domenica 9 marzo 2025

I diritti delle donne - 09 marzo 2025

Non sono un supino fautore dell’8 marzo, tuttavia ritengo che aver spostato l’accento sui diritti posso riportare quella giornata ad un giusto momento di riflessione. Per parte mia, allora, dedico queste trame ad un quintetto femminile. C’è una discreta analisi di Fernand Melchor della situazione messicana attuale, anche se non mi ha convinto sino in fondo. C’è un divertissement ben scritto ma forse un po’ fine a sé stesso del Premio Pulitzer Barbara Kingsolver intorno a David Copperfield. C’è un libro gender di Torey Peters, che forse non sono riuscito a comprendere sino in fondo. Ma poi ci sono anche due perle: Claire Keegan sulla condizione delle ragazze irlandesi abbandonate e Anne Carson con un lungo prosimetro sulla nascita e l’evoluzione di un rapporto di coppia. Due libri, anche se da diverse angolature, da leggere.

Barbara Kingsolver “Demon Copperhead” Neri Pozza euro 22 (in realtà, scontato a 20,90 euro)

[A: 28/08/2024 – I: 10/11/2024 – T: 14/11/2024] - && e ¾      

[tit. or.: Demon Copperhead; ling. or.: inglese; pagine: 654; anno 2022]

Come avevo scritto per “Trust” di Hernan Diaz, ho preso e letto quello e questo testo sotto suggerimento del New York Times, essendo entrambi i testi vincitori del Premio Pulitzer per la fiction del 2023.

Devo dire, però, che rispetto ad altre letture di libri premiati, pur riconoscendo una bella dose di buona scrittura ed inventiva, ritengo questo libro sia stato molto inferiore alle mie attese laddove come vedremo, soprattutto l’invenzione di situazioni nuove per una trama antica è di sicuro l’elemento migliore.

D’altronde la trama è di una linearità estrema, narrata da Demon in prima persona che, con ironia ed abbastanza senso critico, ci porta lungo le strade che vanno dalla nascita al raggiungimento di un’ipotesi di futuro.

Quindi, D. nasce da madre single, con padre morto sei mesi prima. Infanzia ad accudire la madre un po’ sbandata ed a giocare con coetanei. Poi la madre si sposa, ma il patrigno non ha un buon rapporto con D. I rapporti si incrinano, e si rompono alla morte della madre. D. viene allora affidato a famiglie sempre più disastrate che pensano ai soldi e mai agli affidati ed alla loro crescita, personale e scolastica. Va a finire che D. scappa e raggiunge la nonna in un posto sperduto. Nonna che odia i maschi ma che trova una buona sistemazione al nipote.

Il nuovo tutore accoglie D. insieme a sua figlia orfana che diventa nel tempo una fidata amica di D. Che trovando un ambiente più sereno, studia, cresce ed approfondisce i suoi talenti. Riesce bene anche nello studio ed in altre attività, ma un disgraziato incidente lo costringe ad abbandonare i campi sportivi, e, per sopportare il dolore, comincia a prendere sostanze per alleviare la sofferenza. Pur voluto bene dal neo-tutore, entra in conflitto con il suo secondo, si incarta in sostanze varie, dall’alcool in giù. Però riesce a trovare una nuova ragazza con cui ben presto va a convivere, anche se poi si uniscono nello sballo.

Entrambi non riescono ad uscirne, anche se D., incontrato il vecchio amico Tommy, comincia a farsi vedere fuori dal ristretto ambiente familiare e con un certo successo. Per farla breve, anche la nuova ragazza muore, Demon fa un lungo percorso per riprendersi, che la scrittrice condensa in poche pagine nonostante sia lungo almeno un paio di anni. Alla fine, ritorna dal tutore, sconfigge le mire del secondo millantatore e trova un suo spazio nel lavoro e nell’amore.

