Barbara
Kingsolver “Demon Copperhead” Neri Pozza euro 22 (in realtà, scontato a 20,90
euro)
[A: 28/08/2024 – I: 10/11/2024 – T: 14/11/2024]
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e ¾
[tit. or.: Demon Copperhead; ling. or.: inglese; pagine: 654;
anno 2022]
Come avevo scritto per “Trust” di Hernan
Diaz, ho preso e letto quello e questo testo sotto suggerimento del New York
Times, essendo entrambi i testi vincitori del Premio Pulitzer per la fiction
del 2023.
Devo dire, però, che rispetto ad altre
letture di libri premiati, pur riconoscendo una bella dose di buona scrittura
ed inventiva, ritengo questo libro sia stato molto inferiore alle mie attese
laddove come vedremo, soprattutto l’invenzione di situazioni nuove per una
trama antica è di sicuro l’elemento migliore.
D’altronde la trama è di una linearità
estrema, narrata da Demon in prima persona che, con ironia ed abbastanza senso
critico, ci porta lungo le strade che vanno dalla nascita al raggiungimento di
un’ipotesi di futuro.
Quindi, D. nasce da madre single, con padre
morto sei mesi prima. Infanzia ad accudire la madre un po’ sbandata ed a
giocare con coetanei. Poi la madre si sposa, ma il patrigno non ha un buon
rapporto con D. I rapporti si incrinano, e si rompono alla morte della madre. D.
viene allora affidato a famiglie sempre più disastrate che pensano ai soldi e
mai agli affidati ed alla loro crescita, personale e scolastica. Va a finire
che D. scappa e raggiunge la nonna in un posto sperduto. Nonna che odia i
maschi ma che trova una buona sistemazione al nipote.
Il nuovo tutore accoglie D. insieme a sua figlia
orfana che diventa nel tempo una fidata amica di D. Che trovando un ambiente
più sereno, studia, cresce ed approfondisce i suoi talenti. Riesce bene anche
nello studio ed in altre attività, ma un disgraziato incidente lo costringe ad
abbandonare i campi sportivi, e, per sopportare il dolore, comincia a prendere sostanze
per alleviare la sofferenza. Pur voluto bene dal neo-tutore, entra in conflitto
con il suo secondo, si incarta in sostanze varie, dall’alcool in giù. Però
riesce a trovare una nuova ragazza con cui ben presto va a convivere, anche se
poi si uniscono nello sballo.
Entrambi non riescono ad uscirne, anche se D.,
incontrato il vecchio amico Tommy, comincia a farsi vedere fuori dal ristretto ambiente
familiare e con un certo successo. Per farla breve, anche la nuova ragazza
muore, Demon fa un lungo percorso per riprendersi, che la scrittrice condensa
in poche pagine nonostante sia lungo almeno un paio di anni. Alla fine, ritorna
dal tutore, sconfigge le mire del secondo millantatore e trova un suo spazio
nel lavoro e nell’amore.
Se leggete bene questa trama, pensate si
tratti di David Copperfield di Dickens, ed invece è quella di questo libro, che
è, appunto, una degna riscrittura del primo suonata al ritmo di rap. Ma non
porta molto di più ad un coinvolgimento nella trama, se non per una dose di
interessanti rimandi tra questo testo ed il testo di Dickens. Ma non molto di
più.
A parte le situazioni che sono quasi
identiche, con gli ovvi aggiornamenti dove si sostituisce l’alcool con la droga,
o gli studi giuridici con borse di studio per il football, l’idea di Barbara è
di cambiare qualche nome e di aggiornare le situazioni al modo di vivere degli
anni Duemila, oltre all’ovvio cambiamento di trasportare la vicenda
dall’Inghilterra di allora agli Stati Uniti attuali. Certo, ne approfitta anche
per farne un romanzo politico, ed è appunto questo che, forse, ha portato
qualche punto in più ad una scrittura che, se fosse solo un new-Copperfield
sarebbe molto, ma molto inferiore.
