Ho solo un appunto prima di lasciarvi alla
lettura: i curatori di queste collane dovrebbero curare meglio un’introduzione
verso autrici di cui poco o nulla si sa in Occidente.
Keiko Yoshimura
“108 rintocchi” Repubblica Giappone 1 euro 8,90
[A: 29/09/2024 – I: 05/11/2024 – T:
07/11/2024] - &&&&---
[tit. or.: 108
チャイム
108 Chaimu; ling. or.: giapponese;
pagine: 170; anno 2023]
In
effetti, è un libro molto gradevole, letto in un momento che avevo bisogno di
un libro come questo. Pur tuttavia, qualche piccolo gradimento in minore
compare di necessità, a colpa degli editori dello scritto. Il romanzo è
tradotto dal giapponese da Laura Imai Messina, che so essere profonda
conoscitrice della cultura nipponica, per cui ipotizzo che il testo originale
sia proprio giapponese. Tuttavia, né nei “credits” del libro né in altri
possibili siti informativi, incluso OPAC, è stato possibile ricavare il titolo
originale e notizie più approfondite sull’autrice. Per questo, un po’ di
piacere si è perso per via.
Non
ovviamente il piacere del testo, e della scrittura di Keiko. Della quale, non
sapendo nulla se non le due linee informative della casa editrice che ha
pubblicato per prima il testo (Piemme, per essere precisi), non parlo,
accontentandomi di seguire la favola che ci propone con gli occhi di chi nulla
sa di testo e contesto.
L’idea
della favola è inserirsi in un mondo chiuso e circoscritto, vederne dinamiche e
rapporti con l’universo mondo, ed indagare sul comportamento umano. Con un
occhio attento, anche, alle tradizioni locali.
Il
mondo è un’isola di difficile raggiungibilità, dovuta al fatto che, spesso e
volentieri, il mare si ingrossa ed impedisce alle navi di arrivare. D’altra
parte è una specie di piccola montagna con anche evidenti difficoltà di essere
raggiungibile con altri mezzi di trasporto. Alla fine, si potrebbe identificare
con Aogashima, la più meridionale delle isole Izu, un arcipelago di un
centinaio di isole e isolette, di cui solo nove abitate. Dalle mie ricerche,
Aogashima è quella che più si avvicina alle descrizioni di Keiko: alla data ha
162 abitanti, un’istruzione che prevede si arrivi alle medie, ed una costante
difficoltà di essere raggiunta da Tokyo, da cui dipende amministrativamente.
In
questo non facile mondo, la vita scorre abbastanza tranquillamente, con l’unico
grosso dispiacere di tutti: i giovani (ma non solo loro) se ne vanno, e l’isola
invecchia. In pochi rimangono per tenerla in vita (ma fino a quando?), con il
grosso problema di tutte le cose e le persone anziane: ci si deteriora e si ha
bisogno di manutenzione.
Nell’isola
non c’è più l’ufficio postale, ma la posta arriva all’ex-postina, ormai su di
una sedia a rotelle, che telefona ai destinatari delle lettere che passano da
lei a prenderle. C’è un emporio cui ci si rifornisce di tutto, e dove tutti
vanno quando c’è bisogno di sapere novità o di comunicarne. C’è una piccola
pasticceria gestita da una donna che ha deciso di essere allegra qualunque cosa
succede. C’è l’anziana che suona magistralmente il pianoforte. C’è il vecchio
maestro che ha visto crescere praticamente tutti gli abitanti dell’isola.
Ma
soprattutto ci sono le tradizioni relative al Capodanno giapponese, con in
testa il Joyanokane, il rito per cui i templi buddisti in tutto il Giappone
suonano le campane per un totale di 108 rintocchi, al fine di esorcizzare i 108
desideri mondani presenti nell’uomo. Nell’isola, questa festa è da sessanta
anni circa unita alla festa per il compleanno di Sohara Mamoru, il protagonista
della favola. Ed in effetti, è la vita, le decisioni, le attività, i drammi di
Sohara che seguiamo per tutta la favola.
