domenica 22 giugno 2025

Tra giallo e blu - 22 giugno 2025

Altra trama poliziesca, dedicata ad autori italiani, divisa tra il giallo Mondadori ed il blu Sellerio.

Per il primo abbiamo tre uscite che vanno dal pessimo (Boccia & Lombardi) al bruttino (Luceri) ed al passabile (Franco). Sul secondo siamo più ferrati, ben oltre la sufficienza, con uno storico Savatteri dedicato alle gustose avventure in quel di Màkari ed un neo-uscito con l’ultima fatica di Robecchi, dove compaiono come protagonisti due personaggi che avevano fatto fugaci apparizioni nella serie a me molto gradita di Carlo Monterossi.

Un assaggio del riposo estivo della mente. Anche se vi consiglio di soffermarvi sulle citazioni in coda.

Luigi Boccia & Nicola Lombardi “Strigarium I delitti del noce” Mondadori euro 5,90

[A: 02/02/2022 – I: 25/01/2025 – T: 27/01/2025] ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 209; anno: 2022]

Non conoscevo la coppia di scrittura Boccia & Lombardi, sapendo solo che questo testo era arrivato in finale ad un Premio italiano (ma non lo aveva vinto). E solo documentandomi un po’ ho scoperto i due essere, da soli o in coppia, molto attivi nel panorama di scrittura italiana. Fumetti, sceneggiature, saggi su streghe ed affini, vicinanza elettiva con Dario Argento. Insomma, scrittori di varia abilità, pur in campi che non frequento molto.

Frequento molto, al contrario, i gialli, ed in questa veste ho preso, letto e mal digerito questo romanzo. Certo, un po’ horror, ed anche con qualche collegamento non-fiction, ma la storia non prende, e la soluzione dei misteri, alla fine, è da un lato monca (non tutto viene spiegato) dall’altro poco convincente. In realtà, le uniche cose notevoli di questo abbastanza deludente libro sono la data di acquisto (2/2/22) e quella di inizio lettura (25/1/25), cui si possono associare ragionamenti numerici di varia natura. Per il resto, come detto, il libro è senza mordente, con qualche velleità storica, ma con una trama prevedibile. Ed anche con l’impressione che se ne voglia trarre un seguito. Paura!

L’azione si svolge nel 1678, e subito abbiamo un tuffo all’organizzazione del testo. Ogni tanto, esce fuori la scritta: “tre mesi prima”, che ci costringe a quei salti temporali che, se mal gestiti, rischiano di affossare i testi che li utilizzano. Così, con qualche evidente difficoltà, seguiamo la storia che si barcamena tra il giugno e l’ottobre di quell’anno.

Nel giugno, per la festa di San Giovanni, si dà vita ad un grande sabba intorno ad un grande albero delle noci, che si dice abbia poteri magici. O che nasconda un oracolo femminile, che, proprio in quel 24 giugno, si palesa e passa lo scettro ad una diversa ragazza. Non solo, si dice anche che per i loro riti, le pulzelle usassero il cervello di bambini appena nati, dato che il cervello assomiglia al gheriglio della noce, e che il noce era ritenuto un albero magico.

Mi ero dimenticato, l’azione si svolge a Benevento, ed il noce di Benevento, fin dall’antichità, era ritenuto un albero magico (o diabolico), tanto che nel VII secolo il vescovo di Benevento, san Barbato, lo fece abbattere. Ma le streghe trovarono il modo di farlo rinascere. Fatto sta, che frati del convento vicino denunciano gli strani fatti di queste donne danzanti, ed uno squadrone papale interviene in loco, massacrando un buon numero di signorine. Non quelle che si riteneva essere i capi, che fuggono nel bosco, si riorganizzano e, assalito il convento dei frati, a loro volta ne uccidono un bel po’.

Per portare ordine e comprendere il reale svolgimento dei fatti, il papa Innocenzo XI invia suo nipote, Flaviano Altobrandini (o Aldobrandini, c’è un po’ di indecisione nella scrittura), per indagare. Nipote aiutato da un valente (ma subdolo) spadaccino, Jacopo da Cornedo. Nel corso dell’indagine vediamo morire, uccisi o sucidi, l’economo del convento Romualdo, colui che aveva chiesto a padre Ariberto di indagare sulla scomparsa di bambini, nonché su possibili profanazioni di tombe. Flaviano incontra anche le cosiddette streghe. Una, Vinia, che, catturata e torturata, lo porta a trovare il modo di incontrare sia la capa, Petra, sia le due più agguerrite contro lo strapotere maschile, le gemelle Albina e Alcina.

Facendo tutti i riscontri, alla fine Flaviano si rende conto che la situazione è molto più complessa di quanto sembrava, e che lo scontro tra il Cristianesimo ed il paganesimo delle streghe nasconde anche altro. E forse il Vaticano nasconde qualche colpa che non si sospettava. La soluzione alle varie morti è trovata, ma Flaviano dovrà trovare il modo di badare a sé stesso.

Come detto, però, questa parte è poco profonda, e tocca corde a me lontane. Io preferisco girare nei meandri del rapporto tra finzione e realtà, laddove si parla del papa Innocenzo XI, in carica al tempo degli avvenimenti, anche se il papa è noto per la sua opera moralizzatrice nella chiese e non si sa nulla dei suoi interventi “contra stirgarium”. Un bel cammeo si trova ad un certo punto quando vengono citate le attività caritatevoli di Vincenzo Maria Orsini, all’epoca vescovo di Salerno (e quindi di prossimità con i luoghi dell’azione). Orsini all’epoca aveva 29 anni. Sulla soglia dei 75, venne poi eletto papa con il nome di Benedetto XIII, ed è ricordato come l’ultimo papa nato nel sud dell’Italia.

Ma soprattutto si parla a lungo di un libro, edito nel 1635, e scritto dal filosofo e medico Pietro Piperno, e dal titolo “De Nuce maga Beneventana”, cioè “Della superstiziosa noce di Benevento”, in cui si narrano tutte le leggende intorno al noce, con particolar menzione al ruolo delle donne (ovviamente in quanto streghe).

Un ultima spigolatura, nello stemma della squadra di calcio di Benevento (attualmente in Serie C) è rappresentata una strega che vola su di una scopa.

“Tutte le cose che i nostri occhi vedono sono governate dalla matematica, che è il grande architetto dell’esistenza dell’uomo e dei processi che accadono attorno a lui in cielo e in terra. Nulla accade per caso, perché la matematica non contempla tale possibilità.” (126) [penso non ci sia bisogno di aggiungere altro …]

Enrico Luceri “L’ombra dei vecchi peccati” Mondadori euro 7,90

[A: 07/03/2025 – I: 15/03/2025 – T: 16/03/2025] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 186; anno: 2025]

Enrico Luceri è un autore ben presente nella mia biblioteca (ben nove romanzi) e soprattutto ho la collezione completa delle avventure del commissario Buonocore. Una serie che si regge solo sulla simpatia del commissario e sulle uscite del suo aiutante, l’ispettore capo Angela Garzya. Tanto che il risultato migliore è stato il secondo libro “Le notti della luna rossa”, dove Buonocore e Garzya agivano in un tandem molto affiatato.

Purtroppo, con questo sesto episodio torniamo ai bassi livelli delle riuscite poco ottimali. Primo, per l’assenza di Angela (si dice che è in ferie e poi se ne tace). Secondo perché la storia è semplice, lineare e facilmente comprensibile dall’esterno, mentre poliziotti e investigatori vari sembra vagolino nel buio. Terzo ed ultimo che dalle prime pagine è tutto chiarissimo. Bisogna solo trovare qualche connessione, che arriverà alla fine, e come al solito nelle scritture non all’altezza, arriverà dall’esterno. Così, noi che si era capito i come, veniamo edotti dai perché senza poter aiutare il buon commissario.

La storia si muove su tre piani temporali di cui uno ben distinto, mentre gli altri si intrecciano creando qualche confusione. Il primo è, nel prologo, il tempo della morte di una ciclista, Anna Coronato, investita da una macchina in una stradina a strapiombo sul mare, dove lei casca. Non muore sul colpo, ma la macchina non si ferma, nessuno la salva e lei muore. Lasciando un fidanzato basito ed una madre in una struttura assistenziale di cui Anna a fatica pagava la retta.

Il secondo piano segue la successione dei fatti, in particolare non mollando mai il nostro commissario che viene chiamato sulla scena del primo assassinio. E dove, al primo morto, seguiranno altri cinque omicidi ed un suicidio. il primo morto è Graziano Chianello, piccolo pregiudicato, ucciso nel bagno di un bar da un tizio dall’aspetto dimesso. Poi viene uccisa Luigina Arrighi mentre aspettava il compagno, l’assassino essendo descritto come un tizio vestito con ricercatezza. Poi ci sono due morti strangolati con una corda da bucato, un altro tizio preso a martellate, una persona che si suicida, finendo con un maresciallo della municipale ucciso a coltellate.

Tutti potrebbero essere stati uccisi per motivi vari, ma Buonocore è convinto invece che ci sia una regia ben precisa dietro. Anche perché l’ultimo morto, il maresciallo, era l’unico che non era mai stato convinto della morte casuale della ciclista, ed era l’unico che cerca di trovare qualche idea di prova.

Il terzo piano, che si intreccia con il secondo dal punto di vista della scrittura, anche se si colloca a valle di tutti, è legato alla visita che Buonocore fa a Sergio Zito, ex assistente sociale ora in pensione, che aveva iniziato tempo addietro un dossier capitato casualmente tra le carte del commissario ed il cui contenuto potrebbe aver attinenza con gli omicidi descritti nel secondo piano temporale. Inciso: la vicenda in tempo reale va praticamente da Ferragosto a circa la fine del mese.

Luceri accumula descrizioni, accumula informazioni su tutte le persone che, da vicino o da lontano, possano avere collegamenti con la vicenda. Il tutto soffuso da un sentimento di malinconia, quasi tristezza. Vediamo così Anna la sfortunata ragazza che vive per la madre e muore in bicicletta. Vediamo la donna separata dal marito che trova un nuovo compagno che la sfrutta. Vediamo il piccolo delinquente che sta cercando un suo piccolo riscatto nell’ambiente malavitoso, senza riuscirci. Vediamo il maresciallo che vorrebbe provare che Anna non è morta per un caso, in modo che l’assicurazione possa pagare le cure per la madre di lei, non riuscendoci. Vediamo il signore solitario che cura due pappagallini. Vediamo lo spazzino fidanzato di Anna distrutto dalla morte di lei. Vediamo due piccoli truffatori che si muovono sul limite della legge.

Ma soprattutto vediamo come, alla fine, Buonocore riesca ad unire i puntini del rompicapo, spiegandoci anche i perché, e soprattutto fermando alla fine la mano dell’assassino. Attraverso tutta una serie di motivazioni che servirebbero a spiegare, ma che lasciano spazio a salti interpretativi non dimostrati.

Non è la prima volta che parlo di Luceri. E non è la prima volta che ribadisco come l’esimio romano nato a ridosso del compleanno di Simenon, sappia di sicuro scrivere, e conosca bene il mondo del giallo (non a caso, il titolo di questo romanzo rimanda ad Agatha Christie). Quello che difetta è un po’ di pulizia nel testo, e qualche scatto in meno di onniscienza. Lo scrittore sa, ma nel caso del giallo, anche il lettore deve sapere, altrimenti manca un elemento del triangolo virtuoso scrittore – lettore – trama.

E nonostante tutto, continuerò a leggere di Luceri, sapendo che lui leggerà i miei commenti.

Gaetano Savatteri “Quattro indagini a Màkari” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 25/03/2022 – I: 20/03/2025 – T: 21/03/2025] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 339; anno: 2021]

Chi mi conosce, ed ha letto qualche mia trama, sa che ho un’affezione sincera verso Gaetano Savatteri ed il suo mondo siciliano, mediato anche dagli episodi ben fatti della serie TV. Con un bravo Claudio Gioè nel ruolo di Saverio, la bella Ester Pantano in quello di Suleima e l’ottimo caratterista Domenico Centamore nel ruolo di Peppe.

In questa antologia vengono poi riuniti i primi episodi usciti dalla penna di Savatteri e che erano stati pubblicati in alcune antologie di Sellerio a partire dal 2014, elementi di cui vi do conto nel parlare dei vari episodi. E seppur ho già tramato i quattro romanzi dedicati a Màkari, è bene fare un piccolo riordino delle idee, a partire proprio da queste prime uscite.

Le storie di Savatteri ruotano intorno a Saverio Lamanna, scrittore e giornalista, che conosciamo perché, da uomo immagine di un politico, dopo aver sbagliato una dichiarazione, viene licenziato in tronco. Onde per cui decide (anche per problemi economici) di andar via da Roma e tornare nella sua Sicilia natia. Ed in particolare a Màkari, dove la sua famiglia aveva una casa dedicata all’estate. Casa non più frequentata dopo la morte della madre, e con il padre di Saverio, professore in pensione, che preferisce vivere a Palermo.

In questa località (che sulla carta viene indicata come Macari, con la “C”, frazione di San Vito lo Capo) fa due incontri fondamentali. Il primo è con Peppe Piccionello, factotum locale, devotissimo a Lamanna senior, che rappresenta il lato “giullare” dei racconti. E come ben sappiamo il giullare fa certo anche ridere come il buffone di corte, ma è anche portatore di pensieri e riflessioni spesso molto serie. La seconda è con la giovane studentessa di architettura, Suleima, che per mantenersi agli studi lavora come cameriere nel ristorante di Marilù, una cara amica di Saverio. Suleima che ben presto intreccia una bella storia d’amore con Saverio, fatta di rispetto ed aiuto reciproco.

