Soseki
Natsume “Guanciale d’erba” Repubblica Giappone 21 euro 8,90
[A:
28/02/2025 – I: 23/03/2025 – T: 25/03/2025] - &&&--
[tit.
or.: 草枕 Kusamakura; ling.
or.: giapponese; pagine: 173; anno 1906]
Di certo non è stata una lettura facile, ma è
una lettura doverosa per cercare di comprendere e di entrare nella mentalità
della letteratura giapponese. In quanto questo, datato ma di grande rilievo, è
uno dei manifesti letterari che segnano la nascita della moderna letteratura,
non ultimo il fatto che l’autore viene considerato lo scrittore che ha iniziato
questa scrittura.
Soseki Natsume è un tipico esponente del
periodo, di forte intelligenza e di grandi conoscenze. Soseki è proprio uno
scrittore di passaggio, essendo nato esattamente all’inizio di quella che viene
indicata in Giappone “era Meiji”, cioè il periodo che segna l’apertura
dell’isola al resto del mondo. Tant’è che Soseki, studiando letteratura (pur
con tutta una serie di problemi dovuta ad un’infanzia difficile, su cui non
entro per non tediare il lettore), conosce ed impara ad amare la letteratura
occidentale, ed in particolare quella inglese. Tant’è che farà due anni di
studio a Cambridge, per poi diventare titolare della cattedra di inglese
all’Università di Tokyo.
Una carica che lascerà nel 1903, quando
pubblica il suo primo scritto. Anche se manterrà sempre un occhio ben attento
al mondo inglese lontano, sino alla sua morte per un ulcera iatale mal curata
nel 1916.
Questo scritto, redatto nei suoi
quarant’anni, è una sorta di manifesto ideale del concetto di arte, tant’è che
contiene una serie di passaggi in cui l’autore parte per la tangente dalla
situazione descrittiva cui ci sta facendo partecipi, per parlare dei concetti
di buona letteratura ed altre considerazioni da saggio di letteratura più che
da romanzo.
Collegamenti che cominciano sin dal titolo.
Una traduttrice americana, Meredith McKinney, di grandi conoscenze nipponiche,
ha notato come con “Guanciale d’erba” era indicato il fatto che i viaggiatori
itineranti per le terre nipponiche dormivano all’aperto, sull’erba. Che è anche
una palese metafora (il viaggio) dell’uomo che va alla ricerca di sé stesso.
Rimandando così ad uno dei classi della letteratura locale, il viaggio poetico
del più grande scrittore giapponese, Bashō, intitolato “Lo stretto sentiero
verso il profondo Nord”. Un’opera anch’essa mista, in cui, come in questa,
convergono prosa e poesia.
Venendo al testo, avrete senz’altro capito
che non c’è una vera e propria trama. Soseki si immedesima nell’io narrante, un
giovane artista che si avventura per sentieri montuosi cercando contatto con la
natura per la sua parte pittorica e contatto con le poche persone che incontra
per la sua parte poetica. Infatti, andando incontra viandanti solitari,
contadini, nobili, paesani. Sorpreso dalla pioggia si rifugia in una locanda
dove la vecchia padrona gli narra la storia di Nakoi, desiderata da due uomini,
andata in sposa a quello che non amava e per questo si suicida. Arriva infine
in una località termale, dove si ferma ed incontra gli ultimi personaggi di cui
ci parla: un monaco zen, un barbiere, un giovane destinato a partire per la
guerra (c’è anche la Storia che si affaccia nelle parole del nostro), e
soprattutto una strana donna, O-Nami.
È lei che diventa il perno dei suoi
ragionamenti. È sfuggente ed eterea, infelice, gli parla in modo misterioso dei
suoi desideri suicidi (e lui, guardandola, la trasfigura nel quadro “Ophelia”
di John Millais). Gli appare anche nuda e senza vergogna durante una sua sosta
nelle terme della locanda. Ma è talmente delicato il tutto, da parte
dell’artista e da parte di O-Nami, che tutto si svolge senza nessuna volgarità.
L’artista raccoglie tutti questi input,
elaborandoli sia scrivendone, sia componendo haiku, sia isolandosi nella
campagna e dipingendone. Sono questi momenti in cui ce ne parla, e poi ci narra
le sue riflessioni sull’eleganza, sul senso dell’arte e sul ruolo che essa
debba avere nella società moderna. L’artista ha il compito di “rasserenare il
mondo ed arricchire il cuore degli uomini”.