Se leggete bene questa trama, pensate si tratti di David Copperfield di Dickens, ed invece è quella di questo libro, che è, appunto, una degna riscrittura del primo suonata al ritmo di rap. Ma non porta molto di più ad un coinvolgimento nella trama, se non per una dose di interessanti rimandi tra questo testo ed il testo di Dickens. Ma non molto di più.

A parte le situazioni che sono quasi identiche, con gli ovvi aggiornamenti dove si sostituisce l’alcool con la droga, o gli studi giuridici con borse di studio per il football, l’idea di Barbara è di cambiare qualche nome e di aggiornare le situazioni al modo di vivere degli anni Duemila, oltre all’ovvio cambiamento di trasportare la vicenda dall’Inghilterra di allora agli Stati Uniti attuali. Certo, ne approfitta anche per farne un romanzo politico, ed è appunto questo che, forse, ha portato qualche punto in più ad una scrittura che, se fosse solo un new-Copperfield sarebbe molto, ma molto inferiore.

Così, dal romanzo della miseria della grande Londra, si passa al romanzo degli Appalachi, uno dei territori più poveri e sfruttati della deep America. Prima con le miniere di carbone, poi con le piantagioni di tabacco, ed in fine con la deforestazione selvaggia, tutto porta i poveri abitanti, soprannominati “red necks”, per i fazzoletti rossi che portavano al collo in miniera, ad essere i negletti d’America.

Tuttavia, la parte politica non si esaurisce qui, che Barbara si accanisce anche contro altri bersagli assolutamente da condividere. I servizi sociali che non aiutano i bambini problematici, le famiglie affidatarie che li sfruttano, il mondo della scuola, teso solo a promuovere i talenti sportivi, e, last but not least, tutto il mondo dei Big Pharma. In particolare, la Purdue Pharma che nel 1996 mette in commercio l’oxycodina, un derivato oppiaceo che di certo allevia il dolore (una specie di Voltaren elevato all’ennesima potenza), ma di cui si fa presto ad eccedere, a diventarne dipendenti, e da quella dipendenza, passare a tutto il range delle droghe, dalle più blande a quelle da iniettarsi in vena.

Tornando al grande parallelo quindi David Copperfield diventa David Fields (che è il nome della madre), ma poi sarà per tutti Copperhead, avendo una testa ricoperta di rossi riccioli ribelli (copper sta per ramato e head ovvio sia la testa). La fida domestica Peggotty e tutta la sua famiglia si trasforma nella famiglia Peggots. La prozia Betsey Trotwood diventa la nonna Betsy Woodall. Il suo compagno e sodale Tommy Traddles si reincarna nel giornalista Tommy Waddles. La prima famiglia affidataria da Micaweber diventa McCobb. Infine, i suoi salvatori, il signor Wickfield e sua figlia Agnes, diventano la famiglia Winfield, mentre Agnes riceverà soltanto il simpatico soprannome di Angus (“come i tori? No, come le vacche visto che sono una ragazza!”). Ed infine, il cattivo Uriah Heep diventa U-Haul Pyles (dove nello slang americano “pyle” indica spesso una persona inetta).

Non vorrei soffermarmi a lungo oltre, ma farei solo notare come “Wickfield” riprende il field di David e Wick significa stoppino, visto che a Londra non c’era ancora energia elettrica. Mentre ora “Winfield”, lasciando immutato il richiamo a “field”, prepone il Win di vincente.

Insomma, se avete amato Copperfield vi piacerà (abbastanza) questo ammodernamento, che oltre ad essere un grido di ribellione per lo sfruttamento delle classi meno abbienti, è un canto d’amore verso le comunità rurali, le loro tradizioni, le reti spontanee di supporto. A me non è piaciuto molto, anche se ne ho apprezzato lo sforzo di rifacimento e, soprattutto, il suo livello estremamente politico di denuncia. Anche se, personalmente, trovo più forte “West Side Story” da “Romeo e Giulietta” che questo libro.