Così, dal romanzo della miseria della grande
Londra, si passa al romanzo degli Appalachi, uno dei territori più poveri e
sfruttati della deep America. Prima con le miniere di carbone, poi con le
piantagioni di tabacco, ed in fine con la deforestazione selvaggia, tutto porta
i poveri abitanti, soprannominati “red necks”, per i fazzoletti rossi che
portavano al collo in miniera, ad essere i negletti d’America.
Tuttavia, la parte politica non si esaurisce
qui, che Barbara si accanisce anche contro altri bersagli assolutamente da
condividere. I servizi sociali che non aiutano i bambini problematici, le
famiglie affidatarie che li sfruttano, il mondo della scuola, teso solo a
promuovere i talenti sportivi, e, last but not least, tutto il mondo dei Big
Pharma. In particolare, la Purdue Pharma che nel 1996 mette in commercio
l’oxycodina, un derivato oppiaceo che di certo allevia il dolore (una specie di
Voltaren elevato all’ennesima potenza), ma di cui si fa presto ad eccedere, a diventarne
dipendenti, e da quella dipendenza, passare a tutto il range delle droghe,
dalle più blande a quelle da iniettarsi in vena.
Tornando al grande parallelo quindi David
Copperfield diventa David Fields (che è il nome della madre), ma poi sarà per
tutti Copperhead, avendo una testa ricoperta di rossi riccioli ribelli (copper
sta per ramato e head ovvio sia la testa). La fida domestica Peggotty e tutta
la sua famiglia si trasforma nella famiglia Peggots. La prozia Betsey Trotwood
diventa la nonna Betsy Woodall. Il suo compagno e sodale Tommy Traddles si
reincarna nel giornalista Tommy Waddles. La prima famiglia affidataria da
Micaweber diventa McCobb. Infine, i suoi salvatori, il signor Wickfield e sua
figlia Agnes, diventano la famiglia Winfield, mentre Agnes riceverà soltanto il
simpatico soprannome di Angus (“come i tori? No, come le vacche visto che sono
una ragazza!”). Ed infine, il cattivo Uriah Heep diventa U-Haul Pyles (dove
nello slang americano “pyle” indica spesso una persona inetta).
Non vorrei soffermarmi a lungo oltre, ma
farei solo notare come “Wickfield” riprende il field di David e Wick significa
stoppino, visto che a Londra non c’era ancora energia elettrica. Mentre ora
“Winfield”, lasciando immutato il richiamo a “field”, prepone il Win di
vincente.
Insomma, se avete amato Copperfield vi
piacerà (abbastanza) questo ammodernamento, che oltre ad essere un grido di
ribellione per lo sfruttamento delle classi meno abbienti, è un canto d’amore
verso le comunità rurali, le loro tradizioni, le reti spontanee di supporto. A
me non è piaciuto molto, anche se ne ho apprezzato lo sforzo di rifacimento e,
soprattutto, il suo livello estremamente politico di denuncia. Anche se,
personalmente, trovo più forte “West Side Story” da “Romeo e Giulietta” che
questo libro.
Ricordo solo un ultima frase, che la
scrittrice cita in un’intervista uscita sul “Venerdì” di Repubblica. La frase
appesa alla parete del suo studio, di Albert Camus, che (ci) dice: “Dove non
c’è speranza, spetta a noi inventarla”. Un invito che parte da questo scritto e
si allarga a tutta la vita che viviamo, noi e tutti voi. Allora, “inventiamo
la speranza”.
Claire
Keegan “Piccole cose da nulla” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 12,35
euro)
[A: 23/11/2024 – I: 27/11/2024 – T: 28/11/2024]
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[tit. or.: Small Things Like These; ling. or.: inglese; pagine: 93; anno 2021]
Questo veloce, denso ed interessante libro mi
è stato suggerito dalla robusta lista di libri proposta dal New York Times come
elenco dei migliori libri degli anni 2000. Claire Keegan è insegnante irlandese
di scrittura creativa, poco produttiva laddove, ormai verso i sessanta, ha
pubblicato tre raccolte di racconti e due romanzi. La fortuna di questa scelta
è data anche dalla concomitanza con l’uscita nelle sale cinematografiche del
suo adattamento per la regia del belga Tim Mielants ed interpretato da Cillian Murphy
(Bill Furlong), Eileen Walsh (Eileen Furlong) ed Emily Watson (Suor Mary).
