domenica 8 giugno 2025

End of Murakami - 08 giugno 2025

Nel senso che finalmente completo la lettura dell’opera omnia di uno dei miei scrittori preferiti, Haruki Murakami, con due raccolte di racconti (l’ottima “Uomini senza donne” e l’interessante “Prima persona singolare”), un buon saggio (“Il mestiere dello scrittore”) ed i suoi due ultimi romanzi lunghi (non molto apprezzato da me “L’assassinio del commendatore”, più interessante anche se forse troppo complesso “La città e le sue mura incerte”).

Aspettando, come tutti i Murafan, che prima o poi riceva il Nobel, vi lascio alla lettura.

Haruki Murakami “Uomini senza donne” Corriere – Murakami 15 euro 8,90

[A: 19/08/2020 – I: 12/12/2024 – T: 14/12/2024] - &&& e ½       

[tit. or.: 女のいない男たち Onna no inai otokotachi; ling. or.: giapponese; pagine: 222; anno 2014]

Eccoci di nuovo ad uno dei miei autori preferiti, con uno dei suoi ultimi testi (di solo dieci anni fa) e con alcuni motivi per essere rimasto ad un buon livello di interesse. A partire dal titolo, che, una volta tanto, rispecchia il titolo originale. Ed a partire dal fatto che, essendo racconti, raccolgono un mezzo voto in meno. Anche perché, pur se frammentari, hanno uno spirito comune e congruente. È una di quelle raccolte che si stringono intorno ad un’idea e la portano avanti nelle loro piccole sfaccettature.

Un piccolo rimando interno non può che farci venire in mente che una raccolta dallo stesso titolo fu pubblicata nel 1927 da Ernest Hemingway, ma qui siamo altrove e seguiamo il percorso del più occidentale dei giapponesi attraverso sette racconti, pubblicati sempre intorno al 2014 in giapponese, poi in alcune traduzioni inglesi (anche se non tutti) per poi essere riuniti in questo volume.

A voler cercare una definizione del filo che lega i testi, ci possiamo riferire ad una frase contenuta nell’ultimo racconto: "A volte perdere una donna significa perderle tutte. Così diventiamo uomini senza donne." Perché tutti e sette sono racconti in cui ci sono uomini che perdono le donne. Per abbandono, per morte, per incapacità, o per una combinazione di tutti e tre i motivi. Questo porta da un lato ad un ribaltamento dei ruoli tradizionalmente legati ai rapporti amorosi, dove si vedeva, spesso e volentieri, come le donne fossero abbandonate. Utilizzando un moto contrario anche nell’andamento dei testi: l’abbandono è in genere il motivo che dà l’avvio al testo e non la sua chiusura.

Ma è anche il teatro che dà modo all’autore di tornare ed approfondire i temi presenti in tutte le sue opere. C’è l’ascolto (spesso il narratore è il destinatario delle parole del protagonista), un ascolto che unito ai tanti silenzi (peculiarità giapponese) riesce a sottolineare come sia delicata (e spesso non bilanciata) la relazione che si instaura tra le parti. C’è sempre un grande approfondimento psicologico, che porta, palesemente o meno, gli attori dei testi a chiedersi quale sia la propria natura (“chi sono io?”). C’è il passato che spesso ritorna anche travolgendo il presente, dato che tutti in fondo uniscono i propri pensieri (passato ricordato, presente vissuto, futuro immaginato), alla ricerca di un senso da dare alla realtà.

Non mancando poi tutto il bagaglio che Murakami si porta sempre dietro: l’amore per la musica, ed in particolare per il jazz, ed un occhio attento alla letteratura occidentale, da cui riprende modalità classiche per adattarle alla realtà giapponese.

Drive my car (doraibu mai kā ドライブ・マイ・カー)

Il protagonista è un attore, Kafuku, ma il motore del racconto avviene quando lui, dovendo girare per teatri e con la patente tolta per vari motivi, assume una giovane donna Misaki, come autista. Una presenza muta, che alla fine porta Kafuku a narrare la sua storia, il suo profondo amore per la moglie morta, la sua tristezza nel saperla piena di amanti, ed il tentativo di farne rivivere il ricordo cercando l’amicizia con l’ultimo di questi, anche per capire i motivi della moglie di cercare sesso lontano da lui. Non ci sono risposte alle domande di Kafuku, per cui è Misaki che racchiude l’agire dell’attore, consigliandogli che tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giù e andare avanti.

Yesterday (iesutadei イエスタデイ)

Stavolta il narratore è Aki un giovane universitario colto in un momento di crescita verso un futuro che non gli è chiaro, mentre il protagonista è il suo amico Kitaru, che pensa di non avere doti particolari, di aver poco da offrire ad Erika, la sua ragazza. Tanto da cercare di farla innamorare di Aki. Il titolo è ovvio quello della canzone dei Beatles, come nel testo precedente, ma che qui è l’emblema di tutta una serie di tentativi di Kitaru di omologarsi (tradurre i Beatles in giapponese, imparare un dialetto locale). Ma l’incerta storia d’amore porterà solo ad un abbandono da parte di tutti i protagonisti, e lo sapremo quando sedici anni dopo i fatti Aki ed Erika si incontrano di nuovo e ci fanno sapere come si sono evoluti lui, Erika e Kitaru. Evoluti ma lontani.

Organo indipendente (dokuritsu kikan 独立器官)

Tralasciando l’interpretazione del titolo, che secondo me è secondaria rispetto al testo, abbiamo un narratore senza nome che ci parla del suo compagno di palestra, il chirurgo estetico dr. Tokai. Uno che attraversa la vita senza grandi acuti, accontentandosi di relazioni senza impegno con donne sposate. Ma poi si innamora, e quando la donna lascia sia lui che il marito Tokai si lascia morire.