Ricordo solo un ultima frase, che la scrittrice cita in un’intervista uscita sul “Venerdì” di Repubblica. La frase appesa alla parete del suo studio, di Albert Camus, che (ci) dice: “Dove non c’è speranza, spetta a noi inventarla”. Un invito che parte da questo scritto e si allarga a tutta la vita che viviamo, noi e tutti voi. Allora, “inventiamo la speranza”.

Claire Keegan “Piccole cose da nulla” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 12,35 euro)

[A: 23/11/2024 – I: 27/11/2024 – T: 28/11/2024] - &&&&     

[tit. or.: Small Things Like These; ling. or.: inglese; pagine: 93; anno 2021]

Questo veloce, denso ed interessante libro mi è stato suggerito dalla robusta lista di libri proposta dal New York Times come elenco dei migliori libri degli anni 2000. Claire Keegan è insegnante irlandese di scrittura creativa, poco produttiva laddove, ormai verso i sessanta, ha pubblicato tre raccolte di racconti e due romanzi. La fortuna di questa scelta è data anche dalla concomitanza con l’uscita nelle sale cinematografiche del suo adattamento per la regia del belga  Tim Mielants ed interpretato da Cillian Murphy (Bill Furlong), Eileen Walsh (Eileen Furlong) ed Emily Watson (Suor Mary).

Visto che scrive poco non ci sorprende quindi che la sua è una scrittura essenziale, come in questo libro, dove ogni pagina ha un suo senso, e la storia viene fuori, bene, dura e lineare, laddove altri meno attenti alle frasi avrebbero prodotto un testo super abbondante.

La storia si svolge in Irlanda nei giorni di Natale del 1985, dove seguiamo alcuni giorno della vita di Bill Furlong. Figlio di una ragazza madre, vive insieme a lei nella casa dove lei fa da cameriera. Nonostante il fatto che noi sia mai semplice crescere da sola madre nell’Irlanda del dopoguerra, la benevolenza della padrona di casa fa sì che Furlong abbia una vita non facile ma comunque neanche impossibile. Studia un po’, fa alcuni lavori, poi trova la sua strada nel commercio del carbone, diventando non certo un agiato imprenditore, ma quanto meno un piccolo commerciante, con una discreta clientela ed introiti che gli permettono di mantenere una famiglia.

Sposa Eileen ed hanno cinque figlie, tutte femmine. Una delle ultime consegne prima di Natale è nel convento delle suore che ospita una lavanderia dove vengono impiegate solo signorine ed una scuola molto ambita cui Furlong spera di far entrare le figlie. Ma per una serie di coincidenze scopre che non solo le signorine vengono tiranneggiate dalle suore, ma che le stesse sono tutte ragazze madre. In particolare si imbatte in Sarah, che ha appena partorito, ma il cui figlio è stato già venduto, dalla tirannica madre superiora Suor Mary ad una copia americana.

Tutto ciò non rende sereno il Natale di Furlong, che passeggia per la città, immerso nei suoi pensieri (e qui con un’efficace soluzione di ricordi interiori la scrittrice ci rivela tutta la storia del protagonista), e combattuto tra una volontà etica di giustizia verso le recluse e le conseguenze che un suo atto potesse avere non solo sul suo commercio (le suore sono una potenza), ma anche sull’avvenire delle figlie.

Dovrà prendere una decisione la cui gestazione seguiamo in tutto il suo sviluppo, positivo o negativo. Con quella sospensione della narrazione per cui non ci viene narrato cosa succederà in futuro. Viene tutto lasciato lì, che a Claire interessa il processo costruttivo della vicenda, le azioni reciproche dei personaggi durante quei giorni fatidici. Poi sarà la nostra fantasia, o la Storia, che costruiranno il futuro.

Un libro che ci insegna una grande verità: le nostre scelte, a volte, possano dare una svolta alle situazioni che viviamo, possono cambiare il mondo. Quando Furlong decide di non girare la faccia, di non nascondersi, molti, anche la moglie, lo esortano a non mettersi contro chi ha il potere, lui risponde che ci conta ha il potere che noi gli diamo. Bellissima frase.