Visto
che scrive poco non ci sorprende quindi che la sua è una scrittura essenziale,
come in questo libro, dove ogni pagina ha un suo senso, e la storia viene fuori,
bene, dura e lineare, laddove altri meno attenti alle frasi avrebbero prodotto
un testo super abbondante.
La
storia si svolge in Irlanda nei giorni di Natale del 1985, dove seguiamo alcuni
giorno della vita di Bill Furlong. Figlio di una ragazza madre, vive insieme a
lei nella casa dove lei fa da cameriera. Nonostante il fatto che noi sia mai
semplice crescere da sola madre nell’Irlanda del dopoguerra, la benevolenza
della padrona di casa fa sì che Furlong abbia una vita non facile ma comunque
neanche impossibile. Studia un po’, fa alcuni lavori, poi trova la sua strada
nel commercio del carbone, diventando non certo un agiato imprenditore, ma
quanto meno un piccolo commerciante, con una discreta clientela ed introiti che
gli permettono di mantenere una famiglia.
Sposa
Eileen ed hanno cinque figlie, tutte femmine. Una delle ultime consegne prima
di Natale è nel convento delle suore che ospita una lavanderia dove vengono
impiegate solo signorine ed una scuola molto ambita cui Furlong spera di far
entrare le figlie. Ma per una serie di coincidenze scopre che non solo le
signorine vengono tiranneggiate dalle suore, ma che le stesse sono tutte
ragazze madre. In particolare si imbatte in Sarah, che ha appena partorito, ma
il cui figlio è stato già venduto, dalla tirannica madre superiora Suor Mary ad
una copia americana.
Tutto
ciò non rende sereno il Natale di Furlong, che passeggia per la città, immerso
nei suoi pensieri (e qui con un’efficace soluzione di ricordi interiori la
scrittrice ci rivela tutta la storia del protagonista), e combattuto tra una
volontà etica di giustizia verso le recluse e le conseguenze che un suo atto
potesse avere non solo sul suo commercio (le suore sono una potenza), ma anche
sull’avvenire delle figlie.
Dovrà
prendere una decisione la cui gestazione seguiamo in tutto il suo sviluppo,
positivo o negativo. Con quella sospensione della narrazione per cui non ci
viene narrato cosa succederà in futuro. Viene tutto lasciato lì, che a Claire
interessa il processo costruttivo della vicenda, le azioni reciproche dei
personaggi durante quei giorni fatidici. Poi sarà la nostra fantasia, o la
Storia, che costruiranno il futuro.
Un
libro che ci insegna una grande verità: le nostre scelte, a volte, possano dare
una svolta alle situazioni che viviamo, possono cambiare il mondo. Quando
Furlong decide di non girare la faccia, di non nascondersi, molti, anche la
moglie, lo esortano a non mettersi contro chi ha il potere, lui risponde che ci
conta ha il potere che noi gli diamo. Bellissima frase.
Tra
l’altro la vicenda adombra una delle pagine più oscure della chiesa e del
governo irlandese, le Magdalene Laundries (reso in italiano con “Case
Maddalena” in memoria di Maria Maddalena, la peccatrice pentita, anche se qui
si potrebbe aprire un dibattito). Questi erano istituti femminili, sorti nel
1765, dove venivano accolte ragazze orfane, o ritenute "immorali",
per via della loro condotta considerata peccaminosa o in contrasto con le norme
della società dell'epoca. In Irlanda dal 1922 furono gestiti da suore
appartenenti a diversi ordini religiosi della Chiesa cattolica, e chiusi solo
nel 1993, dopo la scoperta di numerosi cadaveri di giovani donne e di bambini
neonati, tumulati nella fondamenta. Solo nel 2013 il primo ministro irlandese
Edna Kenny ha chiesto scusa a tutte le donne che vi hanno subito abusi.