Uno
dei pochi bambini rimasti, ormai sessantenne. Un solo amico in gioventù,
Yomada, cui rimane fedele anche se tutti lo sconsigliano, e rimane fedele fino
a rimanerne scottato in maniera forse irreparabile. Mentre Sohara è quello che
ripara, tutto e di più. Sin da piccolo aveva talento per riparare le cose, ed a
quel talento rimane legato per tutta la vita. Ampliandolo con aggiustare anche
le cose che forse non sono rotte, ma solo storte.
Sohara
è un animo buono, uno che ho amato per i riflessi che vi ho trovato, anche se
io non so usare neanche un chiodo per apprendere un quadro. Ma Sohara c’è un
tubo che perde, una finestra con spifferi, una teiera rotta, uno specchio con
una crepa, e lui ripara, sostituisce, previene anche le richieste. Come tutti i
giovani vorrebbe scappare dall’isola, come h fatto Yomada, ma dopo un anno a
Tokyo, torna.
Perché
lui serve a mantenere l’isola in vita. Serve a far nascere una tenera storia
d’amore con Yoko. Serve a creare una nuova vita nella loro figlia Taro, che,
forse, andrà a studiare a Firenze. Se ci sono i soldi, se tutto procede, se
Sohara non crolla sotto i pesi delle cose da fare, o da inventare, da
aggiustare o da creare.
Seguiamo
Sohara in tutto il giro di questo suo mondo, con tanti microracconti che ci
parlano delle più belle figure che incontriamo nell’isola. Ma soprattutto, nel
suo interrogarsi se, realmente, lui è utile alla comunità, se il suo volerla
mantenere in piedi sia un atto di orgoglio o di bontà. Ci suscita tanti
pensieri, Sohara, anche se, personalmente, e con tutto l’ottimismo della
volontà, io sarò sempre dalla sua parte. Io e Sohara vinceremo o saremo
sconfitti? Forse qualcuno ci spiegherà la bellezza delle cose che non
riusciremo a fare.
Intanto
cominciano a suonare le campane, e noi ci si purifica in attesa di un nuovo
anno.
Un
libro giusto, giunto in un momento giusto, che ha anche il merito di parlare
senza enfasi delle tradizioni giapponesi ma anche e soprattutto un libro
comunitario, bello e delicato, come sanno esserlo i fiori giapponesi.
“Serve
fare tutte le scelte per farne una soltanto … una scelta giusta viene fuori da
almeno cinque scelte sbagliate.” (41)
“Non
è unicamente ciò che sogniamo e realizziamo ma anche ciò che ci è interdetto,
reso impossibile dalle circostanze, a renderci felici.” (164)
Kitō Aya “Un litro di lacrime” Corriere
Giappone 11 euro 8,90
[A: 20/07/2021 – I: 25/11/2024 – T:
26/11/2024] - & +
[tit. or.: 1リットルの涙,
Ichi rittoru no namida; ling. or.: giapponese; pagine: 190;
anno 1986]
Un libro complesso per molte ragioni:
contesto e sviluppo del testo in primo luogo. Intanto, ci sarebbe un mistero da
risolvere nelle solite righe editoriali. Nella parte referenze viene scritto
trattarsi di un libro pubblicato nel 2005. Al contrario, la parte principale è
uscita nel 1986 ed alcune considerazioni sono state fatte nel 1988 per una
nuova edizione. Sono il solito “spagliuzzatore”, ma credo che il lettore, ogni
lettore, abbia diritto a tutte le informazioni corrette.
Il
secondo dubbio è l’assenza, nei siti giapponesi, di riferimenti diretti
dell’autrice, mentre c’è un lungo articolo dedicato al libro ed al film che ne
fu tratto nel 2004.
Venendo
al testo, non è che non prenda, ma lo fa soprattutto in quanto descrizione
autobiografica della nascita e dell’evolversi di una malattia terribile. Nata
nel 1962, Aya comincia ad avere dei sintomi particolari all’età di 14 anni.
