Per
il primo abbiamo tre uscite che vanno dal pessimo (Boccia & Lombardi) al
bruttino (Luceri) ed al passabile (Franco). Sul secondo siamo più ferrati, ben
oltre la sufficienza, con uno storico Savatteri dedicato alle gustose avventure
in quel di Màkari ed un neo-uscito con l’ultima fatica di Robecchi, dove
compaiono come protagonisti due personaggi che avevano fatto fugaci apparizioni
nella serie a me molto gradita di Carlo Monterossi.
Un
assaggio del riposo estivo della mente. Anche se vi consiglio di soffermarvi
sulle citazioni in coda.
Luigi Boccia & Nicola Lombardi
“Strigarium I delitti del noce” Mondadori euro 5,90
[A: 02/02/2022 – I: 25/01/2025 – T: 27/01/2025]
½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 209; anno:
2022]
Non conoscevo la coppia di scrittura Boccia
& Lombardi, sapendo solo che questo testo era arrivato in finale ad un
Premio italiano (ma non lo aveva vinto). E solo documentandomi un po’ ho
scoperto i due essere, da soli o in coppia, molto attivi nel panorama di scrittura
italiana. Fumetti, sceneggiature, saggi su streghe ed affini, vicinanza
elettiva con Dario Argento. Insomma, scrittori di varia abilità, pur in campi
che non frequento molto.
Frequento molto, al contrario, i gialli, ed
in questa veste ho preso, letto e mal digerito questo romanzo. Certo, un po’
horror, ed anche con qualche collegamento non-fiction, ma la storia non prende,
e la soluzione dei misteri, alla fine, è da un lato monca (non tutto viene
spiegato) dall’altro poco convincente. In realtà, le uniche cose notevoli di
questo abbastanza deludente libro sono la data di acquisto (2/2/22) e quella di
inizio lettura (25/1/25), cui si possono associare ragionamenti numerici di varia
natura. Per il resto, come detto, il libro è senza mordente, con qualche
velleità storica, ma con una trama prevedibile. Ed anche con l’impressione che
se ne voglia trarre un seguito. Paura!
L’azione si svolge nel 1678, e subito
abbiamo un tuffo all’organizzazione del testo. Ogni tanto, esce fuori la
scritta: “tre mesi prima”, che ci costringe a quei salti temporali che, se mal
gestiti, rischiano di affossare i testi che li utilizzano. Così, con qualche
evidente difficoltà, seguiamo la storia che si barcamena tra il giugno e
l’ottobre di quell’anno.
Nel giugno, per la festa di San Giovanni, si
dà vita ad un grande sabba intorno ad un grande albero delle noci, che si dice
abbia poteri magici. O che nasconda un oracolo femminile, che, proprio in quel
24 giugno, si palesa e passa lo scettro ad una diversa ragazza. Non solo, si
dice anche che per i loro riti, le pulzelle usassero il cervello di bambini
appena nati, dato che il cervello assomiglia al gheriglio della noce, e che il
noce era ritenuto un albero magico.
Mi ero dimenticato, l’azione si svolge a
Benevento, ed il noce di Benevento, fin dall’antichità, era ritenuto un albero
magico (o diabolico), tanto che nel VII secolo il vescovo di Benevento, san
Barbato, lo fece abbattere. Ma le streghe trovarono il modo di farlo rinascere.
Fatto sta, che frati del convento vicino denunciano gli strani fatti di queste
donne danzanti, ed uno squadrone papale interviene in loco, massacrando un buon
numero di signorine. Non quelle che si riteneva essere i capi, che fuggono nel
bosco, si riorganizzano e, assalito il convento dei frati, a loro volta ne
uccidono un bel po’.