Narrando e dipingendo, Natsume si accorge
delle contraddizioni insite nella vita dei personaggi che incontra.
Riconoscendo quindi la complessità dell’animo umano, dovrà essere l’artista a
tirarne fuori elementi di equilibrio. Alla fine la sua riflessione lo porta ad
una considerazione rivoluzionaria: non è necessario che si debba produrre
sempre un’opera d’arte. Quello che conta è lo sguardo con cui si guarda il
mondo. Solo chi sa guardare può rimandarci una dimensione nuova di quanto sta
intorno a lui.
E quando parte per le sue riflessioni
sull’arte, Natsume cita, direttamente o indirettamente (e non è sempre facile
penetrare oltre le parole) artisti, letterati, uomini di cultura, occidentali
ed orientali, fornendoci quasi un florilegio del suo pantheon personale.
Abbiamo già visto citato Millais (con la sua Ophelia), e poi ci sono Shelley,
Bashō (di cui abbiamo detto), Michelangelo, Nagasawa Rosetsu (pittore del
Settecento famoso per la sua “Tigre”), Wang Wei (il primo poeta della natura,
vissuto nei primi anni del 700 d.C.), Tao Yuanming (altro grande poeta antico,
nato intorno al 400 d.C.), Laurence Sterne, Oscar Wilde e Henrik Ibsen.
Non è un caso che, per affinità, sia stato il
romanzo prediletto di Glenn Gould. Né che sia stato paragonato a due grandi
libri “sulla natura, l’arte e la vita”, come “Walden ovvero Vita nei boschi” di
Henry David Thoreau, o “La passeggiata” di Robert Walser (anche se il libro
svizzero è posteriore).
Alla fine, il percorso cui ci porta Sōseki è
un viaggio poetico nella natura. Perché vivere è un percorso di crescita
interiore e il cammino ci offre l’occasione di ritrovarci soli in compagnia di noi
stessi. Ma vivere è anche un’arte, unica e immortale, al di là della nostra
volontà e della nostra capacità.
Chi sa di giapponese dice che l’autore
utilizza uno lento e meraviglioso stile supportato da una lingua limpida. Io
posso solo apprezzarne la traduzione di Lydia Origlia, e concludere che è un
buon libro di testa. Purtroppo poco di cuore e di pancia. Fa pensare, ma a
volte solo in riflessioni senza dentro il fuoco delle grandi passioni. Comunque
un testo di riferimento per entrare nel mondo nipponico.
Andrea Pomella “Vite nell’oro e nel blu”
Einaudi euro 21 (in realtà, scontato a 19,95 euro)
[A: 14/04/2025 – I: 16/04/2025 – T:
18/04/2025] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 373; anno:
2025]
Andrea Pomella cinquantenne romano di
Settebagni e creativo affiliato alla banda di Baricco, ha scritto non tanti
libri, ma alcuni testi significativi ed insistenti su alcuni punti a lui cari:
da un lato la depressione ed i rapporti familiari, dall’altro incursioni
biografiche verso artisti di diversa natura. In queste vite uscite per Einaudi
ne fa quasi una sintesi, concentrandosi su alcuni artisti romani, sulle loro
interazioni e su quelle con la città degli anni ’60. Una città bellissima come
ebbe a dire Nanni Moretti in “Caro Diario”.
Una città in cui si vive d’arte e dove in
quegli anni una serie di under 30 cerca la propria via. Era allora un mondo che
viveva nell’ora d’oro, quella luce che c’è solo a Roma al tramonto, che fa
risplendere i palazzi, che fa rifulgere chi riesce a trasformarla in vita. È
una luce che però dura pochissima, che subito arriva la notte, con quell’ora
blu dove molti soccombono.
Pomella però, iniziando dalla fine degli
anni Cinquanta e portandoci per mano per almeno trent’anni, ci fa vivere il
senso artistico di quella Roma, che si incarna nelle storie di quattro artisti:
Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Francesco Lo Savio. Quattro
personalità complesse che verranno accomunate con l’etichetta di “Scuola di
Piazza del Popolo”, piazza dove si erano sempre riuniti, da sconosciuti, seduti
sugli scalini attorno all’obelisco, aspettando che qualcuno offrisse loro un
caffè. Poi, con la fama ed i soldi, bivaccando ad uno dei caffè della piazza,
il Caffè Rosati.