Sintomi che, dopo un’attenta analisi, portano i medici a diagnosticarle
un’atassia spinocerebellare (SCO), una malattia che colpisce il cervelletto,
praticamente sconnettendolo dal cervello, in modo irreversibile.
Il
testo è in effetti il diario di Aya dove lei descrive l’avanzare della malattia
e le sue sensazioni. Vediamo quindi Aya che inizia con la perdita
dell’equilibrio, poi con la difficoltà nel calcolare le distanze tra gli
oggetti, quindi l’impossibilità di camminare senza aiuto, un aiuto che trova
prima in famiglia, poi con una sedia a rotelle meccanizzata. Cominciano altre
difficoltà: mangiare e deglutire correttamente, parlare in modo distinto, fino
alla perdita completa della capacità di scrivere. Pur non arrendendosi mai, non
può che prendere atto del progressivo avvicinarsi della fine annunciata. Che
sarà poi descritto da una postfazione della madre.
Aya
è una ragazza che ha lottato per tutta la sua breve vita, ma che alla fine non
può che perdere, seppure con dignità e consapevolezza. La sua scrittura è molto
semplice, lineare, i sentimenti che ci comunica sono chiari. Il problema è che
tutto è pervaso dalla naturale ritrosia giapponese, dalla difficoltà di
esternare i sentimenti. Certo, la vediamo piangere e rammaricarsi di essere un
peso per gli altri, ma tutto soffuso da una freddezza assai poco comunicativa.
Leggendo
siamo forse noi che veniamo presi da emozioni diverse. Vedere il sistema
scolastico che emargina i diversi, per poi relegarli in scuole per disabili che
sembrano solo ghetti di parcheggio per non far vedere i malati. Ci viene subito
in mente la signora Tokue di Durian Sukegawa. Ugualmente accade nei vari
ospedali che ospitano Aya durante gli anni. Attenti quando lei ancora ha alcuni
gradi di autonomia, poi sempre più freddi e distanti.
Leggiamo
come Aya pensi a sé stessa in modo progressivamente disperante. Vuole studiare,
leggere, essere autonoma, sogna di avere una famiglia. Ma solo nei primi anni.
Poi capisce la malattia, e l’unica sua ragione di vivere è di non morire. In
questo, l’unica persona che le sta vicino è la madre. Il padre sparisce dal
testo dopo poche pagine. I fratelli ci sono per un breve tratto, poi si
ritirano nell’ombra. Solo la madre rimane, presente, costante. È lei che
convince Aya, quando non riesce più a scrivere, a pubblicare il diario così
com’è, per aiutare tutti i malati, più o meno gravi, ad affrontare la loro
malattia, a non tirarsi indietro, a non piangersi addosso. Si capisce tutto ciò
tra le righe, purtroppo, almeno a me occidentale e moderatamente sano, non
comunica altre emozioni.
Questo
è di certo il limite del testo e della sua non eccelsa diffusione fuori dal
Giappone. Risulta in realtà decisamente noioso, con solo alcuni spunti, alcuni
momenti di piccolo coinvolgimento. A me ne è rimasto uno, quando racconta,
essendo ancora allo stadio iniziale della malattia, la visita scolastica a
Hiroshima ed ai luoghi della Bomba Atomica. Ho rivisto nelle sue parole il
deflagrante diorama posto nel mausoleo, ed ho rabbrividito ancora una volta. Ed
ho sentito, nelle sue parole, la comunanza di dolore con le migliaia di morti
di Hiroshima.
La
parte meno fredda è forse la fine, quando il diario si interrompe e seguiamo le
spiegazioni relative alla malattia ed al percorso medico di Aya nelle parole
della dott.ssa Hiroko Yamamoto, suo medico curante. E nella postfazione finale
della madre di Aya, dove traspare tutto il dramma di vedere ammalarsi una
figlia senza possibilità di essere curata.