Per portare ordine e comprendere il reale
svolgimento dei fatti, il papa Innocenzo XI invia suo nipote, Flaviano
Altobrandini (o Aldobrandini, c’è un po’ di indecisione nella scrittura), per
indagare. Nipote aiutato da un valente (ma subdolo) spadaccino, Jacopo da
Cornedo. Nel corso dell’indagine vediamo morire, uccisi o sucidi, l’economo del
convento Romualdo, colui che aveva chiesto a padre Ariberto di indagare sulla
scomparsa di bambini, nonché su possibili profanazioni di tombe. Flaviano
incontra anche le cosiddette streghe. Una, Vinia, che, catturata e torturata,
lo porta a trovare il modo di incontrare sia la capa, Petra, sia le due più
agguerrite contro lo strapotere maschile, le gemelle Albina e Alcina.
Facendo tutti i riscontri, alla fine
Flaviano si rende conto che la situazione è molto più complessa di quanto
sembrava, e che lo scontro tra il Cristianesimo ed il paganesimo delle streghe
nasconde anche altro. E forse il Vaticano nasconde qualche colpa che non si
sospettava. La soluzione alle varie morti è trovata, ma Flaviano dovrà trovare
il modo di badare a sé stesso.
Come detto, però, questa parte è poco
profonda, e tocca corde a me lontane. Io preferisco girare nei meandri del
rapporto tra finzione e realtà, laddove si parla del papa Innocenzo XI, in
carica al tempo degli avvenimenti, anche se il papa è noto per la sua opera
moralizzatrice nella chiese e non si sa nulla dei suoi interventi “contra
stirgarium”. Un bel cammeo si trova ad un certo punto quando vengono citate le
attività caritatevoli di Vincenzo Maria Orsini, all’epoca vescovo di Salerno (e
quindi di prossimità con i luoghi dell’azione). Orsini all’epoca aveva 29 anni.
Sulla soglia dei 75, venne poi eletto papa con il nome di Benedetto XIII, ed è
ricordato come l’ultimo papa nato nel sud dell’Italia.
Ma soprattutto si parla a lungo di un libro,
edito nel 1635, e scritto dal filosofo e medico Pietro Piperno, e dal titolo “De
Nuce maga Beneventana”, cioè “Della superstiziosa noce di Benevento”, in cui si
narrano tutte le leggende intorno al noce, con particolar menzione al ruolo
delle donne (ovviamente in quanto streghe).
Un ultima spigolatura, nello stemma della
squadra di calcio di Benevento (attualmente in Serie C) è rappresentata una
strega che vola su di una scopa.
“Tutte le cose che i nostri occhi vedono
sono governate dalla matematica, che è il grande architetto dell’esistenza
dell’uomo e dei processi che accadono attorno a lui in cielo e in terra. Nulla
accade per caso, perché la matematica non contempla tale possibilità.” (126) [penso
non ci sia bisogno di aggiungere altro …]
Enrico Luceri “L’ombra dei vecchi peccati”
Mondadori euro 7,90
[A: 07/03/2025 – I: 15/03/2025 – T: 16/03/2025]
&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 186; anno:
2025]
Enrico Luceri è un autore ben presente nella
mia biblioteca (ben nove romanzi) e soprattutto ho la collezione completa delle
avventure del commissario Buonocore. Una serie che si regge solo sulla simpatia
del commissario e sulle uscite del suo aiutante, l’ispettore capo Angela
Garzya. Tanto che il risultato migliore è stato il secondo libro “Le notti
della luna rossa”, dove Buonocore e Garzya agivano in un tandem molto
affiatato.
Purtroppo, con questo sesto episodio
torniamo ai bassi livelli delle riuscite poco ottimali. Primo, per l’assenza di
Angela (si dice che è in ferie e poi se ne tace). Secondo perché la storia è
semplice, lineare e facilmente comprensibile dall’esterno, mentre poliziotti e
investigatori vari sembra vagolino nel buio. Terzo ed ultimo che dalle prime
pagine è tutto chiarissimo. Bisogna solo trovare qualche connessione, che
arriverà alla fine, e come al solito nelle scritture non all’altezza, arriverà
dall’esterno. Così, noi che si era capito i come, veniamo edotti dai perché senza
poter aiutare il buon commissario.