Tra l’altro la vicenda adombra una delle pagine più oscure della chiesa e del governo irlandese, le Magdalene Laundries (reso in italiano con “Case Maddalena” in memoria di Maria Maddalena, la peccatrice pentita, anche se qui si potrebbe aprire un dibattito). Questi erano istituti femminili, sorti nel 1765, dove venivano accolte ragazze orfane, o ritenute "immorali", per via della loro condotta considerata peccaminosa o in contrasto con le norme della società dell'epoca. In Irlanda dal 1922 furono gestiti da suore appartenenti a diversi ordini religiosi della Chiesa cattolica, e chiusi solo nel 1993, dopo la scoperta di numerosi cadaveri di giovani donne e di bambini neonati, tumulati nella fondamenta. Solo nel 2013 il primo ministro irlandese Edna Kenny ha chiesto scusa a tutte le donne che vi hanno subito abusi.

Keegan riesce a raccontare tutto ciò in meno di cento pagine, ma questa piccola cosa da nulla è contornata anche da tante altre piccole cose che ne fanno un gran romanzo da leggere attentamente.

“Perché le cose più vicine sono spesso le più difficili da vedere?” (82)

Anne Carson “La bellezza del marito (un saggio romanzato in 29 tanghi)” La Tartaruga euro 18 (in realtà, scontato a 15,30 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 10/12/2024 – T: 11/12/2024] - &&&&-     

[tit. or.: The Beauty of the Husband: A Fictional Essay in 29 Tangos; ling. or.: inglese; pagine: 167 anno 2001]

Tra le esimie pagine di scritti letterari, alcuni mesi fa mi sono imbattuto in un lungo articolo di Franco Cordelli sul “Corriere della Sera”, dove il grande critico elencava una serie di romanzi, tutti non italiani, che brillavano nel panorama degli anni 2000. Una lista, appunto che inizia al volgere del secolo e termina nel 2023. Una lista da cui attingo per alimentare la mia biblioteca (ed i cui libri indicherò, se capita, come provenienti dalla “lista di Cordelli”).

Questo è per l’appunto un libro della lista, di quelli scritti nel 2001, anche se poi in Italia viene tradotto e pubblicato solo un paio di anni fa. Perché, e sarà più chiaro nel corso della trama, non è un libro facile. Anzi, è un libro che stava per fuggire alle mie corde, che, nella lista delle tipologie di scritti, le poesie vengono tra le ultime. Non per difficoltà di lettura, quanto per difficoltà, a volte, di coglierne un senso nell’insieme di una pubblicazione unitaria.

Qui, devo dire, in realtà, non si tratta proprio e solamente di poesie. O forse si tratta di una poesia lunga 150 pagine. Ma meglio ancora, verrebbe da definirla un prosimetro, un genere letterario che alterna prosa e versi, come furono agli albori della scrittura, le “Satire Menippee” di Varrone, o, in età classica, la “Vita Nova” di Dante. Fatto sta che si legge, si assapora, e ci si immerge senza pensare cosa sia, ma solo alle sensazioni che comunica.

Sensazioni forti e differenziate che Anne Carson non solo è una valente scrittrice, ma è anche una profonda conoscitrice delle lettere classiche (ha insegnato letteratura antica nel Canada natio), ma in generale delle lettere. Tant’è che non solo usa ogni tanto rimandi alla cultura greca, ma in questo scritto ha un solido rapporto parallelo con molte delle scritture di John Keats, cui il libro è tra l’altro dedicato.

Dedicato in particolare per quei versi derivati da “Ode su un’urna greca” che riportano: “Beauty is truth, truth beauty, —that is all / Ye know on earth, and all ye need to know” [bellezza è verità, verità bellezza”, questo solo/sulla terra sapete, ed è quanto basta]. Che qui si parla di bellezza, come riporta il titolo, una bellezza che però viene subito interpretata attraverso un’opera di Marcel Deschamps “La mariée mise à nu par ses célibataires, même” [che si può tradurre “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche”, dove si perde il senso, che il même finale assomiglia eufonicamente a “m’aime”]. Un’opera su vetro che poco dopo essere stata realizzata, in un trasporto, si ruppe. E l’autore decise di tenerla così, rotta, senza ricomporla.