Keegan
riesce a raccontare tutto ciò in meno di cento pagine, ma questa piccola cosa
da nulla è contornata anche da tante altre piccole cose che ne fanno un gran
romanzo da leggere attentamente.
“Perché
le cose più vicine sono spesso le più difficili da vedere?” (82)
Anne
Carson “La bellezza del marito (un saggio romanzato in 29 tanghi)” La Tartaruga
euro 18 (in realtà, scontato a 15,30 euro)
[A: 09/12/2024 – I: 10/12/2024 – T: 11/12/2024]
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[tit. or.: The Beauty of the Husband: A Fictional Essay in 29 Tangos; ling. or.: inglese; pagine: 167 anno 2001]
Tra
le esimie pagine di scritti letterari, alcuni mesi fa mi sono imbattuto in un
lungo articolo di Franco Cordelli sul “Corriere della Sera”, dove il grande
critico elencava una serie di romanzi, tutti non italiani, che brillavano nel
panorama degli anni 2000. Una lista, appunto che inizia al volgere del secolo e
termina nel 2023. Una lista da cui attingo per alimentare la mia biblioteca (ed
i cui libri indicherò, se capita, come provenienti dalla “lista di Cordelli”).
Questo
è per l’appunto un libro della lista, di quelli scritti nel 2001, anche se poi
in Italia viene tradotto e pubblicato solo un paio di anni fa. Perché, e sarà
più chiaro nel corso della trama, non è un libro facile. Anzi, è un libro che
stava per fuggire alle mie corde, che, nella lista delle tipologie di scritti,
le poesie vengono tra le ultime. Non per difficoltà di lettura, quanto per
difficoltà, a volte, di coglierne un senso nell’insieme di una pubblicazione
unitaria.
Qui,
devo dire, in realtà, non si tratta proprio e solamente di poesie. O forse si
tratta di una poesia lunga 150 pagine. Ma meglio ancora, verrebbe da definirla
un prosimetro, un genere letterario che alterna prosa e versi, come furono agli
albori della scrittura, le “Satire Menippee” di Varrone, o, in età classica, la
“Vita Nova” di Dante. Fatto sta che si legge, si assapora, e ci si immerge
senza pensare cosa sia, ma solo alle sensazioni che comunica.
Sensazioni
forti e differenziate che Anne Carson non solo è una valente scrittrice, ma è
anche una profonda conoscitrice delle lettere classiche (ha insegnato
letteratura antica nel Canada natio), ma in generale delle lettere. Tant’è che
non solo usa ogni tanto rimandi alla cultura greca, ma in questo scritto ha un
solido rapporto parallelo con molte delle scritture di John Keats, cui il libro
è tra l’altro dedicato.
Dedicato
in particolare per quei versi derivati da “Ode su un’urna greca” che riportano:
“Beauty is truth, truth beauty, —that is all / Ye know on earth, and all ye
need to know” [bellezza è verità, verità bellezza”, questo solo/sulla terra
sapete, ed è quanto basta]. Che qui si parla di bellezza, come riporta il
titolo, una bellezza che però viene subito interpretata attraverso un’opera di
Marcel Deschamps “La mariée mise à nu par ses célibataires, même” [che si può tradurre “La sposa messa a nudo dai
suoi scapoli, anche”, dove si perde il senso, che il même finale assomiglia
eufonicamente a “m’aime”]. Un’opera su vetro che poco dopo essere stata
realizzata, in un trasporto, si ruppe. E l’autore decise di tenerla così,
rotta, senza ricomporla.