La storia si muove su tre piani temporali di
cui uno ben distinto, mentre gli altri si intrecciano creando qualche
confusione. Il primo è, nel prologo, il tempo della morte di una ciclista, Anna
Coronato, investita da una macchina in una stradina a strapiombo sul mare, dove
lei casca. Non muore sul colpo, ma la macchina non si ferma, nessuno la salva e
lei muore. Lasciando un fidanzato basito ed una madre in una struttura
assistenziale di cui Anna a fatica pagava la retta.
Il secondo piano segue la successione dei
fatti, in particolare non mollando mai il nostro commissario che viene chiamato
sulla scena del primo assassinio. E dove, al primo morto, seguiranno altri
cinque omicidi ed un suicidio. il primo morto è Graziano Chianello, piccolo
pregiudicato, ucciso nel bagno di un bar da un tizio dall’aspetto dimesso. Poi
viene uccisa Luigina Arrighi mentre aspettava il compagno, l’assassino essendo
descritto come un tizio vestito con ricercatezza. Poi ci sono due morti strangolati
con una corda da bucato, un altro tizio preso a martellate, una persona che si
suicida, finendo con un maresciallo della municipale ucciso a coltellate.
Tutti potrebbero essere stati uccisi per
motivi vari, ma Buonocore è convinto invece che ci sia una regia ben precisa
dietro. Anche perché l’ultimo morto, il maresciallo, era l’unico che non era
mai stato convinto della morte casuale della ciclista, ed era l’unico che cerca
di trovare qualche idea di prova.
Il terzo piano, che si intreccia con il
secondo dal punto di vista della scrittura, anche se si colloca a valle di
tutti, è legato alla visita che Buonocore fa a Sergio Zito, ex assistente
sociale ora in pensione, che aveva iniziato tempo addietro un dossier capitato
casualmente tra le carte del commissario ed il cui contenuto potrebbe aver
attinenza con gli omicidi descritti nel secondo piano temporale. Inciso: la
vicenda in tempo reale va praticamente da Ferragosto a circa la fine del mese.
Luceri accumula descrizioni, accumula
informazioni su tutte le persone che, da vicino o da lontano, possano avere
collegamenti con la vicenda. Il tutto soffuso da un sentimento di malinconia,
quasi tristezza. Vediamo così Anna la sfortunata ragazza che vive per la madre
e muore in bicicletta. Vediamo la donna separata dal marito che trova un nuovo
compagno che la sfrutta. Vediamo il piccolo delinquente che sta cercando un suo
piccolo riscatto nell’ambiente malavitoso, senza riuscirci. Vediamo il maresciallo
che vorrebbe provare che Anna non è morta per un caso, in modo che
l’assicurazione possa pagare le cure per la madre di lei, non riuscendoci.
Vediamo il signore solitario che cura due pappagallini. Vediamo lo spazzino
fidanzato di Anna distrutto dalla morte di lei. Vediamo due piccoli truffatori
che si muovono sul limite della legge.
Ma soprattutto vediamo come, alla fine,
Buonocore riesca ad unire i puntini del rompicapo, spiegandoci anche i perché,
e soprattutto fermando alla fine la mano dell’assassino. Attraverso tutta una
serie di motivazioni che servirebbero a spiegare, ma che lasciano spazio a
salti interpretativi non dimostrati.
Non è la prima volta che parlo di Luceri. E
non è la prima volta che ribadisco come l’esimio romano nato a ridosso del
compleanno di Simenon, sappia di sicuro scrivere, e conosca bene il mondo del
giallo (non a caso, il titolo di questo romanzo rimanda ad Agatha Christie).
Quello che difetta è un po’ di pulizia nel testo, e qualche scatto in meno di
onniscienza. Lo scrittore sa, ma nel caso del giallo, anche il lettore deve
sapere, altrimenti manca un elemento del triangolo virtuoso scrittore – lettore
– trama.