Ma perché abbiamo parlato di bellezza e di rottura? In effetti, è lì il nocciolo del testo. Anne ci descrive la nascita, la crescita, la crisi e la rottura di un rapporto. Di una fissazione adolescenziale che si evolve in un matrimonio, destinato al fallimento, per terminare in una fissazione adulta. Potenti parole che descrivono sensualità, tradimenti, adulteri, tutti travolti da incontenibili desideri. Tutto racchiuso in quella esclamazione, iniziale e potente: mio marito è bello, di una bellezza irresistibile, che spesso va oltre la comprensione di un impossibile rapporto.

Perché il marito è un traditore seriale, che non si perita di far aspettare la moglie in camera mentre scende al bar dell’hotel per telefonare all’amante del momento. Ma forse è solo una persona malata di sesso, che ogni volta poi ripete la sua dedizione alla scrittrice, e viceversa. Lei non può fare a meno del marito, e il marito non può vivere senza di lei. E lei, per anni, per molti tradimenti, non riesce a recidere il filo. Anche quando le ruba anche degli scritti e li pubblica a suo nome. Anche quando lei prova a sua volta a tradirlo in un contesto forse solo amicale. Anche quando lui divorzia, si risposa, fa dei figli e va a vivere altrove.

Nelle parole di Anne, in cui pezzi narrati, in quelle frasi poetiche vediamo tutto il dolore di chi, amando realmente ed a fondo una persona, non se ne stacca, in un crescendo in cui diviene sempre più difficile lasciarla e dimenticarla. Si vive il quotidiano, ma si continua ad inciampare nelle giravolte della vita, anche se inciampando non possiamo che porci sempre nuove domande. Sono le domande che ci tengono in vita, anche se il testo ci porta a ragionare sull’impossibilità di andare oltre una amore che finisce. Certo un amore profondo e totale come quello dell’io narrante.

Potete anche immaginare come il testo sia pino di citazioni, di rimandi, di contrasti. Ovvio quello che si è detto di Keats, ma, tanto per citare solo un esempio, come non collegare la citazione di “Finale di partita” di Samuel Beckett, con il pensiero dello scrittore tutto incentrato sulla incomunicabilità, sulla crasi che si determina tra le prole e i fatti. Un elemento costante in tutte le discussioni tra moglie e marito che costellano il testo.

Finisco con tornare sul titolo che ci dà anche una profonda lettura del testo. Composto da XXIX capitoli più uno, chiamati “tanghi” dalla scrittrice. Perché come nel tango assistiamo ad un avvicinarsi ed allontanarsi dei ballerini, che a volte quasi si fermano, ma che i protagonisti devono ballare sino alla fine. Il testo stesso suggerisce una musica nascosta, che a volte avanza impetuosa, ed a volte rallenta.

Una scrittura che mi ha preso e fatto danzare in testa sia tutte le storie di amori che ho incontrato nella mia vita, ma anche facendomi tornare alla Calle Florida ed ai danzatori di tango del mio ultimo viaggio argentino.

“Non si aggiusterà … né troverà un senso o verrà alla luce da qualche parte questo sfacelo di disordine e dolore che è la nostra vita.” (97)

Fernanda Melchor “Stagione di uragani” Bompiani euro 17 (in realtà, scontato a 14,45 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 21/12/2024 – T: 23/12/2024] - &&     

[tit. or.: Temporada de huracanos; ling. or.: spagnolo; pagine: 205; anno 2017]

Fernanda Melchor, scrittrice under 40 quando produsse questa “Stagione di uragani”, nasce come giornalista in un Messico sempre più immerso nella violenza e nella corruzione. Vive inoltre nello stato di Veracruz che, insieme alla capitale, è tra i più esposti al crimine in generale ed al narcotraffico in particolare.