Per chi non sa di Roma, in Piazza del Popolo
ci sono due caffè storici: il Canova, che era il rifugio e la base di scrittura
di Fellini, e il Rosati, che cominciò da lontano la sua importanza quando lo
frequentava Trilussa (che abitava lì vicino, in via Maria Adelaide.
Ma a noi interessa la banda dei quattro,
tutti romani puri. Tre di nascita ed uno di storia e di ritorno, essendo nato
in Libia, vicino a Leptis Magna, ma di ritorno presto in Italia, seppur il
natio deserto libico ritornerà spesso nella sua memoria con quelle palme a lui
tanti care, così come alla storia della mia famiglia, su cui tornerò.
Tano e Francesco erano anche fratelli, anche
se il secondo nacque da una relazione extraconiugale della madre con Vincenzo
Festa, quand’era ancora sposata con Paolo Lo Savio. Tano nasce tre anni dopo, e
prenderà il cognome del padre biologico. Tano è del ’38, mentre gli altri tre
moschettieri nascono tra il settembre ’34 (Mario) ed il maggio ’35 (Franco).
Parlo di tre, che Francesco, il più intellettuale in partenza, il più preso dai
concetti della loro arte nascente, non resse le stroncature delle prime opere,
finendo suicida a Marsiglia nel ’63.
Gli altri attraverseranno gli anni ’60 con
il fulgore delle loro intuizioni (ad esempio il dipinto Koka-Kola di Schifano
del ’61) e con gli eccessi di vita. Io rifuggo un po’ da quell’epiteto che gli
editor di Einaudi pongono nella quarta, bollando i nostri come “pittori
comunisti”. Erano pittori ed erano comunisti, ma l’unione dei due aggettivi è
molto fuorviante.
Io non parlo certo della loro arte (non ne
avrei la capacità), ma entro nelle descrizioni di Pomella, che riescono a
riportarci il fertile ed assurdo clima dell’epoca. Quando Franco Angeli ebbe
una lunga e tormentata storia d’amore con Marina Ripa di Meana. O quando nel
covo di via Margutta, dove bivaccavano tra arte e sesso Mario e Tano, arriva il
poeta Ungaretti con un carico di funghi peyote, che loro cucinano in frittata
dando vita ad una notte brava di cui ancora si narra. Notti brave come quella in
cui Franco accoglie un vagabondo che vagava per Roma, convincendolo il giorno
dopo a dipingere un doppio quadro, scoprendo, al momento della firma, che si
trattava di Jack Kerouac.
Ovvio anche, partendo da quel suicidio del
’63, che i nostri sono sempre lì, sul limitare tra i grandi cieli (“oro”) e le
notti buie (“blu”), tanto che un gallerista romano li soprannominò (storpiando
il nome di una collana di artisti) “i maestri del dolore”. La bellezza
aneddotica di Pomella è ci porta in quella Roma d’incanto, che era già la città
del potere, che era ancora la città del cinema, in quella che per lungo tempo
poté essere la città dei pittori e degli artisti. Laddove, oltre a quelli già citati,
si aggiungono piccoli o grandi cammei che coinvolgono Sandro Penna, Goffredo
Parise, Mick Jagger, Isabella Rossellini, tanto per fare dei nomi.
Un mondo come detto sempre al limite dove
non ci si faranno mai mancare processi, grane, discussioni, successi e
fallimenti. Se Lo Savio, il primo che se ne va con il suo nome legato al
pensiero e con la sua morte che lancia come un’accusa, alla fine degli anni
Ottanta, per malattie ed abusi, ci lasciano Festa, da sempre il più oscillante
tra pop e fotografia, che ammanta di sacralità anche la morte, e poi Angeli, il
più tormentato, il più cupo nel dramma dell’addio.
Rimarrà ancora dieci anni, Mario l’uomo
dall’istino imbattibile, che lo porta ad andare oltre a tutto e tutti, che
passerà gli ultimi anni tra droghe e ricoveri, con anche punte carcerarie, per
morire d’infarto a 63 anni.
C’è una riflessione che ad un certo punto fa
Franco Angeli che colora di una luce interessate questa parte delle loro vite
al limite. Quando si domanda che nello svolgimento dell’ultima corsa delle
bighe al Colosseo, è probabile che chi ha partecipato a quella corsa non
immaginava che sarebbe stata l’ultima. Così per loro. Così per tutti noi.