E nonostante tutto, continuerò a leggere di
Luceri, sapendo che lui leggerà i miei commenti.
Gaetano Savatteri “Quattro indagini a Màkari” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25
euro)
[A: 25/03/2022 – I: 20/03/2025 – T: 21/03/2025]
&&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 339; anno:
2021]
In
questa antologia vengono poi riuniti i primi episodi usciti dalla penna di
Savatteri e che erano stati pubblicati in alcune antologie di Sellerio a
partire dal 2014, elementi di cui vi do conto nel parlare dei vari episodi. E
seppur ho già tramato i quattro romanzi dedicati a Màkari, è bene fare un
piccolo riordino delle idee, a partire proprio da queste prime uscite.
Le
storie di Savatteri ruotano intorno a Saverio Lamanna, scrittore e giornalista,
che conosciamo perché, da uomo immagine di un politico, dopo aver sbagliato una
dichiarazione, viene licenziato in tronco. Onde per cui decide (anche per
problemi economici) di andar via da Roma e tornare nella sua Sicilia natia. Ed
in particolare a Màkari, dove la sua famiglia aveva una casa dedicata
all’estate. Casa non più frequentata dopo la morte della madre, e con il padre
di Saverio, professore in pensione, che preferisce vivere a Palermo.
In questa località (che sulla carta viene
indicata come Macari, con la “C”, frazione di San Vito lo Capo) fa due incontri
fondamentali. Il primo è con Peppe Piccionello, factotum locale, devotissimo a
Lamanna senior, che rappresenta il lato “giullare” dei racconti. E come ben
sappiamo il giullare fa certo anche ridere come il buffone di corte, ma è anche
portatore di pensieri e riflessioni spesso molto serie. La seconda è con la
giovane studentessa di architettura, Suleima, che per mantenersi agli studi lavora
come cameriere nel ristorante di Marilù, una cara amica di Saverio. Suleima che
ben presto intreccia una bella storia d’amore con Saverio, fatta di rispetto ed
aiuto reciproco.
Il primo racconto, Il lato fragile
(Vacanze in giallo, 2014), è in assoluto la prima uscita di Saverio
Lamanna. Ne conosciamo quindi la storia, ed i motivi per cui si trasferisce in
Sicilia. Vediamo la veloce, e positiva, corte con Suleima, ed i primi incontri
con Piccionello. Tralasciando poi le mini-analisi su similitudini e differenze
tra scritto e sceneggiato, qui non tutti sanno che Saverio è ormai disoccupato.
Così, un prete lo invita ad un convegno sulla Mafia (e qui si potrebbe aprire
un dibattito sull’analisi dello snobismo mafia-antimafia sulla scia delle
analisi di Sciascia), dove ci scappa il morto, e dove Saverio, per caso o per
fortuna, scopre motivi e protagonisti della storia.
Per non dimenticare, ma anche per tirare
avanti (visto che non ha più lo stipendio romano), dalla storia precedente
ricava un libro quasi giallo che vende. Ma che gli porta anche nuovi grattacapi
nel secondo racconto Il fatto viene dopo (La crisi in giallo, 2015). Infatti,
qui si parla della crisi industriale, di licenziamenti come avviene ad un
sodale di Piccionello (da qui, il nostro Peppe comincia ad avere un suo ruolo).
L’amico inscena un finto rapimento chiedendo a Saverio di scriverne, come ha
fatto per il precedente. Ma a fronte di una serie di equivoci, e di qualche
militare che non sa ragionare, si arriva ad un epilogo tragico, che servirà
comunque a Lamanna per scrivere del degrado dell’economia siciliana.
A parte alcuni contorni, il succo del terzo
racconto La regola dello svantaggio (Turisti in giallo, 2015), risiede
nell’attività richiestagli dall’amica Marilù di fare l’anfitrione ad un gruppo
di turisti. Che gira la Sicilia per cantine e ristoranti. Gruppo legato al
patriarca danaroso, con donna slava al seguito, figlio trentenne costretto
obtorto collo a stare nel gruppo, più alcuni amici inglesi, russi e siciliani.
