domenica 29 giugno 2025

Polifonia letteraria - 29 giugno 2025

Certo, ci manca uno spagnolo o un tedesco, ma questa settimana abbiamo un giapponese classico (Soseki Natsume), un americano altrettanto eponimo (Barry Gifford, forse poco noto ma leggete la trama e capirete), uno svizzero-francese emergente (Joël Dicker) e due italiano di vario interesse: uno che leggo sempre con interesse (Paolo Di Paolo) ed uno che non conoscevo (Andrea Pomella), ma che mi ha portato a fare un giro in una Roma che ho attraversato anch’io, pur se in strade differenti, ma che hanno un gran punto di contatto nelle storie del mio cugino capostipite. Leggetene che poi ne parleremo.

Soseki Natsume “Guanciale d’erba” Repubblica Giappone 21 euro 8,90

[A: 28/02/2025 – I: 23/03/2025 – T: 25/03/2025] - &&&--

[tit. or.: 草枕 Kusamakura; ling. or.: giapponese; pagine: 173; anno 1906]

Di certo non è stata una lettura facile, ma è una lettura doverosa per cercare di comprendere e di entrare nella mentalità della letteratura giapponese. In quanto questo, datato ma di grande rilievo, è uno dei manifesti letterari che segnano la nascita della moderna letteratura, non ultimo il fatto che l’autore viene considerato lo scrittore che ha iniziato questa scrittura.

Soseki Natsume è un tipico esponente del periodo, di forte intelligenza e di grandi conoscenze. Soseki è proprio uno scrittore di passaggio, essendo nato esattamente all’inizio di quella che viene indicata in Giappone “era Meiji”, cioè il periodo che segna l’apertura dell’isola al resto del mondo. Tant’è che Soseki, studiando letteratura (pur con tutta una serie di problemi dovuta ad un’infanzia difficile, su cui non entro per non tediare il lettore), conosce ed impara ad amare la letteratura occidentale, ed in particolare quella inglese. Tant’è che farà due anni di studio a Cambridge, per poi diventare titolare della cattedra di inglese all’Università di Tokyo.

Una carica che lascerà nel 1903, quando pubblica il suo primo scritto. Anche se manterrà sempre un occhio ben attento al mondo inglese lontano, sino alla sua morte per un ulcera iatale mal curata nel 1916.

Questo scritto, redatto nei suoi quarant’anni, è una sorta di manifesto ideale del concetto di arte, tant’è che contiene una serie di passaggi in cui l’autore parte per la tangente dalla situazione descrittiva cui ci sta facendo partecipi, per parlare dei concetti di buona letteratura ed altre considerazioni da saggio di letteratura più che da romanzo.

Collegamenti che cominciano sin dal titolo. Una traduttrice americana, Meredith McKinney, di grandi conoscenze nipponiche, ha notato come con “Guanciale d’erba” era indicato il fatto che i viaggiatori itineranti per le terre nipponiche dormivano all’aperto, sull’erba. Che è anche una palese metafora (il viaggio) dell’uomo che va alla ricerca di sé stesso. Rimandando così ad uno dei classi della letteratura locale, il viaggio poetico del più grande scrittore giapponese, Bashō, intitolato “Lo stretto sentiero verso il profondo Nord”. Un’opera anch’essa mista, in cui, come in questa, convergono prosa e poesia.

Venendo al testo, avrete senz’altro capito che non c’è una vera e propria trama. Soseki si immedesima nell’io narrante, un giovane artista che si avventura per sentieri montuosi cercando contatto con la natura per la sua parte pittorica e contatto con le poche persone che incontra per la sua parte poetica. Infatti, andando incontra viandanti solitari, contadini, nobili, paesani. Sorpreso dalla pioggia si rifugia in una locanda dove la vecchia padrona gli narra la storia di Nakoi, desiderata da due uomini, andata in sposa a quello che non amava e per questo si suicida. Arriva infine in una località termale, dove si ferma ed incontra gli ultimi personaggi di cui ci parla: un monaco zen, un barbiere, un giovane destinato a partire per la guerra (c’è anche la Storia che si affaccia nelle parole del nostro), e soprattutto una strana donna, O-Nami.

