Penso che ci sia bisogno, ogni tanto, di
momenti più riflessivi, e questo è uno di quelli.
Francesco “Dilexit Nos” Libreria Editrice
Vaticana euro 2,90 (in realtà scontato a 2,75 euro)
[A: 29/11/2024
– I: 02/12/2024 – T: 03/12/2024] &&&& ----
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 206; anno: 2024]
Pur
non essendo esperto in materia religiosa, leggo sempre con interesse gli
scritti di Papa Francesco che con questa pubblica la sua quarta enciclica, “Dilexit
Nos”, che esce in un giorno dai numeri significativi: 24/10/2024 (ripetizione
inizio-fine del 24 e 10/20 mese con secolo doppio; ovvio che queste sono le
paturnie mentali di un lettore matematico che non entrano nulla nella realtà
del testo).
Ho
deciso quindi di intraprenderne la lettura, anche sollecitato dal ricordo della
terza enciclica, “Fratelli tutti”, dedicata alla fraternità universale.
Tuttavia, ho avuto qualche difficoltà nell’entrare nel testo che, per alcuni
aspetti, è molto legato all’aspetto teologico delle riflessioni del papa. È in
realtà una lettera molto intima, in cui Francesco esprime il cuore della sua
fede legandola agli aspetti religiosi dell’amore umano e divino. Tanto che
viene giudicata, dagli esperti vaticanisti, quasi come un testamento religioso
dello stesso Francesco.
Per
quanto detto sopra, ho avuto appunto difficoltà ad entrare nei dettami
teologici del discorso, motivo per cui, dal punto di vista letterario, ne
risulta un testo non sempre in linea con la mia capacità di analisi e di
critica (che si esprime nei piccoli “meno” del mio giudizio complessivo). Il
senso generale che mi ha comunicato, comunque, è un’enunciazione di un modello
di pensiero che invita, tutti, a superare le frammentazioni individuali.
Ad
esempio, già nel primo capitolo si ritrova un’esortazione spesso presente nelle
sue parole: la “compassione di questa terra ferita” (DN31), ricordandoci le
parole di Sant’Agostino: “chi considera senza angoscia dell’animo i mali della
guerra ha perduto il sentimento umano”. Un sentimento da ricostruire per poter
“creare legami fraterni, riconoscere la dignità di ogni essere umano e
prenderci cura insieme dell'ambiente”. Ponendo poi la base di tutto lo scritto:
il cuore. Sede dei sentimenti, ma dove non possiamo che convenire con lui che “vedendo
come si susseguono nuove guerre, con la complicità, la tolleranza o
l’indifferenza di altri Paesi, o con mere lotte di potere intorno a interessi
di parte, viene da pensare che la società mondiale stia perdendo il cuore” (DN22).
E perdendolo non si può che cadere nell’angoscia.
Bisogna
unirsi fraternamente agli altri per arrivare a rispondere e rispondersi sulle
questioni che tutti ci siamo posti e ci poniamo: chi sono veramente, che cosa
cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni,
perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza
quando arriverà alla fine. Siamo allora tutti infelici?
Forse
sì. O forse ci salva quel sentimento che trabocca di compassione attiva verso
gli altri. Francesco ci ricorda il Vangelo di Matteo, dove Gesù dice “Misericordia
io voglio e non sacrifici”. Affermazione che negli stessi Vangeli ci viene
illustrata negli incontri di Gesù con gli impuri e gli emarginati: l’adultera,
il cieco, la samaritana.
Una
misericordia che serve a rafforzare la fratellanza (quella già espressa nella
precedente enciclica) per affrontare insieme le sfide mondiali, dalla povertà
alla crisi ambientale alle crescenti diseguaglianze, per aiutare gli altri
affinché soffrano meno e vivano meglio.
Una
parte emotivamente (e narrativamente) coinvolgente si sviluppo nel centro del
testo, quando Francesco narra le sue esperienze infantili. Come il racconto
delle frittelle che la nonna friggeva a carnevale. Una pasta sottile che
nell’olio si gonfiava ma che, mangiandole risultavano vuote. Dice Francesco: “Quelle
frittelle in dialetto si chiamavano “bugie”. Ed era proprio la nonna che ci
spiegava il motivo: ‘Queste frittelle sono come le bugie, sembrano grandi, ma
non hanno niente dentro, non c’è niente di vero, non c’è niente di sostanza’” (DN7).
Ed
altri ricordi ci fa spuntare dal fondo della memoria, la capacità di far
sbocciare sorrisi con una battuta, di tracciare un disegno al controluce di una
finestra. L’immagine che ci resta anche nel cuore di giocare la prima partita
di calcio con un pallone di pezza, di conservare dei vermetti in una scatola di
scarpe, di seccare un fiore tra le pagine di un libro, di prendersi cura di un
uccellino caduto dal nido, di esprimere un desiderio sfogliando una margherita.