Shahrazād (she'erazādo シェエラザード)

Qui il narratore è Habara, un uomo che non sappiamo per quale ragione è confinato in casa. Unico contatto è una donna, che gli fa la spesa, cucina, pulisce, gli porta dei libri e fa l’amore con lui. Il punto è che, come la Shahrazad del titolo, la donna poi, dopo l’amore, racconta delle storie, che non porta mai a termine, che lascia sospese per riprenderle la volta successiva. Come quella del suo intrufolarsi, adolescente, nella casa di un suo compagno di classe, per prendere oggetti della vita di lui lasciandone di suoi in cambio. Ma il nocciolo è l’ansia di Habara nel non sapere se la volta successiva sarà ancora lei a sostentarlo, o verrà abbandonato. Perché perdere una donna, quella donna, è perdere quei momenti di intimità che annullavano una realtà forse non proprio felice.

Kino (kino 木野)

Anche qui esploriamo i temi propri dell’abbandono. Il protagonista, Kino, trova la moglie a letto con un suo amico. Chiude la porta, se ne va, cambia vita, apre un bar. Dove si troverà ad essere accompagnato prima da un gatto, poi da Kamita, che legge libri al bar ed è uomo di poche parole. Qui il racconto assume una piega da realismo magico che me lo ho fatto amare di meno. Scompare il gatto, compaiono dei serpenti, e Kamita lo consiglia di andare lontano per un po’. Che kino è un uomo corretto, ma a questo mondo astenersi dal far male non sempre basta. Starà lontano fino a che non avrà capito il rapporto con la moglie, non avrà capito il dolore che ciò gli ha provocato, e che lo ha portato a chiudere una pagina senza elaborarla. È forse il racconto più criptico e che più di altri rimane sospeso.

Samsa innamorato (koisuru zamuza 恋するザムザ)

Altro racconto che ho poco amato, anche se viene esaltato dai critici per quel capovolgimento del testo che ci aspettiamo sin dal titolo. Qui, rovesciando Kafka, un essere si sveglia nei panni di Gregor Samsa, nudo e indifeso. Riceve la visita di una donna con la gobba (che gli ricorda uno scarafaggio) che gli provoca un’erezione. Quando lei lo lascia, si chiede se la rivedrà, che il nostro Samsa è abbandonato senza ben sapere cosa sia una donna, mentre sottilmente Murakami ci suggerisce che nessuna metamorfosi può impedire alla natura di fare il suo corso.

Uomini senza donne (onna no inai otokotachi 女のいない男たち).

Fulminante come tutte le chiuse del nostro. Anche qui non abbiamo in realtà un dualismo di attori, c’è solo il narratore che riceve di notte una telefonata: un uomo gli dice che sua moglie, un tempo amante del narratore, si è suicidata. Comincia così un percorso nei ricordi del narratore verso i momenti di vicinanza e di abbandono con la donna ora morta. Un dialogo interiore sulla solitudine, che porterà il narratore a quella conclusione che ho posto all’inizio di questa parte della trama.

In fondo, lo scrittore ci vuole mostrare l’assenza delle donne dalla vita dei protagonisti per poterci dire che è l’amore che ci libera dalla solitudine, attraversando tutte le fasi tra l’azione avvenuta e (teniamo sempre a mente i grandi passaggi di “Norwegian Wood”) la nostalgia per ciò che non è accaduto.

Un solo ultimo accenno personale, dove, a pagina 148, il barista amante di jazz Kino parla dei suoi oggetti di ascolto della musica. Ed ovviamente, come avevo io da giovane, l’amplificatore è un Luxman. Che salto indietro ho fatto.

“Doveva conoscere la verità, per quanto grande fosse il dolore. Solo la conoscenza della verità rende gli esseri umani più forti.” (16)

“Non c’è operazione estetica che possa alzare le capacità intellettive di una persona.” (79)

“Dopo averti incontrato / in confronto a ciò che provo / ora per te nel mio cuore / è come se mai prima / avessi amato.” (89)

Haruki Murakami “Il mestiere dello scrittore” Corriere – Murakami 20 euro 8,90

[A: 22/09/2020 – I: 21/01/2025 – T: 23/01/2025] - &&&        

[tit. or.: 職業としての小説家 Shokugyo to shite no shosetsuka; ling. or.: giapponese; pagine: 186; anno 2015]

Continuiamo la filologica di Murakami, con uno scritto che non è un romanzo ma che parla di romanzi, e dell’autore, inserendo momenti biografici, anche se non è neppure un’autobiografia. Intanto, avrei preferito una maggior aderenza nel titolo, laddove, pur se formalmente corretto, il giapponese, in origine, riporta “Romanziere come professione”. Che è quello di cui ci parla Murakami: la sua professione (scrivere romanzi), il modo in cui nasce e le motivazioni per cui rimane e, da un certo punto in poi, pervade la sua vita.

Già sappiamo, noi Murafan, che la scintilla avviene su di un grande prato in quel di Tokyo, mentre assiste ad una partita di baseball (capitolo secondo). È già uomo di vari mestieri, ed in quell’epoca, sposato, gestisce un jazz-bar in un piano interrato di un palazzo all’uscita sud della stazione di Kokubunji a Tokyo. Ma da quel pomeriggio nasce una scintilla. Scrive, elabora, propone i suoi scritti, vince un premio, ne perde altri. E da lì nasce la sua professione.

Qui, in undici ordinati capitoli, non solo ci parla di questa genesi, ma percorre il suo mondo narrativo, aprendo, qua e là, alcuni spiragli sui suoi processi creativi. Come, ad esempio, quando tratteggia il romanziere come una persona solitaria (capitolo uno), che usa in modo peculiare il proprio tempo (capitolo sesto, ma ci torniamo), e che ha bisogno di una grande resistenza per rimanere attaccato alle proprie parole finché queste non esauriscano la spinta propulsiva (capitolo settimo).

Tratteggiando (nel capitolo quinto) la necessità di leggere (come anche nelle frasi riportate), consiglia di leggere, parlare, osservare la realtà, e poi metterla ordinata nei cassetti della memoria. Quando serve è da lì che comincia ad attingere il suo materiale. Così che non ci meravigliamo se, in romanzi diversi, tornano tematiche simili e prospettive analoghe. Evidentemente ha riaperto un vecchio cassetto, trovandoci ancora qualcosa (capitolo nono).