È lei che diventa il perno dei suoi ragionamenti. È sfuggente ed eterea, infelice, gli parla in modo misterioso dei suoi desideri suicidi (e lui, guardandola, la trasfigura nel quadro “Ophelia” di John Millais). Gli appare anche nuda e senza vergogna durante una sua sosta nelle terme della locanda. Ma è talmente delicato il tutto, da parte dell’artista e da parte di O-Nami, che tutto si svolge senza nessuna volgarità.

L’artista raccoglie tutti questi input, elaborandoli sia scrivendone, sia componendo haiku, sia isolandosi nella campagna e dipingendone. Sono questi momenti in cui ce ne parla, e poi ci narra le sue riflessioni sull’eleganza, sul senso dell’arte e sul ruolo che essa debba avere nella società moderna. L’artista ha il compito di “rasserenare il mondo ed arricchire il cuore degli uomini”.

Narrando e dipingendo, Natsume si accorge delle contraddizioni insite nella vita dei personaggi che incontra. Riconoscendo quindi la complessità dell’animo umano, dovrà essere l’artista a tirarne fuori elementi di equilibrio. Alla fine la sua riflessione lo porta ad una considerazione rivoluzionaria: non è necessario che si debba produrre sempre un’opera d’arte. Quello che conta è lo sguardo con cui si guarda il mondo. Solo chi sa guardare può rimandarci una dimensione nuova di quanto sta intorno a lui.

E quando parte per le sue riflessioni sull’arte, Natsume cita, direttamente o indirettamente (e non è sempre facile penetrare oltre le parole) artisti, letterati, uomini di cultura, occidentali ed orientali, fornendoci quasi un florilegio del suo pantheon personale. Abbiamo già visto citato Millais (con la sua Ophelia), e poi ci sono Shelley, Bashō (di cui abbiamo detto), Michelangelo, Nagasawa Rosetsu (pittore del Settecento famoso per la sua “Tigre”), Wang Wei (il primo poeta della natura, vissuto nei primi anni del 700 d.C.), Tao Yuanming (altro grande poeta antico, nato intorno al 400 d.C.), Laurence Sterne, Oscar Wilde e Henrik Ibsen.

Non è un caso che, per affinità, sia stato il romanzo prediletto di Glenn Gould. Né che sia stato paragonato a due grandi libri “sulla natura, l’arte e la vita”, come “Walden ovvero Vita nei boschi” di Henry David Thoreau, o “La passeggiata” di Robert Walser (anche se il libro svizzero è posteriore).

Alla fine, il percorso cui ci porta Sōseki è un viaggio poetico nella natura. Perché vivere è un percorso di crescita interiore e il cammino ci offre l’occasione di ritrovarci soli in compagnia di noi stessi. Ma vivere è anche un’arte, unica e immortale, al di là della nostra volontà e della nostra capacità.

Chi sa di giapponese dice che l’autore utilizza uno lento e meraviglioso stile supportato da una lingua limpida. Io posso solo apprezzarne la traduzione di Lydia Origlia, e concludere che è un buon libro di testa. Purtroppo poco di cuore e di pancia. Fa pensare, ma a volte solo in riflessioni senza dentro il fuoco delle grandi passioni. Comunque un testo di riferimento per entrare nel mondo nipponico.

Andrea Pomella “Vite nell’oro e nel blu” Einaudi euro 21 (in realtà, scontato a 19,95 euro)

[A: 14/04/2025 – I: 16/04/2025 – T: 18/04/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 373; anno: 2025]

Andrea Pomella cinquantenne romano di Settebagni e creativo affiliato alla banda di Baricco, ha scritto non tanti libri, ma alcuni testi significativi ed insistenti su alcuni punti a lui cari: da un lato la depressione ed i rapporti familiari, dall’altro incursioni biografiche verso artisti di diversa natura. In queste vite uscite per Einaudi ne fa quasi una sintesi, concentrandosi su alcuni artisti romani, sulle loro interazioni e su quelle con la città degli anni ’60. Una città bellissima come ebbe a dire Nanni Moretti in “Caro Diario”.

Una città in cui si vive d’arte e dove in quegli anni una serie di under 30 cerca la propria via. Era allora un mondo che viveva nell’ora d’oro, quella luce che c’è solo a Roma al tramonto, che fa risplendere i palazzi, che fa rifulgere chi riesce a trasformarla in vita. È una luce che però dura pochissima, che subito arriva la notte, con quell’ora blu dove molti soccombono.