Ripeto, non ho competenze in materia per
giudicare l’opera di questi grandi artisti (e forse potrebbe aiutarmi il mio
cugino acquisito Giovanni). Quello che so e vedo è una bella e scorrevole
scrittura che mi ha portato a passeggio per una trentina d’anni, anche se a
volte speravo fosse più incisiva.
Finisco tornando sulle palme, laddove
infatti Schifano fa parte della grande mitologia familiare della mia grande
famiglia, che il mio amato cugino Paolo a lungo fece parte della corte di
lavoranti che servivano al grande per confezionare le sue opere. Ed in
particolare, vista la sua specificità, Paolo era un mago dei fotogrammi. Ma
come spesso accade ai grandi, Schifano non aveva la concezione del denaro, e ne
spendeva senza tenerne conto. Così che, quando chiuse l’attività sui film, a
mo’ di liquidazione, donò a mio cugino una palma gigante.
“[Schifano] ha iniziato a dipingere con
insistenza un soggetto: la palma. È l’albero della sua infanzia a Homs.” (180)
Paolo Di Paolo “Lontano dagli occhi”
Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 07/05/2021 – I: 18/04/2025 – T:
21/04/2025] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 189; anno:
2019]
Paolo Di Paolo è nato il 7 di giugno del
1983, un mese dopo la matematica vittoria del secondo scudetto della Roma e
quindici giorni prima della scomparsa di Emanuela Orlandi.
Comincio questa trama con alcune notazioni
ambientali, che servono ad inserire l’interessante scritto dell’autore nel
contesto epocale dei primi anni Ottanta. Io avevo da poco compiuto trent’anni,
e sta seguendo alcune svolte della mia vita che, interessando solo me, non vi
cito. Comunque dicevo interessante, che la sua scrittura è sempre abbastanza
raffinata, anche se, nel complesso, il libro raggiunge un livello di gradimento
ampliamente nella norma.
Come si capisce dalle prime righe, il
romanzo è ambientato a Roma, e ci presenta, con una scrittura che passa da un
punto di vista all’altro, tre storie molto parallele. Tre donne, tre ragazze
che in quell’inizio di ’83 scoprono di essere incinta. Ci sono due fili che Di
Paolo tira e segue nel corso del romanzo: la trasformazione di una persona che
passa da essere un individuo qualsiasi a diventare genitore e il percorso che
un bambino può fare lontano dagli occhi che lo hanno creato ma vicino al cuore di
chi lo fa crescere.
Seguiamo quindi Luciana impiegata in un
giornale che sta per chiudere. La seguiamo in alcuni momenti comunitari, ma
soprattutto veniamo a sapere che si è accompagnata per un po’ di tempo da una
persona che chiama “l’Irlandese”, forse per la nazionalità, forse per i
capelli, forse perché è una specie di giornalista free lance che gira mezza
Europa per cercare di intervistare Samuel Beckett. Fatto sta che il rosso di
pelo non c’è, e non risponde alle chiamate di Luciana. Non solo, ma durante
tutta la gestazione, in difficoltà anche con il lavoro, viene a sapere che
l’Irlandese è anche passato per Roma senza farsi vivo. Rimane allora il
pensiero di cosa fare di questa vita che cresce nella pancia.
Vita che è nata anche nel ventre della
diciassettenne Valentina, dopo un rapporto fugace con Ermes. Erano da qualche
mese insieme, ma dopo il fatto, Valentina si allontana, ed Ermes prima non ne
capisce il motivo, poi, pur ragionando, non riesce ad immaginarsi un suo futuro
in un ruolo genitoriale. Valentina teme di tutto, ha paura di Ermes, dei
genitori, della scuola, e decide di fuggire. Peccato che lo faccia nel giorno
in cui la Roma vince in campionato, con una conseguente confusione immane in
tutta la città. Non potrà allora che tornare a casa.
Infine c’è Cecilia, una punk che vive per
strada con un cane, vicino alla pizzeria di via Taranto dove lavora Gaetano.
Che sembra uno buono, che le passa del cibo di tanto in tanto. Tanto che
finiscono a letto, e Cecilia finisce in cinta. È l’unica che si ritiene
autosufficiente, anche se ha bisogno di un favore da Gaetano, che ovviamente
non vi svelo. E Gaetano è anche l’unico dei tre maschi che si pone realmente il
problema di cosa possa significare diventare padre.