Gli anni della scrittura coincidono con quelli in cui a governare Veracruz era uno dei più corrotti governatori sudamericano, Javier Duarte de Ochoa, che si dice sia stato coinvolto nella sparizione di decine di giornalisti scomodi. In particolare, giornalisti di “crónica roja”, il termine spagnolo per il giornalismo incentrato su eventi legati alla criminalità. Poiché i governi locali spesso erano contigui alla criminalità, ecco la necessità di far tacere chi porta avanti le indagini.

Ed è proprio da un articolo di questo genere (relativo al corpo di una donna trovato in un canale nelle campagne di Veracruz) nasce a Fernanda l’idea del romanzo. Che nelle prime intenzioni doveva essere un calco sudamericano del bellissimo “A sangue freddo” di Truman Capote. Ma indagare per omicidi in una regione governata dal narcotraffico non è di certo salutare. Così la scrittrice passa ad una fiction pura influenzata soltanto da un libro che gli passa tra le mani in quei giorni, “L’autunno del patriarca” di Garcia Marquez. Non per la tematica, ma per il modo espositivo, in cui ognuno dei lunghi otto capitoli (in realtà cinque sono veramente lunghi) è una lunga tirata, senza divisione in paragrafi, con lunghe frasi senza punti e con possibili cambi di soggetto dopo poche righe.

Capite bene che la lettura non è facile, ma diviene quasi un flusso di coscienza però collettivo, come se la narrazione sorgesse in un respiro direttamente dalla terra dove si svolgono gli avvenimenti. Comunque, anche se spesso il soggetto cambia, ogni capitoli poi si concentra su di un personaggio, dove, da un certo punto in poi, seguiamo solo i suoi pensieri e la sua visione degli avvenimenti. Soprattutto i capitoli dal 3 al 6, dove seguiamo due ragazze, Yesenia e Norma, un ragazzo, Brando, ed un uomo, Munra. E dove, dalle loro parole, seguiamo le vicende della Bruja (la Strega), della Bruja Chica (la figlia della Strega, che prenderà il suo posto, e che capiamo presto, nel capitolo 2, sia una donna transgender), di Maurilio detto Luismi per la sua somiglianza con il cantante Luis Miguel.

La storia si svolge nella piccola città di La Matosa dove, in piccola, la scrittrice riproduce tutte le possibili nefandezze di un mondo arretrato e chiuso in sé stesso. Elemento chiave è la Strega, personaggio che focalizza e risolve tutti i piccoli problemi della città: amori, corna, gravidanze indesiderate, ricerca di un lavoro. Insomma, tutte le piccole e grandi cose che si possono volere e che un incantesimo o una pozione possono portarci. Ma la Strega muore ed il suo posto, senza lo stesso carisma, viene preso dalla figlia, la Strega Chica, cui in pubertà vediamo spuntare peli maschili, e che diventerà la catalizzatrice, anche, di tutti i festini simil-gay della città.

Ma se la Strega e la Strega Chica sono il punto di convergenza delle vicende di La Matosa, il quasi flusso di coscienza in terza persona delle altre storie ci portano alla fotografia (o al film visto che si tratta di persone in movimento) delle vicende.

Yesenia, ad esempio, che aveva un debole per il cugino Luismi, vedendolo uscire dalla casa della Strega con un altro uomo ed un fagotto, entrare nel camion di Munra e fuggire, lo denuncia alla polizia. Munra, arrestato dopo la denuncia, racconta il suo coinvolgimento nella storia, travolto da avvenimenti più grandi di lui. Soprattutto per un certo affetto che ha verso Luismi, figlio di Chabela, la sua convivente. E ci narra di come lui porti in casa una giovin fanciulla, Norma, volendo quasi costruire con lei un suo futuro. Ma Norma, tredicenne, è incinta ed abortisce in modo pericoloso in seguito ad una pozione della Chica. Seguiamo allora la storia di Norma, violentata più volte e messa in cinta dal patrigno Pepe. Per cui fugge, cercando aiuto e riparo da Luismi, anche se capiamo che nel ragazzo c’è qualcosa di strano.