Pomella però, iniziando dalla fine degli anni Cinquanta e portandoci per mano per almeno trent’anni, ci fa vivere il senso artistico di quella Roma, che si incarna nelle storie di quattro artisti: Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Francesco Lo Savio. Quattro personalità complesse che verranno accomunate con l’etichetta di “Scuola di Piazza del Popolo”, piazza dove si erano sempre riuniti, da sconosciuti, seduti sugli scalini attorno all’obelisco, aspettando che qualcuno offrisse loro un caffè. Poi, con la fama ed i soldi, bivaccando ad uno dei caffè della piazza, il Caffè Rosati.

Per chi non sa di Roma, in Piazza del Popolo ci sono due caffè storici: il Canova, che era il rifugio e la base di scrittura di Fellini, e il Rosati, che cominciò da lontano la sua importanza quando lo frequentava Trilussa (che abitava lì vicino, in via Maria Adelaide.

Ma a noi interessa la banda dei quattro, tutti romani puri. Tre di nascita ed uno di storia e di ritorno, essendo nato in Libia, vicino a Leptis Magna, ma di ritorno presto in Italia, seppur il natio deserto libico ritornerà spesso nella sua memoria con quelle palme a lui tanti care, così come alla storia della mia famiglia, su cui tornerò.

Tano e Francesco erano anche fratelli, anche se il secondo nacque da una relazione extraconiugale della madre con Vincenzo Festa, quand’era ancora sposata con Paolo Lo Savio. Tano nasce tre anni dopo, e prenderà il cognome del padre biologico. Tano è del ’38, mentre gli altri tre moschettieri nascono tra il settembre ’34 (Mario) ed il maggio ’35 (Franco). Parlo di tre, che Francesco, il più intellettuale in partenza, il più preso dai concetti della loro arte nascente, non resse le stroncature delle prime opere, finendo suicida a Marsiglia nel ’63.

Gli altri attraverseranno gli anni ’60 con il fulgore delle loro intuizioni (ad esempio il dipinto Koka-Kola di Schifano del ’61) e con gli eccessi di vita. Io rifuggo un po’ da quell’epiteto che gli editor di Einaudi pongono nella quarta, bollando i nostri come “pittori comunisti”. Erano pittori ed erano comunisti, ma l’unione dei due aggettivi è molto fuorviante.

Io non parlo certo della loro arte (non ne avrei la capacità), ma entro nelle descrizioni di Pomella, che riescono a riportarci il fertile ed assurdo clima dell’epoca. Quando Franco Angeli ebbe una lunga e tormentata storia d’amore con Marina Ripa di Meana. O quando nel covo di via Margutta, dove bivaccavano tra arte e sesso Mario e Tano, arriva il poeta Ungaretti con un carico di funghi peyote, che loro cucinano in frittata dando vita ad una notte brava di cui ancora si narra. Notti brave come quella in cui Franco accoglie un vagabondo che vagava per Roma, convincendolo il giorno dopo a dipingere un doppio quadro, scoprendo, al momento della firma, che si trattava di Jack Kerouac.

Ovvio anche, partendo da quel suicidio del ’63, che i nostri sono sempre lì, sul limitare tra i grandi cieli (“oro”) e le notti buie (“blu”), tanto che un gallerista romano li soprannominò (storpiando il nome di una collana di artisti) “i maestri del dolore”. La bellezza aneddotica di Pomella è ci porta in quella Roma d’incanto, che era già la città del potere, che era ancora la città del cinema, in quella che per lungo tempo poté essere la città dei pittori e degli artisti. Laddove, oltre a quelli già citati, si aggiungono piccoli o grandi cammei che coinvolgono Sandro Penna, Goffredo Parise, Mick Jagger, Isabella Rossellini, tanto per fare dei nomi.

Un mondo come detto sempre al limite dove non ci si faranno mai mancare processi, grane, discussioni, successi e fallimenti. Se Lo Savio, il primo che se ne va con il suo nome legato al pensiero e con la sua morte che lancia come un’accusa, alla fine degli anni Ottanta, per malattie ed abusi, ci lasciano Festa, da sempre il più oscillante tra pop e fotografia, che ammanta di sacralità anche la morte, e poi Angeli, il più tormentato, il più cupo nel dramma dell’addio.

Rimarrà ancora dieci anni, Mario l’uomo dall’istino imbattibile, che lo porta ad andare oltre a tutto e tutti, che passerà gli ultimi anni tra droghe e ricoveri, con anche punte carcerarie, per morire d’infarto a 63 anni.