Un esempio dei processi creativi viene sia dalle prime scritture (1979) che da un romanzo del 1988. Per le prime, aveva buttato il suo testo scrivendo a penna su dei fogli. Ma non sentiva uscire da quei fogli quanto sentiva nella sua mente. Allora, prende e lo traduce in inglese (battendo forsennatamente i tasti della sua Olivetti), pensandolo anche in quella lingua non sua (e ci ricorda i processi di scrittura della grande Agota Kristof). Poi, ritraduce in giapponese il testo inglese, e ne esce lo stesso testo, ma più asciutto, essenziale, giusto.

Il romanzo invece era “Dance, dance, dance”, scritto interamente a Roma, laddove casualmente, perde il manoscritto. Decide allora di scriverlo da capo, per poi, tornato in patria, avere la fortuna di ritrovare il primo testo. Ebbene, la riscrittura “a mente” aveva reso il testo, per l’autore, migliore e più suo.

Ci si collega così al concetto di originalità (capitolo quarto), un tratto distintivo assolutamente poco giapponese, dove tutto tende all’uniformità, al confondersi nella massa. Ma Murakami, il più occidentale degli scrittori nipponici, non può non essere diverso. Per cui, affinatosi nel corso del tempo, il suo stile diventa riconoscibile, tale da essere visto come “classico” dai suoi lettori. Un processo che non posso che condividere: si capisce subito chi sia lo scrittore fin dalle prime pagine dei suoi testi. E spesso sono attacchi che ti legano alla pagina, anche laddove il resto del libro a volte non rimane allo stesso livello.

Ci sono anche capitoli un po’ “isolati” dal contesto, dove cerca di convincerci della sua refrattarietà ai primi letterari (capitolo terzo) sia in termini di concorrente sia, soprattutto, in termini di giurato. O dove fa una critica spietata e puntuale (capitolo otto) dell’approccio nozionistico e competitivo del sistema scolastico giapponese.

Gli ultimi due capitoli sono anche loro, in un certo senso, momenti isolati delle sue riflessioni. Da un lato (capitolo dieci) si domanda per chi scrivere, ed io con lui sono completamente d’accordo: si scrive per sé stessi. Se poi, le nostre parole fanno vibrare qualcosa nell’animo del lettore è sicuramente un bene per il lettore, ma non lo scopo per l’autore. L’ultimo consiglio (molto rivolto ai suoi conterranei, ma che anche qui mi trova all’unisono) è di andare in giro, di vedere altri luoghi, altre realtà. Io che ho viaggiato molto ve lo dico con il cervello in mano: si vedono tante realtà diverse, e, stando attenti, si capisce molto di sé stessi.

Come si è capito, pur non stravolgendo le nostre comuni basi di persone che scrivono, questo testo è di mia personale gradevole lettura. Una lettura che ci dipinge il romanziere come un metodico artigiano il cui primo passo, finita la scrittura, è far leggere il testo alla moglie ed ingaggiare con lei accese discussioni testuali. Perché chiunque può scrivere un romanzo, ed è importante che la scrittura sia per l’autore, un suo momento di esternazione su altri mezzi di quanto sente dentro di sé.

Se poi, lo scritto, sarà pubblicato, sarà letto, avrà un seguito di lettori che ne apprezzeranno le parole, non solo va al di là delle intenzioni, ma va al di là dell’idea stessa dello scrivere.

Motivo per cui, continuando a leggere Murakami, continuo anche a tessere le mie personali trame letterarie.

“Quando si prende l’abitudine di leggere … non si riesce a staccarsene facilmente.” (44)

“Mi limito a fare abitualmente una cosa che mi è congeniale. Per quanto determinato uno sia, non può portare avanti per trent’anni un’attività che non gli piace.” (103)

“Ogni creazione letteraria contiene in qualche misura lo scopo di migliorare sé stesso.” (149)

“Abraham Lincoln: Si possono ingannare molte persone per breve tempo. Si possono anche ingannare poche persone a lungo. Ma non è possibile ingannare molte persone per molto tempo.” (174)

“Stabilire chiaramente il proprio obiettivo è una cosa fantastica. A qualunque età, in qualunque luogo.” (182)

Haruki Murakami “L’assassinio del Commendatore” Corriere Giappone 1 euro 9,90

[A: 07/05/2021 – I: 16/03/2025 – T: 20/03/2025] - &&        

[tit. or.: 騎士団長殺し 第1部: 顕れるイデア編 Kishidanchō Koroshi. 1: Arawareru idea-hen & 騎士団長殺し 第2部: 遷ろうメタファー編 Kishidanchō Koroshi. 2: Utsurou metafā-hen; ling. or.: giapponese; pagine: 844; anno 2017]

Ho atteso a lungo prima di imbarcarmi nella lettura di uno degli ultimi scritti di Murakami (anche se di ben otto anni fa) sia spaventato dalla lunghezza, sia per la paura di avere qualche delusione. Alla fine, lo spavento è stato gestito con poca fatica, mentre la paura è rimasta, portando con sé anche un po’ di delusione. Certo, è un tipico libro di Murakami, con tutte le sue bravure di scrittura, con i rimandi, interni ed esterni, con quel pizzico di magia sempre presente. Ma il risultato finale non mi ha soddisfatto. Sono rimasto un po’ dispiaciuto.

Intanto, al solito encomiabile lo sforzo di traduzione di Antonietta Pastore, che ben rende il mondo del nostro scrittore, con quei piccoli aggiustamenti sintattici che non cambiano il senso delle cose. Come i titoli delle due parti. Rivelare le idee giustamente si può rendere con Idee che affiorano e Metafore di transizione ben si adatta in Metafore che si trasformano. E, seppur i due titoli hanno attinenza con il testo ed il suo sviluppo, nella mia trama non riesco ad entrarci completamente. Altro attira la mia attenzione ed il mio pensiero.