Il primo racconto, Il lato fragile (Vacanze in giallo, 2014), è in assoluto la prima uscita di Saverio Lamanna. Ne conosciamo quindi la storia, ed i motivi per cui si trasferisce in Sicilia. Vediamo la veloce, e positiva, corte con Suleima, ed i primi incontri con Piccionello. Tralasciando poi le mini-analisi su similitudini e differenze tra scritto e sceneggiato, qui non tutti sanno che Saverio è ormai disoccupato. Così, un prete lo invita ad un convegno sulla Mafia (e qui si potrebbe aprire un dibattito sull’analisi dello snobismo mafia-antimafia sulla scia delle analisi di Sciascia), dove ci scappa il morto, e dove Saverio, per caso o per fortuna, scopre motivi e protagonisti della storia.

Per non dimenticare, ma anche per tirare avanti (visto che non ha più lo stipendio romano), dalla storia precedente ricava un libro quasi giallo che vende. Ma che gli porta anche nuovi grattacapi nel secondo racconto Il fatto viene dopo (La crisi in giallo, 2015). Infatti, qui si parla della crisi industriale, di licenziamenti come avviene ad un sodale di Piccionello (da qui, il nostro Peppe comincia ad avere un suo ruolo). L’amico inscena un finto rapimento chiedendo a Saverio di scriverne, come ha fatto per il precedente. Ma a fronte di una serie di equivoci, e di qualche militare che non sa ragionare, si arriva ad un epilogo tragico, che servirà comunque a Lamanna per scrivere del degrado dell’economia siciliana.

A parte alcuni contorni, il succo del terzo racconto La regola dello svantaggio (Turisti in giallo, 2015), risiede nell’attività richiestagli dall’amica Marilù di fare l’anfitrione ad un gruppo di turisti. Che gira la Sicilia per cantine e ristoranti. Gruppo legato al patriarca danaroso, con donna slava al seguito, figlio trentenne costretto obtorto collo a stare nel gruppo, più alcuni amici inglesi, russi e siciliani. La morte del patriarca porta il racconto a virare sul giallo, anche se per poco, che Saverio tutto capisce. Si ripete qui un motivo di fondo. C’è un giallo, ma quello che interessa a Savatteri è l’atmosfera, e la connotazione di una Sicilia che non è solo mafia. Ma anche piccole astuzie quotidiane, come quella dell’idraulico che affitta all’ignaro Saverio la casa di Màkari, convincendolo poi a non denunciare nessuno, applicando al contrario la regola calcistica del vantaggio (se non la conoscete, divertiti a leggere il racconto).

E per rimanere in tema di calcio, l’ultimo racconto È solo un gioco (Il calcio in giallo, 2016) parla di calcio partendo dal funerale di un cugino di Saverio morto in un incidente di macchina. È un testo molto leggero, con una facile virata sulle scommesse clandestine, e sul sospetto, poi certezza, che il cugino sia morto per altri motivi.

Per tornare con una battuta su libri e video, nello sceneggiato ha un ruolo più presente il buon Piccionello, sempre in giro con pantaloni corti, magliette con slogan sicilianisti e infradito. Probabilmente, la sua presenza sullo schermo riesce meglio che quella del solo Saverio, che invece, nello scritto, con la sua ironia, a me piaceva di più.

Ma nel complesso, è un buon inizio per chi vuol tornare alle radici di Lamanna e un buon ripasso per chi aspetta la quarta serie televisiva. Non sono gialli, si diceva, anche se ci sono morti ed indagini, ma c’è una scrittura leggera, ironica, ma anche con uno sguardo diverso (e partecipe) delle martoriate terre sicule.

“La cucina è come la letteratura: il contenuto non conta, conta come si racconta.” (265)

Alessandro Robecchi “Il tallone da Killer” Sellerio s.p. (Regalo della sig.ra Laura)

[A: 07/05/2025 – I: 08/05/2025 – T: 10/05/2025] &&& ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 340; anno: 2025]

Dopo aver scavato a fondo nell’universo di Carlo Monterossi, e dopo averci dato una bella divagazione raccontando vita e soprattutto morte del padre del giallo italiano, Augusto De Angelis, il nostro poliedrico Robecchi decide di prendere in mano due personaggi minori delle sue trame, comparsi realmente ed in modo ben presente solo nel primo romanzo della serie “Monterossi” (e nell’antologia “Un anno in giallo” al mese di giugno), e di costruirci intorno una gradevole commedia nera.

Perché i due personaggi sono due killer di lunga data, con una solida ed abbastanza agenzia da gestire. Anche se, nel poche uscite libresche, erano stati individuati con due soprannomi soltanto: il Biondo e Quello con la cravatta. Ora, facendone due killer professionisti, si capisce che di nomi possono assumerne tanti, e quindi va bene individuarli così.

I due (che nel mio ricordo erano abbastanza pasticcioni) qui assumono un profilo diverso, anche manageriale, se vogliamo, in un ramo non certo da inserzioni pubblicitarie in tv. Il Biondo è un battitore libero (non sposato, frequenta varie signorine, tornando spesso da una escort di lusso con cui ha un rapporto speciale), è discretamente colto (cita Majakovskij dopo una notte di sesso), ha intuizioni, ma a volte non finalizza le operazioni. Quello con la cravatta invece è sposato con Marta, hanno un figlio (Mattia) in piena tempesta ormonale. Lui per la famiglia lavora su strumenti ottici di precisione. Ed è lui che in genere ha le intuizioni che risolvono.

I nostri lavoratori del crimine hanno messo su un discreto business: quattro o cinque uccisioni all’anno, che portano un budget poco sopra il milione di euro. Anche se poi le spese sono tante, in particolare quelle per la sicurezza (schede telefoniche non rintracciabili, documenti falsi fatti a regola d’arte, ed altri piccoli accorgimenti). Proprio per tener conto della sicurezza bisogna decidere se aumentare il numero dei morti per anno, o aumentare il calibro dei morti stessi, facendoli diventare più redditizi. Questo è il punto debole del business dei nostri, che ha portato Robecchi alla trovata della battuta del titolo.

Interessante il meccanismo di coinvolgimento: inserzioni nei necrologi e passaparola. In questo modo si ha una clientela fidelizzata, ma una difficoltà nel marketing (non tutti vogliono uccidere, ed il passaparola ad un certo punto si ferma).

Comunque, tramite il necrologio solito hanno un incarico, ma mentre studiano le possibilità, il futuro morto viene ucciso da altri. Qui si apre un siparietto niente male sulla concorrenza, sui prezzi al ribasso, e su altre strategie di marketing. Peccato che si parli di morti, e che questi spuntino come funghi. Ma questo permette loro di conoscere Francesca, una killer solitaria, che lavora al ribasso (ah, la crisi…).

Fortunatamente, dopo l’infruttuoso avvio, hanno un nuovo incarico. La ricca Stefania decide di sbarazzarsi dell’amante che, pur ricoprendola di soldi, non si decide a divorziare, anzi si avventura anche verso altri lidi (femminili). Sembra un incarico semplice, hanno tante informazioni, possono mettere su un affare veloce. Peccato che si scopre non solo che il fedifrago è pluri-fedifrago, ma che gli affari non vanno così bene come sembra. Tanto che deve chiedere soldi in prestito a diverse cosche e coschette malavitose. Di modo che i suoi spostamenti sono iper-controllati, dovendo ognuno dei cattivi aver cura del proprio investimento.

I nostri due allora non trovano di meglio, anzi è quello il meglio, che coinvolgere la killer solitaria, in modo da poter sfruttare al meglio i possibili momenti in cui mandare all’altro mondo il finanziere traditore. Robecchi riesce a trovare molti modi di complicare la situazione, senza però fare quei salti di invenzione e di ironia che hanno caratterizzato soprattutto il primo Monterossi. Per cui tutto scivola un po’ così, trascinandosi verso un finale in cui ci aspettiamo di vedere se il contratto arriverà al suo compimento, viste le difficoltà incontrate per via-

Dopo tante peripezie, tuttavia, la storia poteva finire solo in due modi. Francesca li aiuta nel raggiungimento dell’obiettivo e si appresta, in un possibile futuro, a diventarne socia. O quanto meno free lance. Francesca (o Stefania o entrambe) si rivelano essere forze dell’ordine in incognito, e fermano l’azione dei nostri, che finiscono così la loro carriera. Finali entrambi plausibili, a voi sceglierne uno e, se vi va, leggere il libro per verificare la vostra soluzione.

Robecchi cerca di mettere la stessa verve del suo personaggio principe, infarcendo il prodotto di buone mangiate ed altrettante buone bevute (si ricorda senz’altro un Sassicaia 2020). E provando anche qualche altro elemento straniante (il killer con la cravatta contrapposto al suo ambiente familiare, le cene la sera, gli studi e le ragazze di Mattia) ma non riesce a smuovere la satira più di tanto. L’unica rilevanza è aver equiparato l’attività del killer ad un qualsiasi altro business, creando (cercando di creare) un’atmosfera credibile di commedia nera. Qualche critica sociale ci sta (d’altra parte che nasce con Crozza, non può certo dimenticarselo), ma io mi aspettavo meglio dalla confezione finale.

Andrea Franco “L’odore della rivoluzione” Mondadori euro 5,90

[A: 30/08/2022 – I: 23/05/2025 – T: 24/05/2025] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247; anno: 2022]

Eccoci allora al terzo romanzo che Andrea Franco dedica al suo investigatore “storico” (nel senso che si muove in una Roma di centottanta anni fa) monsignor Andrea Verzi. Pur scrivendo di molte cose, Franco, nel ’13, vince il Premio Tedeschi per il giallo con “L’odore del peccato”. Ripetendosi tre anni dopo con un secondo titolo, “L’odore dell’inganno”, che, pur con gli stessi protagonisti, era meno convincente.

Ora, dopo sei anni (io, che ho letture lunghe ne leggo dopo altri tre), con questo ulteriore odore, cerca di rendere più robusta la saga del monsignor, collegandola ad altri eventi storici del periodo e del passato. Purtroppo, un’operazione che riesce solo in parte. C’è qualche personaggio meglio riuscito, c’è Attilio con alcune buone uscite, ma c’è una trama che fa un po’ acqua, quasi che, volendo mirare troppo in alto, si sia perso qualche buon colpo.

Intanto, comincia a collocarci sulla scena della storia. Anzi della Storia. Il primo romanzo comincia nel giugno del 1846, all’insediamento del papa con il pontificato più lungo certificato (Papa Pio IX rimane sul soglio di Pietro per quasi 32 anni). Mentre la seconda storia si svolge nell’agosto dello stesso anno. Qui, invece, siamo nel settembre del ’46 (anche se una parte della vicenda rimanda al 1786), e consideriamo che questi sessant’anni sono importanti.

Comunque, come già indicato nel precedente romanzo, i comprimari del nostro monsignore sono sempre più sbiaditi. In particolare, suor Rebecca, che interviene di quando in quando, senza l’allegria di un tempo. Più spazio hanno sia “il dottor Watson” di Verzi, don Giani, sia “l’ispettore Lestrade” cioè il capitano Agostino Iacoangeli (inciso e pettegolezzo: ho scoperto che il miglior sodale di Franco si chiama Cristiano … Iacoangeli). Anche se non hanno momenti topici nella vicenda. Forse solo Iacoangeli, mostrato in una deriva amorosa positiva ed una strana ludopatia. Ma tutto poco interessante, se non per qualche momento di difficoltà che viene creato al nostro prete detective.

In ogni caso, Verzi deve muoversi in una città che si va riempendo di cadaveri. Un primo, che per lungo tempo non avrà nome, viene trovato nudo e torturato, di fronte al Colosseo, nel luogo della “Meta Sudans” (su cui torneremo). Un secondo massacrato nella sua cella in convento. Un terzo finto suicida da un terzo piano. Il tutto contornato da un quarto che non è un prete, ma un malfattore proveniente dalla confraternita dei macellai.

Verzi cerca di muoversi tra le poche prove che ha, cerca l’aiuto della milizia di Iacoangeli per le indagini fuori del territorio strettamente vaticano, si imbatte su alcuni personaggi storici, come Jean-Achille Benouville, pittore, o alcuni preti, di nome inventato, ma appartenenti ad un’altra casistica storica ben delineata, quella dei “preti refrattari”. Mentre svolge le sue indagini, poi, il nostro detective viene preso di mira, rapito, minacciato, torturato (gli viene amputato il mignolo), poi messo anche alla prova mentre veniva torturata e violentata una signorina (ma questa è anche parte di tutta una storia nella storia che poco interessa il filo rosso della vicenda).

Alla fine, tutto si accentra su una reliquia storica, o para-storica: il velo di Veronica. Per farla molto breve, in una delle stazioni della Via Crucis, una dona asciuga il volto di Gesù, che rimane impresso nel velo. È una “vera icona” di Cristo. Di cui non c’è traccia nei Vangeli, ma molta nella letteratura apocrifa, dove viene para-anagrammato quanto sopra diventando Veronica. Si dice che fosse portato in Vaticano e che avesse ispirato Bonifacio VIII a proclamare il primo Giubileo storico nel 1300. Dopo di che, durante il sacco di Roma del 1527, il velo scompare.

Questa breve digressione serve ad introdurre una serie di personaggi, senza motivi apparenti legati alla Chiesa, che nel corso dei secoli cercavano tracce del velo. L’autore ipotizza che ce ne potessero essere informazioni durante l’inaugurazione del porto di Cherbourg in Francia nel 1786. Ma le persone allora coinvolte non ne vennero a capo. Poco dopo, le stesse, non avendo giurato fedeltà al potere civile, vennero bollate come “preti refrattari”, ed espulsi dalla Francia.