E qui ci riporta all’oggi, al dibattito tra uomo ed intelligenza artificiale.
“Tutti questi piccoli dettagli, l’ordinario-straordinario, non potranno mai
stare tra gli algoritmi. Perché la forchetta, le battute, la finestra, la
palla, la scatola di scarpe, il libro, l’uccellino, il fiore... si appoggiano
sulla tenerezza che si conserva nei ricordi del cuore” (DN20).
Cosa
mi resta allora di tutta questa parte che ci parla direttamente al cuore? La
riflessione sull’importanza dell’amore e della speranza, su quanto conti essere
solidale nel tempo di oggi. Per seguire le ultime esortazioni di papa
Francesco: “Oggi tutto si compra e si paga, e sembra che il senso stesso della
dignità dipenda da cose che si ottengono con il potere del denaro. Siamo spinti ad accumulare, a consumare e a
distrarci, intrappolati in un sistema degradante che non ci permette di vedere
oltre i nostri bisogni” (DN218).
Pur
se mi hanno interessato le citazioni di tanti preti e suore ed intellettuali
cristiani, non ho la capacità di inquadrarli nel loro contesto. Penso solo
all’unico che ho seguito nel suo percorso, san Charles de Foucault, di cui
visitai l’eremo nel deserto algerino. Né entrerò per mie manifeste incapacità
sul discorso relativo al “Sacro Cuore di Gesù”, su di cui Francesco basa molte
sue riflessioni. Mi resta solo una citazione che non può che risuonare in
questi tempi cupi. Dalla “Lettera ai Galati” di San Paolo: “amerai il prossimo
tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di
non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”
Speriamo!
“Non
perderò mai la mia speranza, la conserverò fino all’ultimo istante della mia
vita … Alcuni possono sperare la loro felicità dalle loro ricchezze o dai loro
talenti, altri confidano nell’innocenza della loro vita … Per me … tutta la mia
fiducia è la fiducia stessa; una fiducia che non ha mai ingannato nessuno. Per
questo ho la certezza che sarò eternamente felice, perché spero fermamente di
esserlo.” (DN126) [da uno scritto di San Claudio de La Colombière]
Georges Simenon “Una Francia sconosciuta” Adelphi
euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)
[A: 23/11/2024 – I: 26/12/2024 – T: 27/12/2024] - &&& e ½
[tit. or.: Une France inconnue ou L’aventure entre deux
berges; ling. or.: francese; pagine: 187; anno 1931-1977]
Ogni
tanto ci prendiamo un piccolo riposo dalle letture “serie” di Georges Simenon,
grazie anche all’opera certosina dell’editrice Adelphi, cui vanno i miei più
sentiti pensieri positivi. Come in una precedente piccola antologia (quella
dedicata alla polizia francese), qui abbiamo una serie di articoli (cinque per
la precisione) in cui il nostro belga parla di una delle sue esperienze più
personali e sentite: l’andare in barca per i canali francesi.
Per
essere precisi, poi, i primi quattro sono articoli degli anni Trenta, prima e
durante la prima fase della scrittura “famosa” di Simenon, mentre l’ultimo è
una ripresa tardiva di quanto scritto più estesamente nel primo articolo, come
fosse un ricordo delle avventure di quasi cinquanta anni prima, stemperate dal
tempo, e da questo, proprio per la lontananza, resi belli e degni di essere
citati come “i più bei momenti della mia vita”.
Se
andiamo velocemente sui diversi articoli, i primi due sono del 1931. Il primo,
che poi dà il titolo al volume, è “Una Francia sconosciuta o L’avventura tra
due sponde” [Une France inconnue ou L’aventure entre deux berges] che
è anche il più corposo, ripropone il primo viaggio in barca sui canali
francesi, e ci ritorneremo sopra più avanti. Il secondo, invece, “Marinai da
strapazzo, ma pur sempre marinai” [Marins pour rire, marins quand même]
è un piccolo divertimento su chi si avvicina all’acqua senza saperne “i
segreti”; Simenon si diverta ad ingigantire i possibili problemi, anche se,
alla fine, concede al futuro marinaio la sua indulgenza (“in barca siamo tutti
un frammento dell’oceano…”).
Il
terzo, del 1932, “Seguendo la corrente” [Au fil de l’eau] è un articolo,
brevissimo, che gli è stato commissionato per spronare ad usare le vie d’acqua
francesi, tentando in poco più di 200 righe, di dare un immagine della Francia
fluviale.
