Aspettando,
come tutti i Murafan, che prima o poi riceva il Nobel, vi lascio alla lettura.
Haruki
Murakami “Uomini senza donne” Corriere – Murakami 15 euro 8,90
[A:
19/08/2020 – I: 12/12/2024 – T: 14/12/2024] - &&&
e ½
[tit.
or.: 女のいない男たち Onna no
inai otokotachi; ling. or.: giapponese; pagine: 222;
anno 2014]
Eccoci
di nuovo ad uno dei miei autori preferiti, con uno dei suoi ultimi testi (di
solo dieci anni fa) e con alcuni motivi per essere rimasto ad un buon livello
di interesse. A partire dal titolo, che, una volta tanto, rispecchia il titolo
originale. Ed a partire dal fatto che, essendo racconti, raccolgono un mezzo
voto in meno. Anche perché, pur se frammentari, hanno uno spirito comune e
congruente. È una di quelle raccolte che si stringono intorno ad un’idea e la
portano avanti nelle loro piccole sfaccettature.
Un
piccolo rimando interno non può che farci venire in mente che una raccolta
dallo stesso titolo fu pubblicata nel 1927 da Ernest Hemingway, ma qui siamo
altrove e seguiamo il percorso del più occidentale dei giapponesi attraverso
sette racconti, pubblicati sempre intorno al 2014 in giapponese, poi in alcune
traduzioni inglesi (anche se non tutti) per poi essere riuniti in questo
volume.
A
voler cercare una definizione del filo che lega i testi, ci possiamo riferire
ad una frase contenuta nell’ultimo racconto: "A volte perdere una donna
significa perderle tutte. Così diventiamo uomini senza donne." Perché
tutti e sette sono racconti in cui ci sono uomini che perdono le donne. Per
abbandono, per morte, per incapacità, o per una combinazione di tutti e tre i
motivi. Questo porta da un lato ad un ribaltamento dei ruoli tradizionalmente
legati ai rapporti amorosi, dove si vedeva, spesso e volentieri, come le donne
fossero abbandonate. Utilizzando un moto contrario anche nell’andamento dei
testi: l’abbandono è in genere il motivo che dà l’avvio al testo e non la sua
chiusura.
Ma
è anche il teatro che dà modo all’autore di tornare ed approfondire i temi
presenti in tutte le sue opere. C’è l’ascolto (spesso il narratore è il
destinatario delle parole del protagonista), un ascolto che unito ai tanti
silenzi (peculiarità giapponese) riesce a sottolineare come sia delicata (e
spesso non bilanciata) la relazione che si instaura tra le parti. C’è sempre un
grande approfondimento psicologico, che porta, palesemente o meno, gli attori
dei testi a chiedersi quale sia la propria natura (“chi sono io?”). C’è il
passato che spesso ritorna anche travolgendo il presente, dato che tutti in
fondo uniscono i propri pensieri (passato ricordato, presente vissuto, futuro
immaginato), alla ricerca di un senso da dare alla realtà.
Non
mancando poi tutto il bagaglio che Murakami si porta sempre dietro: l’amore per
la musica, ed in particolare per il jazz, ed un occhio attento alla letteratura
occidentale, da cui riprende modalità classiche per adattarle alla realtà
giapponese.
Drive my car (doraibu mai kā ドライブ・マイ・カー)
Il
protagonista è un attore, Kafuku, ma il motore del racconto avviene quando lui,
dovendo girare per teatri e con la patente tolta per vari motivi, assume una
giovane donna Misaki, come autista. Una presenza muta, che alla fine porta
Kafuku a narrare la sua storia, il suo profondo amore per la moglie morta, la
sua tristezza nel saperla piena di amanti, ed il tentativo di farne rivivere il
ricordo cercando l’amicizia con l’ultimo di questi, anche per capire i motivi
della moglie di cercare sesso lontano da lui. Non ci sono risposte alle domande
di Kafuku, per cui è Misaki che racchiude l’agire dell’attore, consigliandogli
che tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giù e
andare avanti.
Yesterday
(iesutadei イエスタデイ)
Stavolta
il narratore è Aki un giovane universitario colto in un momento di crescita
verso un futuro che non gli è chiaro, mentre il protagonista è il suo amico Kitaru,
che pensa di non avere doti particolari, di aver poco da offrire ad Erika, la
sua ragazza. Tanto da cercare di farla innamorare di Aki. Il titolo è ovvio
quello della canzone dei Beatles, come nel testo precedente, ma che qui è l’emblema
di tutta una serie di tentativi di Kitaru di omologarsi (tradurre i Beatles in
giapponese, imparare un dialetto locale). Ma l’incerta storia d’amore porterà
solo ad un abbandono da parte di tutti i protagonisti, e lo sapremo quando
sedici anni dopo i fatti Aki ed Erika si incontrano di nuovo e ci fanno sapere
come si sono evoluti lui, Erika e Kitaru. Evoluti ma lontani.
Organo
indipendente (dokuritsu kikan 独立器官)
Tralasciando
l’interpretazione del titolo, che secondo me è secondaria rispetto al testo,
abbiamo un narratore senza nome che ci parla del suo compagno di palestra, il
chirurgo estetico dr. Tokai. Uno che attraversa la vita senza grandi acuti,
accontentandosi di relazioni senza impegno con donne sposate. Ma poi si
innamora, e quando la donna lascia sia lui che il marito Tokai si lascia
morire.
Shahrazād
(she'erazādo シェエラザード)
Qui
il narratore è Habara, un uomo che non sappiamo per quale ragione è confinato
in casa. Unico contatto è una donna, che gli fa la spesa, cucina, pulisce, gli
porta dei libri e fa l’amore con lui. Il punto è che, come la Shahrazad del
titolo, la donna poi, dopo l’amore, racconta delle storie, che non porta mai a
termine, che lascia sospese per riprenderle la volta successiva. Come quella
del suo intrufolarsi, adolescente, nella casa di un suo compagno di classe, per
prendere oggetti della vita di lui lasciandone di suoi in cambio. Ma il
nocciolo è l’ansia di Habara nel non sapere se la volta successiva sarà ancora
lei a sostentarlo, o verrà abbandonato. Perché perdere una donna, quella donna,
è perdere quei momenti di intimità che annullavano una realtà forse non proprio
felice.