Alcuni ripararono in Italia, smistati in vari conventi. Sarà un amanuense che, copiando un testo, ritrova traccia del velo. Ne parla ad un suo amico cieco, che a sua volta sparge la voce. Ed ecco che i refrattari riprendono vigore, magari alleandosi a nuove forze, cardinalizie e civili.

Tuttavia, tutta la costruzione di Franco è debole assai. Non si trova traccia del libro in copia. La maggior parte degli attori della vicenda, se non è già morta, ora all’epoca di Verzi, ha dagli ottant’anni in su. Ed è un età che non era raggiunta da molti nell’Ottocento. Insomma, tutta la costruzione delle morti su cui indagano Verzi e soci si basa su di un presupposto talmente labile che si fa molta fatica a seguire il corso della vicenda, a capirne i nessi, ed anche ad arrivare alla comprensione delle motivazioni.

Resta, e questa è di sicuro un punto a favore, la ricostruzione del periodo storico, la puntuale fotografia della Roma di quegli anni (ed io mi aspetto che si arrivi anche a parlare del 1848 e della Repubblica Romana), nonché alla descrizione degli usi e costumi del tempo (bella la parte dedicata alla Suburra). Ma ancor migliore è la trovata iniziale, del morto vicino alla fontana “Meta Sudans”, che era una fontana prospicente il Colosseo (e che rottura, l’autore filologicamente lo chiama Anfiteatro Flavio), di forma particolare, già in rovina all’epoca dei fatti, e poi definitivamente distrutta durante il fascismo per poter disegnare la via dei Fori Imperiali (uno dei tanti scempi mussoliniani).

Vorrei finire soltanto con una punta di dispiacere musical-filologico. Uno dei morti è frate Attenni, che, come dissi nel primo libro, va di sicuro ricordato nella mia mitologia privata come uno dei finti sponsor di quella banda musicali di miei amici folli, i Niente di Precyso di Vito Asta. Il frate muore, ma Vito, quest’anno, riesce a cantare in televisione. Un mito, per me.

Sottofinale: le due frasi che mi sono rimaste nella penna sono anch’esse da ricordare. La prima, per bocca di monsignor Verzi, credo sia un assunto “alla Catalano” mirabile. Il secondo mi riporta invece ad un altro mio amico, ed alla sua attività in quel d’Abruzzo.

“Più cose so, meno sono quelle che ignoro.” (71)

“[Padre Antoine] veniva da Morrovalle.” (84)

Nella solita alternanza tra trame e citazioni, visto che vi ho inondato di giallo, vado a passare sul registro serio dei pensieri con due signori autori. Il primo da me molto amato (grazie anche ai suggerimenti della mia amica Luana) è Paul Auster, che nel mirabile “Timbuctù” esprime un pensiero che farebbe la mia felicità:

“È tutto quello che ho sognato… Migliorare il mondo. Portare un po’ di bellezza negli angoli grigi e monotoni dell’anima. Ci puoi riuscire con un tostapane, ci puoi riuscire con una poesia, o tendendo la mano a uno sconosciuto. Non importa la forma. Ecco, lasciare un mondo un po’ migliore di come l’hai trovato. È la cosa più bella che possa fare un uomo.” (50)

Il secondo, con i suoi alti e bassi, che non sempre convincono, è Philip Roth che in “Pastorale americana”, un libro che a me non è piaciuto, comunque dice alcune cose mirabili:

“Ho passato i sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo.” (27)

“Scrivere ti trasforma in una persona che sbaglia sempre … [con] l’illusione che forse un giorno l’imbroccherai.” (74)

“Perché le cose sono come sono? Una domanda senza risposta, e fino a quel momento era stato così fortunato da ignorare addirittura che esistesse la domanda.” (99)

“La vita è solo un breve periodo nel quale sei vivo.” (266)

Una giornata cupa, che tutti non avremmo voluto vedere. Spero che la forza della ragione porti consigli per fermare una valanga che a tutti fa paura. O almeno a me ne fa tanta. Ragionare con i muscoli è un modo che mi ha sempre visto dall’altra parte. Mi affido alla seconda parte del ragionamento gramsciano su intelligenza e volontà. Ma troppo ci sarebbe da ragionare in proposito, non essendo qui la sede, né avendone io le capacità, mi limito a mandare un pensiero positivo a tutti, accompagnato da un grande abbraccio.

domenica 15 giugno 2025

Anima e Mistero - 15 giugno 2025

Sono due delle tante collane noir di Repubblica che qui tramo con quattro autori/autrici significativi del panorama giallistico italiano. Abbiamo due avventure di Giorgia Contini cui la penna di Grazia Verasani non restituisce la verve delle prime uscite. C’è il vicequestore aggiunto Paolo Nigra della collaudata coppia Paolacci & Ronco. C’è l’ex-commissario ora avvocato Max Gilardi uscito in tarda età dalla penna della compianta Elda Lanza. E per finire il commissario Nené Indelicato parto della penna crozziana di Gaspare Grammatico.

Una buona cinquina in crescendo.

Grazia Verasani “Senza Ragione Apparente” Repubblica Mistero Noir 33 euro 8,90

[A: 11/02/2025 – I: 09/03/2025 – T: 10/03/2025] && + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 204; anno: 2015]

Grazia Verasani è da sempre una scrittrice che seguo con interesse, in particolare in questa serie, abbastanza diluita negli anni, che vede al centro l’investigatrice privata Giorgia Contini con intorno la sua città, Bologna. E ne leggo sin dalla prima uscita di vent’anni fa, “Quo vadis Baby?” (anche se lo lessi solo nel 2007). Due anni dopo fu la volta di “Velocemente da nessuna parte”, seguito a ruota da “Di tutti e di nessuno” e da “Cosa sai della notte”. Poi la sua scrittura mi rimase nell’ombra, e solo ora, a distanza di più di dieci anni, ne riprendo la lettura, cercando anche di riprenderne le fila.

Giorgia Cantini, allora, viene coinvolta dal padre nell’impresa famigliare di un’agenzia di investigazione privata. Perché il padre è una forte presenza, essendo la madre morta lei ancora piccola. Ed inizia (nel primo libro) cercando di trovare (trovandolo) il bandolo della matassa della morte della sorella avvenuta dieci anni prima. Un suicidio che forse non lo è. Anche se tutto ciò passa nel dimenticatoio. Come vi passano i vari amorazzi delle prime uscite. Mentre ora, con più solidità, ha un rapporto di convivenza con il capo della squadra mobile, Luca Bruni. Rapporto complicato, con molti alti e bassi, ma che fa solo da sfondo alla vicenda al centro della trama.

Giorgia, infatti, viene incaricata dalla madre di Emilio Matera di indagare sulla morte del figlio avvenuta otto mesi prima. Suicidio, sembra proprio, ma con scarse spiegazioni. Parlando nell’ambiente scolastico, Giorgia si avvicina a Valerio Britti, il miglior amico di Emilio. Ma questi, “senza una ragione apparente”, precipita dall’ultimo piano del liceo dove tutti loro studiavano. E Giorgia si arrovella, pensando che la sua indagine abbia smosso qualcosa che forse non doveva.

Sempre indagando tra situazioni anomale del periodo della morte di Emilio e l’ambiente stesso del liceo, Giorgia viene aiutata anche da Mattia, il figlio di Luca che non ha un buon rapporto con il padre ed attraversa un periodo “buio”, ma il coinvolgimento con Giorgia lo farà un po’ aprire.

Intanto, tirando le fila, Giorgia scopre la vicenda di una donna che per l’appunto otto mesi prima era stata falciata da un pirata della strada. Parlando con il compagno scopre che in quel periodo la donna si era allontanata da lui, avendo uno stretto rapporto con Toni Speranza. Toni è il rude e manesco padre di Pietro, che, con Alex, Emilio e Valerio costituiva un quartetto di ragazzi molto uniti, nel bene e nel male.

Dall’esame dei verbali, Giorgia scopre che pochi giorni prima di essere travolta da una macchina, la donna aveva fatto una interruzione volontaria della gravidanza. E contemporaneamente aveva deciso di chiudere con Toni. Giorgia riesce a legare tutti i fili, a scoprire ed a far parlare chi deve dire e fare. Ma il suo compito non è di polizia. Lei riferisce alla madre di Emilio. Poi sarà qualcun’altro, deputato alla bisogna, che definirà le responsabilità individuali di ognuno.

La cifra di Grazia Verasani, pur in un contesto che non è di grande coinvolgimento, rimane in ogni caso costante. La bella atmosfera di Bologna, che non guasta mai. Citazioni di libri, anche questi ben dosati senza troppe sbavature. Ma soprattutto, data anche la tipologia di provenienza dell’autrice, la musica di fondo. La musica di Giorgia, adeguata ad una quarantenne di ascendenze rock. Ma anche la musica dei giovani, con quelle tendenze che, a me, non è che risultano molto gradite, e che tuttavia sono presenti nell’universo giovanile. E fa bene Giorgia, quando ne parla ad esempio con Mattia, a non trincerarsi dietro cortine difensive, ma aprirsi ad esperienze diverse e quindi da comprendere.

Inoltre, il nocciolo duro della scrittura della nostra autrice è l’eccentricità rispetto a possibili delitti. In realtà, si indaga su disagi, su spinte altre, con quell’empatia che l’investigatrice Contini mette in ogni sua indagine. E qui, allora, ben si sviluppa una riflessione sul rapporto tra genitori e figli, soprattutto sull’assenza dei primi, sul loro delegare il proprio ruolo ad altro, di modo da non dare ai figli punti di riferimento solidi. Magari non accettati, ma almeno da affrontare.

E di converso, risalta anche la superficialità dei rapporti tra i giovani, che nella poca profondità di riflessione sfocia spesso in una crudeltà “da videogioco”. Come si dice in altro libro da poco letto, che nel videogioco muori, ma poi rinasci e ricominci da capo. Nella vita, si muore. E basta.

Grazia Verasani “Come la pioggia sul cellofan” Repubblica Anima Noir 30 euro 8,90

[A: 17/01/2022 – I: 25/03/2025 – T: 26/03/2025] && + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2020]

E con questo siamo arrivati alla penultima uscita dell’investigatrice Giorgia Cantini partorita dalla penna dell’ottima Grazia Verasani. Ed è stato un parto difficile, che sono passati ben cinque anni dall’episodio precedente. Dove credo anche che ci siano delle difficoltà intrinseche in tutta la serie, visto che per l’ultimo episodio passeranno altri cinque anni.

Anche se sono passati cinque anni, comunque, ci sono elementi costanti nella vicenda ed elementi che si evolvono. Ovviamente, dato il passato di Grazia, non può mancare la musica, sia in quella di qualche nuovo locale, sia in quella, cantautorale ed un po’ datata, del protagonista della vicenda. Ma soprattutto gli agganci cinematografici e letterari che non mancano mai, e qui mi hanno ricordato il bellissimo “Vertigo” di Hitchcock e il libro “D’entre les morts” di Boileau e Narcejac che servì di base alla sceneggiatura.

Non manca certo la segretaria tuttofare Genzianella detta Gen (anche se questa volta ha un ruolo solo di contorno). Manca invece, ed è questo il punto dolente che la scrittrice ci presenta sin dalle prime pagine, il commissario Bruni. A seguito di un brutto incidente del figlio Mattia, Bruni lascia Giorgia e torna alla moglie ed alla famiglia. Questo sarò un tormentone per tutto il libro, e forse uno dei punti più “pallosi”. Cioè c’è stata una rottura, Giorgia soffre come un cane, ma tornarci sopra ogni due pagine, senza aggiungere niente di nuovo, alla fine risulta un po’ frustrante per un lettore che si aspetta una confezione libraria un po’ più vivace.

Rimane, ancora, la coprotagonista Bologna, con quella bella immagine della pioggia, laddove non serve l’ombrello se si cammina sotto i portici. E c’è, fuori dal contesto del filo rosso del libro, un paio di considerazioni sul mondo attuale e sul (cattivo) uso di cellulari ed affini che non posso che condividere. Colpisce l’immagine che ci dà Grazia di queste monadi che si aggirano per il mondo, risultando alla fine ben più solitarie proprie nella ricerca di un contatto sociale.

Comunque, triste ed un po’ bevuta per le vicende personali, grazie ad i buoni uffici di un amico, Giorgia si ritrova in campo. Un cantante, Furio Salvadei, che ha fatto furore anni prima, ma che ora, viaggiando sui cinquanta, si sta ripiegando nell’ombra, è oggetto di stalkeraggio da parte di una signorina veneta, tal Adele. Il nostro Furio chiede allora a Giorgia di verificare questa persecuzione, e di trovare il modo di mettervi fine.

Qui si incentra tutta la parte che serve ad introdurre informazioni che provano a portare fuori strada il lettore, ed è anche un po’ troppo arzigogolata. Comunque, Giorgia, seguendo Furio, incrocia una bionda che sembra proprio Adele, e che si comporta da buona persecutrice. Ma poi ne perde le tracce, per trovare casualmente una signora bruna che sembra la fotocopia di Adele in altri colori. Purtroppo, non è Adele ma tal Miriam.

Nelle more, Furio che non si dà pace di non essere sulla cresta dell’onda, un po’ beve, un po’ rimorchia donzelle (pentendosene subito), e molto si lamenta di essere stato lasciato. D’altra parte, se non sai tenere a bada l’uccello … E comunque si palesano anche Adriana, avvocato storico di Furio, che lo assiste nelle cause di stalker. Si aggira alle costole di Furio il suo tuttofare Alberto, che aiuta, ordina, prova ad incanalare Furio su vie “normali”, ma che, in ogni caso, ha il suo tornaconto sui guadagni accumulati dal nostro. E si fa vivo infine anche Rocco, il fratello (ma poi si scopre fratellastro), fotografo che si è rifugiato all’estero, non si sa se per star lontano da Furio o dal fisco.