Inciso
finale, ricordando che il libro è della fine degli anni Ottanta, solo nel 2011,
un professore giapponese, Hirokazu Hirai, ha trovato delle ipotesi di sviluppo
della malattia attraverso degli esperimenti sui topi. Un finale che, come anche
nelle parole di Aya, deve infonderci per sempre una fiducia nella ricerca.
“Anziché
contare ciò che hai perso, prenditi cura di quel che hai ancora.” (140)
Junko Takase “Le delizie della signorina
Ashikawa” Repubblica Giappone 10 euro 8,90
[A: 28/11/2024 – I: 18/12/2024 – T:
19/12/2024] - &&
[tit. or.: おいしいご飯が食べられますように
Oishii gohan ga taberare masu yō ni; ling. or.: giapponese; pagine: 118; anno 2022]
Intanto notiamo che in Italia viene proposto
con un titolo, “Le delizie della signorina Ashikawa”, che rimanda immediatamente al bel libro di
Durian Sukegawa di cui ho già tramato. Mentre il titolo originale giapponese
dovrebbe essere tradotto con qualcosa del tipo “Spero che tu possa mangiare
cibo delizioso”. Un cambiamento che non rende giustizia al testo. Dove seppur è
vero che Ashikawa è una degna preparatrice di cibo, è proprio il cibo il centro
intorno a cui ruotano le poco più di cento pagine.
Perché
si parla di cibo al fine di inserire il discorso nell’analisi di microcosmi
comportamentali e relazionali, che costituiscono l’ossatura del testo. Centro
che, alla base, riporta il nascere e l’evolversi di un triangolo amoroso,
stretto tra le pareti di un ufficio non meglio identificato, con le
ramificazioni verso pub ed altri ritrovi per bere e mangiare e la casa di uno
dei protagonisti.
Che
sono appunto Ashikawa, una signorina da tempo impiegata nell’ufficio, timida,
impacciata, totalmente non arrivista, che, tra mal di testa ed altri veri o
falsi malesseri, riesce a mantenere un orario d’ufficio accettabile, anche se
così il suo lavoro ricade sugli altri. Che sono due impiegati da poco arrivati
nell’ufficio. Oshio che invece è arrivista e competitiva, con uno spiccato
senso teso al raggiungimento di nuove mansioni, non disdegnando quindi di
lavorare fino a tardi, anche se ogni volta sbuffa nel doversi sobbarcare il
lavoro non eseguito da Ashikawa. Nitani che anche lui lavora sino a tardi, ma
senza lamentarsi, che per lui il lavoro è vita, e tutto il resto, compreso il
cibo, un accidente che bisogna controllare e minimizzare.
Anche
se Ashikawa è poi il deus ex-machina della trama, la scrittrice ci presenta gli
avvenimenti alternando una narrazione in prima persona di Oshio, ed una in
terza persona incentrata sui pensieri e sulle azioni di Nitani. Nitani e Oshio,
lavorando sino a tardi, spesso escono insieme la sera, si ritrovano a bere in
locali vicino all’ufficio, parlando di cosa vi succede, e sovente sparlando di
Ashikawa. Dalle parole di Oshio, capiamo anche che lei si è presa una cotta per
Nitani, ma la deontologia del lavoro le impedisce di fare la prima mossa.
Nitani,
invece, è attratto da Ashikawa, trovando la sua natura fragile ed inassertiva
consona ad un possibile rapporto duraturo. Che la famiglia di Nitani preme a
che si sposi e faccia una famiglia, e Ashikawa rappresenta una tipica moglie
che incarna gli ideali remissivi della tipica cultura giapponese classica. Il
forte problema è che Nitani è assolutamente refrattario al cibo, mangerebbe
solo “noodles cup”, quei barattolini contenenti gli spaghetti giapponesi, cui
si aggiunge acqua calda. Un cibo di cui la sua casa è piena.