Kino
(kino 木野)
Anche
qui esploriamo i temi propri dell’abbandono. Il protagonista, Kino, trova la
moglie a letto con un suo amico. Chiude la porta, se ne va, cambia vita, apre
un bar. Dove si troverà ad essere accompagnato prima da un gatto, poi da
Kamita, che legge libri al bar ed è uomo di poche parole. Qui il racconto
assume una piega da realismo magico che me lo ho fatto amare di meno. Scompare
il gatto, compaiono dei serpenti, e Kamita lo consiglia di andare lontano per
un po’. Che kino è un uomo corretto, ma a questo mondo astenersi dal far male
non sempre basta. Starà lontano fino a che non avrà capito il rapporto con la
moglie, non avrà capito il dolore che ciò gli ha provocato, e che lo ha portato
a chiudere una pagina senza elaborarla. È forse il racconto più criptico e che
più di altri rimane sospeso.
Samsa
innamorato (koisuru zamuza 恋するザムザ)
Altro
racconto che ho poco amato, anche se viene esaltato dai critici per quel
capovolgimento del testo che ci aspettiamo sin dal titolo. Qui, rovesciando
Kafka, un essere si sveglia nei panni di Gregor Samsa, nudo e indifeso. Riceve
la visita di una donna con la gobba (che gli ricorda uno scarafaggio) che gli
provoca un’erezione. Quando lei lo lascia, si chiede se la rivedrà, che il
nostro Samsa è abbandonato senza ben sapere cosa sia una donna, mentre
sottilmente Murakami ci suggerisce che nessuna metamorfosi può impedire alla
natura di fare il suo corso.
Uomini
senza donne (onna no inai otokotachi 女のいない男たち).
Fulminante
come tutte le chiuse del nostro. Anche qui non abbiamo in realtà un dualismo di
attori, c’è solo il narratore che riceve di notte una telefonata: un uomo gli
dice che sua moglie, un tempo amante del narratore, si è suicidata. Comincia
così un percorso nei ricordi del narratore verso i momenti di vicinanza e di
abbandono con la donna ora morta. Un dialogo interiore sulla solitudine, che
porterà il narratore a quella conclusione che ho posto all’inizio di questa
parte della trama.
In
fondo, lo scrittore ci vuole mostrare l’assenza delle donne dalla vita dei
protagonisti per poterci dire che è l’amore che ci libera dalla solitudine,
attraversando tutte le fasi tra l’azione avvenuta e (teniamo sempre a mente i
grandi passaggi di “Norwegian Wood”) la nostalgia per ciò che non è accaduto.
Un
solo ultimo accenno personale, dove, a pagina 148, il barista amante di jazz Kino
parla dei suoi oggetti di ascolto della musica. Ed ovviamente, come avevo io da
giovane, l’amplificatore è un Luxman. Che salto indietro ho fatto.
“Doveva
conoscere la verità, per quanto grande fosse il dolore. Solo la conoscenza
della verità rende gli esseri umani più forti.” (16)
“Non
c’è operazione estetica che possa alzare le capacità intellettive di una
persona.” (79)
“Dopo
averti incontrato / in confronto a ciò che provo / ora per te nel mio cuore / è
come se mai prima / avessi amato.” (89)
Haruki
Murakami “Il mestiere dello scrittore” Corriere – Murakami 20 euro 8,90
[A:
22/09/2020 – I: 21/01/2025 – T: 23/01/2025] - &&&
[tit. or.: 職業としての小説家 Shokugyo
to shite no shosetsuka; ling. or.: giapponese; pagine: 186; anno 2015]
Continuiamo
la filologica di Murakami, con uno scritto che non è un romanzo ma che parla di
romanzi, e dell’autore, inserendo momenti biografici, anche se non è neppure
un’autobiografia. Intanto, avrei preferito una maggior aderenza nel titolo,
laddove, pur se formalmente corretto, il giapponese, in origine, riporta “Romanziere
come professione”. Che è quello di cui ci parla Murakami: la sua professione
(scrivere romanzi), il modo in cui nasce e le motivazioni per cui rimane e, da
un certo punto in poi, pervade la sua vita.
Già
sappiamo, noi Murafan, che la scintilla avviene su di un grande prato in quel
di Tokyo, mentre assiste ad una partita di baseball (capitolo secondo). È già
uomo di vari mestieri, ed in quell’epoca, sposato, gestisce un jazz-bar in un
piano interrato di un palazzo all’uscita sud della stazione di Kokubunji a
Tokyo. Ma da quel pomeriggio nasce una scintilla. Scrive, elabora, propone i
suoi scritti, vince un premio, ne perde altri. E da lì nasce la sua
professione.
Qui,
in undici ordinati capitoli, non solo ci parla di questa genesi, ma percorre il
suo mondo narrativo, aprendo, qua e là, alcuni spiragli sui suoi processi
creativi. Come, ad esempio, quando tratteggia il romanziere come una persona
solitaria (capitolo uno), che usa in modo peculiare il proprio tempo (capitolo
sesto, ma ci torniamo), e che ha bisogno di una grande resistenza per rimanere
attaccato alle proprie parole finché queste non esauriscano la spinta
propulsiva (capitolo settimo).
Tratteggiando
(nel capitolo quinto) la necessità di leggere (come anche nelle frasi
riportate), consiglia di leggere, parlare, osservare la realtà, e poi metterla
ordinata nei cassetti della memoria. Quando serve è da lì che comincia ad
attingere il suo materiale. Così che non ci meravigliamo se, in romanzi
diversi, tornano tematiche simili e prospettive analoghe. Evidentemente ha
riaperto un vecchio cassetto, trovandoci ancora qualcosa (capitolo nono).
Un
esempio dei processi creativi viene sia dalle prime scritture (1979) che da un
romanzo del 1988. Per le prime, aveva buttato il suo testo scrivendo a penna su
dei fogli. Ma non sentiva uscire da quei fogli quanto sentiva nella sua mente.