Il
quarto, dove siamo già nel 1937, “Navigazione di lungo corso su fiumi e
canali” [Long cours sur les rivières e les canaux] riprende il tono
scanzonato dei primi, ma con la consapevolezza di essere ormai un autore con
della fama alle spalle. Con toni leggeri, entra nel merito dei quindicimiladuecentocinquantaquattro
(15.254) chilometri di vie navigabili presenti sul territorio francese,
accennando ai possibili incontri fluviali: le chiuse, i battellieri, i piccoli
villaggi sul bordo dei canali.
L’ultimo,
e siamo orami nel 1977, “La Francia sorridente” [La France souriante]
riprende succintamente le descrizioni del primo articolo, ripassate dal filo
della memoria lontana. Ci ricorda che attraverso le vie d’acqua si può andare
da Le Havre, sulla Manica, a Marsiglia, nel Mediterraneo. Si vede molta Francia
andando piano, si vede, secondo lui, una Francia che sorride, una Francia piena
di risorse. Ma soprattutto lui conserva nella sua memoria tutte queste
immagini, queste persone, queste situazioni. Poi basta un accenno, e da lì
partono molti dei suoi testi. Ricordo, solo per citarne alcuni a memoria, testi
che si svolgono nei canali o in loro prossimità, come “Il Cavallante della
Providence”, “La Chiusa n. 1”, “Firmato Picpus” (tutti con Maigret).
Tutto
nasce dall’insoddisfazione del giovane Simenon (ha venticinque anni), costretto
a scrivere di tutto, articoli e romanzetti quasi scomparsi, per racimolare di
che vivere a Parigi dove si è trasferito da tempo, e dove vive con la moglie
Tigy. Frequenta gli ambienti giusti, ma non ha fatto quello scatto in avanti
che avverrà da lì a poco. Decide allora di imbarcarsi su di una piccola barca,
la “Ginette” (quattro metri per uno e sessanta con un motore da tre cavalli)
per affrontare con la moglie Tigy, la domestica Boule ed il suo amato cane Olaf
(un danese di sessanta chili), un viaggio di sei mesi per i canali francesi.
Dovrà
affrontare molti problemi, tutti però con lo spirito e l’incoscienza della
gioventù. Dormire sotto una pioggia torrenziale, gareggiare con le chiatte
trainate dai cavalli per arrivare alle chiuse prima di loro, sguazzare nel
fango, sfiorare rocce e pietre a pelo d’acqua. Ma incontrerà anche paesaggi
riposanti, battellieri comprensivi, momenti “folli” (sbarcare per andare in un
paesino a cercare acqua potabile in costume da bagno). E poi giocare a bocce
con i rivieraschi, fare grigliate sull’acqua, insomma incontrare tante piccole
sfaccettature della vita francese lontano dalle grandi città. Un momento di
riposo del cervello, e di slancio verso il futuro.
È un
passaggio che non solo gli consente di conoscere altri e profondi aspetti della
vita, ma che gli darà slancio anche per conoscere sé stesso. Anche se anche in
questi mesi non smette mai di scrivere (si è portato la sua fedele macchina da
scrivere), tanto che a volte, si sistema in un porticciolo e porta avanti la
sua opera forsennata (bisogna pur trovare di che sostentarsi).
Alla
fine, anche la “Ginette” è esausta, e Simenon, anche con un grande sforzo
economico, decide di passare ad una barca più grande, facendosi costruire un
dieci metri, l’Ostrogoth, sul quale continuerà a navigare. Ed è lì, trovandosi
in Olanda nel porto di Delfzijl, che a bordo dell’Ostrogoth, trova
l’ispirazione per un romanzo che abbia al centro un commissario di polizia. Lì,
nasce il commissario Maigret nel suo primo romanzo “Pietro il Lettone”. Inciso:
non ho mai capito perché, essendo lituano, il titolo sia sempre stato indicato
come lettone.
Simenon
rimarrà sempre legato sentimentalmente sia ai canali sia all’acqua stessa (di
fiume o di mare che sia), tanto che si troverà a dire: “Ho fatto tre volte il
giro del mondo, ma se chiudo gli occhi è questo il primo ricordo che mi torna
in mente: sugli argini le lavandaie battevano la biancheria ridendo a
crepapelle”.
Il
libro, oltre ad un utile postfazione di Ena Marchi, è poi corredato da una
sessantina di fotografie di Hans Oplatka, forse un po’ piccole nel formato
presentato, ma di un buon interesse iconografico. Successe infatti che, dato il
successo dei primi Maigret, gli viene richiesto da una rivista di rifare il
tour della Ginette, in macchina, accompagnato dal giovane (diciannovenne) Oplatka,
un promettente fotografo ceco, che dopo la guerra emigrerà in Inghilterra,
morendo a Liverpool più che ottantenne. Queste foto vengono dal Museo delle
Arti Decorative di Praga.