Intanto ci sono due elementi che caratterizzano lo scritto, uno fin dalle prime righe ed uno nel corso del lungo testo. Leggi l’inizio, e sei già “dentro” Murakami. Presenta la situazione, alcuni personaggi, un’ombra di trama, e già sai che sarà difficile staccarsi. Anche se non ti prende in maniera asfissiante, anche se i ci sono passaggi che non convincono, non potrai fermarti prima della fine.

La seconda è la ricorrenza di tematiche spesso presenti negli scritti di Murakami. Come dice infatti nel saggio “Il mestiere di scrittore”, la scrittura si deve far riconoscere, facendo dire al lettore “ecco, sto leggendo di Murakami”. Così ritornano le tematiche dell’allontanamento tra marito e moglie (vedi “L’uccello che girava le viti del mondo”), gli accenni a Kafka, come scrittore, ed al libro con la sua ambientazione boschiva e di buche (vedi “Kafka sulla spiaggia”), fino all’uso dei nomi significanti legati ai colori ed alla pittura (vedi “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”).

Come detto, pur non entrando nello specifico dei titoli, è ovvio, per chi conosce Murakami, che il testo sia pieno di idee (ed è un discorso interessante da affrontare) ed altrettanto pieno di metafore (cui invece non mi avvicino, troppo essendo la mia ignoranza). Idee che riguardano l’espressione artistica sia essa pittura che scrittura, idee sul rapporto con gli altri (beh, questo è facile), ma anche sul concetto di genitorialità e su quello dell’amicizia.

La storia ordinaria, come spesso accade in Murakami, è abbastanza lineare e tutto sommato semplice. Il protagonista (di cui non ci viene detto il nome) è lasciato dalla moglie Yuzu senza motivi apparenti. Dopo aver vagato in auto per due mesi, accetta l’offerta dell’amico Amada Masahiko di vivere e tenere in ordine la casa di campagna del padre, il pittore Amada Tomohiko. In quel di campagna, il nostro (che era un valente ritrattista) si ritira su sé stesso, dedicandosi alle minute cose, e, per sopravvivere, ad impartire lezioni di disegno alla comunità.

Per inciso, le lezioni gli frutteranno due avventure di sesso, una leggera ed una più lunga e meditata, ma entrambe fini a sé stesse. Nella villa, oltre ad avere un grande assortimento di vinili (ed un piccolo elenco di musiche riporto in fondo), il protagonista trova un quadro dipinto e poi nascosto da Tomohiko. Vi viene ritratto “L’assassinio del Commendatore” così come risulta dal primo atto del Don Giovanni di Mozart. Un quadro che dà agio a Murakami di parlare a lungo di pittura, ma anche di musica. Un quadro che darà il via ad una serie di avvenimenti, alcuni sensati altri “magici” (e sono quelli che con fatica seguo).

A fronte delle lezioni e dell’interessamento del suo agente, il nostro viene avvicinato dal suo vicino di casa, Menshiki (un nome parlante, vedi quanto detto sopra, se è vero che in giapponese si può tradurre come “sfuggire al colore”), un personaggio strambo, molto vicino idealmente al Gatsby di Scott Fitzgerald (ricco, con qualche ombra sulla provenienza dei soldi, sfarzoso nelle sue manifestazioni, tipo guidare una Jaguar E o affittare un cuoco a cinque stelle per una cena nel suo castello con il nostro protagonista).

Menshiki vuole un ritratto, ed è pronto a sborsare cifre esorbitanti per ciò. Seguiremo tutta la genesi del ritratto stesso, dove Murakami si addentra nelle sue teorie sulla creazione artistica solitaria. Non solo, Menshiki ha anche comperato la villa per poter tenere d’occhio la vita della giovane Marie (che sta sulla collina opposta) dato che potrebbe, in base a circostanze complesse che vi lascio leggere, essere sua figlia naturale.

Il nostro e Menshiki inoltre scovano nel bosco una strana buca con una campanella dentro, che ogni tanto si mette a suonare. E qui comincia la parte “improbabile”: il nostro è l’unico che vede un piccolo essere, con le fattezze del Commendatore del quadro, con cui instaura un dialogo sui comportamenti umani, e sulle sue attività in particolare.

Menshiki allora, dopo che apprezza grandemente l’operato del protagonista, gli chiede di ritrarre anche Marie. Comincia così una parte sbilenca, dove il nostro e Marie hanno interessanti dialoghi, seppur tra un disadattato ed una tredicenne. Mentre Menshiki viene attratto e comincia una storia con la zia di Marie. Il dramma (perché se c’è una buca, come direbbe Tolstoj, prima o poi servirà a qualcosa) avviene quando Marie sparisce. Il pittore viene avvertito quando è andato a trovare Tomohiko morente, avendo bisogno di comunicare con lui le scoperte sul quadro che gli ha rivelato Menshiki. Qui si parte per la tangente: appare il Commendatore che chiede al nostro di ucciderlo come nel quadro, cosa che fa, per poi trovarsi in boschi, valli e fiumi di improbabile nascita, con personaggi tra l’invenzione e la schizofrenia. C’è un tizio senza volto (su cui torniamo), compare Donna Anna del Don Giovanni, il nostro si ritrova nella buca dove (dopo quasi nove mesi) pensa alla moglie Yuzu ripromettendosi di chiamarla.

Uscito dalla buca, ritrova anche Marie, per poi avviarsi ad un finale veloce ed altro. Menshiki e la zia probabilmente hanno una storia, Marie cresce e matura, anche lontano dal non certo padre, il nostro torna insieme a Yuzu che nel frattempo partorisce una bambina, che non può essere fisicamente figlia del nostro, ma che lui crescerà “come un padre”. Finendo con questa dualità padre – figli, dove lui cresce una figlia sicuramente non sua e Menshiki segue la crescita di una figlia che potrebbe essere sua.