Il tutto precipita una notte in cui Furio, deluso di sé, beve sino allo stordimento entrando in coma etilico. E nello stesso tempo, viene trovata morta Miriam di cui sopra. Grande sembra la confusione sotto il cielo, ma questa volta non c’è una gestione oculata degli indizi e dei tempi dell’indagine. Intanto, perché Giorgia ogni due per tre ripensa a Bruni ed alla sua storia passata. In questo non certo aiutata dallo stronzo che non trova di meglio che dirle di rimanere amici. Ma che siamo in un film degli Anni Trenta?

Comunque, frugando tra le cose di Miriam, la nostra investigatrice trova una parrucca bionda, ed alcune interessanti fotografie. Così, senza che noi si possa intervenire con ragionamenti polizieschi, il caso viene risolto, sempre nella direzione dei finali alla Maigret. Un conto è la verità ed un conto è la giustizia.

Unico momento da condividere con Giorgia quando, riflettendo sulla fine della sua storia, si dice quanto sia facile perdersi di vista, ti volti e la persona con sui stavi parlando fino a un attimo prima non c’è (e non parliamo solo di amori, ma anche di amicizie).

Grazia Verasani sembra aver perso un po’ di verve in questa sua sesta storia di Giorgia, come se la fine della storia con Bruni abbia congelato la protagonista e la scrittrice. Si sente un blocco, ed anche uno sforzo per superarlo. Qui, purtroppo, non c’è ancora riuscita, siamo ancora un po’ in ruggine. Speriamo meglio per Grazia nel futuro.

Antonio Paolacci & Paola Ronco “Il punto di vista di Dio” Repubblica Anima Noir 31 euro 8,90

[A: 21/01/2022 – I: 11/03/2025 – T: 13/03/2025] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 377; anno: 2020]

Farà senz’altro piacere ai miei cugini “deandreiani” che anche questo secondo testo della coppia scrivente Paolacci & Ronco faccia riferimento al grande Faber. Ricordo che il primo volume della serie si intitolava “Nuvole barocche” (titolo del primo singolo inciso da Faber). Questo invece, nel titolo, rievoca una riga del testo della canzone “Khorakhané (a forza di essere vento)”, contenuta invece nell’ultimo album inciso in studio nel 1986 (“Anima salve”).

Ma d’altra parte non poteva che essere comunque un omaggio a Genova anche questa scrittura, visto che seppur da località diverse (Paolacci da Maratea e Ronco da Torino) i nostri autori hanno eletto Genova come loro luogo di vita e del cuore. Ed in effetti è proprio Genova l’attore non protagonista che pervade il testo. Dove, a prescindere dalla trama, ci aggiriamo per i carrugi, ovviamente perdendoci. Ma anche scoprendo piazze, chiese, bar. Vedendo inutili turisti perdersi senza posa. Ed immigrati più o meno regolari cercar di trovare il modo di arrivare a sera. Una città che, pur nella mia poca frequentazione, sempre mi torna alla mente (risalendo per via del Campo).

Prima di entrare nella trama e nelle vicende, colgo l’attimo per citare altri due rimandi che anche in questo testo sono presenti. Ovviamente, Andrea Cotti con il suo commissario di ascendenze cinesi, Luca Wu, che ha introdotto il nostro vicequestore alla pratica del Tai Chi. Ma anche altrettanto ovviamente, l’omaggio ad uno dei loro riferimenti di genere, cioè Carlo Lucarelli, che anche qui vediamo tirato per i capelli menzionando i non ortodossi comportamenti del suo ispettore Coliandro.

Comunque, migliorando in scorrevolezza la scrittura, anche se la trama gialla non è eccelsa, i nostri confezionano una buona seconda storia (cosa sempre difficile se la prima ha avuto un buon successo), intorno al vicequestore aggiunto Paolo Nigra ed alla sua squadra. Che ovviamente apprezziamo in tutto il lato “privato” della storia (visto che in realtà a parte il supporto organizzativo tutte le deduzioni vengono dal nostro). C’è l’assistente capo Marta Santamaria, sempre con la sua pipa in azione e con la sua sboccata parlata romanesca. C’è l’ispettore Caccialepori, sempre più immerso nella sua ipocondria, anche se qualche sua uscita laterale ci fa ben sperare.

C’è l’amica Sarah ed il suo rapporto conflittuale con il capo di Nigra, il sostituto procuratore Evangelisti. Ma soprattutto c’è Rocco, il compagno di Paolo, legati da un rapporto ormai triennale, leggermente incrinato dall’impossibilità di Rocco di palesarsi, visto che, da attore, è diventato star di una fiction televisiva in cui, per antitesi, interpreta un poliziotto, il commissario napoletano Scognamiglio. E per di più, un poliziotto sciupafemmine. Ma sono gradevoli i siparietti privati dei nostri, tra gricia in orrore d’eresia (“mai mangiare una gricia lontano da Roma” sentenzia Santamaria), manicaretti super carboidrati ideati da Nigra e grandi bevute del loro cocktail preferito, il Ti’ Punch (o “petit ponch”), una bevanda caraibica costituita da rum agricole bianco, lime e sciroppo di zucchero, in proporzioni a piacere.

Per quel che riguarda il giallo, l’idea costruttiva è senz’altro divertente. C’è una congregazione di persone anziane, o quantomeno avanti negli anni, che mette su un circolo di giallisti. La composizione è variegata: professori in pensione, vedove di professori in pensione, ex-dottoresse di base, un ipoudente maresciallo dei carabinieri, due farmacisti in attività ed uno scrittore presupponente che ovviamente pubblica da sé i suoi libri.

Il fulcro del circolo è l’ex professore Sergio Bruzzone, sempre molto sopra le righe, sempre a prendere in giro e mettere in difficoltà tutte le persone che frequenta. Bruzzone è anche celiaco, per questo la domenica, fa per primo la comunione con delle particole senza glutine preparate per lui dai suoi amici farmacisti. Peccato che subito dopo la comunione, si accascia sul banco della Chiesa, la sua amica dottoressa accorre e ipotizza un avvelenamento. Cosa che verrà confermato dal medico legale: avvelenamento da cianuro.

A parte alcune digressioni sul cianuro, tutta la storia si avvolge intorno ai rapporti all’interno del circolo, dove tutti hanno, in grado più o meno forte, avversione per Bruzzone e non sono certo dispiaciuti della sua dipartita. Quello che riesce difficile comprendere sono le modalità dell’avvelenamento. Che il sacchetto da cinquanta particole gluten free non contiene altri segnali di cianuro. Che comunque le particole erano in sacrestia non custodite e potevano essere accessibili a chiunque.

Mentre i nostri autori si divertono anche a spingere verso soluzione assurde (tipo un attacco islamico alle ostie sacre), Nigra adotta il metodo ragionativo “alla Sherlock Holmes”, quando hai eliminato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità. Ed alla verità arriveremo, anche se sembra possibile accorgersene molto prima del vicequestore aggiunto.

Nigra, tuttavia, rimane simpaticamente nei nostri cuori, sperando in una nuova e leggera puntata delle sue storie.

Elda Lanza “La cliente sconosciuta” Repubblica Anima Noir 41 euro 8,90

[A: 01/04/2022 – I: 31/03/2025 – T: 01/04/2025] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 233; anno: 2015]

Elda Lanza, che tutti ricordano come la prima presentatrice della televisione italiana (nel 1952 a 27 anni), come ho detto nei primi tre libri tramati, è stata molto altro. Laureata alla Sorbona, dove frequentava Sartre, poi esperta di bon ton, nonché moglie e madre affettuosa, nel 2012 (alla veneranda età di 87 anni) tira fuori dal cassetto una serie di idee “gialle” che diventano ben presto dei libri di discreto successo, tutti editi da Salani.

Sono gialli imperniati sulla figura di Massimo Gilardi (detto Max, così come il figlio di Elda). I primi tre sono tomi assai ponderosi, che servono, in un certo senso, a delineare la figura del protagonista, ed a farcelo conoscere entrando nei meandri della sua evoluzione. Nel primo libro è un commissario in quel di Milano che, mentre risolve un caso spinoso, trova il modo di sposare una collega italo-etiope, di farci un figlio, per poi essere coinvolto in una catastrofe: una bomba fa saltare in aria moglie e figlia.

Gli altri due libri servono a farci seguire Max prima nell’abbandono della polizia, nel suo ritorno alla Napoli natia, dove decide di riprendere la sua professione di base (nonché paterna, anche se con Gilardi sr non va né andrà mai d’accordo). Eccolo quindi avvocato, con uno studio strampalato che accetta anche casi poco ortodossi. E dove viene aiutato da Giacomo Cataldo, suo amico d’infanzia, che ne diventa un po’ il Paul Drake di Perry-Max. Nonché da Laura Licasi, prima assistente e giovane di studio, poi avvocato essa stessa. Ed anche dal nuovo giovane di studio, l’immigrato Aziz.

Nelle more, dopo varie storielle poco significative, si innamora della giovane Paola, la sposa e fa anche un figlio con lei. Ma questa volta (almeno per ora) le vicende familiari sono in sottofondo, dato che solo Max con il suo acume, Cataldo con le sue ricerche e Laura con la sua presenza in primo piano, ci fanno partecipi della vicenda e delle sue soluzioni.

Una vicenda che inaugura la seconda vita dell’avvocato Gilardi. Come confessa l’autrice in un’intervista, a dispetto dei primi libri, troppo voluminosi, da qui in avanti, le vicende saranno contenute in spazio e tempo. Così da consentire al lettore di seguirle meglio. L’idea, condivisibile in principio, vedremo che a valle si scontra con una fine forse troppo veloce della vicenda.

Una vicenda che nasce da un curioso incarico che riceve Gilardi. Viene convocato per un caso “serio” (come dice la donna), da tal Lidia Morandi. Ma quando arriva, trova la polizia e Lidia uccisa da sette pugnalate. Avendo però ricevuto un anticipo per la vicenda, che tuttavia non conosce, Max decide di calarsi nel panno della vittima e di cercare di capire, insieme alla polizia, i motivi ed i modi della sua morte.

Si sviluppa così un disvelarsi capitolo dopo capitolo della vita di Lidia, dove, unendo i puntini di tutte le informazioni che lo studio Gilardi riceve durante le indagini, avremo alla fine il dipinto di una figura forse diversa da come ce l’aspettavamo.

Scopriamo che Lidia, venti anni prima, aveva vinto, in Brasile, un concorso di bellezza, a scapito di una gloria locale. Poi aveva sposato un miliardario americano, aveva divorziato riuscendo ad ottenere una liquidazione principesca. Quindi era tornata in Italia, dove si era accompagnata per quattro anni con Loris, un architetto rampante. Ma per una serie di incompatibilità, lui la molla e lei lo stalkera a lungo. Fino a che, investita da un SUV, le amputano le gambe, e comincia una vita ritirata. Anche se, apparentemente, più gioiosa della precedente.

Loris era stato indagato, ma prosciolto, dall’incidente con il SUV, e allo stesso tempo si era unito ad una giovane brasiliana (molto giovane). Non solo, pochi giorni prima della morte, accompagnata dal padre di un suo amico meccanico, era andata dal notaio a modificare il testamento.

Alla fine, bisognerà trarre le fila di chi aveva interesse e modo di compiere i misfatti. Loris per trasferirsi in Brasile con Carmen? Carmen che si sentiva perseguitata da Lidia? Luisa, un amica di Carmen, che era l’unica del vecchio cerchio di amici che ancora frequentasse Lidia? Rosa, la badante, che aveva i tempi tecnici per l’omicidio ma non i motivi? Léon, l’uomo di Rosa, un immigrato che forniva di nascosto a Lidia la morfina? Franco, il meccanico, che forse sa più di quanto dice sull’incidente? E questi sono solo i più vicini a Lidia.

La scrittrice, dopo aver condotto bene le danze, mescolando Max, Luisa, Loris ed altre figure, per arrivare ad avere un quadri a tutto tondo della morta, nelle ultime venti pagine si avvia verso una soluzione dei “misteri” spesso sorvolando passaggi ed anche omettendo i modi perché Max sia arrivato alle sue ipotesi, poi verificate e vere. Questa forse è la pecca più grave: a lungo si dice che Max è un grande pensatore, che riflette molto, che ha qualcosa in testa. E poi, si risolve tutto, quasi senza passare da Max.

Non so se, per qualche strano giro del caso, gli altri otto libri che Lanza scrisse prima di morire a 94 anni entreranno nella mia biblioteca. Per ora, la storia di Max e di Napoli mi è sufficiente.

Gaspare Grammatico “Le Spine Del Ficodindia” Repubblica Mistero Noir 41 euro 8,90

[A: 28/03/2025 – I: 07/04/2025 – T: 08/04/2025] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 217; anno: 2024]

Gaspare Grammatico è essenzialmente un autore di testi televisivi, non a caso da anni nella squadra che scrive i programmi per Maurizio Crozza. E come molti autori, spesso ci si trova che è bello ed appagante scrivere anche in proprio. Non so neanche in base a quale paradigma mentale, poi, spesso questa scrittura si orienta nell’ambito di letteratura di genere.

Così sembra aver fatto il nostro Gaspare, introducendo, da buon trapanese, una storia siciliana. A me dispiace solo che questo sia il secondo episodio che vede protagonista il commissario Nené Indelicato, visto che il primo, uscito presso Mondadori, non ho avuto modo di vederlo comparire nel mio orizzonte librario.