Comunque,
Nitani comincia ad uscire con Ashikawa, poi i due cominciano a frequentare la
casa di Nitani, fanno l’amore, facendo crescere il loro rapporto. Così che
Ashikawa esce dal suo bozzolo, si fa più espansiva, e per farsi perdonare la
scarsità del suo apporto lavorativo, comincia a portare le sue realizzazioni di
pasticceria in ufficio. Creando un momento di rottura tra la routine d’ufficio
tesa al lavoro sempre e comunque ed i momenti per sé stessi, in cui vengono
gustati i manicaretti di Ashikawa.
Il
contrasto sul cibo si fa sempre più aspro in Nitani, che rifiuta i dolci,
buttandoli nel cestino ed in Oshio che li riprende mettendoli sul tavolo di
Ashikawa. Tutto ciò crea una rottura in ufficio: chi vincerà? La remissiva
Ashikawa o la rampante Oshio? Chi verrà allontanato dall’ufficio? Chi andrà
verso le nozze con Nitani? Si scoprirà solo leggendolo.
Il
libro è in linea con la delicatezza giapponese, dove anche i contrasti vengono
descritti e vissuti con un understatement generalizzato. Il cibo, punto
centrale del testo, diventa solo un espediente per sollevare e risolvere le
tensioni che si generano in quei bozzoli di persone, emblema dell’esistenza
giapponese. Il riprendersi del tempo per Ashikawa sembra voler affermare la
cura e l’accudimento di sé e degli altri come protesta all’interno di un paese
contradditorio, dove regole e tradizioni imperano e condizionano i
comportamenti individuali.
Pur
con queste punte di immersione coerente nella cultura giapponese, in special
modo in quella del lavoro, il testo rimane leggero ed in realtà poco
approfondito nel tratteggiare i tre personaggi. Dove, ad esempio, seguendo da
vicino Oshio e Nitani ne capiamo, in parte, motivi ed atteggiamenti, mentre
Ashikawa rimane sempre un agente di sottofondo, quasi che la sua presenza
dovesse risaltare solo per contrasto. Non una lettura indimenticabile.
“-
Anche a te piacciono i libri? – Si, credo di sì. – In che senso? – Mi piacciono
ma non sono un’esperta. Ora come ora ne leggo giusto uno al mese.” (42) [non
esiste…]
Yuka Murayama “La stanza del kimono”
Corriere Giappone 20 euro 8,90
[A: 15/09/2021 – I: 01/01/2025 – T:
02/01/2025] - &&
e ½
[tit. or.: 花良い,
Hanayoi; ling. or.: giapponese;
pagine: 344; anno 2012]
Continuiamo
le letture di interessanti autrici giapponesi, come questa sessantenne Yuka
Murayama, vincitrice di alcuni premi e di una fortunata serie dal titolo “Come
fare un buon caffè”. Se seguite la letteratura, avrete certo visto molti titoli
simili, tra caffè, libri e gatti (niente cani per ora, a mia memoria).
Fatta
questa premessa, veniamo ai misteri del titolo. Ora, seppur vero che in alcuni
parti del racconto, il kimono ha una sua funzione, così come una stanza in cui
ne sono conservati esemplari interessanti, non è di kimono che parla l’autrice.
Il titolo che compare nella bibliografia giapponese di Yuka è “花酔ひ”, ideogramma che è
composto da due termini “hana” che sono i fiori e “ei” che indica alterazione,
ubriachezza. Già questo ci fa entrare in una simbologia potente per l’animo
giapponese, anche considerando che la pubblicazione originale della prima
uscita del libro presenta in copertina una donna nuda di schiena. E ne vedremo
il significato.
La complicazione è
quando, facendo saltare la parte inferiore dell’ideogramma “ei” (ひ) questo diventa
“yoi” (い), con un titolo che a questo punto verrebbe
tradotto “i fiori sono buoni” che porta tutto il libro fuori contesto.