Un racconto nel racconto è poi legato al quadro. Tomohiko era un valente pittore giapponese in stile occidentale, che sul finire degli anni ’30 si trasferisce a Vienna, dove ha una storia con una signorina austriaca avversa al regime. Quando lei ed i suoi sodali vengono sorpresi nel tentativo di un attentato verso qualche gerarca, gli austriaci vengono deportati e Tomohiko rimpatriato forzatamente. Tornato in patria, cambia stile passando dall’occidentale ad uno stile denominato “nihonga” (uno stile artistico nel quale le opere sono realizzate secondo le convenzioni artistiche tradizionali e con l'utilizzo di tecniche e materiali della tradizione giapponese). Ed è in questo stile che realizza il quadro del titolo, dove si potrebbe vedere (metaforicamente) il Commendatore nelle panni del gerarca nazista, Donna Anna in quella della sua amante tedesca e Tomohiko in quel di Don Giovanni.

Questo inciso, ma anche tutta una serie di riflessioni, portano gli interpreti e Murakami ad interrogarsi sull’influenza e la responsabilità dell’Occidente nelle modifiche alle tradizioni giapponesi. Ci sono poi momenti che rimangono lì sospesi, ed a volte scompaiono. Tipo che il testo comincia con il nostro, ben dopo la fine delle avventure narrate, non riesce a fare il ritratto di una persona di cui dice “era una persona senza volto”. Persona che compare durante la ricerca della scomparsa Marie, e che aiuta il nostro solo in cambio della promessa di un ritratto. Che non verrà mai fatto, almeno nelle più di 800 pagine del libro (e questa persona compare solo in due episodi per un totale di sette pagine su 840).

Quindi, processi creativi, identità di genitori, rapporti sessuali piacevoli, momenti conviviali, campanelle che suonano, piccoli esseri alti cinquanta centimetri che compaiono ma solo per il nostro, la creazione individuale del ritrattista, e tante altre piccole cose. Qual è lo scopo di tutto questo?

Forse poco o nulla. Cioè Murakami butta là tanti discorsi, tante idee, un po’ le porta avanti, un po’ le lascia a noi lettori. Terminando tutto in maniera sospesa, chiudendo certo molte discussioni, ma lasciandone altrettante aperte e vaganti per le pagine e per la testa di noi poveri Murafan. Per questo, alla fine, non sono convinto del risultato. Pur ribadendo che Murakami è un grande scrittore, e che ritengo sia degno di ricevere il Premio Nobel.

Ed ora leggeremo anche gli ultimi scritti.

“Per convincersi di una cosa, lei ci impiega più tempo della maggior parte della gente.” (50)

“Non mi riconosce più. Probabilmente non sa nemmeno chi è. Forse avrei dovuto chiedergli tante cose prima che si riducesse così. A volte lo penso. Ma ormai è tardi.” (76)

“Feci a matita uno schizzo accurato di ognuno [di loro] … come un lettore [che] annota con scrupolo, parola per parola, i passaggi di un libro che gli sono piaciuti.” (94)

“A volte ci sono delle cose che una persona è meglio non sappia.” (280)

“Uno cammina su una strada che crede sia la propria, quella giusta, e tutt’a un tratto la strada gli viene a mancare sotto i piedi. Così deve avanzare nel vuoto, senza sapere dove va, senza avere alcun appiglio.” (408)

“Tutti quanti abbiamo nel cuore segreti che non possiamo svelare.” (820)

 

Autore

Titolo

Mozart

Don Giovanni (atto I – L’assassinio del Commendatore)

Sheryl Crow

Run Baby Run

Sheryl Crow

Leaving Las Vegas

Sheryl Crow

Strong Enough

The Rolling Stones

Time Is on Your Side

Unknown

Annie Laurie

The Beatles

Fool On the Hill

Schubert

Rosamunda, principessa di Cipro

Richard Strauss

Il cavaliere della rosa

The Doors

Alabama Song

Donny Hathaway and Roberta Flack

For All We Know

ABC

The Look of Love

Bertie Higgins

Key Largo

Debbie Harry

French Kissin’ in the USA

Bruce Springsteen

Independence Day

Bruce Springsteen

Hungry Heart

Bruce Springsteen

Cadillac Ranch

Mozart

Don Giovanni

 

Haruki Murakami “Prima persona singolare” Corriere – Murakami euro 9,90

[A: 30/08/2022 – I: 02/04/2025 – T: 03/04/2025] - &&&    

[tit. or.: 一人称単数 Ichininshō Tansū; ling. or.: giapponese; pagine: 142; anno 2020]

Prima di attaccare l’ultima fatica narrativa del grande scrittore, eccoci arrivati alla sua penultima uscita, una raccolta di otto racconti di circa 6-7 anni fa, e riuniti in volume cinque anni fa e tradotti dall’eccellente Antonietta Pastore. Sebbene si sa io non sia un amanti di questo genere di letteratura, ci sono ovviamente alcune eccezioni, come ad esempio mirabili testi di Alice Munro. Ed anche, siamo sinceri, alcuni testi di Murakami. Non tutti e non sempre, ma la stoffa dello scrittore emerge e qualcosa ci dona.

Intanto qui si adopera in un gioco linguistico e personale mirabile, che probabilmente avrebbe avuto bisogno di un commento da parte degli editori italiani. Laddove, in assenza, qualcosa della complessa costruzione narrativa, si perde. Infatti, tutti e otto i testi sono narrati, come dice il titolo che li accomuna, nella prima persona singolare.

Ebbene, qui ci sono da fare due precisazioni. In primo luogo, in giapponese ci sono globalmente più di venti modi per esprimere il concetto di “IO”, e di questi una decina ancora in uso corrente. Murakami, nei primi sette testi, ne usa un paio (ripreso da un articolo di una rivista giapponese), essenzialmente “boku” (pronome tra il formale e l’informale, quasi esclusivamente maschile, introdotto nel XIX secolo) e “ore” (esclusivamente maschile e molto informale, quello più usato nei manga). Solo l’ultimo testo utilizza “watashi” (il modo più comune per riferirsi a se stessi, usato più spesso dalle donne che dagli uomini). Poiché Murakami usa in modo attento le parole, credo che abbia avuto le sue idee per usare un pronome invece che un altro.