La morte del patriarca porta il racconto a virare sul giallo, anche se per
poco, che Saverio tutto capisce. Si ripete qui un motivo di fondo. C’è un
giallo, ma quello che interessa a Savatteri è l’atmosfera, e la connotazione di
una Sicilia che non è solo mafia. Ma anche piccole astuzie quotidiane, come
quella dell’idraulico che affitta all’ignaro Saverio la casa di Màkari,
convincendolo poi a non denunciare nessuno, applicando al contrario la regola
calcistica del vantaggio (se non la conoscete, divertiti a leggere il
racconto).
E per rimanere in tema di calcio, l’ultimo
racconto È solo un gioco (Il calcio in giallo, 2016) parla
di calcio partendo dal funerale di un cugino di Saverio morto in un incidente
di macchina. È un testo molto leggero, con una facile virata sulle scommesse
clandestine, e sul sospetto, poi certezza, che il cugino sia morto per altri
motivi.
Per tornare con una battuta su libri e
video, nello sceneggiato ha un ruolo più presente il buon Piccionello, sempre
in giro con pantaloni corti, magliette con slogan sicilianisti e infradito.
Probabilmente, la sua presenza sullo schermo riesce meglio che quella del solo
Saverio, che invece, nello scritto, con la sua ironia, a me piaceva di più.
Ma nel complesso, è un buon inizio per chi
vuol tornare alle radici di Lamanna e un buon ripasso per chi aspetta la quarta
serie televisiva. Non sono gialli, si diceva, anche se ci sono morti ed
indagini, ma c’è una scrittura leggera, ironica, ma anche con uno sguardo
diverso (e partecipe) delle martoriate terre sicule.
“La cucina è come la letteratura: il
contenuto non conta, conta come si racconta.” (265)
Alessandro Robecchi “Il tallone da Killer”
Sellerio s.p. (Regalo della sig.ra Laura)
[A: 07/05/2025 – I: 08/05/2025 – T: 10/05/2025]
&&&
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 340; anno:
2025]
Dopo aver scavato a fondo nell’universo di
Carlo Monterossi, e dopo averci dato una bella divagazione raccontando vita e
soprattutto morte del padre del giallo italiano, Augusto De Angelis, il nostro
poliedrico Robecchi decide di prendere in mano due personaggi minori delle sue
trame, comparsi realmente ed in modo ben presente solo nel primo romanzo della
serie “Monterossi” (e nell’antologia “Un anno in giallo” al mese di giugno), e
di costruirci intorno una gradevole commedia nera.
Perché i due personaggi sono due killer di
lunga data, con una solida ed abbastanza agenzia da gestire. Anche se, nel
poche uscite libresche, erano stati individuati con due soprannomi soltanto: il
Biondo e Quello con la cravatta. Ora, facendone due killer professionisti, si
capisce che di nomi possono assumerne tanti, e quindi va bene individuarli
così.
I due (che nel mio ricordo erano abbastanza
pasticcioni) qui assumono un profilo diverso, anche manageriale, se vogliamo,
in un ramo non certo da inserzioni pubblicitarie in tv. Il Biondo è un
battitore libero (non sposato, frequenta varie signorine, tornando spesso da
una escort di lusso con cui ha un rapporto speciale), è discretamente colto
(cita Majakovskij dopo una notte di sesso), ha intuizioni, ma a volte non
finalizza le operazioni. Quello con la cravatta invece è sposato con Marta,
hanno un figlio (Mattia) in piena tempesta ormonale. Lui per la famiglia lavora
su strumenti ottici di precisione. Ed è lui che in genere ha le intuizioni che
risolvono.