Non
è un’opera indimenticabile, ma significativa della nascita del Simenon che
conosciamo. Leggendone facciamo un salto nel passato, sorretti da un
bell’aforisma di Umberto Eco (“La lettura è un’immortalità all’indietro”).
“Ha
visto … quelle magnifiche barche da regata … [dove] tutto è sacrificato alla
velocità. Non c’è posto per le comodità. Manovrarle non è affatto semplice.”
(57) [e che ne dice Renato?]
Alain
De Botton “Le consolazioni della filosofia” Repubblica Filosofia Viva 3 euro
9,90
[A: 06/03/2020 – I: 12/01/2025 – T: 14/01/2025]
- &&&
[tit. or.: The Consolations of Philosophy; ling. or.: inglese; pagine: 303; anno 2000]
Sono
un po’ deluso, che in genere gli scritti di De Botton sono discretamente
stimolanti (ed anche questo lo è) ma anche ironici e coinvolgenti (e questo lo
è meno). Alain De Botton, secondo i suoi detrattori, è un filosofo dell’ovvio
mentre i suoi estimatori ne traggono un’immagine di divulgatore senza troppi
fronzoli.
Personalmente,
ho sempre trovato curiosi i suoi scritti, certo a volte sconfina in banalità
“alla Catalano” o in ironie “alla De Crescenzo”, ma se facciamo la tara alle
sue parole, ne rimangono elementi di curiosità e voglie di approfondimento che
ne rivalutano gli scritti stessi. Ritengo infatti che, laddove qualcuno riesca
a stimolare i nostri poveri neuroni, magari da lì possono partire sentieri
diversi ed approfondimenti personali.
Intanto,
cominciamo dalla consolazione del titolo, che riprende (nei modi non nelle
forme) le scritture utilizzate in tempi antichi per confortare un lutto, ma
anche per illustrare modalità di vita e di pensiero. Inoltre, è sempre
rimpolpata da citazioni, da rimandi ed altro. E non a caso, il testo presenta
(anche se in bianco e nero non sempre vengono bene) foto, disegni, ed altri
elementi meta testuali. Manca solo la poesia, come è invece nel testo di
riferimento (almeno nel titolo) che fu quel “De philosophiae consolatione”
scritto nel VI secolo da Anicio Manlio Torquato Severino Boezio.
Riprendendo
l’idea di Boezio, De Botton confeziona sei capitoli in cui la filosofia viene
applicata a momenti della vita di ognuno, utilizzando come guida sei illustri
filosofi. Abbiamo così Socrate che ci conforta nel disaccordo con le opinioni
prevalenti (impopolarità), Epicuro che ci consola per la mancanza di denaro,
Seneca ci consola dalla frustrazione, Montaigne ci consola dall’inadeguatezza,
Schopenhauer ci dà conforto quando abbiamo il cuore spezzato e Nietzsche ci
consola nelle difficoltà della vita.
Quello
che più mi ha incuriosito nella sua costruzione è il conforto socratico, che
parte dalla disamina di un quadro bellissimo, la “Morte di Socrate” di
Jean-Louis David conservata al Moma di New York. Un quadro che riassume la
filosofia di Socrate (discorrente, maestro sino in fondo, unico sereno in tanta
disperazione), facendone anche, nella testa del pittore, un antesignano del
Cristo (non a caso sono dodici gli ascoltatori dell’ultima lezione). E Socrate,
pur nell’imminenza della morte, non fa che ribattere il suo tema prediletto:
pensate con la vostra testa, perché bisogna sempre affidare le proprie azioni
al conforto della logica che li sostiene, avendo la costanza di rimanere
coerenti e non appiattirsi al giudizio dell’opinione pubblica, non sempre
accettabile nelle sue manifestazioni.
Interessante
anche il ribaltamento dell’epicureismo, dove, giustamente, non è da perseguire
il denaro e la ricchezza come fonte del piacere. L’amicizia e l’amore della
conoscenza saranno sempre i nostri alleati, nella buona e nella cattiva sorte.
Con una citazione sghemba che però ne riassume il senso: “che cosa ci serve un
bel lenzuolo con gli angoli perfetti quando soffriamo d’insonnia?”.