La seconda precisazioni riguarda invece il paradigma autobiografico che viene sovrapposto al testo. Certo, e lo sappiamo da altre letture di suoi scritti e saggi, molta parte di questi racconti utilizza momenti biografici della sua vita. Per poi, senza ovviamente avvertirci, volare via per le sue strade fantastiche ed oniriche, per imbastirci storie e farci partecipi del suo mondo. Sia di quello reale sia di quello immaginato (e preferisco questo termine a immaginario).

Ma veniamo ora ai testi

Su un cuscino di pietra (石のまくらに, Ishi no Makura ni) pubblicato 07/2018

Durante gli anni del college, il narratore lavoro (per pagarsi gli studi) in un ristorante, dove conosce la cameriera, e, dopo una festa per il suo licenziamento, si ritrovano a bere birra e fare sesso a casa di lui. Là dove, nel culmine dell’orgasmo, lei invoca un nome di uomo. Saputo che il narratore studia letteratura, lei gli confessa di scrivere “tanka”, dove in seguito invierà una sua raccolta autoprodotta. L’autore non ricorda più nulla di lei, ma ogni tanto gli tornano in mente alcuni versi.

La crema della vita (クリーム, Kurīmu) pubblicato 07/2018

Al liceo, il narratore riceve l’invito ad un concerto di piano da una ragazza, conosciuta a mala pena. Si reca sul posto, dove non c’è nessun concerto. Smarrito, si riposa in un parco dove, tra realtà e sogno, incontra un vecchio che gli dice: “immagina un cerchio con diversi centri e senza circonferenza”. Quando lo visualizzeremo, potremmo dire di aver realizzato il massimo, o, come dicono i francesi, “la crème de la crème”. L’autore non ha mai saputo più nulla né della ragazza né del vecchio, ma ogni tanto pensa ai cerchi.

Charlie Parker Plays Bossa Nova (チャーリー・パーカー・プレイズ・ボサノヴァ, Chārī Pākā Pureizu Bosanova) pubblicato 07/2018

Forse il migliore. Intreccia un articolo di fantasia scritto durante l’Università, dove immaginava l’improbabile uscita, nel ’63, di un disco di Charlie Parker (morto nel ’55) che suona la Bossa Nova insieme ad Arturo Carlos Jobim. Quindici anni dopo vede quel disco inesistente in un negozio di dischi a New York, ma quando prova a comperarlo, il disco scompare. Nel tempo presente, infine, Parker gli appare in sogno e gli suona un pezzo del disco.

"With the Beatles" (ウィズ・ザ・ビートルズ, Wizu za Bītoruzu) pubblicato 08/2019

Essendo del ’49, nel ’64, negli anni del liceo, assiste al boom musicale dei Beatles, e ricorda una ragazza con in mano l’album “With the Beatles” (inciso: è il secondo album dei Beatles, pubblicato in Italia con il titolo “I favolosi Beatles”). Ragazza molto bella, ma mai più incontrata. Laddove invece si ricorda di aver frequentato all’epoca Sayoko, la sua prima ragazza. E di aver incontrato una sola volta il fratello di lei, colpito da una malattia che mescola l’ordine dei ricordi. Dopo diciotto anni, a Tokyo, incontra il fratello, che gli narra come, tre anni prima, Sayoko si sia suicidata.

“Antologia poetica per gli Yakult Swallows” (ヤクルト・スワローズ詩集, Yakuruto Suwarōzu Shishū) pubblicato 08/2019

Una delle commistioni maggiori. Murakami adora il baseball e sappiamo (da “Il mestiere di scrivere”) che immagina il suo primo testo assistendo ad una partita di baseball della sua squadra preferita, le rondini Yakult (gli Yakult Swallows). Qui parte per la tangente, descrivendo le poesie che scrive mentre assiste alle partite, nonché al libro che si autopubblica con il titolo di questo racconto.

"Carnaval" (謝肉祭, Shanikusai) pubblicato 12/2019

Qui si intrecciano diversi motivi. Un “body shaming” verso una sua amica, definita la donna più brutta da lui incontrata. Ma una critica selvaggia che si tramuta in grande amicizia, laddove entrambi, se avessero dovuto salvare un pezzo musicale, avrebbero indicato la composizione di Robert Schumann per pianoforte “Carnaval, op. 9”. Dopo un intenso periodo, la donna scompare, e solo dopo sei mesi, lui scopre che è stata arrestata per truffa. Ora se sente il pezzo, ripensa alla donna brutta, associata al ricordo di un’altra affatto carina, cui si era accompagnato molto, molto tempo prima.

"Confessione di una scimmia di Shinagawa" (品川猿の告白, Shinagawa Saru no Kokuhaku) pubblicato 02/2020

Anche qui, il narratore fa uno shaker di realtà e fantasie. Immagina di incontrare, in una locanda sperduta nella campagna giapponese, una scimmia parlante, che riproduce quanto aveva scritto Murakami in un suo racconto (“La scimmia di Shinagawa” in “I salici ciechi e la donna addormentata”). La particolarità della scimmia è che ruba i nomi delle donne di cui si innamora. Anni dopo, l’autore incontra una giornalista, che scorda il suo nome durante l’intervista.

"Prima persona singolare" (一人称単数, Ichininshō Tansū) inedito

L’unico inedito, che si svolge nel tempo presente. L’autore, generalmente vestito casual, indossa un abito e va in un bar dove incontra una donna che lo insulta per qualcosa che lui non ricorda di aver fatto. Prima, durante e dopo il diverbio, si guarda allo specchio senza riconoscersi. Alla fine esce, si avvia verso casa, ma è tutto diverso ed onirico: serpenti che si avvolgono sugli alberi, cenere ovunque, persone senza volto.

Anche se ne ho scritto molto velocemente, si capisce come ci siano una serie di ricorrenze e di fili che attraversano questi racconti. A me piace ricordarne tre (o forse due e mezzo). Perché due, separati o connessi, sono una sorta di “opera nell’opera”, che permette al giocoliere Murakami di inserire nel corpo di un racconto, testi altri. Che possono essere poesie (nel primo e quinto testo), articoli (terzo racconto), musica citata o suonata (terzo, quarto e sesto racconto). Dico “mezzo” che forse la musica è un supporto del testo nel testo e non un elemento isolato.