Misteri che, in massima parte, si chiariscono nel racconto di Brando, l’altro uomo visto da Yesenia. Un altro giovane sbandato, attirato, seppur controvoglia, Luismi. Che segue spesso nei festini della Chica, scoprendo il carattere gay dell’amico, e per questo sempre pronto a stargli vicino. In particolare quando Luismi, saputo che è stata una pozione della Chica e far abortire Norma, la vuole punire. Forse cercano anche il tesoro che si dice abbia la Chica. Ma la discussione si altera presto, e Luismi uccide la Chica, con Munra e Brando la gettano in un canale. Verranno tutti arrestati, e seguiamo in una parte finale molto intensa tutte le depravazioni ed i soprusi che i tre subiscono nelle terribili carceri messicane. Dove Brando aspetta l’arrivo di Luismi, con l’idea di ucciderlo per evitare che questi parli del loro trasporto (vero o immaginario) di carattere omosessuale. Un’onta che non si può portare alla luce nel machissimo mondo messicano.

La scrittura è difficile e potente nella penna di Fernanda Melchor. Ci dipinge un mondo di violenza, di misoginia, di omofobia. Un mondo anche di scontri e di conflitti sociali: uomini contro donne, ricchi che abusano dei poveri. Tutti sono in realtà colpevoli di qualche cosa. Ed alla fine scopriamo, e questo è forse il punto che non ho digerito fino in fondo, che non ci sono personaggi non dico positivi, ma quanto meno salvabili. Uomini e donne sono tutti dei falliti, tutti ai margini di una società senza speranza. Un’immagine impietosa del Messico, che forse è molto più reale di quanto si possa supporre.

Le parole della scrittrice ci fanno chiudere la trama con la considerazione che “la stagione degli uragani risiede nel fatto di essere giovani e non avere futuro, e sentire questo incredibile bisogno di fuggire con ogni mezzo possibile”. Senza riuscirci.

Torrey Peters “Detransition, Baby” Mondadori euro 20 (in realtà, scontato a 17 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 08/01/2025 – T: 11/01/2025] - && e ¾       

[tit. or.: Detransition, Baby; ling. or.: inglese; pagine: 414; anno 2021]

Non è facile parlare di questo libro, non perché sia complicata la trama, che anzi se vogliamo è abbastanza lineare. Ma per la materia che tratta ed il modo in cui viene esposta.

Torrey Peters è un* trans (mi scuso dell’asterisco ma è già difficile parlare di genere fin da chi ha scritto il libro) ed ha esposto nel romanzo una trama che potrebbe avere un riferimento con “Sex and the City” trasferito in un ambiente attuale e diverso. Ed allo stesso tempo condensando gli eponimi della serie in una sola figura. Se ben ricordate, ridotto all’osso, la serie trattava di quattro modelli di donna: la donna sposata (Charlotte), la donna in carriera (Samantha), la donna madre (Miranda) e la donna artista (Carrie).

Come dicevo condensate nella figura di Reese: in carriera, seguendo la sua vena di organizzatrice di eventi, percorsa da vene artistiche o intellettuali (già qualcuno che legge bene nella New York odierna è fuori dagli schemi), ed è stata sposata, avendo vissuto lunghi anni con Amy. Le manca, e le mancherà per tutto il libro, di rimanere incinta, di fare un figlio, anche se è la sua aspirazione mancata ed irraggiungibile.

Poiché Reese nasce uomo, ma transiziona verso l’altro sesso. Quindi trans. Come trans è Amy, che nasce James, transiziona in Amy, per poi decidere di detransizionare in Ames.