C’è una riflessione che ad un certo punto fa Franco Angeli che colora di una luce interessate questa parte delle loro vite al limite. Quando si domanda che nello svolgimento dell’ultima corsa delle bighe al Colosseo, è probabile che chi ha partecipato a quella corsa non immaginava che sarebbe stata l’ultima. Così per loro. Così per tutti noi.

Ripeto, non ho competenze in materia per giudicare l’opera di questi grandi artisti (e forse potrebbe aiutarmi il mio cugino acquisito Giovanni). Quello che so e vedo è una bella e scorrevole scrittura che mi ha portato a passeggio per una trentina d’anni, anche se a volte speravo fosse più incisiva.

Finisco tornando sulle palme, laddove infatti Schifano fa parte della grande mitologia familiare della mia grande famiglia, che il mio amato cugino Paolo a lungo fece parte della corte di lavoranti che servivano al grande per confezionare le sue opere. Ed in particolare, vista la sua specificità, Paolo era un mago dei fotogrammi. Ma come spesso accade ai grandi, Schifano non aveva la concezione del denaro, e ne spendeva senza tenerne conto. Così che, quando chiuse l’attività sui film, a mo’ di liquidazione, donò a mio cugino una palma gigante.

“[Schifano] ha iniziato a dipingere con insistenza un soggetto: la palma. È l’albero della sua infanzia a Homs.” (180)

Paolo Di Paolo “Lontano dagli occhi” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 18/04/2025 – T: 21/04/2025] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 189; anno: 2019]

Paolo Di Paolo è nato il 7 di giugno del 1983, un mese dopo la matematica vittoria del secondo scudetto della Roma e quindici giorni prima della scomparsa di Emanuela Orlandi.

Comincio questa trama con alcune notazioni ambientali, che servono ad inserire l’interessante scritto dell’autore nel contesto epocale dei primi anni Ottanta. Io avevo da poco compiuto trent’anni, e sta seguendo alcune svolte della mia vita che, interessando solo me, non vi cito. Comunque dicevo interessante, che la sua scrittura è sempre abbastanza raffinata, anche se, nel complesso, il libro raggiunge un livello di gradimento ampliamente nella norma.

Come si capisce dalle prime righe, il romanzo è ambientato a Roma, e ci presenta, con una scrittura che passa da un punto di vista all’altro, tre storie molto parallele. Tre donne, tre ragazze che in quell’inizio di ’83 scoprono di essere incinta. Ci sono due fili che Di Paolo tira e segue nel corso del romanzo: la trasformazione di una persona che passa da essere un individuo qualsiasi a diventare genitore e il percorso che un bambino può fare lontano dagli occhi che lo hanno creato ma vicino al cuore di chi lo fa crescere.

Seguiamo quindi Luciana impiegata in un giornale che sta per chiudere. La seguiamo in alcuni momenti comunitari, ma soprattutto veniamo a sapere che si è accompagnata per un po’ di tempo da una persona che chiama “l’Irlandese”, forse per la nazionalità, forse per i capelli, forse perché è una specie di giornalista free lance che gira mezza Europa per cercare di intervistare Samuel Beckett. Fatto sta che il rosso di pelo non c’è, e non risponde alle chiamate di Luciana. Non solo, ma durante tutta la gestazione, in difficoltà anche con il lavoro, viene a sapere che l’Irlandese è anche passato per Roma senza farsi vivo. Rimane allora il pensiero di cosa fare di questa vita che cresce nella pancia.

Vita che è nata anche nel ventre della diciassettenne Valentina, dopo un rapporto fugace con Ermes. Erano da qualche mese insieme, ma dopo il fatto, Valentina si allontana, ed Ermes prima non ne capisce il motivo, poi, pur ragionando, non riesce ad immaginarsi un suo futuro in un ruolo genitoriale. Valentina teme di tutto, ha paura di Ermes, dei genitori, della scuola, e decide di fuggire. Peccato che lo faccia nel giorno in cui la Roma vince in campionato, con una conseguente confusione immane in tutta la città. Non potrà allora che tornare a casa.

Infine c’è Cecilia, una punk che vive per strada con un cane, vicino alla pizzeria di via Taranto dove lavora Gaetano. Che sembra uno buono, che le passa del cibo di tanto in tanto. Tanto che finiscono a letto, e Cecilia finisce in cinta. È l’unica che si ritiene autosufficiente, anche se ha bisogno di un favore da Gaetano, che ovviamente non vi svelo. E Gaetano è anche l’unico dei tre maschi che si pone realmente il problema di cosa possa significare diventare padre.