Affondando
ancor di più il coltello nei dolori, quando, ripercorrendo la vita e la morte
di Seneca conveniamo con lui che il mondo non è giusto, che non possiamo
ottenere tutto ciò che vogliamo e che quindi solo attraverso la ragione
possiamo raggiungere uno stato di felicità. Tutto questo, appunto, mentre
l’allievo di Seneca, l’imperatore Nerone, lo condanna a morte.
Poiché
De Botton sa di filosofia, sa anche che ci sono non solo gli “antichi” ma anche
i “moderni” filosofi. Come Montaigne e i suoi Saggi. Una raccolta di testi
ponderosa, che varia in molti campi, ma che racconta anche le minute attività
del corpo. Anche le donne vanno al bagno, questa una delle sue massime
(espressa forse i modo più colorito). Così che tutto quello che facciamo e
pensiamo possa essere passato al vaglio delle sue domande esistenziali. Che
cosa conosco? Che cosa devo dire? Che cosa devo fare?
Saltando
nell’Ottocento, poi, ci propone un altro paradosso: l’utilizzo di Schopenhauer
per alleviare le pene del cuore. Poiché se la vita è tutta un’illusione,
l’amore è di forza un sentimento irrazionale, quindi lo si può escludere dal
nostro orizzonte.
Per
terminare con Nietzsche, la sua visione nera del mondo, dove solo la sofferenza
e le difficoltà aiutano alla realizzazione della propria esistenza. Non
dobbiamo aspettarci nulla dalla vita, anzi, dobbiamo aspettarci il peggio. E
quando questi arri-va ne saremmo preparati e non saremo infelici. E se invece
non arriva, possiamo continuare a vivere un’esistenza quanto meno serenamente
incosciente.
Ho
volutamente fatto una scorribanda tra la filosofia (e qui c’è sempre il
pensiero a chi di filosofia ha studiato) e le argute scritture di De Botton.
Però, alla fine, è meno coinvolgente di altri testi, seppur con qualche spunto
che costringe il lettore meno onnisciente a cercare di più nelle forme a lui
congeniali. Percorrere la morte di Socrate come quella di Seneca, o seguire
Montaigne nei suoi ritiri e nei suoi viaggi (e non è una contraddizione).
Ecco,
a me questo è servito, anche perché una delle stelle polari è proprio la frase
di Montaigne che cito sotto.
“Dobbiamo
… riconciliarci con la necessaria imperfezione della nostra esistenza.” (108)
“Le
più alte opere d’arte ci parlano … senza sapere nulla di noi.” (246)
“Montaigne:
bisogna imparare a sopportare quello che non si può evitare.” (274)
“Non
tutto ciò che ci fa sentire meglio è realmente un bene per noi. Non tutto ciò
che ci fa soffrire deve per forza essere un male.” (297)
Gianrico
Carofiglio “Elogio dell’ignoranza e dell’errore” Einaudi s.p. (Regalo di
Alessandra)
[A: 15/01/2025
– I: 19/01/2025 – T: 20/01/2025] &&&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 87; anno: 2024]
Frutto
di una triplice congiuntura, l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, benché sia
un saggio e non un romanzo dell’avvocato Guerrieri, è entrato di volata sia
nella mia libreria che nelle mie letture. Triplice perché Carofiglio lo leggo
sempre volentieri, perché il mio amico Renato me ne ha parlato, e perché
Alessandra me ne ha fatto dono.
Da
un certo punto di vista non è un saggio eccelso, dove si dicono cose che le
persone sensate dicono e pensano. Ma la domanda ovvia è: quante sono le persone
sensate? Anche perché poi si dovrebbe leggerlo dalla fine, cioè dai motivi che,
ad un certo punto della sua esistenza, hanno spinto lo scrittore a ragionare su
questi temi. Leggendo il suo personale aneddoto sugli errori e sulla fortuna
(bocciato per un posto di responsabilità, decide di scrivere un libro, che farà
la sua fortuna editoriale; quindi, errore di presentarsi al concorso e fortuna
di trovare altro) viene da riflettere anche sulle nostre personali fortune e
sui nostri errori. Su cui magari torneremo in finale di trama.
Quali
sono quindi i caposaldi del discorso di Carofiglio? Primo, gli errori nella
vita ci sono e ci sono sempre stati. Bisogna includerli nel nostro sistema
esistenziali, per cui si possa, da loro, progredire verso altre conoscenze.
Secondo, e molto legato al primo, è l’ignoranza, quella verso cui ci possono
portare gli errori ben spesi. Che, sulla scia di Socrate (almeno nella vulgata
popolare), non sapere implica la volontà, il desiderio di sapere. Quindi,
ignorare, se non porta alla chiusura, è foriero di nuove aperture mentali.