Allora, prende e lo traduce in inglese (battendo forsennatamente i tasti della
sua Olivetti), pensandolo anche in quella lingua non sua (e ci ricorda i
processi di scrittura della grande Agota Kristof). Poi, ritraduce in giapponese
il testo inglese, e ne esce lo stesso testo, ma più asciutto, essenziale,
giusto.
Il
romanzo invece era “Dance, dance, dance”, scritto interamente a Roma, laddove
casualmente, perde il manoscritto. Decide allora di scriverlo da capo, per poi,
tornato in patria, avere la fortuna di ritrovare il primo testo. Ebbene, la
riscrittura “a mente” aveva reso il testo, per l’autore, migliore e più suo.
Ci
si collega così al concetto di originalità (capitolo quarto), un tratto
distintivo assolutamente poco giapponese, dove tutto tende all’uniformità, al
confondersi nella massa. Ma Murakami, il più occidentale degli scrittori
nipponici, non può non essere diverso. Per cui, affinatosi nel corso del tempo,
il suo stile diventa riconoscibile, tale da essere visto come “classico” dai
suoi lettori. Un processo che non posso che condividere: si capisce subito chi
sia lo scrittore fin dalle prime pagine dei suoi testi. E spesso sono attacchi
che ti legano alla pagina, anche laddove il resto del libro a volte non rimane
allo stesso livello.
Ci
sono anche capitoli un po’ “isolati” dal contesto, dove cerca di convincerci
della sua refrattarietà ai primi letterari (capitolo terzo) sia in termini di
concorrente sia, soprattutto, in termini di giurato. O dove fa una critica
spietata e puntuale (capitolo otto) dell’approccio nozionistico e competitivo
del sistema scolastico giapponese.
Gli
ultimi due capitoli sono anche loro, in un certo senso, momenti isolati delle
sue riflessioni. Da un lato (capitolo dieci) si domanda per chi scrivere, ed io
con lui sono completamente d’accordo: si scrive per sé stessi. Se poi, le
nostre parole fanno vibrare qualcosa nell’animo del lettore è sicuramente un
bene per il lettore, ma non lo scopo per l’autore. L’ultimo consiglio (molto
rivolto ai suoi conterranei, ma che anche qui mi trova all’unisono) è di andare
in giro, di vedere altri luoghi, altre realtà. Io che ho viaggiato molto ve lo
dico con il cervello in mano: si vedono tante realtà diverse, e, stando
attenti, si capisce molto di sé stessi.
Come
si è capito, pur non stravolgendo le nostre comuni basi di persone che
scrivono, questo testo è di mia personale gradevole lettura. Una lettura che ci
dipinge il romanziere come un metodico artigiano il cui primo passo, finita la
scrittura, è far leggere il testo alla moglie ed ingaggiare con lei accese
discussioni testuali. Perché chiunque può scrivere un romanzo, ed è importante
che la scrittura sia per l’autore, un suo momento di esternazione su altri
mezzi di quanto sente dentro di sé.
Se
poi, lo scritto, sarà pubblicato, sarà letto, avrà un seguito di lettori che ne
apprezzeranno le parole, non solo va al di là delle intenzioni, ma va al di là
dell’idea stessa dello scrivere.
Motivo
per cui, continuando a leggere Murakami, continuo anche a tessere le mie personali
trame letterarie.
“Quando
si prende l’abitudine di leggere … non si riesce a staccarsene facilmente.”
(44)
“Mi
limito a fare abitualmente una cosa che mi è congeniale. Per quanto determinato
uno sia, non può portare avanti per trent’anni un’attività che non gli piace.”
(103)
“Ogni
creazione letteraria contiene in qualche misura lo scopo di migliorare sé
stesso.” (149)
“Abraham
Lincoln: Si possono ingannare molte persone per breve tempo. Si possono anche
ingannare poche persone a lungo. Ma non è possibile ingannare molte persone per
molto tempo.” (174)
“Stabilire
chiaramente il proprio obiettivo è una cosa fantastica. A qualunque età, in
qualunque luogo.” (182)
Haruki
Murakami “L’assassinio del Commendatore” Corriere Giappone 1 euro 9,90
[A:
07/05/2021 – I: 16/03/2025 – T: 20/03/2025] - &&
[tit.
or.: 騎士団長殺し 第1部: 顕れるイデア編 Kishidanchō Koroshi. 1: Arawareru idea-hen
& 騎士団長殺し 第2部: 遷ろうメタファー編 Kishidanchō Koroshi. 2: Utsurou metafā-hen;
ling. or.: giapponese; pagine: 844; anno 2017]
Ho
atteso a lungo prima di imbarcarmi nella lettura di uno degli ultimi scritti di
Murakami (anche se di ben otto anni fa) sia spaventato dalla lunghezza, sia per
la paura di avere qualche delusione. Alla fine, lo spavento è stato gestito con
poca fatica, mentre la paura è rimasta, portando con sé anche un po’ di
delusione. Certo, è un tipico libro di Murakami, con tutte le sue bravure di
scrittura, con i rimandi, interni ed esterni, con quel pizzico di magia sempre
presente. Ma il risultato finale non mi ha soddisfatto. Sono rimasto un po’
dispiaciuto.
Intanto,
al solito encomiabile lo sforzo di traduzione di Antonietta Pastore, che ben
rende il mondo del nostro scrittore, con quei piccoli aggiustamenti sintattici
che non cambiano il senso delle cose. Come i titoli delle due parti. Rivelare
le idee giustamente si può rendere con Idee che affiorano e Metafore di
transizione ben si adatta in Metafore che si trasformano. E, seppur i due
titoli hanno attinenza con il testo ed il suo sviluppo, nella mia trama non
riesco ad entrarci completamente. Altro attira la mia attenzione ed il mio
pensiero.
Intanto
ci sono due elementi che caratterizzano lo scritto, uno fin dalle prime righe
ed uno nel corso del lungo testo. Leggi l’inizio, e sei già “dentro” Murakami.
Presenta la situazione, alcuni personaggi, un’ombra di trama, e già sai che
sarà difficile staccarsi. Anche se non ti prende in maniera asfissiante, anche
se i ci sono passaggi che non convincono, non potrai fermarti prima della fine.
La
seconda è la ricorrenza di tematiche spesso presenti negli scritti di Murakami.