Comunque, e non si può non apprezzarne, si parla di “tanka”, una poesia minimalista giapponese, composta da 31 sillabe (nella serie 5-7-5-7-7), in genere divisa in due parti contrastanti. Nel tempo, poi, la prima parte si è staccata diventando il ben noto “haiku”. Murakami ne riporta alcuni, che leggo, ma di cui non so interpretare la forza poetica.

Quando si parla di musica, poi, Murakami non può non essere presente. Tra l’altro nel terzo racconto le parti migliori sono le descrizioni delle esecuzioni di Bossa Nova di Parker e Jobim, laddove si riconferma la mirabile conoscenza dell’autore di alcuni momenti musicali. Conoscenza ancor più marcata nella mirabile descrizione del pezzo di Schumann, laddove la sua analisi di "Carnaval" è di per sé un affascinante esempio di critica musicale.

Poiché è di per sé interessante, consentitemi un inciso proprio su questo pezzo. “Carnaval” porta come sottotitolo “Piccole scene su quattro note”. Ed infatti l’opera consiste di 22 pezzi per pianoforte uniti da un motivo ricorrente, una sequenza di una o entrambe delle seguenti serie di note:

1.    La, Mi bemolle, Do, Si; che in notazione tedesca si indicano come A-Es-C-H

2.    La bemolle, Do, Si; che in notazione tedesca si indicano come As-C-H.

Quindi entrambe corrispondono foneticamente al nome tedesco della città di Asch. Fin qui un gioco, che diventa un omaggio se ci ricordiamo che, all’epoca della composizione, Schumann era fidanzato con Ernestine von Fricken, guarda caso nata ad Asch!

Ma per tornare alla scrittura, l’ultimo grande motivo che percorre l’opera è la memoria. Il ricordo di avvenimenti, di persone che si dimenticano e poi se ne ritrova traccia laddove non ce lo aspettiamo. Memoria che si lega a tutti gli avvenimenti della nostra vita. Come dice anche altrove, ci troviamo sovente davanti ad un bivio dove scegliamo di andare a destra piuttosto che a sinistra, e questo cambia noi ed il nostro futuro.

Secondo la sua filosofia di vita e di scrittura, per Murakami agli esseri umani capitano vari eventi casuali, spesso inspiegabili e misteriosi, che a volte ricordiamo ed altre no, e sebbene queste coincidenze non siano né buone né cattive e non sia chiaro fino a che punto abbiano un significato per gli esseri umani, si accumulano come cose al di fuori del nostro controllo e plasmano le nostre vite.

Anche questi racconti, non sono all’apice del mio infinto Murafan, ma hanno un loro posto dignitoso ed elegante nella mia memoria dello scrittore (in attesa di leggerne ancora).

“La cosa strana dell'invecchiare non è che sia invecchiato io. (...) Ciò che mi stupisce è come le persone della mia età siano diventate così vecchie... E soprattutto come tutte quelle belle e vivaci ragazze con cui sono cresciuto siano ora abbastanza grandi da avere probabilmente due o tre nipotini.” (43)

“Penso che l’amore sia il combustibile di cui abbiamo bisogno per andare avanti nella vita.” (123)

“Più mi guardavo [allo specchio], più il tipo … di fronte a me mi pareva uno sconosciuto. Ma se non ero io, l’uomo riflesso lì, allora chi era?” (136)

Haruki Murakami “La città e le sue mura incerte” Einaudi s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 08/04/2025 – T: 11/04/2025] - &&&    

[tit. or.: 街とその不確かな壁 Machi to sono futashika na kabe; ling. or.: giapponese; pagine: 552; anno 2023]

Ultimo libro di Murakami e considerato, a più voci, una dei libri migliori pubblicati in Italia nel 2024. Un coro cui mi aggrego, per alcuni punti, mentre in altri rimango leggermente spiazzato e moderatamente critico. Cioè, è un libro intrinsecamente di Murakami, dove l’autore, in un certo senso, tira le somme di molta parte della sua attività (e quindi della sua vita). Tuttavia, anche se pur questo è tipico dell’autore, la rimanenza, la sospensione, l’inconclusione mi hanno lasciato un po’ di delusione.

Come subito si accorge l’attento lettore delle opere di Murakami (ed io devo dire che, ritenendolo uno degli autori top viventi, ne ho letto credo il 98% delle opere) ci si sente subito che si va ripercorrendo strade note. In effetti, nel 1980 l’autore pubblica sulla rivista “Bungakukai” un romanzo breve dallo stesso titolo. Ma non ne è convinto, ed è l’unico testo non pubblicato in volume della produzione dell’autore.

C’era tuttavia qualcosa che lo teneva legato a quel testo, tanto che cinque anni dopo ne riprende una parte significativa nel libro “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”. Poi passano gli anni, e Murakami confessa di avere sempre un retropensiero sulla non finitezza di quella scrittura. Così, quaranta anni dopo la prima uscita, chiuso in casa anche a causa del Covid, riscrive il testo, lo amplia, lo lascia riposare, lo riprende, lo completa, ed ora lo presenta, ritenendone definitivamente chiuso il ciclo vitale.

Per queste vicende di scrittura e riscrittura, l’inizio della lettura mi era sembrato come se avessi sbagliato libro. Solo dopo aver letto i miei appunti su Haruki, ho compreso, letto ma, come detto, non ne son completamente soddisfatto. Certo, è, alla fine, un manifesto completo della poetica di Murakami. C’è la parte onirica, c’è l’amore per la lettura, c’è la vita dedicata ad un’idea, c’è la sospensione finale. Se tutto quanto ho detto è vero, è mio, ci dice l’autore, è anche vero che qualcosa possa mutare, possa progredire in altre direzioni. Per cui il finale, fino a che l’autore è vivo, non può che essere aperto.