Infatti,
se chiudo i confini della mia sapienza, ignorando la possibilità di altro, non
faccio che costruire un mondo chiuso e di sicuro, alla lunga, portato
all’autodistruzione.
Altri
due sono i concetti fondanti del castello di Carofiglio: l’improvvisazione e la
preterintenzionalità. Infatti, improvvisare non significa andare allo sbaraglio
senza schemi, ma essere pronti a mutare il corso dei pensieri e delle azioni a
fronte di un evento che non era previsto, che non era contemplato nello schema
iniziale. Ed andare al di là delle proprie intenzioni (anche se il termine
deriva ovviamente dell’esperienza giudiziaria dell’autore) significa anche
capire che se a fronte di un evento, avviene qualcosa che non avevo previsto,
la capacità cognitiva dell’individuo dotato di coscienza critica non è
rifiutare il risultato, ma capirne le nuove possibili portate.
Ultimo
elemento che chiude il cerchio della ricerca umana del sapere è la fortuna. Non
ovviamente nel senso di sperare di cambiare la propria vita comprando milioni
di gratta e vinci (cosa che servirà solo a spendere milioni), ma a moltiplicare
le occasioni e le iniziative, così che, a fronte dei tanti e possibili
fallimenti, ci possa essere quell’elemento fortuna che ci porta nella direzione
sperata. Anche qui, per la sua esperienza, l’autore fa riferimento alle
indagini poliziesche, laddove potrei farne anch’io, per la massa di letture in
tal senso, esempi probanti.
Ma
non voglio addentrarmi nelle pur scarne pagine del testo, che è breve,
leggibile e scorrevole. Vorrei solo fare qualche corollario su errori,
ignoranze ed altri accidenti fortuiti che, in piccola o grande parte, hanno
dato vita al nostro mondo.
Come
dimenticare, per esempio, l’ignoranza di Colombo che, partito verso i lidi che
credeva delle Indie, scopre nuove terre. Purtroppo però Colombo rimane nella
sua ignoranza, e solo Vespucci capì di essere arrivati in nuove terre, che in
effetti si chiamano America. C’è la fortuna, ad esempio, nella vicenda del
ricercatore Percy Spencer che, mentre lavorava alla produzione di valvole per
radar, aveva in tasca una barretta di cioccolata. Le onde emesse dalle valvole
squagliarono la barretta, e Spencer inventò il forno a microonde.
Se
vogliamo parlare di preterintenzionalità possiamo fare un salto nel 1853, a
Saratoga, nello stato di New York, dove il cuoco George Crum era alle prese con
un cliente particolarmente odioso, che più volte rimanda in cucina le patatine
fritte, perché non le ritiene cotte a dovere. George, indispettito, taglia le
patate sottilissime, le frigge il giusto, le sparge di sale e le porta al
cliente che non può usare la forchetta e deve mangiarle con le mani. Al di là
delle sue intenzioni, George dà vita alla “chips”.
Potrei
continuare pagine e pagine sulla bontà dei ragionamenti di Carofiglio. Mi
accontento da un lato a rimandare (anche) al libro di Rita Levi-Montalcini
“Elogio dell’imperfezione”, che fa un pendant mirabile con questo. Dall’altra
ripenso (e qui è la bontà dei libri che ti colpiscono) a parte delle mie
decisioni vitali. Impiegandomi in un industria informatico ero convinto di
trascorrervi poco tempo. Un errore che portai avanti per trentacinque anni. Ma
quell’errore, ad un certo punto, mi inserì in un meccanismo di lavori fuori dal
contesto nazionale, facendomi capire la mia vera natura di viaggiatore. Cosa
che, alla fine, sono riuscito e riesco ancora a fare.
Comunque,
tornando al libro, è una prosa che si legge, forse anche troppo facilmente ma
che, per tutti gli spunti che dà e che mi ha dato, l’ho rivalutata forse un po’
al di sopra delle sue reali capacità narrative e ragionative.
“Confucio:
la vera conoscenza sta nel conoscere l’estensione della propria ignoranza.”