Ma
perché abbiamo parlato di bellezza e di rottura? In effetti, è lì il nocciolo
del testo. Anne ci descrive la nascita, la crescita, la crisi e la rottura di
un rapporto. Di una fissazione adolescenziale che si evolve in un matrimonio,
destinato al fallimento, per terminare in una fissazione adulta. Potenti parole
che descrivono sensualità, tradimenti, adulteri, tutti travolti da
incontenibili desideri. Tutto racchiuso in quella esclamazione, iniziale e
potente: mio marito è bello, di una bellezza irresistibile, che spesso va oltre
la comprensione di un impossibile rapporto.
Perché
il marito è un traditore seriale, che non si perita di far aspettare la moglie
in camera mentre scende al bar dell’hotel per telefonare all’amante del
momento. Ma forse è solo una persona malata di sesso, che ogni volta poi ripete
la sua dedizione alla scrittrice, e viceversa. Lei non può fare a meno del
marito, e il marito non può vivere senza di lei. E lei, per anni, per molti
tradimenti, non riesce a recidere il filo. Anche quando le ruba anche degli
scritti e li pubblica a suo nome. Anche quando lei prova a sua volta a tradirlo
in un contesto forse solo amicale. Anche quando lui divorzia, si risposa, fa
dei figli e va a vivere altrove.
Nelle
parole di Anne, in cui pezzi narrati, in quelle frasi poetiche vediamo tutto il
dolore di chi, amando realmente ed a fondo una persona, non se ne stacca, in un
crescendo in cui diviene sempre più difficile lasciarla e dimenticarla. Si vive
il quotidiano, ma si continua ad inciampare nelle giravolte della vita, anche
se inciampando non possiamo che porci sempre nuove domande. Sono le domande che
ci tengono in vita, anche se il testo ci porta a ragionare sull’impossibilità
di andare oltre una amore che finisce. Certo un amore profondo e totale come
quello dell’io narrante.
Potete
anche immaginare come il testo sia pino di citazioni, di rimandi, di contrasti.
Ovvio quello che si è detto di Keats, ma, tanto per citare solo un esempio,
come non collegare la citazione di “Finale di partita” di Samuel Beckett, con
il pensiero dello scrittore tutto incentrato sulla incomunicabilità, sulla
crasi che si determina tra le prole e i fatti. Un elemento costante in tutte le
discussioni tra moglie e marito che costellano il testo.
Finisco
con tornare sul titolo che ci dà anche una profonda lettura del testo. Composto
da XXIX capitoli più uno, chiamati “tanghi” dalla scrittrice. Perché come nel
tango assistiamo ad un avvicinarsi ed allontanarsi dei ballerini, che a volte
quasi si fermano, ma che i protagonisti devono ballare sino alla fine. Il testo
stesso suggerisce una musica nascosta, che a volte avanza impetuosa, ed a volte
rallenta.
Una
scrittura che mi ha preso e fatto danzare in testa sia tutte le storie di amori
che ho incontrato nella mia vita, ma anche facendomi tornare alla Calle Florida
ed ai danzatori di tango del mio ultimo viaggio argentino.
“Non
si aggiusterà … né troverà un senso o verrà alla luce da qualche parte questo
sfacelo di disordine e dolore che è la nostra vita.” (97)
Fernanda
Melchor “Stagione di uragani” Bompiani euro 17 (in realtà, scontato a 14,45
euro)
[A: 09/12/2024
– I: 21/12/2024 – T: 23/12/2024] - &&
[tit.
or.: Temporada de huracanos; ling. or.: spagnolo; pagine: 205;
anno 2017]
Fernanda Melchor, scrittrice under 40 quando
produsse questa “Stagione di uragani”, nasce come giornalista in un Messico
sempre più immerso nella violenza e nella corruzione. Vive inoltre nello stato
di Veracruz che, insieme alla capitale, è tra i più esposti al crimine in
generale ed al narcotraffico in particolare.