Dobbiamo quindi trovare alcuni punti di riferimento un po’ poco stabili, desunti dalla trama e da accenni sparsi. Quello che è palese è che Nené è un padre single che cresce (direi abbastanza bene, con tutti i distinguo del caso) Sara, la figlia quindicenne. Non sappiamo, qui non se ne parla, i motivi per cui la madre di Sara si sia allontanata, ma di sicuro è viva da qualche parte (da accenni di Sara stessa).

Nené è onestamente distratto come tutte le persone della sua età (non espressa, ma con una figlia quindicenne, si fanno presto calcoli normali), discretamente preoccupato della crescita della figlia (come trovare un preservativo in camera), ragionatore il giusto nelle cose di lavoro e molto simpatico (a me) nelle scelte alimentari, sia quando raramente cucina, sia nella rete di conoscenze tra porto e ristoranti di buona forchetta.

Ha una squadra di agenti che lo aiutano nelle incombenze quotidiane, ma soprattutto ha una vice, Salvina Russo, con cui ha un affiatamento che spesso va al di là delle operazioni di polizia. Basta uno sguardo e via. Russo ha anche una vita privata gestita da tal Bea, che al momento non ho inquadrato in modo definitivo.

Come si potrebbe dedurre dal titolo, la parte gialla è come il ficodindia, irta di spine. E come per il ficodindia che di spine ne ha due tipi diversi, anche qui le indagini sono due, e ben diverse. Il ficodindia, come ben si sa, ha in effetti le spine propriamente dette, lunghe fino a due centimetri, e poi i glochidi, sottili spine lunghe pochi millimetri, ma spesso molto più fastidiose e difficili da togliere.

Così le indagini sono due. Una coinvolge una serie di persone che vengono prese a mazzate (anzi, per dirla in dialetto, a timpulate) apparentemente senza motivo. Una professoressa colpita con un mattarello. Un’anziana signora prima colpita con una borsa piena di fichidindia e poi con una padella. Un prete preso a schiaffi. Sembrano azioni isolate e sterili, ma partendo dall’ultima, e mostrandosi testardo come un mulo (anzi, come un mulo e mezzo), Nenè viene a capo della piccola storia, risolvendola a modo suo. Anche se, per la sua spiegazione, non usa tante parole. Forse questa è una pecca, che magari ci sarebbe voluto qualche rigo in più.

L’altra indagine è di sicuro più pungente, cioè più dolorosa. Parte dall’invio a radio e giornali, di alcuni denti che il patologo di turno fa risalire senz’altro ad individui di sesso femminile. Quando poi una studentessa narra della scomparsa di due sue coinquiline, il meccanismo da killer seriale si mette subito in moto. Si cerca tra persone di misoginia conclamata, magari unita a tendenze manesche. Si mette anche una poliziotta a far da esca.

Pochi i passi avanti, anche dopo il ritrovamento di altri denti. Molti passi avanti, invece, quando si trovano foto e riscontri ed altri collegamenti, che non vi narro, ma che porteranno Nenè e Salvina prima ad ipotizzare, poi ad incastrare il colpevole. Alla fine reo confesso, con una punta di follia (o forse più di una punta) che non si capisce se congenita o recitata. Fatto sta che le spine piccole e dolorose, sono tante, ed alcune non verranno più via.

Ora, se le parti gialle sono poco appariscenti, l’una giustamente stemperata dall’ironia, l’altra un po’ campata per aria, il libro si regge sul contorno. Sui personaggi, sulle loro azioni quotidiane, e sulla poco nota ma bella ed interessante città di Trapani (forse ancor meglio se vista e vissuta da Erice, città natale del nostro scrittore). Il bello e consolatorio momento del quotidiano è il farci incontrare da parte di Gaspare alcune persone di sicuro affetto. Come lo stesso Nenè che acquista materiale elettrico che non gli serve solo per far un’elemosina nascosta ad un negoziante di poco successo. O come il pescatore, che tornando a casa dopo aver venduto buona parte del pesce pescato, quello che avanza lo regala alle persone meno abbienti che incontra per strada.

Insomma, un libro di buona fattura e di sapiente scrittura, con qualche punto in più in prospettiva magari di altre puntate (o perché no, di una sua serializzazione televisiva).

Non avendo grandi citazioni gialle, vi sommergo con dei bei pensieri di un autore a me caro, lo scozzese Alexander McCall Smith tratte da una delle sue serie interessanti (anche se non la migliore) “44 Scotland Street”. Vi chiedo di meditare sulla seconda, grande riflessione:

“Capiva quando una si stava innamorando di lui. Era il modo in cui lo guardavano, leggermente fuori fuoco. Doveva essere una reazione chimica. L’effetto dei ferormoni faceva appannare gli occhi delle donne. Era strano, ma l’aveva notato tantissime volte quando le donne lo guardavano.” (203)

“- Perché la gente fotografa? … - Perché non è capace di guardare quello che ha davanti agli occhi e soffermarsi a pensarci per più di due secondi. È un segno di distrazione. Vedono, fotografano e passano oltre. Vedono ma non guardano.” (220)

“Davvero aveva ancora in mente quelle cose, a cinquant’anni? Era triste pensare che desiderasse ancora la compagnia di ragazze come Sally perché in quel caso era condannato a smaniare per persone che inevitabilmente erano interessate a uomini più giovani e non a lui. Non che fosse brutto, anzi, e gli avresti dato qualche anno meno, forse poteva anche passare per un quarantenne.” (259)

“Sebbene non si possa dimostrare che siamo liberi, dobbiamo comportarci come se il libero arbitrio esistesse, perché altrimenti la vita sociale sarebbe impossibile.” (262)

“Lui sapeva cosa voleva dire amare senza speranza e sapeva che l’unico modo per affrontare lo sconforto era guardare in faccia la propria infelicità. Ed era importante capire, pensava, che l’ultima cosa che l’infelice desidera è sentirsi ricordare le sofferenze più grandi della sua. Dire a una persona col mal di denti che altri hanno un mal di denti peggiore non è di nessun aiuto.” (268)

“- Non ci si può impedire di provare qualcosa per un’altra persona. Non si può e basta. … - Oh, sì che si può. … Ci si può benissimo impedire di amare qualcuno. È sufficiente cambiare il modo di guardarlo.” (279)

 “- Sono così sollevata di non dover vivere in un paese noioso. – Per esempio?... – Il Belgio … Il Belgio è noiosissimo…. Non ho mai capito a cosa serva il Belgio.” (271)

“Direi che ha un disturbo narcisistico della personalità. Si tratta di persone molto interessanti. Non sono necessariamente cattive, anzi, ma il modo in cui trattano gli altri può rivelarsi distruttivo.” (307)

Arrivati alla metà di giugno, non posso far altro (a parte soffrire il gran caldo romano) che ringraziare la grande famiglia dei miei cugini dove, anche se con fatica, siamo riusciti a rendere un omaggio corale alla nostra grande nonna ed a tutti i nostri zii: grande meeting con ben 14 cugini su 24 presenti sul territorio (e molti assenti giustificati per convegni e convivialità fuori Roma). Un giorno torneremo anche sulle famiglie, per ora si è parlato troppo quindi vi abbraccio.

domenica 8 giugno 2025

End of Murakami - 08 giugno 2025

Nel senso che finalmente completo la lettura dell’opera omnia di uno dei miei scrittori preferiti, Haruki Murakami, con due raccolte di racconti (l’ottima “Uomini senza donne” e l’interessante “Prima persona singolare”), un buon saggio (“Il mestiere dello scrittore”) ed i suoi due ultimi romanzi lunghi (non molto apprezzato da me “L’assassinio del commendatore”, più interessante anche se forse troppo complesso “La città e le sue mura incerte”).

Aspettando, come tutti i Murafan, che prima o poi riceva il Nobel, vi lascio alla lettura.

Haruki Murakami “Uomini senza donne” Corriere – Murakami 15 euro 8,90

[A: 19/08/2020 – I: 12/12/2024 – T: 14/12/2024] - &&& e ½       

[tit. or.: 女のいない男たち Onna no inai otokotachi; ling. or.: giapponese; pagine: 222; anno 2014]

Eccoci di nuovo ad uno dei miei autori preferiti, con uno dei suoi ultimi testi (di solo dieci anni fa) e con alcuni motivi per essere rimasto ad un buon livello di interesse. A partire dal titolo, che, una volta tanto, rispecchia il titolo originale. Ed a partire dal fatto che, essendo racconti, raccolgono un mezzo voto in meno. Anche perché, pur se frammentari, hanno uno spirito comune e congruente. È una di quelle raccolte che si stringono intorno ad un’idea e la portano avanti nelle loro piccole sfaccettature.

Un piccolo rimando interno non può che farci venire in mente che una raccolta dallo stesso titolo fu pubblicata nel 1927 da Ernest Hemingway, ma qui siamo altrove e seguiamo il percorso del più occidentale dei giapponesi attraverso sette racconti, pubblicati sempre intorno al 2014 in giapponese, poi in alcune traduzioni inglesi (anche se non tutti) per poi essere riuniti in questo volume.

A voler cercare una definizione del filo che lega i testi, ci possiamo riferire ad una frase contenuta nell’ultimo racconto: "A volte perdere una donna significa perderle tutte. Così diventiamo uomini senza donne." Perché tutti e sette sono racconti in cui ci sono uomini che perdono le donne. Per abbandono, per morte, per incapacità, o per una combinazione di tutti e tre i motivi. Questo porta da un lato ad un ribaltamento dei ruoli tradizionalmente legati ai rapporti amorosi, dove si vedeva, spesso e volentieri, come le donne fossero abbandonate. Utilizzando un moto contrario anche nell’andamento dei testi: l’abbandono è in genere il motivo che dà l’avvio al testo e non la sua chiusura.

Ma è anche il teatro che dà modo all’autore di tornare ed approfondire i temi presenti in tutte le sue opere. C’è l’ascolto (spesso il narratore è il destinatario delle parole del protagonista), un ascolto che unito ai tanti silenzi (peculiarità giapponese) riesce a sottolineare come sia delicata (e spesso non bilanciata) la relazione che si instaura tra le parti. C’è sempre un grande approfondimento psicologico, che porta, palesemente o meno, gli attori dei testi a chiedersi quale sia la propria natura (“chi sono io?”). C’è il passato che spesso ritorna anche travolgendo il presente, dato che tutti in fondo uniscono i propri pensieri (passato ricordato, presente vissuto, futuro immaginato), alla ricerca di un senso da dare alla realtà.

Non mancando poi tutto il bagaglio che Murakami si porta sempre dietro: l’amore per la musica, ed in particolare per il jazz, ed un occhio attento alla letteratura occidentale, da cui riprende modalità classiche per adattarle alla realtà giapponese.

Drive my car (doraibu mai kā ドライブ・マイ・カー)

Il protagonista è un attore, Kafuku, ma il motore del racconto avviene quando lui, dovendo girare per teatri e con la patente tolta per vari motivi, assume una giovane donna Misaki, come autista. Una presenza muta, che alla fine porta Kafuku a narrare la sua storia, il suo profondo amore per la moglie morta, la sua tristezza nel saperla piena di amanti, ed il tentativo di farne rivivere il ricordo cercando l’amicizia con l’ultimo di questi, anche per capire i motivi della moglie di cercare sesso lontano da lui. Non ci sono risposte alle domande di Kafuku, per cui è Misaki che racchiude l’agire dell’attore, consigliandogli che tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giù e andare avanti.

Yesterday (iesutadei イエスタデイ)

Stavolta il narratore è Aki un giovane universitario colto in un momento di crescita verso un futuro che non gli è chiaro, mentre il protagonista è il suo amico Kitaru, che pensa di non avere doti particolari, di aver poco da offrire ad Erika, la sua ragazza. Tanto da cercare di farla innamorare di Aki. Il titolo è ovvio quello della canzone dei Beatles, come nel testo precedente, ma che qui è l’emblema di tutta una serie di tentativi di Kitaru di omologarsi (tradurre i Beatles in giapponese, imparare un dialetto locale). Ma l’incerta storia d’amore porterà solo ad un abbandono da parte di tutti i protagonisti, e lo sapremo quando sedici anni dopo i fatti Aki ed Erika si incontrano di nuovo e ci fanno sapere come si sono evoluti lui, Erika e Kitaru. Evoluti ma lontani.

Organo indipendente (dokuritsu kikan 独立器官)

Tralasciando l’interpretazione del titolo, che secondo me è secondaria rispetto al testo, abbiamo un narratore senza nome che ci parla del suo compagno di palestra, il chirurgo estetico dr. Tokai. Uno che attraversa la vita senza grandi acuti, accontentandosi di relazioni senza impegno con donne sposate. Ma poi si innamora, e quando la donna lascia sia lui che il marito Tokai si lascia morire.

Shahrazād (she'erazādo シェエラザード)

Qui il narratore è Habara, un uomo che non sappiamo per quale ragione è confinato in casa. Unico contatto è una donna, che gli fa la spesa, cucina, pulisce, gli porta dei libri e fa l’amore con lui. Il punto è che, come la Shahrazad del titolo, la donna poi, dopo l’amore, racconta delle storie, che non porta mai a termine, che lascia sospese per riprenderle la volta successiva. Come quella del suo intrufolarsi, adolescente, nella casa di un suo compagno di classe, per prendere oggetti della vita di lui lasciandone di suoi in cambio. Ma il nocciolo è l’ansia di Habara nel non sapere se la volta successiva sarà ancora lei a sostentarlo, o verrà abbandonato. Perché perdere una donna, quella donna, è perdere quei momenti di intimità che annullavano una realtà forse non proprio felice.