Tutta la prima lunga parte si regge sull’alternanza delle storie delle tre donne. Fino a che entrano tutte in clinica, ed una (quale non viene detto e non lo sapremo mai) decide di dare in adozione il figlio. Che così diventa il soggetto protagonista delle ultime trenta pagine del libro. In cui narra l’evolversi della propria storia di bimbo adottato e teneramente amato dai genitori non biologici.

E tutta la sua storia è un veloce scambio di battute in cui, narrando la sua crescita, si rivolge a giro ai sei personaggi della prima parte. Sempre con la stessa intensità, perché due di loro sono i costruttori del suo DNA, ma non sapremo mai quali.

Pur obiettando, come mio solito, che trovo difficile seguire i ragionamenti di una donna se descritti da un uomo (e pur con tutta la bravura e l’impegno che ci mette Di Paolo), di sicuro vengono a galla molte tematiche che fanno riflettere. L’impreparazione e la solitudine di una donna che cambiando il suo ruolo da figlia a madre deve fare i conti con un cambiamento che prima di tutto fisico. Entrando in un ruolo che è difficilmente nascondibile.

Sull’altro versante, al contrario, i padri possono decidere di sparire, negarsi, prendere altre strade. Che nessuno, vedendoli, può dire: ecco, quello è un padre. Certo a maggior ragione nell’epoca del romanzo, ancora lontano da WhatsApp e Internet.

Le parole dell’autore, che non sappiamo né vogliamo sapere quanto si immedesimino in qualche personaggio del testo, hanno tuttavia la forza di colmare (del tentativo di colmare) quella distanza tra i veri tipi di occhi che possono guardare un bambino nascere e crescere. Restituendo al bimbo il riempimento di tutto quel vuoto che gli occhi non riescono ad eliminare.

Barry Gifford “Cuore selvaggio” Corriere Americana 25 euro 8,90

[A: 19/12/2023 – I: 27/04/2025 – T: 29/04/2025] - &&&

[tit. or.: Wild at Heart: The Story of Sailor & Lula; ling. or.: inglese; pagine: 172; anno 1990]

Barry Gifford è uno strano ed eponimo autore americano. Quasi ottantenne (anche se credo non scriva più da qualche anno), nasce a Chicago dove il padre “lavora” nel crimine organizzato, trascinando la famiglia in giro per l’America (in particolare, Illinois, New Orleans e Florida). Morto il padre con Barry dodicenne, questi prosegue, seppur a fatica, gli studi, fa mille mestieri (continuando sempre a coltivare la passione per i libri), per poi riuscire a dedicarsi in vario modo alla scrittura. Giornalismo, saggi, poesie, sceneggiature (poche), romanzi.

Il nodo centrale della sua produzione si avvolge ai sette romanzi che hanno per protagonisti Sailor Ripley e Lula Pace Fortuna. Romanzi che alla fine, nel 2019 verranno riuniti in un unico volume di più di settecento pagine, “Sailor & Lula, Expanded Edition”, benché frutto di scritture diverse nel tempo, e tutte auto concludentesi, si rivela come un potente campionario della vita on the road. Dove seguiamo i due protagonisti da questo primo libro, con lui ventitreenne e lei ventenne, sino al sesto, con le memorie di Lula, avviata alla morte più che ottantenne nel ricongiungimento con il già morto Sailor. Avendo poi una cosa nel settimo libro che narra la storia personale del loro unico figlio, Pace Roscoe Ripley.

Dicevamo, è una storia tipicamente americana, fatta di quasi niente eppur di molto. È un susseguirsi, questa prima parte, di brevi capitoli, tutti densi di dialoghi, un’arte di scrittura in cui Gifford è senza dubbio maestro. E questo quasi niente, in fondo, è un grande inno all’amore, perseguito a discapito di tutte le convenienze. Un grande amore, e niente più, come direbbe il grande Peppino di Capri.

Lula e Sailor si frequentano prima dell’inizio del romanzo, lei quasi diciottenne e lui appena maggiorenne. Dove sapremo poi, Sailor, per difendere Lula da attenzioni non gradite, uccide involontariamente un uomo e viene condannato a due anni di carcere. Due anni in cui la madre di Lula, contraria fin dall’inizio al loro amore, fa di tutto per creare una lontananza tra i due.