Gli anni della scrittura coincidono con
quelli in cui a governare Veracruz era uno dei più corrotti governatori
sudamericano, Javier Duarte de Ochoa, che si dice sia stato coinvolto nella
sparizione di decine di giornalisti scomodi. In particolare, giornalisti di “crónica
roja”, il termine spagnolo per il giornalismo incentrato su eventi legati alla
criminalità. Poiché i governi locali spesso erano contigui alla criminalità,
ecco la necessità di far tacere chi porta avanti le indagini.
Ed è proprio da un articolo di questo genere
(relativo al corpo di una donna trovato in un canale nelle campagne di
Veracruz) nasce a Fernanda l’idea del romanzo. Che nelle prime intenzioni
doveva essere un calco sudamericano del bellissimo “A sangue freddo” di Truman
Capote. Ma indagare per omicidi in una regione governata dal narcotraffico non
è di certo salutare. Così la scrittrice passa ad una fiction pura influenzata
soltanto da un libro che gli passa tra le mani in quei giorni, “L’autunno del
patriarca” di Garcia Marquez. Non per la tematica, ma per il modo espositivo,
in cui ognuno dei lunghi otto capitoli (in realtà cinque sono veramente lunghi)
è una lunga tirata, senza divisione in paragrafi, con lunghe frasi senza punti
e con possibili cambi di soggetto dopo poche righe.
Capite bene che la lettura non è facile, ma
diviene quasi un flusso di coscienza però collettivo, come se la narrazione
sorgesse in un respiro direttamente dalla terra dove si svolgono gli
avvenimenti. Comunque, anche se spesso il soggetto cambia, ogni capitoli poi si
concentra su di un personaggio, dove, da un certo punto in poi, seguiamo solo i
suoi pensieri e la sua visione degli avvenimenti. Soprattutto i capitoli dal 3
al 6, dove seguiamo due ragazze, Yesenia e Norma, un ragazzo, Brando, ed un
uomo, Munra. E dove, dalle loro parole, seguiamo le vicende della Bruja (la
Strega), della Bruja Chica (la figlia della Strega, che prenderà il suo posto,
e che capiamo presto, nel capitolo 2, sia una donna transgender), di Maurilio
detto Luismi per la sua somiglianza con il cantante Luis Miguel.
La storia si svolge nella piccola città di La
Matosa dove, in piccola, la scrittrice riproduce tutte le possibili nefandezze
di un mondo arretrato e chiuso in sé stesso. Elemento chiave è la Strega,
personaggio che focalizza e risolve tutti i piccoli problemi della città:
amori, corna, gravidanze indesiderate, ricerca di un lavoro. Insomma, tutte le
piccole e grandi cose che si possono volere e che un incantesimo o una pozione
possono portarci. Ma la Strega muore ed il suo posto, senza lo stesso carisma,
viene preso dalla figlia, la Strega Chica, cui in pubertà vediamo spuntare peli
maschili, e che diventerà la catalizzatrice, anche, di tutti i festini
simil-gay della città.
Ma se la Strega e la Strega Chica sono il
punto di convergenza delle vicende di La Matosa, il quasi flusso di coscienza
in terza persona delle altre storie ci portano alla fotografia (o al film visto
che si tratta di persone in movimento) delle vicende.
Yesenia, ad esempio, che aveva un debole per
il cugino Luismi, vedendolo uscire dalla casa della Strega con un altro uomo ed
un fagotto, entrare nel camion di Munra e fuggire, lo denuncia alla polizia.
Munra, arrestato dopo la denuncia, racconta il suo coinvolgimento nella storia,
travolto da avvenimenti più grandi di lui. Soprattutto per un certo affetto che
ha verso Luismi, figlio di Chabela, la sua convivente. E ci narra di come lui
porti in casa una giovin fanciulla, Norma, volendo quasi costruire con lei un
suo futuro. Ma Norma, tredicenne, è incinta ed abortisce in modo pericoloso in
seguito ad una pozione della Chica. Seguiamo allora la storia di Norma,
violentata più volte e messa in cinta dal patrigno Pepe. Per cui fugge,
cercando aiuto e riparo da Luismi, anche se capiamo che nel ragazzo c’è
qualcosa di strano.