Kino (kino 木野)

Anche qui esploriamo i temi propri dell’abbandono. Il protagonista, Kino, trova la moglie a letto con un suo amico. Chiude la porta, se ne va, cambia vita, apre un bar. Dove si troverà ad essere accompagnato prima da un gatto, poi da Kamita, che legge libri al bar ed è uomo di poche parole. Qui il racconto assume una piega da realismo magico che me lo ho fatto amare di meno. Scompare il gatto, compaiono dei serpenti, e Kamita lo consiglia di andare lontano per un po’. Che kino è un uomo corretto, ma a questo mondo astenersi dal far male non sempre basta. Starà lontano fino a che non avrà capito il rapporto con la moglie, non avrà capito il dolore che ciò gli ha provocato, e che lo ha portato a chiudere una pagina senza elaborarla. È forse il racconto più criptico e che più di altri rimane sospeso.

Samsa innamorato (koisuru zamuza 恋するザムザ)

Altro racconto che ho poco amato, anche se viene esaltato dai critici per quel capovolgimento del testo che ci aspettiamo sin dal titolo. Qui, rovesciando Kafka, un essere si sveglia nei panni di Gregor Samsa, nudo e indifeso. Riceve la visita di una donna con la gobba (che gli ricorda uno scarafaggio) che gli provoca un’erezione. Quando lei lo lascia, si chiede se la rivedrà, che il nostro Samsa è abbandonato senza ben sapere cosa sia una donna, mentre sottilmente Murakami ci suggerisce che nessuna metamorfosi può impedire alla natura di fare il suo corso.

Uomini senza donne (onna no inai otokotachi 女のいない男たち).

Fulminante come tutte le chiuse del nostro. Anche qui non abbiamo in realtà un dualismo di attori, c’è solo il narratore che riceve di notte una telefonata: un uomo gli dice che sua moglie, un tempo amante del narratore, si è suicidata. Comincia così un percorso nei ricordi del narratore verso i momenti di vicinanza e di abbandono con la donna ora morta. Un dialogo interiore sulla solitudine, che porterà il narratore a quella conclusione che ho posto all’inizio di questa parte della trama.

In fondo, lo scrittore ci vuole mostrare l’assenza delle donne dalla vita dei protagonisti per poterci dire che è l’amore che ci libera dalla solitudine, attraversando tutte le fasi tra l’azione avvenuta e (teniamo sempre a mente i grandi passaggi di “Norwegian Wood”) la nostalgia per ciò che non è accaduto.

Un solo ultimo accenno personale, dove, a pagina 148, il barista amante di jazz Kino parla dei suoi oggetti di ascolto della musica. Ed ovviamente, come avevo io da giovane, l’amplificatore è un Luxman. Che salto indietro ho fatto.

“Doveva conoscere la verità, per quanto grande fosse il dolore. Solo la conoscenza della verità rende gli esseri umani più forti.” (16)

“Non c’è operazione estetica che possa alzare le capacità intellettive di una persona.” (79)

“Dopo averti incontrato / in confronto a ciò che provo / ora per te nel mio cuore / è come se mai prima / avessi amato.” (89)

Haruki Murakami “Il mestiere dello scrittore” Corriere – Murakami 20 euro 8,90

[A: 22/09/2020 – I: 21/01/2025 – T: 23/01/2025] - &&&        

[tit. or.: 職業としての小説家 Shokugyo to shite no shosetsuka; ling. or.: giapponese; pagine: 186; anno 2015]

Continuiamo la filologica di Murakami, con uno scritto che non è un romanzo ma che parla di romanzi, e dell’autore, inserendo momenti biografici, anche se non è neppure un’autobiografia. Intanto, avrei preferito una maggior aderenza nel titolo, laddove, pur se formalmente corretto, il giapponese, in origine, riporta “Romanziere come professione”. Che è quello di cui ci parla Murakami: la sua professione (scrivere romanzi), il modo in cui nasce e le motivazioni per cui rimane e, da un certo punto in poi, pervade la sua vita.

Già sappiamo, noi Murafan, che la scintilla avviene su di un grande prato in quel di Tokyo, mentre assiste ad una partita di baseball (capitolo secondo). È già uomo di vari mestieri, ed in quell’epoca, sposato, gestisce un jazz-bar in un piano interrato di un palazzo all’uscita sud della stazione di Kokubunji a Tokyo. Ma da quel pomeriggio nasce una scintilla. Scrive, elabora, propone i suoi scritti, vince un premio, ne perde altri. E da lì nasce la sua professione.

Qui, in undici ordinati capitoli, non solo ci parla di questa genesi, ma percorre il suo mondo narrativo, aprendo, qua e là, alcuni spiragli sui suoi processi creativi. Come, ad esempio, quando tratteggia il romanziere come una persona solitaria (capitolo uno), che usa in modo peculiare il proprio tempo (capitolo sesto, ma ci torniamo), e che ha bisogno di una grande resistenza per rimanere attaccato alle proprie parole finché queste non esauriscano la spinta propulsiva (capitolo settimo).

Tratteggiando (nel capitolo quinto) la necessità di leggere (come anche nelle frasi riportate), consiglia di leggere, parlare, osservare la realtà, e poi metterla ordinata nei cassetti della memoria. Quando serve è da lì che comincia ad attingere il suo materiale. Così che non ci meravigliamo se, in romanzi diversi, tornano tematiche simili e prospettive analoghe. Evidentemente ha riaperto un vecchio cassetto, trovandoci ancora qualcosa (capitolo nono).

Un esempio dei processi creativi viene sia dalle prime scritture (1979) che da un romanzo del 1988. Per le prime, aveva buttato il suo testo scrivendo a penna su dei fogli. Ma non sentiva uscire da quei fogli quanto sentiva nella sua mente. Allora, prende e lo traduce in inglese (battendo forsennatamente i tasti della sua Olivetti), pensandolo anche in quella lingua non sua (e ci ricorda i processi di scrittura della grande Agota Kristof). Poi, ritraduce in giapponese il testo inglese, e ne esce lo stesso testo, ma più asciutto, essenziale, giusto.

Il romanzo invece era “Dance, dance, dance”, scritto interamente a Roma, laddove casualmente, perde il manoscritto. Decide allora di scriverlo da capo, per poi, tornato in patria, avere la fortuna di ritrovare il primo testo. Ebbene, la riscrittura “a mente” aveva reso il testo, per l’autore, migliore e più suo.

Ci si collega così al concetto di originalità (capitolo quarto), un tratto distintivo assolutamente poco giapponese, dove tutto tende all’uniformità, al confondersi nella massa. Ma Murakami, il più occidentale degli scrittori nipponici, non può non essere diverso. Per cui, affinatosi nel corso del tempo, il suo stile diventa riconoscibile, tale da essere visto come “classico” dai suoi lettori. Un processo che non posso che condividere: si capisce subito chi sia lo scrittore fin dalle prime pagine dei suoi testi. E spesso sono attacchi che ti legano alla pagina, anche laddove il resto del libro a volte non rimane allo stesso livello.

Ci sono anche capitoli un po’ “isolati” dal contesto, dove cerca di convincerci della sua refrattarietà ai primi letterari (capitolo terzo) sia in termini di concorrente sia, soprattutto, in termini di giurato. O dove fa una critica spietata e puntuale (capitolo otto) dell’approccio nozionistico e competitivo del sistema scolastico giapponese.

Gli ultimi due capitoli sono anche loro, in un certo senso, momenti isolati delle sue riflessioni. Da un lato (capitolo dieci) si domanda per chi scrivere, ed io con lui sono completamente d’accordo: si scrive per sé stessi. Se poi, le nostre parole fanno vibrare qualcosa nell’animo del lettore è sicuramente un bene per il lettore, ma non lo scopo per l’autore. L’ultimo consiglio (molto rivolto ai suoi conterranei, ma che anche qui mi trova all’unisono) è di andare in giro, di vedere altri luoghi, altre realtà. Io che ho viaggiato molto ve lo dico con il cervello in mano: si vedono tante realtà diverse, e, stando attenti, si capisce molto di sé stessi.

Come si è capito, pur non stravolgendo le nostre comuni basi di persone che scrivono, questo testo è di mia personale gradevole lettura. Una lettura che ci dipinge il romanziere come un metodico artigiano il cui primo passo, finita la scrittura, è far leggere il testo alla moglie ed ingaggiare con lei accese discussioni testuali. Perché chiunque può scrivere un romanzo, ed è importante che la scrittura sia per l’autore, un suo momento di esternazione su altri mezzi di quanto sente dentro di sé.

Se poi, lo scritto, sarà pubblicato, sarà letto, avrà un seguito di lettori che ne apprezzeranno le parole, non solo va al di là delle intenzioni, ma va al di là dell’idea stessa dello scrivere.

Motivo per cui, continuando a leggere Murakami, continuo anche a tessere le mie personali trame letterarie.

“Quando si prende l’abitudine di leggere … non si riesce a staccarsene facilmente.” (44)

“Mi limito a fare abitualmente una cosa che mi è congeniale. Per quanto determinato uno sia, non può portare avanti per trent’anni un’attività che non gli piace.” (103)

“Ogni creazione letteraria contiene in qualche misura lo scopo di migliorare sé stesso.” (149)

“Abraham Lincoln: Si possono ingannare molte persone per breve tempo. Si possono anche ingannare poche persone a lungo. Ma non è possibile ingannare molte persone per molto tempo.” (174)

“Stabilire chiaramente il proprio obiettivo è una cosa fantastica. A qualunque età, in qualunque luogo.” (182)

Haruki Murakami “L’assassinio del Commendatore” Corriere Giappone 1 euro 9,90

[A: 07/05/2021 – I: 16/03/2025 – T: 20/03/2025] - &&        

[tit. or.: 騎士団長殺し 第1部: 顕れるイデア編 Kishidanchō Koroshi. 1: Arawareru idea-hen & 騎士団長殺し 第2部: 遷ろうメタファー編 Kishidanchō Koroshi. 2: Utsurou metafā-hen; ling. or.: giapponese; pagine: 844; anno 2017]

Ho atteso a lungo prima di imbarcarmi nella lettura di uno degli ultimi scritti di Murakami (anche se di ben otto anni fa) sia spaventato dalla lunghezza, sia per la paura di avere qualche delusione. Alla fine, lo spavento è stato gestito con poca fatica, mentre la paura è rimasta, portando con sé anche un po’ di delusione. Certo, è un tipico libro di Murakami, con tutte le sue bravure di scrittura, con i rimandi, interni ed esterni, con quel pizzico di magia sempre presente. Ma il risultato finale non mi ha soddisfatto. Sono rimasto un po’ dispiaciuto.

Intanto, al solito encomiabile lo sforzo di traduzione di Antonietta Pastore, che ben rende il mondo del nostro scrittore, con quei piccoli aggiustamenti sintattici che non cambiano il senso delle cose. Come i titoli delle due parti. Rivelare le idee giustamente si può rendere con Idee che affiorano e Metafore di transizione ben si adatta in Metafore che si trasformano. E, seppur i due titoli hanno attinenza con il testo ed il suo sviluppo, nella mia trama non riesco ad entrarci completamente. Altro attira la mia attenzione ed il mio pensiero.

Intanto ci sono due elementi che caratterizzano lo scritto, uno fin dalle prime righe ed uno nel corso del lungo testo. Leggi l’inizio, e sei già “dentro” Murakami. Presenta la situazione, alcuni personaggi, un’ombra di trama, e già sai che sarà difficile staccarsi. Anche se non ti prende in maniera asfissiante, anche se i ci sono passaggi che non convincono, non potrai fermarti prima della fine.

La seconda è la ricorrenza di tematiche spesso presenti negli scritti di Murakami. Come dice infatti nel saggio “Il mestiere di scrittore”, la scrittura si deve far riconoscere, facendo dire al lettore “ecco, sto leggendo di Murakami”. Così ritornano le tematiche dell’allontanamento tra marito e moglie (vedi “L’uccello che girava le viti del mondo”), gli accenni a Kafka, come scrittore, ed al libro con la sua ambientazione boschiva e di buche (vedi “Kafka sulla spiaggia”), fino all’uso dei nomi significanti legati ai colori ed alla pittura (vedi “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”).

Come detto, pur non entrando nello specifico dei titoli, è ovvio, per chi conosce Murakami, che il testo sia pieno di idee (ed è un discorso interessante da affrontare) ed altrettanto pieno di metafore (cui invece non mi avvicino, troppo essendo la mia ignoranza). Idee che riguardano l’espressione artistica sia essa pittura che scrittura, idee sul rapporto con gli altri (beh, questo è facile), ma anche sul concetto di genitorialità e su quello dell’amicizia.

La storia ordinaria, come spesso accade in Murakami, è abbastanza lineare e tutto sommato semplice. Il protagonista (di cui non ci viene detto il nome) è lasciato dalla moglie Yuzu senza motivi apparenti. Dopo aver vagato in auto per due mesi, accetta l’offerta dell’amico Amada Masahiko di vivere e tenere in ordine la casa di campagna del padre, il pittore Amada Tomohiko. In quel di campagna, il nostro (che era un valente ritrattista) si ritira su sé stesso, dedicandosi alle minute cose, e, per sopravvivere, ad impartire lezioni di disegno alla comunità.

Per inciso, le lezioni gli frutteranno due avventure di sesso, una leggera ed una più lunga e meditata, ma entrambe fini a sé stesse. Nella villa, oltre ad avere un grande assortimento di vinili (ed un piccolo elenco di musiche riporto in fondo), il protagonista trova un quadro dipinto e poi nascosto da Tomohiko. Vi viene ritratto “L’assassinio del Commendatore” così come risulta dal primo atto del Don Giovanni di Mozart. Un quadro che dà agio a Murakami di parlare a lungo di pittura, ma anche di musica. Un quadro che darà il via ad una serie di avvenimenti, alcuni sensati altri “magici” (e sono quelli che con fatica seguo).