I nostri lavoratori del crimine hanno messo
su un discreto business: quattro o cinque uccisioni all’anno, che portano un
budget poco sopra il milione di euro. Anche se poi le spese sono tante, in
particolare quelle per la sicurezza (schede telefoniche non rintracciabili,
documenti falsi fatti a regola d’arte, ed altri piccoli accorgimenti). Proprio
per tener conto della sicurezza bisogna decidere se aumentare il numero dei
morti per anno, o aumentare il calibro dei morti stessi, facendoli diventare
più redditizi. Questo è il punto debole del business dei nostri, che ha portato
Robecchi alla trovata della battuta del titolo.
Interessante il meccanismo di
coinvolgimento: inserzioni nei necrologi e passaparola. In questo modo si ha
una clientela fidelizzata, ma una difficoltà nel marketing (non tutti vogliono
uccidere, ed il passaparola ad un certo punto si ferma).
Comunque, tramite il necrologio solito hanno
un incarico, ma mentre studiano le possibilità, il futuro morto viene ucciso da
altri. Qui si apre un siparietto niente male sulla concorrenza, sui prezzi al
ribasso, e su altre strategie di marketing. Peccato che si parli di morti, e
che questi spuntino come funghi. Ma questo permette loro di conoscere
Francesca, una killer solitaria, che lavora al ribasso (ah, la crisi…).
Fortunatamente, dopo l’infruttuoso avvio,
hanno un nuovo incarico. La ricca Stefania decide di sbarazzarsi dell’amante
che, pur ricoprendola di soldi, non si decide a divorziare, anzi si avventura
anche verso altri lidi (femminili). Sembra un incarico semplice, hanno tante
informazioni, possono mettere su un affare veloce. Peccato che si scopre non
solo che il fedifrago è pluri-fedifrago, ma che gli affari non vanno così bene
come sembra. Tanto che deve chiedere soldi in prestito a diverse cosche e coschette
malavitose. Di modo che i suoi spostamenti sono iper-controllati, dovendo
ognuno dei cattivi aver cura del proprio investimento.
I nostri due allora non trovano di meglio,
anzi è quello il meglio, che coinvolgere la killer solitaria, in modo da poter
sfruttare al meglio i possibili momenti in cui mandare all’altro mondo il
finanziere traditore. Robecchi riesce a trovare molti modi di complicare la
situazione, senza però fare quei salti di invenzione e di ironia che hanno
caratterizzato soprattutto il primo Monterossi. Per cui tutto scivola un po’
così, trascinandosi verso un finale in cui ci aspettiamo di vedere se il
contratto arriverà al suo compimento, viste le difficoltà incontrate per via-
Dopo tante peripezie, tuttavia, la storia
poteva finire solo in due modi. Francesca li aiuta nel raggiungimento
dell’obiettivo e si appresta, in un possibile futuro, a diventarne socia. O
quanto meno free lance. Francesca (o Stefania o entrambe) si rivelano essere
forze dell’ordine in incognito, e fermano l’azione dei nostri, che finiscono
così la loro carriera. Finali entrambi plausibili, a voi sceglierne uno e, se
vi va, leggere il libro per verificare la vostra soluzione.
Robecchi cerca di mettere la stessa verve
del suo personaggio principe, infarcendo il prodotto di buone mangiate ed
altrettante buone bevute (si ricorda senz’altro un Sassicaia 2020). E provando
anche qualche altro elemento straniante (il killer con la cravatta contrapposto
al suo ambiente familiare, le cene la sera, gli studi e le ragazze di Mattia)
ma non riesce a smuovere la satira più di tanto. L’unica rilevanza è aver
equiparato l’attività del killer ad un qualsiasi altro business, creando
(cercando di creare) un’atmosfera credibile di commedia nera. Qualche critica
sociale ci sta (d’altra parte che nasce con Crozza, non può certo
dimenticarselo), ma io mi aspettavo meglio dalla confezione finale.