Perché,
allora, i fiori (hana) sono fondamentali nel testo? Innanzi tutto, si sa che
alcune delle ricorrenze più sentite nel mondo giapponese sono legati ai fiori,
come “hanami”, la cerimonia per osservare la fioritura dei ciliegi. In secondo
luogo, i kimono spesso e volentieri hanno dei complicati disegni floreali che
ne impreziosiscono la fattura. Alterarli, facendoli ubriacare, serve a condurre
il lettore in un periglioso territorio, quello dell’erotismo giapponese, che,
non ho remore nel dirlo, mi rende sempre un po’ inquieto. Non capisco mai dove
finisce il rispetto reciproco e dove inizia la morbosità. Se prendiamo ad
esempio i manga, vediamo che molto presto i giapponesi sono introdotti in un
mondo pervaso da un erotismo spesso sotterraneo. Un erotismo che per loro si
manifesta in situazioni di estrema delicatezza che noi a fatica riusciamo a
comprendere. Un esempio per tutti: la cerimonia del tè officiata da una geisha.
Per
venire al testo in sé, non è che prende molto, in particolare per quel vezzo
molto moderno ma a me poco congeniale, di saltare punto di vista da un capitolo
all’altro. Come avviene qui, dove siamo presenti a 12 capitoli ed un epilogo.
Ed incontriamo quattro personaggi. Così, ognuno di loro diventa il protagonista
di un capitolo (tre a testa, è ovvio), dove seguiamo le vicende, spesso le
stesse, da un diverso punto di vista. Non riuscendo mai ad ottenere un “effetto
Rashomon”, che sarebbe stato il massimo. Motivo quindi del gradimento a metà.
Veniamo
allora ai quattro personaggi. Yuki Asako è l’erede di una grande tradizione di
commercianti di kimono a Tokyo. Lavorava in un’agenzia di organizzazione di
matrimonio, dove ha incontrato suo marito, Seiji (il quarto personaggio). Asako
per aiutare il padre malato, si licenzia dalla ditta, e con l’aiuto della nonna
(che ogni tanto le dona qualche perla della rigida organizzazione sociale
giapponese) che le dono una stanza piena di antichi kimono, si mette a gestire
un negozio di “kimono da antiquariato”. In questa veste viene contattata da
Masataka (il terzo protagonista), un gestore di pompe funebri a Kyoto, che le
propone l’acquisto di una interessante partita di kimono, provenienti
dall’eredità della moglie Chisa (il secondo personaggio). Kimono anch’essi
stipati in una stanza (ecco che ritorna) che ha visto altre cose di cui sapremo
nel corso del testo.
Ora,
elencati così i personaggi, le ambientazioni, e tutto il contorno, sembrerebbe
che ci si avvii ad un testo sulla vita giapponese al giorno d’oggi. E così
sembra per tutto il primo capitolo dedicato ad Asako ed ai kimono. Poi comincia
la parte “erotica”. Masataka incontra Asako e si invaghisce della sua algidità.
Entriamo nell’animo di Chisa e dei soprusi da lei subiti in gioventù da parte
dello zio. Che le hanno lasciato scoperta una sensualità che non sa esprimere
con il marito. E poi vediamo il povero Seiji, con la sua voglia di essere
dominato, voglia che Asako non capisce e non sa esprimere.
Sarebbe
tutto più “semplice” se ci fosse uno scambio totale delle coppie. Ma per dieci
capitoli assistiamo solo agli intrecci erotici che si complicano per le
ritrosie di alcuni o per desideri inespressi di altri (uso il plurale maschile
che è grammaticamente corretto in italiano, ma non nelle situazioni complicate.
Ne
esce fuori un sacco di giapponesità. Difficoltà ad esprimersi, solitudine,
gesti rituali e situazioni senza sbocchi apparenti. Tipico sarà il discorso
della nonna di Asako, cosciente dei tradimenti del marito, ma che continuerà a
fare la brava moglie, così che lui, alla fine, sempre da lei torna. Se ne
leggete bene capirete molto dell’animo giapponese.
