua progressiva perdita di memoria. E la figlia narrante la segue, l’accudisce. Ma non può fermare la crepa. Ed Alice dovrà andare in una struttura apposita. Julie con poche pennellate ci coinvolge nella paura di abbandonare la madre in una struttura altra, ci mostra il senso di colpa che ne deriva, ci mostra una realtà che le parole non riusciranno mai ad abbellire.

Entriamo così in quello che più mi ha colpito e coinvolto. “Diem perdidi”, dove dal “noi” della prima parte si passa alla terza persona. In un susseguirsi di brevi paragrafi che iniziano tutti con “Ricorda”. Ed i quel ricordare si passano in rassegna gli anni giapponesi, la nascita del grande amore e la nascita dei figli, il matrimonio, il trasferimento negli Stati Uniti, l’invecchiare, l’entrata prima nella terza età e poi nello scivolamento verso la demenza.

Fino al trasferimento nella casa di cura, cui è dedicato il quarto capitolo, “Bellavista” che, di nuovo nel “noi”, racconta la vita di lice nella struttura, il suo progressivo distaccarsi dal presente, il non riconoscere le cose vicine, e ricordarne alcune lontane. Fino all’inevitabile fine, sino al “EuroNeuro”, un congresso dove viene presentata la struttura cerebrale di Alice, che in realtà era affetta dal “morbo di Pick”, o demenza frontotemporale, una variante rara dell’Alzheimer. Ma è un capitolo che serve a Julie per saltare nelle tre dimensioni temporali del suo rapporto con Alice: il prima, il durante e il dopo.

Un libro toccante che partendo dalla piscina quotidiana attraversata da una crepa, ci parla del nostro diventar vecchi. Ci parla dell’attenzione che ad un certo punto diamo a dei segnali che da giovani bellamente ignoravamo. Ci fotografa quelle piccole o grandi cose che affiorano come bolle: il colore di un fiore, un giorno d’estate con tutto il suo calore, un albero, la copertina di un disco, delle frasi di un libro.

C’è tutto il rimpianto della scrittrice nel vedere il progressivo deteriorarsi di una presenza che dava per scontata ed immutabile. Di una persona, che in particolare era sua madre, che ora ricordava il nome del presidente americano, ma non si ricordava più come si allacciano le scarpe.

Insomma, un libro che ha inferto colpi pesanti ai miei pensieri, ma che sono contento di aver letto, e sono contento di invitarvi a leggerne.

Mi è sembrato poi carino ed in sintonia con i miei umori, accostare a cotante giapponesi una scrittrice indiana. Ecco allora che da “Il dio delle piccole cose” abbiamo alcune riflessioni di Arundhati Roy, dove mio ritrovo interamente nell’ultima, tanto che ricomincerò a leggere per l’ottanta milionesima volta il mio adorato “Viaggio del mondo in 80 giorni” di Verne.

“Gli esseri umani sono creature abitudinarie … ed è sorprendente a cosa sono capaci di adattarsi.” (58)

“Lo sai cosa succede quando ferisci le persone? … Quando le ferisci, cominciano a volerti meno bene. Ecco cosa fanno le parole sbadate. Fanno sì che gli altri ti vogliano un po’ meno bene.” (119)

“Dopotutto, è talmente facile mandare in frantumi una storia. Spezzare una catena di pensiero. Sciupare il frammento di un sogno portato in giro con precauzione, come un pezzo di porcellana. Lasciarlo stare, viaggiarci insieme … è fra tutte la cosa più difficile da fare.” (200)

“Il segreto delle Grandi Storie è che esse non hanno segreti. Le Grandi Storie sono quelle che abbiamo già sentito e che vogliamo sentire di nuovo. Quelle in cui possiamo entrare da una parte qualunque e starci comodi. Non ci ingannano con trasalimenti e finali a sorpresa. Non ci sorprendono con l’imprevisto. Ci sono familiari come le case in cui abitiamo. Come l’odore della pelle del nostro amante. Sappiamo in anticipo come vanno a finire, eppure le seguiamo come se non lo sapessimo. Allo stesso modo in cui sappiamo che un giorno dovremo morire, ma viviamo come se non lo sapessimo. Nelle Grandi Storie sappiamo chi sopravvive, chi muore, chi trova l’amore e chi no. E ciononostante vogliamo sentirle un’altra volta. In questo consiste il loro mistero e la loro magia.” (238)

Continuo, nonostante tutto, ad avere fiducia nel futuro, nella possibilità di cambiamenti, nelle guarigioni, insomma, in tutte le cose positive che ci possono essere, sperando, soprattutto, di continuarle a vedere. Per questo ottimisticamente vi abbraccio.

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