Ma appena uscito di prigione, Sailor monta sulla Pontiac Bonneville decappottabile di Lula ed insieme si avviano verso la California. Con due grossi problemi: Sailor sarebbe in libertà vigilata; quindi, non potrebbe allontanarsi dalla Carolina e la madre di Lula è disposta a tutto per fermarli. Madre che ha contatti con il crimine, ma soprattutto con un investigatore, Johnny Ferragut, che si pone sulle tracce dei due, fino a ritrovarli nel momento cruciale della storia.

Intanto i nostri eroi proseguono la loro strada, con pochi soldi, purtroppo. Si ingegnano in lavoretti ed altre piccole facezie. Ma la maggior parte del tempo li vediamo parlare di tutto nelle stanze dei motel lunga la via. Raccontandosi il presente, ma soprattutto il passato, così che, con quei discorsi all’apparenza slegati, Gifford alla fine riesce a farci avere un quadro completo delle loro storie.

Arrivati in Texas, arrivano anche altri problemi: Lula è incinta, i soldi sono finiti. Sailor si fa convincere da due piccoli fuorilegge, Perdita Durango e Barry “like the Country” Perù, a partecipare ad una rapina. Che ovviamente finisce male: Perdita fugge, Barry muore e Sailor viene arrestato. E condannato a dieci anni. Anni in cui nasce il piccolo Pace, Lula è costretta a vivere con la madre, dato che Johnny nel frattempo li ha ritrovati.

Tutto si avvia verso il finale, in cui Sailor esce di nuovo di prigione e…

Questa è un’altra storia, anche perché tutti sono abituati a vedere il libro come espressione di uno dei miglior film degli anni Novanta. Prima che uscisse il libro, David Lynch ne aveva realizzato la trasposizione cinematografica, con il titolo “Cuori selvaggi”. Successo clamoroso e Palma d’Oro a Cannes. Così che Sailor avrà per sempre la faccia di Nicholas Cage e Lula quella di Laura Dern. Una grande fortuna (economica) ed una grande sfortuna editoriale (il testo ha subito pesanti modifiche da parte del visionario Lynch).

A me, che non ho visto il film (peccato da scontare, prima o poi), rimane la lettura di questo libro on the road, che rimanda alla menta il Jack Kerouac di quarant’anni prima, ma anche alla voglia di fare un lungo viaggio sulla Route 66, da Chicago a Santa Monica (io ne ho percorso il tratto californiano). Una storia potente d’amore di due girovaghi senza meta della beat generation, che attraversano l’America selvaggia, quella delle strade lunghe, diritte e polverose. Ma anche quell’America che ora vota compatta per Donald (e che incontrai sin dal mio primo viaggio, in un “diner” in Arizona; ma questa è forse un’altra storia).

Comunque, sono per una volta almeno, concorde con Sandro Veronesi nell’aver inserito questo capitolo nella sua lunga antologia di romanzi americani, forse una delle uscite più interessanti del Corriere della sera. Anche se, per dirla tutta, un po’ di ruggine degli anni compare qua e là nel testo.

“Per il momento non mi hai ancora deluso … e questo è più di quanto possa dire di tutto il resto del mondo.” (37)

“Un altro deragliamento del treno della vita sui binari per il paradiso.” (41)

“Anche se tu ami qualcuno non sempre questo serve a cambiare le cose della tua vita.” (81)

Joël Dicker “La catastrofica visita allo zoo” La Nave di Teseo s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 04/05/2025 – I: 06/05/2025 – T: 07/05/2025] - && e ½

[tit. or.: La Trés Catastrophique Visite du Zoo; ling. or.: francese; pagine: 261; anno 2025]

Un sentimento ambivalente pervade l’io lettore quando volto l’ultima pagina del libro e mi metto a riflettere su quanto ho appena finito di leggere. Il primo che affiora è lo spaesamento: mi sembra di aver letto un libro di Pennac senza il graffiante urlo della sua penna sui muri del perbenismo. Il secondo è il coraggio da rispettare verso qualcuno che si mette in gioco, a rischio di non essere compreso, perché ha urgenza di dire qualcosa, e forse non trova altri mezzi per dirlo. Poi c’è l’ammirazione verso chi, in ogni caso, riesce ad affabulare con classe intorno ad un’esile storia, tirando comunque fuori riflessioni su grandi temi come la democrazia, l’inclusione e la libertà d’espressione.