Unico
scatto in un piatto susseguirsi di situazione di diverso erotismo, è la scelta
di un finale non scontato. Non un banale happy end, né una drastica rottura, ma
una soluzione ancora una volta nello spirito che pervade tutto il romanzo.
Pur
nella sua scorrevolezza, e con dei bei scorci di Tokyo e Kyoto, non ne sono
rimasto particolarmente coinvolto.
Julie
Otsuka “Nuoto libero” Bollati Boringhieri s.p. (Regalo di Mario&Ines)
[A: 18/01/2025 – I: 23/01/2025 – T: 25/01/2025]
- &&&&
[tit. or.: The Swimmers; ling. or.: inglese; pagine: 140; anno 2022]
Avevo
letto il secondo libro scritto da Julie Otsuka, “Venivamo tutti dal mare”, che
avevo trovato interessante per la struttura ed i temi narrati, provenienti
dalle esperienze personali della scrittrice, americana nata da genitori
giapponesi immigrati, anche se non completamente riuscito, come se mi mancasse
qualcosa. Quel qualcosa che invece ho trovato in questo testo, che ha impegnato
per dieci anni l’autrice, ma che trovo emozionante e terribile.
Intanto,
come per il precedente, c’è al solito una riflessione sul titolo, che, in ogni
lingua cui viene tradotto il testo, assume colori diversi. Come vedete in alto,
il titolo originale è “I nuotatori”. Ma in francese viene pubblicato come “La
Ligne de nage”, cioè “La corsia del nuoto”. Oppure in tedesco con “Solange wir
schwimmen”, che sta per “Finché nuotiamo”. In italiano, sempre rimanendo
l’accenno al nuoto, viene aggiunto l’aggettivo “libero”. E noi ci domandiamo il
perché di tutto ciò.
Certo,
ed è giusto sia così, l’inizio, le prime due parti del testo, sono legate al
nuoto, alla piscina, usata in un certo senso come metafora comportamentale. Per
poi prendere quella piega intima e portarci, quasi come in una sequenza di
polaroid scattate nel tempo, verso il nodo narrativo. Verso il dolore che il
testo vuole esorcizzare. Verso Alice, il nome della madre dell’io narrante, e
la sua discesa verso la malattia.
Il
libro è diviso in cinque parti, che ci conducono per mano verso quel terribile
punto finale.
Si
incomincia, in modo quasi straniante, con “La piscina sotterranea”, dove sembra
si elenchino i pregi del nuoto, a farne un trattato di benessere in acqua. C’è
tutto un elenco di frequentatori della piscina, con le loro diverse
motivazioni, con i diversi stili di nuoto, chi va lento, chi va veloce, chi va
a rana e chi in stile. Poi si comincia ad avvertire un segnale diverso con “La
crepa”. Una fessura nel fondo della vasca, che viene a contaminare il mondo
acquatico. Certo è risolvibile, forse si allarga, forse no. Di sicuro, cambia i
comportamenti e preoccupa. Ed Alice che nel primo capitolo nuotava quasi a
lasciarsi alle spalle la routine quotidiana, comincia anche qui ad avere la
crepa.
Perché
Alice, avanti negli anni, mostra la sua crepa, la sua progressiva perdita di
memoria. E la figlia narrante la segue, l’accudisce. Ma non può fermare la
crepa. Ed Alice dovrà andare in una struttura apposita. Julie con poche
pennellate ci coinvolge nella paura di abbandonare la madre in una struttura
altra, ci mostra il senso di colpa che ne deriva, ci mostra una realtà che le
parole non riusciranno mai ad abbellire.
Entriamo
così in quello che più mi ha colpito e coinvolto. “Diem perdidi”, dove dal
“noi” della prima parte si passa alla terza persona. In un susseguirsi di brevi
paragrafi che iniziano tutti con “Ricorda”. Ed i quel ricordare si passano in
rassegna gli anni giapponesi, la nascita del grande amore e la nascita dei
figli, il matrimonio, il trasferimento negli Stati Uniti, l’invecchiare,
l’entrata prima nella terza età e poi nello scivolamento verso la demenza.