Misteri che, in massima parte, si chiariscono
nel racconto di Brando, l’altro uomo visto da Yesenia. Un altro giovane
sbandato, attirato, seppur controvoglia, Luismi. Che segue spesso nei festini
della Chica, scoprendo il carattere gay dell’amico, e per questo sempre pronto
a stargli vicino. In particolare quando Luismi, saputo che è stata una pozione
della Chica e far abortire Norma, la vuole punire. Forse cercano anche il
tesoro che si dice abbia la Chica. Ma la discussione si altera presto, e Luismi
uccide la Chica, con Munra e Brando la gettano in un canale. Verranno tutti
arrestati, e seguiamo in una parte finale molto intensa tutte le depravazioni
ed i soprusi che i tre subiscono nelle terribili carceri messicane. Dove Brando
aspetta l’arrivo di Luismi, con l’idea di ucciderlo per evitare che questi
parli del loro trasporto (vero o immaginario) di carattere omosessuale. Un’onta
che non si può portare alla luce nel machissimo mondo messicano.
La scrittura è difficile e potente nella
penna di Fernanda Melchor. Ci dipinge un mondo di violenza, di misoginia, di
omofobia. Un mondo anche di scontri e di conflitti sociali: uomini contro
donne, ricchi che abusano dei poveri. Tutti sono in realtà colpevoli di qualche
cosa. Ed alla fine scopriamo, e questo è forse il punto che non ho digerito
fino in fondo, che non ci sono personaggi non dico positivi, ma quanto meno
salvabili. Uomini e donne sono tutti dei falliti, tutti ai margini di una
società senza speranza. Un’immagine impietosa del Messico, che forse è molto
più reale di quanto si possa supporre.
Le parole della scrittrice ci fanno chiudere
la trama con la considerazione che “la stagione degli uragani risiede nel fatto
di essere giovani e non avere futuro, e sentire questo incredibile bisogno di
fuggire con ogni mezzo possibile”. Senza riuscirci.
Torrey
Peters “Detransition, Baby” Mondadori euro 20 (in realtà, scontato a 17 euro)
[A: 09/12/2024
– I: 08/01/2025 – T: 11/01/2025] - &&
e ¾
[tit.
or.: Detransition, Baby; ling. or.: inglese; pagine: 414;
anno 2021]
Non
è facile parlare di questo libro, non perché sia complicata la trama, che anzi
se vogliamo è abbastanza lineare. Ma per la materia che tratta ed il modo in
cui viene esposta.
Torrey
Peters è un* trans (mi scuso dell’asterisco ma è già difficile parlare di
genere fin da chi ha scritto il libro) ed ha esposto nel romanzo una trama che
potrebbe avere un riferimento con “Sex and the City” trasferito in un ambiente
attuale e diverso. Ed allo stesso tempo condensando gli eponimi della serie in
una sola figura. Se ben ricordate, ridotto all’osso, la serie trattava di
quattro modelli di donna: la donna sposata (Charlotte), la donna in carriera
(Samantha), la donna madre (Miranda) e la donna artista (Carrie).
Come
dicevo condensate nella figura di Reese: in carriera, seguendo la sua vena di organizzatrice
di eventi, percorsa da vene artistiche o intellettuali (già qualcuno che legge
bene nella New York odierna è fuori dagli schemi), ed è stata sposata, avendo
vissuto lunghi anni con Amy. Le manca, e le mancherà per tutto il libro, di
rimanere incinta, di fare un figlio, anche se è la sua aspirazione mancata ed irraggiungibile.
Poiché
Reese nasce uomo, ma transiziona verso l’altro sesso. Quindi trans. Come trans
è Amy, che nasce James, transiziona in Amy, per poi decidere di detransizionare
in Ames.