Come dice infatti nel saggio “Il mestiere di scrittore”, la scrittura si deve
far riconoscere, facendo dire al lettore “ecco, sto leggendo di Murakami”. Così
ritornano le tematiche dell’allontanamento tra marito e moglie (vedi “L’uccello
che girava le viti del mondo”), gli accenni a Kafka, come scrittore, ed al
libro con la sua ambientazione boschiva e di buche (vedi “Kafka sulla
spiaggia”), fino all’uso dei nomi significanti legati ai colori ed alla pittura
(vedi “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”).
Come
detto, pur non entrando nello specifico dei titoli, è ovvio, per chi conosce
Murakami, che il testo sia pieno di idee (ed è un discorso interessante da
affrontare) ed altrettanto pieno di metafore (cui invece non mi avvicino,
troppo essendo la mia ignoranza). Idee che riguardano l’espressione artistica
sia essa pittura che scrittura, idee sul rapporto con gli altri (beh, questo è
facile), ma anche sul concetto di genitorialità e su quello dell’amicizia.
La
storia ordinaria, come spesso accade in Murakami, è abbastanza lineare e tutto
sommato semplice. Il protagonista (di cui non ci viene detto il nome) è
lasciato dalla moglie Yuzu senza motivi apparenti. Dopo aver vagato in auto per
due mesi, accetta l’offerta dell’amico Amada Masahiko di vivere e tenere in
ordine la casa di campagna del padre, il pittore Amada Tomohiko. In quel di
campagna, il nostro (che era un valente ritrattista) si ritira su sé stesso, dedicandosi
alle minute cose, e, per sopravvivere, ad impartire lezioni di disegno alla
comunità.
Per
inciso, le lezioni gli frutteranno due avventure di sesso, una leggera ed una
più lunga e meditata, ma entrambe fini a sé stesse. Nella villa, oltre ad avere
un grande assortimento di vinili (ed un piccolo elenco di musiche riporto in
fondo), il protagonista trova un quadro dipinto e poi nascosto da Tomohiko. Vi
viene ritratto “L’assassinio del Commendatore” così come risulta dal primo atto
del Don Giovanni di Mozart. Un quadro che dà agio a Murakami di parlare a lungo
di pittura, ma anche di musica. Un quadro che darà il via ad una serie di
avvenimenti, alcuni sensati altri “magici” (e sono quelli che con fatica
seguo).
A
fronte delle lezioni e dell’interessamento del suo agente, il nostro viene
avvicinato dal suo vicino di casa, Menshiki (un nome parlante, vedi quanto
detto sopra, se è vero che in giapponese si può tradurre come “sfuggire al colore”),
un personaggio strambo, molto vicino idealmente al Gatsby di Scott Fitzgerald
(ricco, con qualche ombra sulla provenienza dei soldi, sfarzoso nelle sue
manifestazioni, tipo guidare una Jaguar E o affittare un cuoco a cinque stelle
per una cena nel suo castello con il nostro protagonista).
Menshiki
vuole un ritratto, ed è pronto a sborsare cifre esorbitanti per ciò. Seguiremo
tutta la genesi del ritratto stesso, dove Murakami si addentra nelle sue teorie
sulla creazione artistica solitaria. Non solo, Menshiki ha anche comperato la
villa per poter tenere d’occhio la vita della giovane Marie (che sta sulla
collina opposta) dato che potrebbe, in base a circostanze complesse che vi
lascio leggere, essere sua figlia naturale.
Il
nostro e Menshiki inoltre scovano nel bosco una strana buca con una campanella
dentro, che ogni tanto si mette a suonare. E qui comincia la parte
“improbabile”: il nostro è l’unico che vede un piccolo essere, con le fattezze
del Commendatore del quadro, con cui instaura un dialogo sui comportamenti
umani, e sulle sue attività in particolare.
Menshiki
allora, dopo che apprezza grandemente l’operato del protagonista, gli chiede di
ritrarre anche Marie. Comincia così una parte sbilenca, dove il nostro e Marie
hanno interessanti dialoghi, seppur tra un disadattato ed una tredicenne.
Mentre Menshiki viene attratto e comincia una storia con la zia di Marie. Il
dramma (perché se c’è una buca, come direbbe Tolstoj, prima o poi servirà a qualcosa)
avviene quando Marie sparisce. Il pittore viene avvertito quando è andato a
trovare Tomohiko morente, avendo bisogno di comunicare con lui le scoperte sul
quadro che gli ha rivelato Menshiki. Qui si parte per la tangente: appare il
Commendatore che chiede al nostro di ucciderlo come nel quadro, cosa che fa,
per poi trovarsi in boschi, valli e fiumi di improbabile nascita, con
personaggi tra l’invenzione e la schizofrenia. C’è un tizio senza volto (su cui
torniamo), compare Donna Anna del Don Giovanni, il nostro si ritrova nella buca
dove (dopo quasi nove mesi) pensa alla moglie Yuzu ripromettendosi di
chiamarla.
Uscito
dalla buca, ritrova anche Marie, per poi avviarsi ad un finale veloce ed altro.
Menshiki e la zia probabilmente hanno una storia, Marie cresce e matura, anche
lontano dal non certo padre, il nostro torna insieme a Yuzu che nel frattempo
partorisce una bambina, che non può essere fisicamente figlia del nostro, ma
che lui crescerà “come un padre”. Finendo con questa dualità padre – figli,
dove lui cresce una figlia sicuramente non sua e Menshiki segue la crescita di
una figlia che potrebbe essere sua.
Un
racconto nel racconto è poi legato al quadro. Tomohiko era un valente pittore
giapponese in stile occidentale, che sul finire degli anni ’30 si trasferisce a
Vienna, dove ha una storia con una signorina austriaca avversa al regime.
Quando lei ed i suoi sodali vengono sorpresi nel tentativo di un attentato
verso qualche gerarca, gli austriaci vengono deportati e Tomohiko rimpatriato
forzatamente. Tornato in patria, cambia stile passando dall’occidentale ad uno
stile denominato “nihonga” (uno stile artistico nel quale le opere sono
realizzate secondo le convenzioni artistiche tradizionali e con l'utilizzo di
tecniche e materiali della tradizione giapponese). Ed è in questo stile che
realizza il quadro del titolo, dove si potrebbe vedere (metaforicamente) il
Commendatore nelle panni del gerarca nazista, Donna Anna in quella della sua
amante tedesca e Tomohiko in quel di Don Giovanni.