(25)
“[Un
uomo bravo e capace] sa che la fortuna è importante e cerca di mettersi nelle
condizioni perché gli eventi propizi siano più probabili. Ed esiste una sola
tecnica per fare questo … moltiplicare i tentativi, senza preoccuparsi che
molti di essi saranno dei fallimenti. I migliori sono quelli che sanno fallire
rapidamente, con eleganza e senza conseguenze. Sono quelli che sanno usare
l’errore e il dubbio come strumento di lavoro.” (66)
“La
categoricità è uno dei sintomi della mediocrità.” (73)
Gerd B. Achenbach “Il libro della quiete
interiore. Trovare l’equilibrio in un mondo frenetico” Repubblica Filosofia
Viva 7 euro 9,90
[A: 06/05/2020 – I: 07/03/2025 – T: 09/03/2025]
- &&
[tit. or.: Das kleine Buch der inneren
Ruhe; ling. or.: tedesco; pagine: 220; anno 2001]
Gerd Böttcher, filosofo tedesco, ad un certo
punto sintetizza il suo nome per aggiungervi un termine, Achenbach, con il
quale diventa noto, per la sua attività ed i libri scritti. Non so da dove
viene questa scelta, certo ha un suo senso ragionando come al suo interno si
possa rilevare un concetto di “flusso di dolore”, una condizione, che, bene o
male, pervade la nostra esistenza, e che dobbiamo comprendere per arrivare al
cuore del pensiero e dell’azione di Achenbach.
Comunque, prima di entra nel vivo
dell’esposizione filosofico, di certo interessante, pur con dei limiti, per me,
nello spacciarsi per completamente originale, veniamo al titolo. Innanzi tutto,
non capisco perché, nella traduzione, sia sparito il termine “kleine”. Forse
definire piccolo un libro sembravo forse riduttivo. Ed allora, non solo
sparisce, ma vi viene appiccicato un sottotitolo che non compare nell’edizione
originale tedesca.
Facendo un passo indietro, in questa
altalenante collana filosofica di Repubblica, è di sicuro corretto presentare,
anche se a me non è piaciuto, colui che si definisce il fondatore della pratica
di consulenza filosofica. Un termine che trovo orrendo. Ora ritengo che,
aiutati da vari strumenti e conoscenze, persone con alti gradi di empatia,
riescano ad aiutare gli altri utilizzando i “loro” strumenti. Filosofia,
letteratura, musica, e, trasversalmente, un approccio psicologico alla vita.
Che poi questi aiuti li chiamiamo musicoterapia, biblioterapia, psicologia
d’aiuto, terapia strategica, o, come qui, consulenza filosofica, lo trovo un nominalismo
inutile.
Veniamo allora a Gerd, al suo libro, ed alla
sua proposta. Che in fondo è di una semplicità unica: vivere la propria vita
“concentrati” ed attenti ad accettarla. Per far ciò, in questo che poi risulta
un dialogo tra Gerd ed i suoi numi filosofici, la maggior attenzione viene
posta a tutta quella linea filosofica che va sotto il nome di stoicismo,
partendo dalle sue basi classiche, da Zenone, passando per Seneca,
attraversando la romanità con Marco Aurelio, per arrivare a formulazione
moderne, se non contemporanee, con Montaigne, Schopenhauer ed altri. L’unico
che in tutto il libro, non ho né digerito né condiviso, è Nietzsche, verso il
quale ho probabilmente una chiusura preconcetta, ma a me non piace.
Gerd avanza di capitolo in capitolo, appunto
fornendoci un delizioso bignami di filosofia, e dove, come vedete sotto, molte
frasi mi sono rimaste nel cervello a sollecitare i nostri scarsi neuroni. Ma,
riducendo tutto all’essenziale, si vuole arrivare alle “sei regole della saggezza”,
seguendo le quali potremmo trovare la quiete in questo nostro mondo caotico.
Regole che possiamo così sintetizzare:
1. “Non
è importante la filosofia ma vivere filosoficamente”. Bisogna vivere
applicando la filosofia, così come insegnavano appunto gli stoici, non
essendoci distinzione tra pensiero e vita
2. “Che
cosa conta veramente? Sei tu quello che conta” La cosa che conta veramente
è, non egoisticamente, sé stessi, cioè riconoscere il proprio essere ed il suo
valore
3. “Orientati
su te stesso e non sugli altri”. Di
conseguenza, bisogna prestare attenzione a sé stessi.
4. “Un
conto è ciò che succede, un conto è la tua idea di ciò che succede. Altro
corollario è la comprensione della differenza tra ciò che succede e la propria
idea soggettiva di ciò che succede
5. “Devi
essere indifferente verso le cose indifferenti”. Nel finale i due precetti
più duri: distacco dalle cose, non perché non siamo sereni nel godere di una
vita serena, ma, come dice Plutarco: più grande è il desiderio di possesso, più
è grande la paura della sua perdita.
6. “Devi
volere ciò che accade così com’è” dove mi viene in mente una favoletta su
Platone narrata da Plutarco: la vita ad un lancio di dadi dove l’esito del
lancio non dipende da noi, mentre accettarne e gestirne il risultato si
In fondo, e per questo alla fine non è che mi
ha stravolto la vita, l’autore ci vuole dire che dobbiamo comprendere le
ragioni ed il senso di quanto ci accade, capendo fortemente che tutto quanto
avviene deve (può) essere ricondotto alla nostra responsabilità. Per poi
finire, come tutti i buoni imbonitori di questo mondo, che dovrà essere il
lettore a “scrivere” le proprie conclusioni.