A fronte delle lezioni e dell’interessamento del suo agente, il nostro viene avvicinato dal suo vicino di casa, Menshiki (un nome parlante, vedi quanto detto sopra, se è vero che in giapponese si può tradurre come “sfuggire al colore”), un personaggio strambo, molto vicino idealmente al Gatsby di Scott Fitzgerald (ricco, con qualche ombra sulla provenienza dei soldi, sfarzoso nelle sue manifestazioni, tipo guidare una Jaguar E o affittare un cuoco a cinque stelle per una cena nel suo castello con il nostro protagonista).

Menshiki vuole un ritratto, ed è pronto a sborsare cifre esorbitanti per ciò. Seguiremo tutta la genesi del ritratto stesso, dove Murakami si addentra nelle sue teorie sulla creazione artistica solitaria. Non solo, Menshiki ha anche comperato la villa per poter tenere d’occhio la vita della giovane Marie (che sta sulla collina opposta) dato che potrebbe, in base a circostanze complesse che vi lascio leggere, essere sua figlia naturale.

Il nostro e Menshiki inoltre scovano nel bosco una strana buca con una campanella dentro, che ogni tanto si mette a suonare. E qui comincia la parte “improbabile”: il nostro è l’unico che vede un piccolo essere, con le fattezze del Commendatore del quadro, con cui instaura un dialogo sui comportamenti umani, e sulle sue attività in particolare.

Menshiki allora, dopo che apprezza grandemente l’operato del protagonista, gli chiede di ritrarre anche Marie. Comincia così una parte sbilenca, dove il nostro e Marie hanno interessanti dialoghi, seppur tra un disadattato ed una tredicenne. Mentre Menshiki viene attratto e comincia una storia con la zia di Marie. Il dramma (perché se c’è una buca, come direbbe Tolstoj, prima o poi servirà a qualcosa) avviene quando Marie sparisce. Il pittore viene avvertito quando è andato a trovare Tomohiko morente, avendo bisogno di comunicare con lui le scoperte sul quadro che gli ha rivelato Menshiki. Qui si parte per la tangente: appare il Commendatore che chiede al nostro di ucciderlo come nel quadro, cosa che fa, per poi trovarsi in boschi, valli e fiumi di improbabile nascita, con personaggi tra l’invenzione e la schizofrenia. C’è un tizio senza volto (su cui torniamo), compare Donna Anna del Don Giovanni, il nostro si ritrova nella buca dove (dopo quasi nove mesi) pensa alla moglie Yuzu ripromettendosi di chiamarla.

Uscito dalla buca, ritrova anche Marie, per poi avviarsi ad un finale veloce ed altro. Menshiki e la zia probabilmente hanno una storia, Marie cresce e matura, anche lontano dal non certo padre, il nostro torna insieme a Yuzu che nel frattempo partorisce una bambina, che non può essere fisicamente figlia del nostro, ma che lui crescerà “come un padre”. Finendo con questa dualità padre – figli, dove lui cresce una figlia sicuramente non sua e Menshiki segue la crescita di una figlia che potrebbe essere sua.

Un racconto nel racconto è poi legato al quadro. Tomohiko era un valente pittore giapponese in stile occidentale, che sul finire degli anni ’30 si trasferisce a Vienna, dove ha una storia con una signorina austriaca avversa al regime. Quando lei ed i suoi sodali vengono sorpresi nel tentativo di un attentato verso qualche gerarca, gli austriaci vengono deportati e Tomohiko rimpatriato forzatamente. Tornato in patria, cambia stile passando dall’occidentale ad uno stile denominato “nihonga” (uno stile artistico nel quale le opere sono realizzate secondo le convenzioni artistiche tradizionali e con l'utilizzo di tecniche e materiali della tradizione giapponese). Ed è in questo stile che realizza il quadro del titolo, dove si potrebbe vedere (metaforicamente) il Commendatore nelle panni del gerarca nazista, Donna Anna in quella della sua amante tedesca e Tomohiko in quel di Don Giovanni.

Questo inciso, ma anche tutta una serie di riflessioni, portano gli interpreti e Murakami ad interrogarsi sull’influenza e la responsabilità dell’Occidente nelle modifiche alle tradizioni giapponesi. Ci sono poi momenti che rimangono lì sospesi, ed a volte scompaiono. Tipo che il testo comincia con il nostro, ben dopo la fine delle avventure narrate, non riesce a fare il ritratto di una persona di cui dice “era una persona senza volto”. Persona che compare durante la ricerca della scomparsa Marie, e che aiuta il nostro solo in cambio della promessa di un ritratto. Che non verrà mai fatto, almeno nelle più di 800 pagine del libro (e questa persona compare solo in due episodi per un totale di sette pagine su 840).

Quindi, processi creativi, identità di genitori, rapporti sessuali piacevoli, momenti conviviali, campanelle che suonano, piccoli esseri alti cinquanta centimetri che compaiono ma solo per il nostro, la creazione individuale del ritrattista, e tante altre piccole cose. Qual è lo scopo di tutto questo?

Forse poco o nulla. Cioè Murakami butta là tanti discorsi, tante idee, un po’ le porta avanti, un po’ le lascia a noi lettori. Terminando tutto in maniera sospesa, chiudendo certo molte discussioni, ma lasciandone altrettante aperte e vaganti per le pagine e per la testa di noi poveri Murafan. Per questo, alla fine, non sono convinto del risultato. Pur ribadendo che Murakami è un grande scrittore, e che ritengo sia degno di ricevere il Premio Nobel.

Ed ora leggeremo anche gli ultimi scritti.

“Per convincersi di una cosa, lei ci impiega più tempo della maggior parte della gente.” (50)

“Non mi riconosce più. Probabilmente non sa nemmeno chi è. Forse avrei dovuto chiedergli tante cose prima che si riducesse così. A volte lo penso. Ma ormai è tardi.” (76)

“Feci a matita uno schizzo accurato di ognuno [di loro] … come un lettore [che] annota con scrupolo, parola per parola, i passaggi di un libro che gli sono piaciuti.” (94)

“A volte ci sono delle cose che una persona è meglio non sappia.” (280)

“Uno cammina su una strada che crede sia la propria, quella giusta, e tutt’a un tratto la strada gli viene a mancare sotto i piedi. Così deve avanzare nel vuoto, senza sapere dove va, senza avere alcun appiglio.” (408)

“Tutti quanti abbiamo nel cuore segreti che non possiamo svelare.” (820)

 

Autore

Titolo

Mozart

Don Giovanni (atto I – L’assassinio del Commendatore)

Sheryl Crow

Run Baby Run

Sheryl Crow

Leaving Las Vegas

Sheryl Crow

Strong Enough

The Rolling Stones

Time Is on Your Side

Unknown

Annie Laurie

The Beatles

Fool On the Hill

Schubert

Rosamunda, principessa di Cipro

Richard Strauss

Il cavaliere della rosa

The Doors

Alabama Song

Donny Hathaway and Roberta Flack

For All We Know

ABC

The Look of Love

Bertie Higgins

Key Largo

Debbie Harry

French Kissin’ in the USA

Bruce Springsteen

Independence Day

Bruce Springsteen

Hungry Heart

Bruce Springsteen

Cadillac Ranch

Mozart

Don Giovanni

 

Haruki Murakami “Prima persona singolare” Corriere – Murakami euro 9,90

[A: 30/08/2022 – I: 02/04/2025 – T: 03/04/2025] - &&&    

[tit. or.: 一人称単数 Ichininshō Tansū; ling. or.: giapponese; pagine: 142; anno 2020]

Prima di attaccare l’ultima fatica narrativa del grande scrittore, eccoci arrivati alla sua penultima uscita, una raccolta di otto racconti di circa 6-7 anni fa, e riuniti in volume cinque anni fa e tradotti dall’eccellente Antonietta Pastore. Sebbene si sa io non sia un amanti di questo genere di letteratura, ci sono ovviamente alcune eccezioni, come ad esempio mirabili testi di Alice Munro. Ed anche, siamo sinceri, alcuni testi di Murakami. Non tutti e non sempre, ma la stoffa dello scrittore emerge e qualcosa ci dona.

Intanto qui si adopera in un gioco linguistico e personale mirabile, che probabilmente avrebbe avuto bisogno di un commento da parte degli editori italiani. Laddove, in assenza, qualcosa della complessa costruzione narrativa, si perde. Infatti, tutti e otto i testi sono narrati, come dice il titolo che li accomuna, nella prima persona singolare.

Ebbene, qui ci sono da fare due precisazioni. In primo luogo, in giapponese ci sono globalmente più di venti modi per esprimere il concetto di “IO”, e di questi una decina ancora in uso corrente. Murakami, nei primi sette testi, ne usa un paio (ripreso da un articolo di una rivista giapponese), essenzialmente “boku” (pronome tra il formale e l’informale, quasi esclusivamente maschile, introdotto nel XIX secolo) e “ore” (esclusivamente maschile e molto informale, quello più usato nei manga). Solo l’ultimo testo utilizza “watashi” (il modo più comune per riferirsi a se stessi, usato più spesso dalle donne che dagli uomini). Poiché Murakami usa in modo attento le parole, credo che abbia avuto le sue idee per usare un pronome invece che un altro.

La seconda precisazioni riguarda invece il paradigma autobiografico che viene sovrapposto al testo. Certo, e lo sappiamo da altre letture di suoi scritti e saggi, molta parte di questi racconti utilizza momenti biografici della sua vita. Per poi, senza ovviamente avvertirci, volare via per le sue strade fantastiche ed oniriche, per imbastirci storie e farci partecipi del suo mondo. Sia di quello reale sia di quello immaginato (e preferisco questo termine a immaginario).

Ma veniamo ora ai testi

Su un cuscino di pietra (石のまくらに, Ishi no Makura ni) pubblicato 07/2018

Durante gli anni del college, il narratore lavoro (per pagarsi gli studi) in un ristorante, dove conosce la cameriera, e, dopo una festa per il suo licenziamento, si ritrovano a bere birra e fare sesso a casa di lui. Là dove, nel culmine dell’orgasmo, lei invoca un nome di uomo. Saputo che il narratore studia letteratura, lei gli confessa di scrivere “tanka”, dove in seguito invierà una sua raccolta autoprodotta. L’autore non ricorda più nulla di lei, ma ogni tanto gli tornano in mente alcuni versi.

La crema della vita (クリーム, Kurīmu) pubblicato 07/2018

Al liceo, il narratore riceve l’invito ad un concerto di piano da una ragazza, conosciuta a mala pena. Si reca sul posto, dove non c’è nessun concerto. Smarrito, si riposa in un parco dove, tra realtà e sogno, incontra un vecchio che gli dice: “immagina un cerchio con diversi centri e senza circonferenza”. Quando lo visualizzeremo, potremmo dire di aver realizzato il massimo, o, come dicono i francesi, “la crème de la crème”. L’autore non ha mai saputo più nulla né della ragazza né del vecchio, ma ogni tanto pensa ai cerchi.

Charlie Parker Plays Bossa Nova (チャーリー・パーカー・プレイズ・ボサノヴァ, Chārī Pākā Pureizu Bosanova) pubblicato 07/2018

Forse il migliore. Intreccia un articolo di fantasia scritto durante l’Università, dove immaginava l’improbabile uscita, nel ’63, di un disco di Charlie Parker (morto nel ’55) che suona la Bossa Nova insieme ad Arturo Carlos Jobim. Quindici anni dopo vede quel disco inesistente in un negozio di dischi a New York, ma quando prova a comperarlo, il disco scompare. Nel tempo presente, infine, Parker gli appare in sogno e gli suona un pezzo del disco.

"With the Beatles" (ウィズ・ザ・ビートルズ, Wizu za Bītoruzu) pubblicato 08/2019

Essendo del ’49, nel ’64, negli anni del liceo, assiste al boom musicale dei Beatles, e ricorda una ragazza con in mano l’album “With the Beatles” (inciso: è il secondo album dei Beatles, pubblicato in Italia con il titolo “I favolosi Beatles”). Ragazza molto bella, ma mai più incontrata. Laddove invece si ricorda di aver frequentato all’epoca Sayoko, la sua prima ragazza. E di aver incontrato una sola volta il fratello di lei, colpito da una malattia che mescola l’ordine dei ricordi. Dopo diciotto anni, a Tokyo, incontra il fratello, che gli narra come, tre anni prima, Sayoko si sia suicidata.

“Antologia poetica per gli Yakult Swallows” (ヤクルト・スワローズ詩集, Yakuruto Suwarōzu Shishū) pubblicato 08/2019

Una delle commistioni maggiori. Murakami adora il baseball e sappiamo (da “Il mestiere di scrivere”) che immagina il suo primo testo assistendo ad una partita di baseball della sua squadra preferita, le rondini Yakult (gli Yakult Swallows). Qui parte per la tangente, descrivendo le poesie che scrive mentre assiste alle partite, nonché al libro che si autopubblica con il titolo di questo racconto.

"Carnaval" (謝肉祭, Shanikusai) pubblicato 12/2019

Qui si intrecciano diversi motivi. Un “body shaming” verso una sua amica, definita la donna più brutta da lui incontrata. Ma una critica selvaggia che si tramuta in grande amicizia, laddove entrambi, se avessero dovuto salvare un pezzo musicale, avrebbero indicato la composizione di Robert Schumann per pianoforte “Carnaval, op. 9”. Dopo un intenso periodo, la donna scompare, e solo dopo sei mesi, lui scopre che è stata arrestata per truffa. Ora se sente il pezzo, ripensa alla donna brutta, associata al ricordo di un’altra affatto carina, cui si era accompagnato molto, molto tempo prima.