Questo
inciso, ma anche tutta una serie di riflessioni, portano gli interpreti e
Murakami ad interrogarsi sull’influenza e la responsabilità dell’Occidente
nelle modifiche alle tradizioni giapponesi. Ci sono poi momenti che rimangono
lì sospesi, ed a volte scompaiono. Tipo che il testo comincia con il nostro,
ben dopo la fine delle avventure narrate, non riesce a fare il ritratto di una
persona di cui dice “era una persona senza volto”. Persona che compare durante
la ricerca della scomparsa Marie, e che aiuta il nostro solo in cambio della
promessa di un ritratto. Che non verrà mai fatto, almeno nelle più di 800
pagine del libro (e questa persona compare solo in due episodi per un totale di
sette pagine su 840).
Quindi,
processi creativi, identità di genitori, rapporti sessuali piacevoli, momenti
conviviali, campanelle che suonano, piccoli esseri alti cinquanta centimetri
che compaiono ma solo per il nostro, la creazione individuale del ritrattista,
e tante altre piccole cose. Qual è lo scopo di tutto questo?
Forse
poco o nulla. Cioè Murakami butta là tanti discorsi, tante idee, un po’ le
porta avanti, un po’ le lascia a noi lettori. Terminando tutto in maniera
sospesa, chiudendo certo molte discussioni, ma lasciandone altrettante aperte e
vaganti per le pagine e per la testa di noi poveri Murafan. Per questo, alla
fine, non sono convinto del risultato. Pur ribadendo che Murakami è un grande
scrittore, e che ritengo sia degno di ricevere il Premio Nobel.
Ed
ora leggeremo anche gli ultimi scritti.
“Per
convincersi di una cosa, lei ci impiega più tempo della maggior parte della
gente.” (50)
“Non
mi riconosce più. Probabilmente non sa nemmeno chi è. Forse avrei dovuto
chiedergli tante cose prima che si riducesse così. A volte lo penso. Ma ormai è
tardi.” (76)
“Feci
a matita uno schizzo accurato di ognuno [di loro] … come un lettore [che]
annota con scrupolo, parola per parola, i passaggi di un libro che gli sono
piaciuti.” (94)
“A
volte ci sono delle cose che una persona è meglio non sappia.” (280)
“Uno
cammina su una strada che crede sia la propria, quella giusta, e tutt’a un
tratto la strada gli viene a mancare sotto i piedi. Così deve avanzare nel
vuoto, senza sapere dove va, senza avere alcun appiglio.” (408)
“Tutti
quanti abbiamo nel cuore segreti che non possiamo svelare.” (820)
Autore |
Titolo |
Mozart |
Don
Giovanni (atto I – L’assassinio del Commendatore) |
Sheryl Crow |
Run Baby Run |
Sheryl Crow |
Leaving Las Vegas |
Sheryl Crow |
Strong Enough |
The Rolling Stones |
Time Is on Your Side |
Unknown |
Annie Laurie |
The Beatles |
Fool On the Hill |
Schubert |
Rosamunda,
principessa di Cipro |
Richard Strauss |
Il
cavaliere della rosa |
The Doors |
Alabama Song |
Donny Hathaway and Roberta Flack |
For All We Know |
ABC |
The Look of Love |
Bertie Higgins |
Key Largo |
Debbie Harry |
French Kissin’ in the USA |
Bruce Springsteen |
Independence Day |
Bruce Springsteen |
Hungry Heart |
Bruce Springsteen |
Cadillac Ranch |
Mozart |
Don
Giovanni |
Haruki
Murakami “Prima persona singolare” Corriere –
Murakami euro 9,90
[A:
30/08/2022 – I: 02/04/2025 – T: 03/04/2025] - &&&
[tit.
or.: 一人称単数 Ichininshō
Tansū; ling. or.: giapponese;
pagine: 142; anno 2020]
Prima
di attaccare l’ultima fatica narrativa del grande scrittore, eccoci arrivati
alla sua penultima uscita, una raccolta di otto racconti di circa 6-7 anni fa,
e riuniti in volume cinque anni fa e tradotti dall’eccellente Antonietta
Pastore. Sebbene si sa io non sia un amanti di questo genere di letteratura, ci
sono ovviamente alcune eccezioni, come ad esempio mirabili testi di Alice
Munro. Ed anche, siamo sinceri, alcuni testi di Murakami. Non tutti e non
sempre, ma la stoffa dello scrittore emerge e qualcosa ci dona.
Intanto
qui si adopera in un gioco linguistico e personale mirabile, che probabilmente
avrebbe avuto bisogno di un commento da parte degli editori italiani. Laddove,
in assenza, qualcosa della complessa costruzione narrativa, si perde. Infatti,
tutti e otto i testi sono narrati, come dice il titolo che li accomuna, nella
prima persona singolare.
Ebbene,
qui ci sono da fare due precisazioni. In primo luogo, in giapponese ci sono
globalmente più di venti modi per esprimere il concetto di “IO”, e di questi
una decina ancora in uso corrente. Murakami, nei primi sette testi, ne usa un
paio (ripreso da un articolo di una rivista giapponese), essenzialmente “boku”
(pronome tra il formale e l’informale, quasi esclusivamente maschile,
introdotto nel XIX secolo) e “ore” (esclusivamente maschile e molto informale,
quello più usato nei manga). Solo l’ultimo testo utilizza “watashi” (il modo
più comune per riferirsi a se stessi, usato più spesso dalle donne che dagli
uomini). Poiché Murakami usa in modo attento le parole, credo che abbia avuto
le sue idee per usare un pronome invece che un altro.
La
seconda precisazioni riguarda invece il paradigma autobiografico che viene
sovrapposto al testo. Certo, e lo sappiamo da altre letture di suoi scritti e
saggi, molta parte di questi racconti utilizza momenti biografici della sua
vita. Per poi, senza ovviamente avvertirci, volare via per le sue strade
fantastiche ed oniriche, per imbastirci storie e farci partecipi del suo mondo.