Già queste due righe vi fanno capire la difficoltà mia di approcciare il testo, non perché non si sappia (in fondo siamo nel 2025) cosa sia un ambiente “transgender”. Ma la mia conoscenza finisce lì. Mentre qui, giustamente, si va a fondo anche con i termini e con le situazioni (tra l’altro ben tradotte da Chiara Reali). Si parla di trans, detrans, cis, queer. Ho dovuto cercare in rete qualche delucidazione, riuscendo a comprendere che, oltre i termini noti, cis (abbreviazione di cisgender) indica una persona nella quale collimano il sesso biologico e l'identità di genere. Mentre “queer” è un termine ombrello utilizzato per indicare coloro che non vogliono avere un'etichetta.

Il romanzo (che sfortunatamente applica a fondo le fughe avanti e indietro nel tempo, cosa che, se non ben utilizzate, mi lascia sempre perplesso) segue principalmente la storia di Reese, narrate in prima persona, con alcuni capitoli invece in soggettiva di Amy/Ames.

Insomma, Reese è trans, e sta benissimo in questa situazione, facendo anche da “istitutrice” ad aspiranti trans o a generici queer. In questa veste incontra James diventato Amy, tra loro nasce una grande passione, e vanno a vivere “more lesbo” da Reese. Con due grandi difficoltà sempre presenti. Reese, in fondo, ha molto bisogno di sesso, e lo cerca anche altrove. Amy invece ha molta difficoltà a vivere la sua sessualità. Non solo, ma le cure ormonali che intraprendere per rimanere trans, ne destabilizzano il carattere.

Non è strano che ad un certo punto si lascino, e che Amy detransizioni in Ames. Ed in questa veste inizia una nuova storia con Katrina, cis di origini ebree e cinesi, senza svelarle il suo passato. La deflagrazione avviene quando, nonostante sembrasse sterile, Ames mette incinta Katrina. Ma Ames è sempre in confusione con il suo gender, e non sa se riuscirà ad assumersi il ruolo di padre. Motivo per cui chiede a Reese di creare un rapporto multiplo tra loro tre, in cui ognuno possa avere la sua sessualità ed il suo ruolo.

Da qui lunghi passaggi, discussioni, rotture e riconciliazioni. Ames tentenna, Reese si sente in grado di fare la madre aggiunta, ma ha paura di essere considerata “di secondo piano” e Katrina, avendo per sua natura, bisogno di un orizzonte stabile, si sente portata verso un aborto, se non si riesce a raggiungere un compromesso valido per tutti.

Alla fine, comunque, condita da tutte le storie collaterali legate al sesso praticato, l’idea che porta Torrey alla scrittura, è legata fortemente alle discussioni ed ai ripensamenti riguardo agli stereotipi di genere legati alla genitorialità, nell’ambito sia del bisogno di maternità di chi transiziona, sia nell’immaginare come costruire una famiglia non convenzionale. Un discorso che recentemente ha avuto un ampia visibilità in Italia con le prese di posizione di Michela Murgia nell’ultimo periodo della sua vita.

Ma qui parliamo di Peters, della sua scrittura sufficientemente avvolgente, ma con una presa, verso me lettore non sempre di grande effetto. Forse sono troppo cis per entrare a fondo nei modelli e nelle discussioni del romanzo stesso. Ho sciolto solo il dubbio che avevo leggendo il titolo del romanzo, pensando fosse esortativo. No, esprime in realtà i due elementi fondanti del libro: il ritorno allo stadio pretrans e la voglia di maternità.

Una settimana, quindi, che chioserei con un’altra citazione al femminile, tratta da un libro che ho amato molto “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg (dedicata anche a tutti i miei amici):

“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me ne importa niente se le loro opinioni siano vere o false” (204)

Non voglio finire questa trama in lamenti, in petizioni, in pensieri vari. Mi piace lasciarla così, spero solare per tutti ma in particolare per tutte le donne. Io modestamente vi abbraccio.

Nessun commento:

Posta un commento