Tutta la prima lunga parte si regge
sull’alternanza delle storie delle tre donne. Fino a che entrano tutte in
clinica, ed una (quale non viene detto e non lo sapremo mai) decide di dare in
adozione il figlio. Che così diventa il soggetto protagonista delle ultime
trenta pagine del libro. In cui narra l’evolversi della propria storia di bimbo
adottato e teneramente amato dai genitori non biologici.
E tutta la sua storia è un veloce scambio di
battute in cui, narrando la sua crescita, si rivolge a giro ai sei personaggi
della prima parte. Sempre con la stessa intensità, perché due di loro sono i
costruttori del suo DNA, ma non sapremo mai quali.
Pur obiettando, come mio solito, che trovo
difficile seguire i ragionamenti di una donna se descritti da un uomo (e pur
con tutta la bravura e l’impegno che ci mette Di Paolo), di sicuro vengono a
galla molte tematiche che fanno riflettere. L’impreparazione e la solitudine di
una donna che cambiando il suo ruolo da figlia a madre deve fare i conti con un
cambiamento che prima di tutto fisico. Entrando in un ruolo che è difficilmente
nascondibile.
Sull’altro versante, al contrario, i padri
possono decidere di sparire, negarsi, prendere altre strade. Che nessuno,
vedendoli, può dire: ecco, quello è un padre. Certo a maggior ragione
nell’epoca del romanzo, ancora lontano da WhatsApp e Internet.
Le parole dell’autore, che non sappiamo né
vogliamo sapere quanto si immedesimino in qualche personaggio del testo, hanno
tuttavia la forza di colmare (del tentativo di colmare) quella distanza tra i
veri tipi di occhi che possono guardare un bambino nascere e crescere.
Restituendo al bimbo il riempimento di tutto quel vuoto che gli occhi non
riescono ad eliminare.
Barry Gifford “Cuore selvaggio” Corriere
Americana 25 euro 8,90
[A: 19/12/2023 – I: 27/04/2025 – T: 29/04/2025] - &&&
[tit. or.: Wild at Heart: The Story of Sailor & Lula; ling. or.: inglese; pagine: 172; anno 1990]
Il nodo centrale della sua produzione si
avvolge ai sette romanzi che hanno per protagonisti Sailor Ripley e Lula Pace
Fortuna. Romanzi che alla fine, nel 2019 verranno riuniti in un unico volume di
più di settecento pagine, “Sailor & Lula, Expanded Edition”, benché frutto
di scritture diverse nel tempo, e tutte auto concludentesi, si rivela come un
potente campionario della vita on the road. Dove seguiamo i due protagonisti da
questo primo libro, con lui ventitreenne e lei ventenne, sino al sesto, con le memorie
di Lula, avviata alla morte più che ottantenne nel ricongiungimento con il già
morto Sailor. Avendo poi una cosa nel settimo libro che narra la storia
personale del loro unico figlio, Pace Roscoe Ripley.
Dicevamo, è una storia tipicamente americana,
fatta di quasi niente eppur di molto. È un susseguirsi, questa prima parte, di
brevi capitoli, tutti densi di dialoghi, un’arte di scrittura in cui Gifford è
senza dubbio maestro. E questo quasi niente, in fondo, è un grande inno
all’amore, perseguito a discapito di tutte le convenienze. Un grande amore, e
niente più, come direbbe il grande Peppino di Capri.
Lula e Sailor si frequentano prima
dell’inizio del romanzo, lei quasi diciottenne e lui appena maggiorenne. Dove
sapremo poi, Sailor, per difendere Lula da attenzioni non gradite, uccide
involontariamente un uomo e viene condannato a due anni di carcere. Due anni in
cui la madre di Lula, contraria fin dall’inizio al loro amore, fa di tutto per
creare una lontananza tra i due.
Ma appena uscito di prigione, Sailor monta
sulla Pontiac Bonneville decappottabile di Lula ed insieme si avviano verso la
California. Con due grossi problemi: Sailor sarebbe in libertà vigilata;
quindi, non potrebbe allontanarsi dalla Carolina e la madre di Lula è disposta
a tutto per fermarli. Madre che ha contatti con il crimine, ma soprattutto con
un investigatore, Johnny Ferragut, che si pone sulle tracce dei due, fino a
ritrovarli nel momento cruciale della storia.