La storia comincia quasi come una banale storia d’amore, tra il narratore, diciassette anni, ed una ragazza, sedici, incontratisi per casualità ad un premio letterario per adolescenti. Da lì, pur non vicini fisicamente, comincia la loro storia, che va avanti anche attraverso incontri, oltre che lettere (non siamo ancora in tempi da cellulari). I due, oltre all’amore, sviluppano l’idea di un mondo “altro”, una città cinta da mura, dove ognuno ha il suo posto, il tempo non scorre, ed altre “amenità” di cui non vi narro.

Solo che la ragazza dice che la vera lei è dentro la città e quella presente è una rappresentazione, un’ombra. Finché ad un certo punto, la ragazza-ombra scompare ed il narratore entra in una depressione quasi fatale. È ben qui che vediamo le dicotomie dell’autore, tra il mondo imperfetto in cui viviamo ed un mondo perfettibile cui miriamo. Ma quella perfezione porta sacrifici, che forse sono più pesanti delle imperfezioni.

Insomma, il nostro ci narra la sua vita, fino al punto di riuscire, non si sa bene come, ad entrare nella città. Il sacrifico è separarsi dalla sua ombra (metafora anche qui della scissione buono-cattivo, dove solo l’unione dei due porta alla nostra unicità). Nella città murata, lui ormai oltre i quaranta, ritrova la ragazza, congelata nei suoi diciassette anni. Lei bibliotecaria, e lui, per starle vicino, si inventa la professione di “Lettore di sogni”. Come le disse l’ombra, però, la “vera-lei” nulla ricorda. E lui guarda il suo sogni di gioventù, che non può più raggiungere.

Posto davanti alla realtà di questa impossibilità, il nostro decide di tornare fuori le mura, di lasciare il suo lavoro e di re-inventarsi bibliotecario in una sperduta città di provincia. Lì nascono altre storie, rapporti con passato e presente, con i vivi e con i morti. In particolare, nasce un rapporto con un quasi autistico, il cui unico interesse è la lettura. Ovvio che il nostro vede nel giovane la proiezione del sé stesso di tanto tempo prima, le sue speranze, le sue attese. Ed al giovane narra della città, anche se non sa come tornarci.

Comunque, in questa vita matura e altra, oltre alla proiezione sul giovane, trova la possibilità di istaurare un rapporto “d’amorosi sensi” seppur non di sesso, con una simpatica barista. Il loro rapporto inizia ma rimarrà sospeso, mentre il giovane riesce a trovare lo spazio mentale per entrare nella città dalle mura incerte, e forse trovare il modo di instaurare un rapporto con la famosa bibliotecaria.

E poi …

Poi il libro finisce. Ed io, ripensandolo, ne rivede i punti forti dell’autore. Il tema del rimpianto (non ci sarà mai un sentimento forte come quello della gioventù). Il tema delle decisioni e dei bivi: i protagonisti maschili (ed in questo sono concorde che Haruki da maschio scrive) che si trovano davanti a punti di svolta della vita. Il tema della lettura e della letteratura come elementi che definiscono la nostra vita, laddove leggere un libro è un mondo per conservare sana la propria mente.

La prosa è di una chiarezza cristallina, anche nei momenti onirici che meno riescono a coinvolgermi. Forse anche grazie all’ottima traduzione di Antonietta Pastore. Con quel finale aperto, come si diceva, che le storie in realtà, non finiscono mai.

Alcune considerazioni finali. Come detto all’inizio la prima versione esce sulla rivista che, tradotta in italiano, si chiama “Mondo letterario”. Una rivista che nasce nel 1893 e, con alterne fortune, esce ancora con continuità. Nel primo comitato di redazione era presente il grande scrittore Tōson Shimazaki che Murakami cita in un piccolo cammeo a pagina 333.

Secondo poi, sul fronte musicale, ci sono accenni, anche se l’unica presenza un po’ più costante è data dalla musica jazz suonata nel locale vicino al cimitero. Dove il protagonista ascolta spesso il “Dave Brubeck Quartet”, ed in particolare l’esecuzione magistrale di “Just one of those things”.

“- Che genere di libri sceglie? – Tutti. L’argomento non gli importa. Non conosce il piacere di scegliere. Digerisce tutto quello che c’è scritto, dall’inizio alla fine, come se fosse una bevanda nutriente. Assimila tutto, qualsiasi genere di informazioni.” (332)

Visto che siamo in un giugno di prospettive, torniamo allora a ripercorrere passi notevoli rimasti come briciole nella memoria. Ne riprendo alcuni da un’autrice di cui lessi molto anni fa per poi lasciarla da parte. Sono frasi di Matilde Asensi tratte dal suo romanzo storico “Iacobus” e di cui vi invito a soffermarvi sulla seconda e sulla quarta.

“Ricorda che si può sempre scegliere. Sempre. Nella tua vita, da quando cominci ad avere un certo controllo su di essa, si alternano le scelte azzeccate e quelle errate, ma sempre di scelte si tratta. … Se giungi dove intendi arrivare, allora hai scelto bene … altrimenti, vuol dire che a un certo punto ti sei sbagliato, che hai preso la decisione errata e che quelle successive ne sono state influenzate” (61)

“Ricordami che tra le prime cose che ti devo insegnare vi sono le lingue araba ed ebraica. Senza di esse oggigiorno non si può andare per il mondo” (80)

“Che importa avere un nome oggi e un altro domani? … Io sono il medesimo con qualsiasi nome” (188)

“L’adolescenza è un’età terribile della vita, come si dice, ma non per chi la vive, bensì per chi deve sopportarla” (190)

“Se si nega qualcosa con forza e perseveranza sufficienti, risulta impossibile smentirlo senza prove” (199)

“Questo è il problema di non essere immortali: ci perdiamo il futuro” (200)

Allora, grande autore, lunghe trame, belle citazioni, e grandi lavori per i viaggi altrui. Noi si aspetta luglio e magari qualche soluzione economica. Per ora ci mettiamo al servizio di chi viaggia, sperando che le conoscenze acquisite servano a qualcosa. Per cui vi abbraccio.

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