Detto quindi che, pur se come compendio è
stato utile per ripassare qualche nozione (ed anche scoprirne di nuove, perché
no), alla fine non mi è piaciuto il tono compiaciuto dell’autore, anche e
soprattutto non avendo messo un rigo di bibliografia che sarebbe stata utile ed
importante. Come sarebbe stato utile evitare errori di citazioni (e spero sia
solo refuso), come laddove si cita un passo di Cicerone (vedi sotto) come
estratto da un inesistente “De petitione consultatus” invece che dal corretto
“De petitione consulatus”. Spero che mia cugina filosofa apprezzi questo
puntiglio ciceroniano.
“Si pensa con l’orologio alla mano … si
vive come uno che continuamente potrebbe farsi sfuggire qualcosa.” (34)
[parafrasi da “La gaia Scienza” di Nietzsche del 1882. Sostituite cellulare a
orologio e…]
“L’anima trova la sua pace solo nel
momento in cui impara ad accettare ciò che le succede, e quando trova l’accordo
con ciò che accade.” (110) [tratto dai “Saggi” di Michel de Montaigne del 1580]
“Non bisogna prendersela con i guai che ci
capitano. Ad essi, infatti, nulla importa, ma, se chi vi si imbatte li porrà
nella giusta prospettiva, ne trarrà giovamento.” (118) [parafrasi da “La
serenità interiore” di Plutarco, estratto da “Moralia I” del 100 circa]
“Finché si è in vita … è possibile dire
questo non lo farò: non mentirò, non agirò slealmente, non ruberò…” (135)
[parafrasi da “Frammenti” di Menandro del 295 a.C. circa]
“Tutto deve essere così come noi lo
desideriamo, e ciò che non corrisponde al nostro desiderio va modificato in
base ad esso.” (163) [fotografia della società attuale in stile trumpiano, che
va combattuta sempre e ovunque]
“Il mondo è come un unico vivente, dotato
di un corpo unico e di un’anima pure unica …[così] qualunque cosa ti accada da
secoli è stata preparata, tessendo insieme la tua esistenza a quella singola
cosa.” (166) [parafrasi da i “Colloqui con sé stesso” dell’imperatore Marco
Aurelio del 179]
“Io non insegno, racconto.” (176) [tratto
dai “Saggi” di Michel de Montaigne del 1580]
“Bisogna essere svegli per raccontare i
propri sogni.” (179) [tratto dalle “Epistulae morales ad Lucilium” di Seneca
del 62 d.C.]
“Sempre calmo per natura, e ancor più
oggi, per la mia età.” (187) [tratto da “De petitione consulatus” di Cicerone
del 64 a.C.]
“Tutto ciò che accade, dalla cosa più
grande alla cosa più piccola, accade necessariamente.” (204) [parafrasi dagli
“Aforismi sulla saggezza del vivere” di Schopenhauer, estratti dall’opera
“Parerga e paralipomena” del 1851]
Ovvio che, in una settimana filosofica, senta
il bisogno di continuare ancora su questo filone. Ed allora cosa meglio che un
classico come “La nausea” di Jean - Paul Sartre? Eccovene
alcuni estratti che mi sono rimasti nella penna:
“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che
cosa sia raccontare.” (16)
“Se mai dovessi fare un viaggio credo che
prima di partire noterei per iscritto i più piccoli tratti del mio carattere
per poter poi fare un paragone, al ritorno, tra quello che ero e quello che son
diventato.” (48)
“Affinché l’avvenimento più comune divenga
un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un
uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle
storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca
di vivere la sua vita come se la raccontasse.” (54)
“Ed io dove potrei conservare il mio
[passato]? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa
per sistemarvelo.” (85)
“Se soltanto potessi smettere di pensare
andrebbe già meglio. … Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi.
Esisto perché penso … e non posso impedirmi di pensare.” (126)
“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in
qualche posto dove sia veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun
luogo; io sono di troppo.” (153)
“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è
un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento … C’è
perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si
riflette non lo si fa.” (180)
“Allora, è possibile giustificare la propria
esistenza?” (220)
Caro Jean-Paul, penso di rispondere affermativamente all’ultima domanda. Nonostante tutto. Ciò detto, vi invito a leggere e rileggere gli spiegoni filosofici di questa settimana, e di pensarci mentre con tutto il mio affetto vi abbraccio.
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