Intanto i nostri eroi proseguono la loro
strada, con pochi soldi, purtroppo. Si ingegnano in lavoretti ed altre piccole
facezie. Ma la maggior parte del tempo li vediamo parlare di tutto nelle stanze
dei motel lunga la via. Raccontandosi il presente, ma soprattutto il passato,
così che, con quei discorsi all’apparenza slegati, Gifford alla fine riesce a
farci avere un quadro completo delle loro storie.
Arrivati in Texas, arrivano anche altri
problemi: Lula è incinta, i soldi sono finiti. Sailor si fa convincere da due
piccoli fuorilegge, Perdita Durango e Barry “like the Country” Perù, a
partecipare ad una rapina. Che ovviamente finisce male: Perdita fugge, Barry
muore e Sailor viene arrestato. E condannato a dieci anni. Anni in cui nasce il
piccolo Pace, Lula è costretta a vivere con la madre, dato che Johnny nel
frattempo li ha ritrovati.
Tutto si avvia verso il finale, in cui
Sailor esce di nuovo di prigione e…
Questa è un’altra storia, anche perché tutti
sono abituati a vedere il libro come espressione di uno dei miglior film degli
anni Novanta. Prima che uscisse il libro, David Lynch ne aveva realizzato la
trasposizione cinematografica, con il titolo “Cuori selvaggi”. Successo
clamoroso e Palma d’Oro a Cannes. Così che Sailor avrà per sempre la faccia di
Nicholas Cage e Lula quella di Laura Dern. Una grande fortuna (economica) ed
una grande sfortuna editoriale (il testo ha subito pesanti modifiche da parte del
visionario Lynch).
A me, che non ho visto il film (peccato da
scontare, prima o poi), rimane la lettura di questo libro on the road, che
rimanda alla menta il Jack Kerouac di quarant’anni prima, ma anche alla voglia di
fare un lungo viaggio sulla Route 66, da Chicago a Santa Monica (io ne ho
percorso il tratto californiano). Una storia potente d’amore di due girovaghi
senza meta della beat generation, che attraversano l’America selvaggia, quella
delle strade lunghe, diritte e polverose. Ma anche quell’America che ora vota
compatta per Donald (e che incontrai sin dal mio primo viaggio, in un “diner”
in Arizona; ma questa è forse un’altra storia).
Comunque, sono per una volta almeno,
concorde con Sandro Veronesi nell’aver inserito questo capitolo nella sua lunga
antologia di romanzi americani, forse una delle uscite più interessanti del
Corriere della sera. Anche se, per dirla tutta, un po’ di ruggine degli anni
compare qua e là nel testo.
“Per il momento non mi hai ancora deluso
… e questo è più di quanto possa dire di tutto il resto del mondo.” (37)
“Un altro deragliamento del treno della
vita sui binari per il paradiso.” (41)
“Anche se tu ami qualcuno non sempre
questo serve a cambiare le cose della tua vita.” (81)
Joël Dicker “La catastrofica visita allo zoo” La Nave
di Teseo s.p. (Prestito di Alessandra)
[A: 04/05/2025 – I: 06/05/2025 – T: 07/05/2025] - && e ½
[tit. or.: La
Trés Catastrophique Visite du Zoo; ling. or.: francese; pagine: 261; anno 2025]
Un sentimento
ambivalente pervade l’io lettore quando volto l’ultima pagina del libro e mi
metto a riflettere su quanto ho appena finito di leggere. Il primo che affiora
è lo spaesamento: mi sembra di aver letto un libro di Pennac senza il
graffiante urlo della sua penna sui muri del perbenismo. Il secondo è il
coraggio da rispettare verso qualcuno che si mette in gioco, a rischio di non
essere compreso, perché ha urgenza di dire qualcosa, e forse non trova altri
mezzi per dirlo. Poi c’è l’ammirazione verso chi, in ogni caso, riesce ad
affabulare con classe intorno ad un’esile storia, tirando comunque fuori
riflessioni su grandi temi come la democrazia, l’inclusione e la libertà
d’espressione.
Quindi,
mettiamo da parte le eventuali aspettative di un thriller “standard” nella
modalità Dicker, ed andiamo a vedere questa fiaba “per grandi e per piccini”.