Fino
al trasferimento nella casa di cura, cui è dedicato il quarto capitolo,
“Bellavista” che, di nuovo nel “noi”, racconta la vita di lice nella struttura,
il suo progressivo distaccarsi dal presente, il non riconoscere le cose vicine,
e ricordarne alcune lontane. Fino all’inevitabile fine, sino al “EuroNeuro”, un
congresso dove viene presentata la struttura cerebrale di Alice, che in realtà
era affetta dal “morbo di Pick”, o demenza frontotemporale, una variante rara
dell’Alzheimer. Ma è un capitolo che serve a Julie per saltare nelle tre
dimensioni temporali del suo rapporto con Alice: il prima, il durante e il
dopo.
Un
libro toccante che partendo dalla piscina quotidiana attraversata da una crepa,
ci parla del nostro diventar vecchi. Ci parla dell’attenzione che ad un certo
punto diamo a dei segnali che da giovani bellamente ignoravamo. Ci fotografa
quelle piccole o grandi cose che affiorano come bolle: il colore di un fiore,
un giorno d’estate con tutto il suo calore, un albero, la copertina di un
disco, delle frasi di un libro.
C’è
tutto il rimpianto della scrittrice nel vedere il progressivo deteriorarsi di
una presenza che dava per scontata ed immutabile. Di una persona, che in
particolare era sua madre, che ora ricordava il nome del presidente americano,
ma non si ricordava più come si allacciano le scarpe.
Insomma,
un libro che ha inferto colpi pesanti ai miei pensieri, ma che sono contento di
aver letto, e sono contento di invitarvi a leggerne.
Mi è
sembrato poi carino ed in sintonia con i miei umori, accostare a cotante
giapponesi una scrittrice indiana. Ecco allora che da “Il dio delle piccole
cose” abbiamo alcune riflessioni di Arundhati Roy, dove mio ritrovo
interamente nell’ultima, tanto che ricomincerò a leggere per l’ottanta
milionesima volta il mio adorato “Viaggio del mondo in 80 giorni” di Verne.
“Gli esseri umani sono creature abitudinarie
… ed è sorprendente a cosa sono capaci di adattarsi.” (58)
“Lo sai cosa succede quando ferisci le
persone? … Quando le ferisci, cominciano a volerti meno bene. Ecco cosa fanno
le parole sbadate. Fanno sì che gli altri ti vogliano un po’ meno bene.” (119)
“Dopotutto, è talmente facile mandare in
frantumi una storia. Spezzare una catena di pensiero. Sciupare il frammento di
un sogno portato in giro con precauzione, come un pezzo di porcellana.
Lasciarlo stare, viaggiarci insieme … è fra tutte la cosa più difficile da
fare.” (200)
“Il segreto delle Grandi Storie è che esse
non hanno segreti. Le Grandi Storie sono quelle che abbiamo già sentito e che
vogliamo sentire di nuovo. Quelle in cui possiamo entrare da una parte
qualunque e starci comodi. Non ci ingannano con trasalimenti e finali a
sorpresa. Non ci sorprendono con l’imprevisto. Ci sono familiari come le case
in cui abitiamo. Come l’odore della pelle del nostro amante. Sappiamo in
anticipo come vanno a finire, eppure le seguiamo come se non lo sapessimo. Allo
stesso modo in cui sappiamo che un giorno dovremo morire, ma viviamo come se
non lo sapessimo. Nelle Grandi Storie sappiamo chi sopravvive, chi muore, chi
trova l’amore e chi no. E ciononostante vogliamo sentirle un’altra volta. In
questo consiste il loro mistero e la loro magia.” (238)
Continuo, nonostante tutto, ad avere fiducia nel futuro, nella possibilità di cambiamenti, nelle guarigioni, insomma, in tutte le cose positive che ci possono essere, sperando, soprattutto, di continuarle a vedere. Per questo ottimisticamente vi abbraccio.
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