Quindi, mettiamo da parte le eventuali aspettative di un thriller “standard” nella modalità Dicker, ed andiamo a vedere questa fiaba “per grandi e per piccini”. Come ha detto, nel libro e altrove, l’idea di base è venuta dall’imperversare di modi altri di stare. Non più leggere, come quindici anni fa, ma guardare lo schermo di uno smartphone. Allora, pensiamo ad una narrazione che tutti possano leggere e seguire, sperando che la semplicità non sia semplificazione.

Unico elemento che a me, al solito, disturba come struttura narrativa, è l’uso di un io narrante di sessualità diversa dall’autore. Ritengo, e ribadisco, che la tipologia di sensazioni difficilmente può essere replicata. Anche se qui, in effetti, a parte qualche pagina di prologo ed alcune di epilogo, l’io narrante è una bambina di otto anni, in un certo senso asessuata.

Intanto, si perde un po’ il rafforzativo francese del “molto” sulla catastrofe, che forse avrei reso con il peggiorativo “la disastrosa visita”. Perché c’è una “catastrofe”, anzi ce ne sono in serie, ognuno che rompe l’equilibrio precedente (così come etimologicamente ci riporta il termine), approfondendo la frattura tra l’andamento “normale” delle cose, e l’ultima catastrofe, quella appunto allo zoo, serve in modo disastroso a far da cesura alle altre, ed a risolverne il senso. Come ci suggerisce l’autore: “Una catastrofe non avviene mai all’improvviso: è il risultato di una serie di piccole scosse che, a poco a poco, diventano un terremoto”.

Allora, la protagonista della storia è Josephine, una bimba di otto anni, con il talento di comprendere le cose più velocemente degli altri. Per questo è “speciale”, e vive e studia in un scuola per bambini speciali. Dove c’è Artie, l’ipocondriaco, Yoshi, quello che non parla (ma non è muto), Thomas, il cui unico talento è il karatè (dove il padre è appunto un karateka), Giovanni, di cui non sappiamo il talento, se non che ha dei genitori ricchissimi ed una nonna appassionata di serial polizieschi, e Otto, figlio di genitori divorziati, con il talento di sapere tutto, e su tutto essere capace di imbastire un discorso.

Non viene mai detto in cosa consiste la “specialità” dei nostri eroi, ma dal modo di esprimersi e comportarsi, sembrano tutti lievemente “asperger”, cioè con elevata intellettività, ma scarsa presa sul reale. È vero che molti bambini, nel momento di chiedere informazioni e delucidazioni si pongono in una modalità particolarmente di rottura con il mondo adulto, non comprendendo, ed a ragione, alcune sottigliezze linguistiche. Ed è un comportamento che i nostri esacerbano sin dal primo impatto.

Riprendendo quanto detto sopra, quali sono allora queste piccole scosse che portano al terremoto. La prima si verifica con l’allagamento della scuola speciale, perché i lavandini del bagno sono otturati ed i rubinetti aperti. Scuola inagibile, allora, con grande disperazione della giovane responsabili dei sei, la signorina Jennings. Subito salvata dal Direttore della vicina “scuola normale” che propone di far utilizzare ai sei un’aula normale.

Tutto nasce dal tentativo di far integrare “a forza” bambini speciali e normali, sotto la spinta del Direttore, che si capisce subito abbia un secondo fine (provare ad attaccar bottone con la signorina Jennings). Così attraversiamo momenti assembleari in aula magna, dove si parla di democrazia senza applicarla. Ci catastrofiamo con lezioni di ginnastica (che portano ad una rottura di alcune ossa del docente) e con altre di sicurezza stradale (dove è il poliziotto che ha la peggio). Ci si avvicina al Natale, con piccole divagazioni su Babbo Natale (ma qui, il bimbo lettore potrebbe avere un piccolo shock), su autori teatrali, su testi forse spinti, sulla censura ai suddetti testi, su di una recita natalizia alternativa (dove i nostri piccoli eroi propongono un testo dal titolo stupendo “Diversi, insieme”). Per arrivare allo zoo.