Sia di quello reale sia di quello immaginato (e preferisco questo termine a
immaginario).
Ma
veniamo ora ai testi
Su
un cuscino di pietra (石のまくらに,
Ishi no Makura ni) pubblicato 07/2018
Durante
gli anni del college, il narratore lavoro (per pagarsi gli studi) in un
ristorante, dove conosce la cameriera, e, dopo una festa per il suo
licenziamento, si ritrovano a bere birra e fare sesso a casa di lui. Là dove,
nel culmine dell’orgasmo, lei invoca un nome di uomo. Saputo che il narratore
studia letteratura, lei gli confessa di scrivere “tanka”, dove in seguito
invierà una sua raccolta autoprodotta. L’autore non ricorda più nulla di lei,
ma ogni tanto gli tornano in mente alcuni versi.
La
crema della vita (クリーム,
Kurīmu) pubblicato 07/2018
Al
liceo, il narratore riceve l’invito ad un concerto di piano da una ragazza,
conosciuta a mala pena. Si reca sul posto, dove non c’è nessun concerto.
Smarrito, si riposa in un parco dove, tra realtà e sogno, incontra un vecchio
che gli dice: “immagina un cerchio con diversi centri e senza circonferenza”.
Quando lo visualizzeremo, potremmo dire di aver realizzato il massimo, o, come
dicono i francesi, “la crème de la crème”. L’autore non ha mai saputo più nulla
né della ragazza né del vecchio, ma ogni tanto pensa ai cerchi.
Charlie
Parker Plays Bossa Nova (チャーリー・パーカー・プレイズ・ボサノヴァ,
Chārī Pākā Pureizu Bosanova) pubblicato 07/2018
Forse
il migliore. Intreccia un articolo di fantasia scritto durante l’Università,
dove immaginava l’improbabile uscita, nel ’63, di un disco di Charlie Parker
(morto nel ’55) che suona la Bossa Nova insieme ad Arturo Carlos Jobim.
Quindici anni dopo vede quel disco inesistente in un negozio di dischi a New
York, ma quando prova a comperarlo, il disco scompare. Nel tempo presente,
infine, Parker gli appare in sogno e gli suona un pezzo del disco.
"With
the Beatles" (ウィズ・ザ・ビートルズ,
Wizu za Bītoruzu) pubblicato 08/2019
Essendo
del ’49, nel ’64, negli anni del liceo, assiste al boom musicale dei Beatles, e
ricorda una ragazza con in mano l’album “With the Beatles” (inciso: è il
secondo album dei Beatles, pubblicato in Italia con il titolo “I favolosi
Beatles”). Ragazza molto bella, ma mai più incontrata. Laddove invece si
ricorda di aver frequentato all’epoca Sayoko, la sua prima ragazza. E di aver
incontrato una sola volta il fratello di lei, colpito da una malattia che
mescola l’ordine dei ricordi. Dopo diciotto anni, a Tokyo, incontra il
fratello, che gli narra come, tre anni prima, Sayoko si sia suicidata.
“Antologia
poetica per gli Yakult Swallows” (ヤクルト・スワローズ詩集, Yakuruto Suwarōzu Shishū) pubblicato
08/2019
Una
delle commistioni maggiori. Murakami adora il baseball e sappiamo (da “Il
mestiere di scrivere”) che immagina il suo primo testo assistendo ad una
partita di baseball della sua squadra preferita, le rondini Yakult (gli Yakult
Swallows). Qui parte per la tangente, descrivendo le poesie che scrive mentre
assiste alle partite, nonché al libro che si autopubblica con il titolo di
questo racconto.
"Carnaval"
(謝肉祭, Shanikusai)
pubblicato 12/2019
Qui
si intrecciano diversi motivi. Un “body shaming” verso una sua amica, definita
la donna più brutta da lui incontrata. Ma una critica selvaggia che si tramuta
in grande amicizia, laddove entrambi, se avessero dovuto salvare un pezzo
musicale, avrebbero indicato la composizione di Robert Schumann per pianoforte “Carnaval,
op. 9”. Dopo un intenso periodo, la donna scompare, e solo dopo sei mesi, lui
scopre che è stata arrestata per truffa. Ora se sente il pezzo, ripensa alla
donna brutta, associata al ricordo di un’altra affatto carina, cui si era
accompagnato molto, molto tempo prima.
"Confessione
di una scimmia di Shinagawa" (品川猿の告白,
Shinagawa Saru no Kokuhaku) pubblicato 02/2020
Anche
qui, il narratore fa uno shaker di realtà e fantasie. Immagina di incontrare,
in una locanda sperduta nella campagna giapponese, una scimmia parlante, che
riproduce quanto aveva scritto Murakami in un suo racconto (“La scimmia di
Shinagawa” in “I salici ciechi e la donna addormentata”). La particolarità
della scimmia è che ruba i nomi delle donne di cui si innamora. Anni dopo,
l’autore incontra una giornalista, che scorda il suo nome durante l’intervista.
"Prima
persona singolare" (一人称単数, Ichininshō
Tansū) inedito
L’unico
inedito, che si svolge nel tempo presente. L’autore, generalmente vestito
casual, indossa un abito e va in un bar dove incontra una donna che lo insulta
per qualcosa che lui non ricorda di aver fatto. Prima, durante e dopo il
diverbio, si guarda allo specchio senza riconoscersi. Alla fine esce, si avvia
verso casa, ma è tutto diverso ed onirico: serpenti che si avvolgono sugli
alberi, cenere ovunque, persone senza volto.
Anche
se ne ho scritto molto velocemente, si capisce come ci siano una serie di
ricorrenze e di fili che attraversano questi racconti. A me piace ricordarne
tre (o forse due e mezzo). Perché due, separati o connessi, sono una sorta di
“opera nell’opera”, che permette al giocoliere Murakami di inserire nel corpo
di un racconto, testi altri. Che possono essere poesie (nel primo e quinto
testo), articoli (terzo racconto), musica citata o suonata (terzo, quarto e
sesto racconto). Dico “mezzo” che forse la musica è un supporto del testo nel
testo e non un elemento isolato.