Come ha detto, nel libro e altrove, l’idea di base è venuta dall’imperversare
di modi altri di stare. Non più leggere, come quindici anni fa, ma guardare lo
schermo di uno smartphone. Allora, pensiamo ad una narrazione che tutti possano
leggere e seguire, sperando che la semplicità non sia semplificazione.
Unico
elemento che a me, al solito, disturba come struttura narrativa, è l’uso di un
io narrante di sessualità diversa dall’autore. Ritengo, e ribadisco, che la
tipologia di sensazioni difficilmente può essere replicata. Anche se qui, in
effetti, a parte qualche pagina di prologo ed alcune di epilogo, l’io narrante
è una bambina di otto anni, in un certo senso asessuata.
Intanto,
si perde un po’ il rafforzativo francese del “molto” sulla catastrofe, che
forse avrei reso con il peggiorativo “la disastrosa visita”. Perché c’è una
“catastrofe”, anzi ce ne sono in serie, ognuno che rompe l’equilibrio
precedente (così come etimologicamente ci riporta il termine), approfondendo la
frattura tra l’andamento “normale” delle cose, e l’ultima catastrofe, quella
appunto allo zoo, serve in modo disastroso a far da cesura alle altre, ed a
risolverne il senso. Come ci suggerisce l’autore: “Una catastrofe non avviene
mai all’improvviso: è il risultato di una serie di piccole scosse che, a poco a
poco, diventano un terremoto”.
Allora,
la protagonista della storia è Josephine, una bimba di otto anni, con il
talento di comprendere le cose più velocemente degli altri. Per questo è
“speciale”, e vive e studia in un scuola per bambini speciali. Dove c’è Artie,
l’ipocondriaco, Yoshi, quello che non parla (ma non è muto), Thomas, il cui
unico talento è il karatè (dove il padre è appunto un karateka), Giovanni, di
cui non sappiamo il talento, se non che ha dei genitori ricchissimi ed una
nonna appassionata di serial polizieschi, e Otto, figlio di genitori
divorziati, con il talento di sapere tutto, e su tutto essere capace di
imbastire un discorso.
Non
viene mai detto in cosa consiste la “specialità” dei nostri eroi, ma dal modo
di esprimersi e comportarsi, sembrano tutti lievemente “asperger”, cioè con
elevata intellettività, ma scarsa presa sul reale. È vero che molti bambini,
nel momento di chiedere informazioni e delucidazioni si pongono in una modalità
particolarmente di rottura con il mondo adulto, non comprendendo, ed a ragione,
alcune sottigliezze linguistiche. Ed è un comportamento che i nostri esacerbano
sin dal primo impatto.
Riprendendo
quanto detto sopra, quali sono allora queste piccole scosse che portano al
terremoto. La prima si verifica con l’allagamento della scuola speciale, perché
i lavandini del bagno sono otturati ed i rubinetti aperti. Scuola inagibile,
allora, con grande disperazione della giovane responsabili dei sei, la
signorina Jennings. Subito salvata dal Direttore della vicina “scuola normale”
che propone di far utilizzare ai sei un’aula normale.
Tutto
nasce dal tentativo di far integrare “a forza” bambini speciali e normali,
sotto la spinta del Direttore, che si capisce subito abbia un secondo fine
(provare ad attaccar bottone con la signorina Jennings). Così attraversiamo
momenti assembleari in aula magna, dove si parla di democrazia senza
applicarla. Ci catastrofiamo con lezioni di ginnastica (che portano ad una
rottura di alcune ossa del docente) e con altre di sicurezza stradale (dove è
il poliziotto che ha la peggio). Ci si avvicina al Natale, con piccole
divagazioni su Babbo Natale (ma qui, il bimbo lettore potrebbe avere un piccolo
shock), su autori teatrali, su testi forse spinti, sulla censura ai suddetti
testi, su di una recita natalizia alternativa (dove i nostri piccoli eroi
propongono un testo dal titolo stupendo “Diversi, insieme”). Per arrivare allo
zoo.
Mentre
tutta la prima parte è incentrata sulla ricerca del colpevole dell’inagibilità
scolastica, quando se ne scopre l’identità, l’urgenza dei nostri passa sul
piano sentimentale, dove si vuole trovare il modo di avvicinare il Direttore e
la signorina. Questo porterà alla catastrofe dello zoo, che tuttavia si
risolverà in un lieto fine per molti. Di sciuro per Josephine, che ora, passati
molti anni, ci racconta i fatti come sono avvenuti. Purtroppo, e questo a me
dispiace, non sappiamo come si è evoluta invece la storia degli altri cinque
piccoli eroi.