Mentre tutta la prima parte è incentrata sulla ricerca del colpevole dell’inagibilità scolastica, quando se ne scopre l’identità, l’urgenza dei nostri passa sul piano sentimentale, dove si vuole trovare il modo di avvicinare il Direttore e la signorina. Questo porterà alla catastrofe dello zoo, che tuttavia si risolverà in un lieto fine per molti. Di sciuro per Josephine, che ora, passati molti anni, ci racconta i fatti come sono avvenuti. Purtroppo, e questo a me dispiace, non sappiamo come si è evoluta invece la storia degli altri cinque piccoli eroi.

Ma saltando il filo della trame, quello che risalta appunto sono quelle piccole digressioni su temi fondanti della cultura umana. La democrazia, dove solo se tutti sono partecipi potrà diventare il potere del popolo e non di una ristretta parte dell’umanità. L’inclusione, che i bambini normali tendono ad isolare i bambini speciali, ma solo diventando come nel testo, diversi ma insieme, si può costruire un mondo migliore. Un mondo in cui non deve esserci una censura preventiva sulle idee e sull’espressività, ma solo il rispetto reciproco, anche e proprio nel modo di esternarsi. Cosa, ad esempio, che non avviene (ed è magistralmente descritta da Dicker) nei turbolenti rapporti tra genitori ed insegnanti.

Oltre a tutti questi temi “alti”, l’altro merito (personale) del testo, è farci ripensare al noi stessi bambini. Alle domande che facevamo ed alle risposte che ricevevamo (o alla loro mancanza). Io stesso, non essendo al tempo né particolarmente socievole né particolarmente agile, tendevo a tormentare mia madre con una litania interminabile: “Mamma, e ora che faccio?”.

Non avendo più i genitori a cui rivolgere questa fondamentale domanda, ora faccio in modo di leggere e di tramare. E di dire al nostro Dicker che va bene semplificare, va bene cercare un basso profilo espressivo, ma qui, sovente, ci si compiace troppo di essere bambini e di mettere in croce l’adulto di turno. Comunque, una lettura con dei meriti, anche se diversi da quelli che mi aspettavo aprendo il libro. Che io cerco sempre di non sapere nulla del testo prima di averlo letto.

Non ho frasi che mi sono balzate in testa, ma per chiarire alcuni punti di quanto ho tramato, sento il bisogni di riportare un piccolo brano del testo. Il battibecco tra il poliziotto che deve spiegare la sicurezza stradale ed i nostri bambini speciali.

Il polizotto … ha detto: “… Il pericolo maggiore per i pedoni è quello di attraversare la strada senza guardare”.

Non eravamo per nulla d’accordo … “Si può benissimo attraversare una strada senza guardare” ho detto “È il conducente dell’auto che farebbe meglio a guardare dove sta andando”.

“No, non potete attraversare se prima non avete guardato” ha detto il poliziotto.

“I ciechi hanno il diritto di attraversare la strada, no?” gli ho fatto notare.

“Si”, ha ammesso il poliziotto.

“Però non possono guidare, giusto?”

“No, effettivamente”.

“Ecco, lo vede? È per guidare che bisogna guardare!”

Con il solito contrappasso degli ultimi tempi, ecco allora qualche pensiero di alcuni grandi maestri tra noir e thriller. Cominciando con Dashiell Hammett e “Il falco maltese”:

“Aveva … capito che gli uomini muoiono a caso e vivono solo quando la fortuna, cieca, li risparmia.” (66)

“Se non mi ami, non esiste risposta. In caso contrario, non occorre nessuna risposta.” (216)

Proseguendo con l’acclamato (ma che non entra mai nelle mie corde) Stephen King ed il suo “Misery”:

“Quando aveva dichiarato che moriva dalla voglia di sapere cosa sarebbe successo dopo, non stava scherzando. Perché si continua a vivere per scoprire che cosa succede dopo” (272)

Finendo con il meno celebrato ma ottimo Dennis Lehane e “La morte non dimentica”:

“Lamentarsi con qualcuno era un modo di chiedere aiuto, di chiedere a quel qualcuno di aiutarti a risolvere un problema.” (64)

“Era proprio tra la gente che uno si rendeva conto di quanto poco tempo trascorresse con la persona che amava.” (207)

“L’esperienza gli aveva insegnato che tutti si comportavano in maniera infantile, ogni tanto.” (275)

Una trama un po’ più lunga che qualcosa salterà nel mese di luglio. Piccoli spostamenti verso il Nord, di cui vi terrò conto. Anche per sfuggire a questo improbabile ed impossibile caldo romano. Tanto caldo che vi abbraccio poco.

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