Comunque,
e non si può non apprezzarne, si parla di “tanka”, una poesia minimalista
giapponese, composta da 31 sillabe (nella serie 5-7-5-7-7), in genere divisa in
due parti contrastanti. Nel tempo, poi, la prima parte si è staccata diventando
il ben noto “haiku”. Murakami ne riporta alcuni, che leggo, ma di cui non so
interpretare la forza poetica.
Quando
si parla di musica, poi, Murakami non può non essere presente. Tra l’altro nel
terzo racconto le parti migliori sono le descrizioni delle esecuzioni di Bossa
Nova di Parker e Jobim, laddove si riconferma la mirabile conoscenza
dell’autore di alcuni momenti musicali. Conoscenza ancor più marcata nella
mirabile descrizione del pezzo di Schumann, laddove la sua analisi di
"Carnaval" è di per sé un affascinante esempio di critica musicale.
Poiché
è di per sé interessante, consentitemi un inciso proprio su questo pezzo. “Carnaval”
porta come sottotitolo “Piccole scene su quattro note”. Ed infatti l’opera
consiste di 22 pezzi per pianoforte uniti da un motivo ricorrente, una sequenza
di una o entrambe delle seguenti serie di note:
1. La,
Mi bemolle, Do, Si; che in notazione tedesca si indicano come A-Es-C-H
2. La
bemolle, Do, Si; che in notazione tedesca si indicano come As-C-H.
Quindi
entrambe corrispondono foneticamente al nome tedesco della città di Asch. Fin
qui un gioco, che diventa un omaggio se ci ricordiamo che, all’epoca della
composizione, Schumann era fidanzato con Ernestine von Fricken, guarda caso
nata ad Asch!
Ma
per tornare alla scrittura, l’ultimo grande motivo che percorre l’opera è la
memoria. Il ricordo di avvenimenti, di persone che si dimenticano e poi se ne
ritrova traccia laddove non ce lo aspettiamo. Memoria che si lega a tutti gli
avvenimenti della nostra vita. Come dice anche altrove, ci troviamo sovente
davanti ad un bivio dove scegliamo di andare a destra piuttosto che a sinistra,
e questo cambia noi ed il nostro futuro.
Secondo
la sua filosofia di vita e di scrittura, per Murakami agli esseri umani
capitano vari eventi casuali, spesso inspiegabili e misteriosi, che a volte
ricordiamo ed altre no, e sebbene queste coincidenze non siano né buone né
cattive e non sia chiaro fino a che punto abbiano un significato per gli esseri
umani, si accumulano come cose al di fuori del nostro controllo e plasmano le
nostre vite.
Anche
questi racconti, non sono all’apice del mio infinto Murafan, ma hanno un loro
posto dignitoso ed elegante nella mia memoria dello scrittore (in attesa di
leggerne ancora).
“La
cosa strana dell'invecchiare non è che sia invecchiato io. (...) Ciò che mi
stupisce è come le persone della mia età siano diventate così vecchie... E
soprattutto come tutte quelle belle e vivaci ragazze con cui sono cresciuto
siano ora abbastanza grandi da avere probabilmente due o tre nipotini.” (43)
“Penso
che l’amore sia il combustibile di cui abbiamo bisogno per andare avanti nella
vita.” (123)
“Più
mi guardavo [allo specchio], più il tipo … di fronte a me mi pareva uno
sconosciuto. Ma se non ero io, l’uomo riflesso lì, allora chi era?” (136)
Haruki
Murakami “La città e le sue mura incerte” Einaudi s.p. (regalo di Alessandra)
[A:
07/01/2025 – I: 08/04/2025 – T: 11/04/2025] - &&&
[tit.
or.: 街とその不確かな壁 Machi to sono futashika na kabe;
ling. or.: giapponese; pagine:
552; anno 2023]
Ultimo
libro di Murakami e considerato, a più voci, una dei libri migliori pubblicati
in Italia nel 2024. Un coro cui mi aggrego, per alcuni punti, mentre in altri
rimango leggermente spiazzato e moderatamente critico. Cioè, è un libro
intrinsecamente di Murakami, dove l’autore, in un certo senso, tira le somme di
molta parte della sua attività (e quindi della sua vita). Tuttavia, anche se
pur questo è tipico dell’autore, la rimanenza, la sospensione, l’inconclusione
mi hanno lasciato un po’ di delusione.
Come
subito si accorge l’attento lettore delle opere di Murakami (ed io devo dire
che, ritenendolo uno degli autori top viventi, ne ho letto credo il 98% delle
opere) ci si sente subito che si va ripercorrendo strade note. In effetti, nel
1980 l’autore pubblica sulla rivista “Bungakukai” un romanzo breve dallo stesso
titolo. Ma non ne è convinto, ed è l’unico testo non pubblicato in volume della
produzione dell’autore.
C’era
tuttavia qualcosa che lo teneva legato a quel testo, tanto che cinque anni dopo
ne riprende una parte significativa nel libro “La fine del mondo e il paese
delle meraviglie”. Poi passano gli anni, e Murakami confessa di avere sempre un
retropensiero sulla non finitezza di quella scrittura. Così, quaranta anni dopo
la prima uscita, chiuso in casa anche a causa del Covid, riscrive il testo, lo
amplia, lo lascia riposare, lo riprende, lo completa, ed ora lo presenta,
ritenendone definitivamente chiuso il ciclo vitale.
Per
queste vicende di scrittura e riscrittura, l’inizio della lettura mi era
sembrato come se avessi sbagliato libro. Solo dopo aver letto i miei appunti su
Haruki, ho compreso, letto ma, come detto, non ne son completamente
soddisfatto. Certo, è, alla fine, un manifesto completo della poetica di
Murakami. C’è la parte onirica, c’è l’amore per la lettura, c’è la vita
dedicata ad un’idea, c’è la sospensione finale. Se tutto quanto ho detto è
vero, è mio, ci dice l’autore, è anche vero che qualcosa possa mutare, possa
progredire in altre direzioni. Per cui il finale, fino a che l’autore è vivo,
non può che essere aperto.