"Confessione di una scimmia di Shinagawa" (品川猿の告白, Shinagawa Saru no Kokuhaku) pubblicato 02/2020

Anche qui, il narratore fa uno shaker di realtà e fantasie. Immagina di incontrare, in una locanda sperduta nella campagna giapponese, una scimmia parlante, che riproduce quanto aveva scritto Murakami in un suo racconto (“La scimmia di Shinagawa” in “I salici ciechi e la donna addormentata”). La particolarità della scimmia è che ruba i nomi delle donne di cui si innamora. Anni dopo, l’autore incontra una giornalista, che scorda il suo nome durante l’intervista.

"Prima persona singolare" (一人称単数, Ichininshō Tansū) inedito

L’unico inedito, che si svolge nel tempo presente. L’autore, generalmente vestito casual, indossa un abito e va in un bar dove incontra una donna che lo insulta per qualcosa che lui non ricorda di aver fatto. Prima, durante e dopo il diverbio, si guarda allo specchio senza riconoscersi. Alla fine esce, si avvia verso casa, ma è tutto diverso ed onirico: serpenti che si avvolgono sugli alberi, cenere ovunque, persone senza volto.

Anche se ne ho scritto molto velocemente, si capisce come ci siano una serie di ricorrenze e di fili che attraversano questi racconti. A me piace ricordarne tre (o forse due e mezzo). Perché due, separati o connessi, sono una sorta di “opera nell’opera”, che permette al giocoliere Murakami di inserire nel corpo di un racconto, testi altri. Che possono essere poesie (nel primo e quinto testo), articoli (terzo racconto), musica citata o suonata (terzo, quarto e sesto racconto). Dico “mezzo” che forse la musica è un supporto del testo nel testo e non un elemento isolato.

Comunque, e non si può non apprezzarne, si parla di “tanka”, una poesia minimalista giapponese, composta da 31 sillabe (nella serie 5-7-5-7-7), in genere divisa in due parti contrastanti. Nel tempo, poi, la prima parte si è staccata diventando il ben noto “haiku”. Murakami ne riporta alcuni, che leggo, ma di cui non so interpretare la forza poetica.

Quando si parla di musica, poi, Murakami non può non essere presente. Tra l’altro nel terzo racconto le parti migliori sono le descrizioni delle esecuzioni di Bossa Nova di Parker e Jobim, laddove si riconferma la mirabile conoscenza dell’autore di alcuni momenti musicali. Conoscenza ancor più marcata nella mirabile descrizione del pezzo di Schumann, laddove la sua analisi di "Carnaval" è di per sé un affascinante esempio di critica musicale.

Poiché è di per sé interessante, consentitemi un inciso proprio su questo pezzo. “Carnaval” porta come sottotitolo “Piccole scene su quattro note”. Ed infatti l’opera consiste di 22 pezzi per pianoforte uniti da un motivo ricorrente, una sequenza di una o entrambe delle seguenti serie di note:

1.    La, Mi bemolle, Do, Si; che in notazione tedesca si indicano come A-Es-C-H

2.    La bemolle, Do, Si; che in notazione tedesca si indicano come As-C-H.

Quindi entrambe corrispondono foneticamente al nome tedesco della città di Asch. Fin qui un gioco, che diventa un omaggio se ci ricordiamo che, all’epoca della composizione, Schumann era fidanzato con Ernestine von Fricken, guarda caso nata ad Asch!

Ma per tornare alla scrittura, l’ultimo grande motivo che percorre l’opera è la memoria. Il ricordo di avvenimenti, di persone che si dimenticano e poi se ne ritrova traccia laddove non ce lo aspettiamo. Memoria che si lega a tutti gli avvenimenti della nostra vita. Come dice anche altrove, ci troviamo sovente davanti ad un bivio dove scegliamo di andare a destra piuttosto che a sinistra, e questo cambia noi ed il nostro futuro.

Secondo la sua filosofia di vita e di scrittura, per Murakami agli esseri umani capitano vari eventi casuali, spesso inspiegabili e misteriosi, che a volte ricordiamo ed altre no, e sebbene queste coincidenze non siano né buone né cattive e non sia chiaro fino a che punto abbiano un significato per gli esseri umani, si accumulano come cose al di fuori del nostro controllo e plasmano le nostre vite.

Anche questi racconti, non sono all’apice del mio infinto Murafan, ma hanno un loro posto dignitoso ed elegante nella mia memoria dello scrittore (in attesa di leggerne ancora).

“La cosa strana dell'invecchiare non è che sia invecchiato io. (...) Ciò che mi stupisce è come le persone della mia età siano diventate così vecchie... E soprattutto come tutte quelle belle e vivaci ragazze con cui sono cresciuto siano ora abbastanza grandi da avere probabilmente due o tre nipotini.” (43)

“Penso che l’amore sia il combustibile di cui abbiamo bisogno per andare avanti nella vita.” (123)

“Più mi guardavo [allo specchio], più il tipo … di fronte a me mi pareva uno sconosciuto. Ma se non ero io, l’uomo riflesso lì, allora chi era?” (136)

Haruki Murakami “La città e le sue mura incerte” Einaudi s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 08/04/2025 – T: 11/04/2025] - &&&    

[tit. or.: 街とその不確かな壁 Machi to sono futashika na kabe; ling. or.: giapponese; pagine: 552; anno 2023]

Ultimo libro di Murakami e considerato, a più voci, una dei libri migliori pubblicati in Italia nel 2024. Un coro cui mi aggrego, per alcuni punti, mentre in altri rimango leggermente spiazzato e moderatamente critico. Cioè, è un libro intrinsecamente di Murakami, dove l’autore, in un certo senso, tira le somme di molta parte della sua attività (e quindi della sua vita). Tuttavia, anche se pur questo è tipico dell’autore, la rimanenza, la sospensione, l’inconclusione mi hanno lasciato un po’ di delusione.

Come subito si accorge l’attento lettore delle opere di Murakami (ed io devo dire che, ritenendolo uno degli autori top viventi, ne ho letto credo il 98% delle opere) ci si sente subito che si va ripercorrendo strade note. In effetti, nel 1980 l’autore pubblica sulla rivista “Bungakukai” un romanzo breve dallo stesso titolo. Ma non ne è convinto, ed è l’unico testo non pubblicato in volume della produzione dell’autore.

C’era tuttavia qualcosa che lo teneva legato a quel testo, tanto che cinque anni dopo ne riprende una parte significativa nel libro “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”. Poi passano gli anni, e Murakami confessa di avere sempre un retropensiero sulla non finitezza di quella scrittura. Così, quaranta anni dopo la prima uscita, chiuso in casa anche a causa del Covid, riscrive il testo, lo amplia, lo lascia riposare, lo riprende, lo completa, ed ora lo presenta, ritenendone definitivamente chiuso il ciclo vitale.

Per queste vicende di scrittura e riscrittura, l’inizio della lettura mi era sembrato come se avessi sbagliato libro. Solo dopo aver letto i miei appunti su Haruki, ho compreso, letto ma, come detto, non ne son completamente soddisfatto. Certo, è, alla fine, un manifesto completo della poetica di Murakami. C’è la parte onirica, c’è l’amore per la lettura, c’è la vita dedicata ad un’idea, c’è la sospensione finale. Se tutto quanto ho detto è vero, è mio, ci dice l’autore, è anche vero che qualcosa possa mutare, possa progredire in altre direzioni. Per cui il finale, fino a che l’autore è vivo, non può che essere aperto.

La storia comincia quasi come una banale storia d’amore, tra il narratore, diciassette anni, ed una ragazza, sedici, incontratisi per casualità ad un premio letterario per adolescenti. Da lì, pur non vicini fisicamente, comincia la loro storia, che va avanti anche attraverso incontri, oltre che lettere (non siamo ancora in tempi da cellulari). I due, oltre all’amore, sviluppano l’idea di un mondo “altro”, una città cinta da mura, dove ognuno ha il suo posto, il tempo non scorre, ed altre “amenità” di cui non vi narro.

Solo che la ragazza dice che la vera lei è dentro la città e quella presente è una rappresentazione, un’ombra. Finché ad un certo punto, la ragazza-ombra scompare ed il narratore entra in una depressione quasi fatale. È ben qui che vediamo le dicotomie dell’autore, tra il mondo imperfetto in cui viviamo ed un mondo perfettibile cui miriamo. Ma quella perfezione porta sacrifici, che forse sono più pesanti delle imperfezioni.

Insomma, il nostro ci narra la sua vita, fino al punto di riuscire, non si sa bene come, ad entrare nella città. Il sacrifico è separarsi dalla sua ombra (metafora anche qui della scissione buono-cattivo, dove solo l’unione dei due porta alla nostra unicità). Nella città murata, lui ormai oltre i quaranta, ritrova la ragazza, congelata nei suoi diciassette anni. Lei bibliotecaria, e lui, per starle vicino, si inventa la professione di “Lettore di sogni”. Come le disse l’ombra, però, la “vera-lei” nulla ricorda. E lui guarda il suo sogni di gioventù, che non può più raggiungere.

Posto davanti alla realtà di questa impossibilità, il nostro decide di tornare fuori le mura, di lasciare il suo lavoro e di re-inventarsi bibliotecario in una sperduta città di provincia. Lì nascono altre storie, rapporti con passato e presente, con i vivi e con i morti. In particolare, nasce un rapporto con un quasi autistico, il cui unico interesse è la lettura. Ovvio che il nostro vede nel giovane la proiezione del sé stesso di tanto tempo prima, le sue speranze, le sue attese. Ed al giovane narra della città, anche se non sa come tornarci.

Comunque, in questa vita matura e altra, oltre alla proiezione sul giovane, trova la possibilità di istaurare un rapporto “d’amorosi sensi” seppur non di sesso, con una simpatica barista. Il loro rapporto inizia ma rimarrà sospeso, mentre il giovane riesce a trovare lo spazio mentale per entrare nella città dalle mura incerte, e forse trovare il modo di instaurare un rapporto con la famosa bibliotecaria.

E poi …

Poi il libro finisce. Ed io, ripensandolo, ne rivede i punti forti dell’autore. Il tema del rimpianto (non ci sarà mai un sentimento forte come quello della gioventù). Il tema delle decisioni e dei bivi: i protagonisti maschili (ed in questo sono concorde che Haruki da maschio scrive) che si trovano davanti a punti di svolta della vita. Il tema della lettura e della letteratura come elementi che definiscono la nostra vita, laddove leggere un libro è un mondo per conservare sana la propria mente.

La prosa è di una chiarezza cristallina, anche nei momenti onirici che meno riescono a coinvolgermi. Forse anche grazie all’ottima traduzione di Antonietta Pastore. Con quel finale aperto, come si diceva, che le storie in realtà, non finiscono mai.

Alcune considerazioni finali. Come detto all’inizio la prima versione esce sulla rivista che, tradotta in italiano, si chiama “Mondo letterario”. Una rivista che nasce nel 1893 e, con alterne fortune, esce ancora con continuità. Nel primo comitato di redazione era presente il grande scrittore Tōson Shimazaki che Murakami cita in un piccolo cammeo a pagina 333.

Secondo poi, sul fronte musicale, ci sono accenni, anche se l’unica presenza un po’ più costante è data dalla musica jazz suonata nel locale vicino al cimitero. Dove il protagonista ascolta spesso il “Dave Brubeck Quartet”, ed in particolare l’esecuzione magistrale di “Just one of those things”.

“- Che genere di libri sceglie? – Tutti. L’argomento non gli importa. Non conosce il piacere di scegliere. Digerisce tutto quello che c’è scritto, dall’inizio alla fine, come se fosse una bevanda nutriente. Assimila tutto, qualsiasi genere di informazioni.” (332)

Visto che siamo in un giugno di prospettive, torniamo allora a ripercorrere passi notevoli rimasti come briciole nella memoria. Ne riprendo alcuni da un’autrice di cui lessi molto anni fa per poi lasciarla da parte. Sono frasi di Matilde Asensi tratte dal suo romanzo storico “Iacobus” e di cui vi invito a soffermarvi sulla seconda e sulla quarta.

“Ricorda che si può sempre scegliere. Sempre. Nella tua vita, da quando cominci ad avere un certo controllo su di essa, si alternano le scelte azzeccate e quelle errate, ma sempre di scelte si tratta. … Se giungi dove intendi arrivare, allora hai scelto bene … altrimenti, vuol dire che a un certo punto ti sei sbagliato, che hai preso la decisione errata e che quelle successive ne sono state influenzate” (61)

“Ricordami che tra le prime cose che ti devo insegnare vi sono le lingue araba ed ebraica. Senza di esse oggigiorno non si può andare per il mondo” (80)

“Che importa avere un nome oggi e un altro domani? … Io sono il medesimo con qualsiasi nome” (188)

“L’adolescenza è un’età terribile della vita, come si dice, ma non per chi la vive, bensì per chi deve sopportarla” (190)

“Se si nega qualcosa con forza e perseveranza sufficienti, risulta impossibile smentirlo senza prove” (199)

“Questo è il problema di non essere immortali: ci perdiamo il futuro” (200)

Allora, grande autore, lunghe trame, belle citazioni, e grandi lavori per i viaggi altrui. Noi si aspetta luglio e magari qualche soluzione economica. Per ora ci mettiamo al servizio di chi viaggia, sperando che le conoscenze acquisite servano a qualcosa. Per cui vi abbraccio.