Già
queste due righe vi fanno capire la difficoltà mia di approcciare il testo, non
perché non si sappia (in fondo siamo nel 2025) cosa sia un ambiente
“transgender”. Ma la mia conoscenza finisce lì. Mentre qui, giustamente, si va
a fondo anche con i termini e con le situazioni (tra l’altro ben tradotte da
Chiara Reali). Si parla di trans, detrans, cis, queer. Ho dovuto cercare in
rete qualche delucidazione, riuscendo a comprendere che, oltre i termini noti,
cis (abbreviazione di cisgender) indica una persona nella quale collimano il
sesso biologico e l'identità di genere. Mentre “queer” è un termine ombrello
utilizzato per indicare coloro che non vogliono avere un'etichetta.
Il
romanzo (che sfortunatamente applica a fondo le fughe avanti e indietro nel
tempo, cosa che, se non ben utilizzate, mi lascia sempre perplesso) segue
principalmente la storia di Reese, narrate in prima persona, con alcuni
capitoli invece in soggettiva di Amy/Ames.
Insomma,
Reese è trans, e sta benissimo in questa situazione, facendo anche da
“istitutrice” ad aspiranti trans o a generici queer. In questa veste incontra
James diventato Amy, tra loro nasce una grande passione, e vanno a vivere “more
lesbo” da Reese. Con due grandi difficoltà sempre presenti. Reese, in fondo, ha
molto bisogno di sesso, e lo cerca anche altrove. Amy invece ha molta
difficoltà a vivere la sua sessualità. Non solo, ma le cure ormonali che
intraprendere per rimanere trans, ne destabilizzano il carattere.
Non
è strano che ad un certo punto si lascino, e che Amy detransizioni in Ames. Ed
in questa veste inizia una nuova storia con Katrina, cis di origini ebree e
cinesi, senza svelarle il suo passato. La deflagrazione avviene quando,
nonostante sembrasse sterile, Ames mette incinta Katrina. Ma Ames è sempre in confusione
con il suo gender, e non sa se riuscirà ad assumersi il ruolo di padre. Motivo
per cui chiede a Reese di creare un rapporto multiplo tra loro tre, in cui
ognuno possa avere la sua sessualità ed il suo ruolo.
Da
qui lunghi passaggi, discussioni, rotture e riconciliazioni. Ames tentenna,
Reese si sente in grado di fare la madre aggiunta, ma ha paura di essere
considerata “di secondo piano” e Katrina, avendo per sua natura, bisogno di un
orizzonte stabile, si sente portata verso un aborto, se non si riesce a
raggiungere un compromesso valido per tutti.
Alla
fine, comunque, condita da tutte le storie collaterali legate al sesso
praticato, l’idea che porta Torrey alla scrittura, è legata fortemente alle
discussioni ed ai ripensamenti riguardo agli stereotipi di genere legati alla
genitorialità, nell’ambito sia del bisogno di maternità di chi transiziona, sia
nell’immaginare come costruire una famiglia non convenzionale. Un discorso che
recentemente ha avuto un ampia visibilità in Italia con le prese di posizione
di Michela Murgia nell’ultimo periodo della sua vita.
Ma
qui parliamo di Peters, della sua scrittura sufficientemente avvolgente, ma con
una presa, verso me lettore non sempre di grande effetto. Forse sono troppo cis
per entrare a fondo nei modelli e nelle discussioni del romanzo stesso. Ho
sciolto solo il dubbio che avevo leggendo il titolo del romanzo, pensando fosse
esortativo. No, esprime in realtà i due elementi fondanti del libro: il ritorno
allo stadio pretrans e la voglia di maternità.
Una settimana,
quindi, che chioserei con un’altra citazione al femminile, tratta da un libro
che ho amato molto “Lessico
famigliare” di Natalia Ginzburg (dedicata anche a tutti i miei amici):
“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me
ne importa niente se le loro opinioni siano vere o false” (204)
Non voglio finire questa trama in lamenti, in petizioni, in pensieri vari. Mi piace lasciarla così, spero solare per tutti ma in particolare per tutte le donne. Io modestamente vi abbraccio.
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