La
storia comincia quasi come una banale storia d’amore, tra il narratore,
diciassette anni, ed una ragazza, sedici, incontratisi per casualità ad un
premio letterario per adolescenti. Da lì, pur non vicini fisicamente, comincia
la loro storia, che va avanti anche attraverso incontri, oltre che lettere (non
siamo ancora in tempi da cellulari). I due, oltre all’amore, sviluppano l’idea
di un mondo “altro”, una città cinta da mura, dove ognuno ha il suo posto, il
tempo non scorre, ed altre “amenità” di cui non vi narro.
Solo
che la ragazza dice che la vera lei è dentro la città e quella presente è una
rappresentazione, un’ombra. Finché ad un certo punto, la ragazza-ombra scompare
ed il narratore entra in una depressione quasi fatale. È ben qui che vediamo le
dicotomie dell’autore, tra il mondo imperfetto in cui viviamo ed un mondo
perfettibile cui miriamo. Ma quella perfezione porta sacrifici, che forse sono
più pesanti delle imperfezioni.
Insomma,
il nostro ci narra la sua vita, fino al punto di riuscire, non si sa bene come,
ad entrare nella città. Il sacrifico è separarsi dalla sua ombra (metafora
anche qui della scissione buono-cattivo, dove solo l’unione dei due porta alla
nostra unicità). Nella città murata, lui ormai oltre i quaranta, ritrova la
ragazza, congelata nei suoi diciassette anni. Lei bibliotecaria, e lui, per
starle vicino, si inventa la professione di “Lettore di sogni”. Come le disse
l’ombra, però, la “vera-lei” nulla ricorda. E lui guarda il suo sogni di
gioventù, che non può più raggiungere.
Posto
davanti alla realtà di questa impossibilità, il nostro decide di tornare fuori
le mura, di lasciare il suo lavoro e di re-inventarsi bibliotecario in una
sperduta città di provincia. Lì nascono altre storie, rapporti con passato e
presente, con i vivi e con i morti. In particolare, nasce un rapporto con un
quasi autistico, il cui unico interesse è la lettura. Ovvio che il nostro vede
nel giovane la proiezione del sé stesso di tanto tempo prima, le sue speranze,
le sue attese. Ed al giovane narra della città, anche se non sa come tornarci.
Comunque,
in questa vita matura e altra, oltre alla proiezione sul giovane, trova la
possibilità di istaurare un rapporto “d’amorosi sensi” seppur non di sesso, con
una simpatica barista. Il loro rapporto inizia ma rimarrà sospeso, mentre il
giovane riesce a trovare lo spazio mentale per entrare nella città dalle mura
incerte, e forse trovare il modo di instaurare un rapporto con la famosa
bibliotecaria.
E
poi …
Poi
il libro finisce. Ed io, ripensandolo, ne rivede i punti forti dell’autore. Il
tema del rimpianto (non ci sarà mai un sentimento forte come quello della
gioventù). Il tema delle decisioni e dei bivi: i protagonisti maschili (ed in
questo sono concorde che Haruki da maschio scrive) che si trovano davanti a
punti di svolta della vita. Il tema della lettura e della letteratura come
elementi che definiscono la nostra vita, laddove leggere un libro è un mondo
per conservare sana la propria mente.
La
prosa è di una chiarezza cristallina, anche nei momenti onirici che meno
riescono a coinvolgermi. Forse anche grazie all’ottima traduzione di Antonietta
Pastore. Con quel finale aperto, come si diceva, che le storie in realtà, non
finiscono mai.
Alcune
considerazioni finali. Come detto all’inizio la prima versione esce sulla
rivista che, tradotta in italiano, si chiama “Mondo letterario”. Una rivista
che nasce nel 1893 e, con alterne fortune, esce ancora con continuità. Nel
primo comitato di redazione era presente il grande scrittore Tōson Shimazaki
che Murakami cita in un piccolo cammeo a pagina 333.
Secondo
poi, sul fronte musicale, ci sono accenni, anche se l’unica presenza un po’ più
costante è data dalla musica jazz suonata nel locale vicino al cimitero. Dove
il protagonista ascolta spesso il “Dave Brubeck Quartet”, ed in particolare
l’esecuzione magistrale di “Just one of those things”.
“-
Che genere di libri sceglie? – Tutti. L’argomento non gli importa. Non conosce
il piacere di scegliere. Digerisce tutto quello che c’è scritto, dall’inizio
alla fine, come se fosse una bevanda nutriente. Assimila tutto, qualsiasi genere
di informazioni.” (332)
Visto
che siamo in un giugno di prospettive, torniamo allora a ripercorrere passi
notevoli rimasti come briciole nella memoria. Ne riprendo alcuni da un’autrice
di cui lessi molto anni fa per poi lasciarla da parte. Sono frasi di Matilde Asensi tratte dal suo romanzo storico
“Iacobus” e di cui vi invito a soffermarvi
sulla seconda e sulla quarta.
“Ricorda che si può sempre scegliere.
Sempre. Nella tua vita, da quando cominci ad avere un certo controllo su di
essa, si alternano le scelte azzeccate e quelle errate, ma sempre di scelte si
tratta. … Se giungi dove intendi arrivare, allora hai scelto bene … altrimenti,
vuol dire che a un certo punto ti sei sbagliato, che hai preso la decisione
errata e che quelle successive ne sono state influenzate” (61)
“Ricordami che tra le prime cose che ti
devo insegnare vi sono le lingue araba ed ebraica. Senza di esse oggigiorno non
si può andare per il mondo” (80)
“Che importa avere un nome oggi e un
altro domani? … Io sono il medesimo con qualsiasi nome” (188)
“L’adolescenza è un’età terribile della
vita, come si dice, ma non per chi la vive, bensì per chi deve sopportarla”
(190)
“Se si nega qualcosa con forza e
perseveranza sufficienti, risulta impossibile smentirlo senza prove” (199)
“Questo è il problema di non essere
immortali: ci perdiamo il futuro” (200)
Allora, grande autore, lunghe trame, belle citazioni, e grandi lavori per i viaggi altrui. Noi si aspetta luglio e magari qualche soluzione economica. Per ora ci mettiamo al servizio di chi viaggia, sperando che le conoscenze acquisite servano a qualcosa. Per cui vi abbraccio.
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