Ma
saltando il filo della trame, quello che risalta appunto sono quelle piccole
digressioni su temi fondanti della cultura umana. La democrazia, dove solo se
tutti sono partecipi potrà diventare il potere del popolo e non di una
ristretta parte dell’umanità. L’inclusione, che i bambini normali tendono ad
isolare i bambini speciali, ma solo diventando come nel testo, diversi ma
insieme, si può costruire un mondo migliore. Un mondo in cui non deve esserci
una censura preventiva sulle idee e sull’espressività, ma solo il rispetto
reciproco, anche e proprio nel modo di esternarsi. Cosa, ad esempio, che non
avviene (ed è magistralmente descritta da Dicker) nei turbolenti rapporti tra
genitori ed insegnanti.
Oltre
a tutti questi temi “alti”, l’altro merito (personale) del testo, è farci
ripensare al noi stessi bambini. Alle domande che facevamo ed alle risposte che
ricevevamo (o alla loro mancanza). Io stesso, non essendo al tempo né
particolarmente socievole né particolarmente agile, tendevo a tormentare mia
madre con una litania interminabile: “Mamma, e ora che faccio?”.
Non
avendo più i genitori a cui rivolgere questa fondamentale domanda, ora faccio
in modo di leggere e di tramare. E di dire al nostro Dicker che va bene
semplificare, va bene cercare un basso profilo espressivo, ma qui, sovente, ci
si compiace troppo di essere bambini e di mettere in croce l’adulto di turno.
Comunque, una lettura con dei meriti, anche se diversi da quelli che mi
aspettavo aprendo il libro. Che io cerco sempre di non sapere nulla del testo
prima di averlo letto.
Non
ho frasi che mi sono balzate in testa, ma per chiarire alcuni punti di quanto
ho tramato, sento il bisogni di riportare un piccolo brano del testo. Il
battibecco tra il poliziotto che deve spiegare la sicurezza stradale ed i
nostri bambini speciali.
Il
polizotto … ha detto: “… Il pericolo maggiore per i pedoni è quello di
attraversare la strada senza guardare”.
Non
eravamo per nulla d’accordo … “Si può benissimo attraversare una strada senza
guardare” ho detto “È il conducente dell’auto che farebbe meglio a guardare
dove sta andando”.
“No,
non potete attraversare se prima non avete guardato” ha detto il poliziotto.
“I
ciechi hanno il diritto di attraversare la strada, no?” gli ho fatto notare.
“Si”,
ha ammesso il poliziotto.
“Però
non possono guidare, giusto?”
“No,
effettivamente”.
“Ecco,
lo vede? È per guidare che bisogna guardare!”
Con il solito contrappasso degli ultimi tempi,
ecco allora qualche pensiero di alcuni grandi maestri tra noir e thriller.
Cominciando con Dashiell Hammett e “Il falco maltese”:
“Aveva
… capito che gli uomini muoiono a caso e vivono solo quando la fortuna, cieca,
li risparmia.” (66)
“Se
non mi ami, non esiste risposta. In caso contrario, non occorre nessuna
risposta.” (216)
Proseguendo con l’acclamato (ma che non entra
mai nelle mie corde) Stephen King ed il suo “Misery”:
“Quando
aveva dichiarato che moriva dalla voglia di sapere cosa sarebbe successo dopo,
non stava scherzando. Perché si continua a vivere per scoprire che cosa succede
dopo” (272)
Finendo con il meno celebrato ma ottimo Dennis Lehane e “La morte non dimentica”:
“Lamentarsi
con qualcuno era un modo di chiedere aiuto, di chiedere a quel qualcuno di
aiutarti a risolvere un problema.” (64)
“Era
proprio tra la gente che uno si rendeva conto di quanto poco tempo trascorresse
con la persona che amava.” (207)
“L’esperienza
gli aveva insegnato che tutti si comportavano in maniera infantile, ogni
tanto.” (275)
Una trama un po’ più lunga che qualcosa salterà nel mese di luglio. Piccoli spostamenti verso il Nord, di cui vi terrò conto. Anche per sfuggire a questo improbabile ed impossibile caldo romano. Tanto caldo che vi abbraccio poco.