Andrea Franco “L’odore della rivoluzione”
Mondadori euro 5,90
[A: 30/08/2022 – I: 23/05/2025 – T: 24/05/2025]
&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247; anno:
2022]
Eccoci allora al terzo romanzo che Andrea Franco
dedica al suo investigatore “storico” (nel senso che si muove in una Roma di
centottanta anni fa) monsignor Andrea Verzi. Pur scrivendo di molte cose,
Franco, nel ’13, vince il Premio Tedeschi per il giallo con “L’odore del
peccato”. Ripetendosi tre anni dopo con un secondo titolo, “L’odore
dell’inganno”, che, pur con gli stessi protagonisti, era meno convincente.
Ora, dopo sei anni (io, che ho letture
lunghe ne leggo dopo altri tre), con questo ulteriore odore, cerca di rendere
più robusta la saga del monsignor, collegandola ad altri eventi storici del
periodo e del passato. Purtroppo, un’operazione che riesce solo in parte. C’è
qualche personaggio meglio riuscito, c’è Attilio con alcune buone uscite, ma
c’è una trama che fa un po’ acqua, quasi che, volendo mirare troppo in alto, si
sia perso qualche buon colpo.
Intanto, comincia a collocarci sulla scena
della storia. Anzi della Storia. Il primo romanzo comincia nel giugno del 1846,
all’insediamento del papa con il pontificato più lungo certificato (Papa Pio IX
rimane sul soglio di Pietro per quasi 32 anni). Mentre la seconda storia si
svolge nell’agosto dello stesso anno. Qui, invece, siamo nel settembre del ’46
(anche se una parte della vicenda rimanda al 1786), e consideriamo che questi
sessant’anni sono importanti.
Comunque, come già indicato nel precedente
romanzo, i comprimari del nostro monsignore sono sempre più sbiaditi. In
particolare, suor Rebecca, che interviene di quando in quando, senza l’allegria
di un tempo. Più spazio hanno sia “il dottor Watson” di Verzi, don Giani, sia
“l’ispettore Lestrade” cioè il capitano Agostino Iacoangeli (inciso e
pettegolezzo: ho scoperto che il miglior sodale di Franco si chiama Cristiano …
Iacoangeli). Anche se non hanno momenti topici nella vicenda. Forse solo
Iacoangeli, mostrato in una deriva amorosa positiva ed una strana ludopatia. Ma
tutto poco interessante, se non per qualche momento di difficoltà che viene
creato al nostro prete detective.
In ogni caso, Verzi deve muoversi in una
città che si va riempendo di cadaveri. Un primo, che per lungo tempo non avrà
nome, viene trovato nudo e torturato, di fronte al Colosseo, nel luogo della
“Meta Sudans” (su cui torneremo). Un secondo massacrato nella sua cella in
convento. Un terzo finto suicida da un terzo piano. Il tutto contornato da un
quarto che non è un prete, ma un malfattore proveniente dalla confraternita dei
macellai.
Verzi cerca di muoversi tra le poche prove
che ha, cerca l’aiuto della milizia di Iacoangeli per le indagini fuori del
territorio strettamente vaticano, si imbatte su alcuni personaggi storici, come
Jean-Achille Benouville, pittore, o alcuni preti, di nome inventato, ma
appartenenti ad un’altra casistica storica ben delineata, quella dei “preti
refrattari”. Mentre svolge le sue indagini, poi, il nostro detective viene
preso di mira, rapito, minacciato, torturato (gli viene amputato il mignolo),
poi messo anche alla prova mentre veniva torturata e violentata una signorina
(ma questa è anche parte di tutta una storia nella storia che poco interessa il
filo rosso della vicenda).
Alla fine, tutto si accentra su una reliquia
storica, o para-storica: il velo di Veronica. Per farla molto breve, in una
delle stazioni della Via Crucis, una dona asciuga il volto di Gesù, che rimane
impresso nel velo. È una “vera icona” di Cristo. Di cui non c’è traccia nei
Vangeli, ma molta nella letteratura apocrifa, dove viene para-anagrammato
quanto sopra diventando Veronica. Si dice che fosse portato in Vaticano e che
avesse ispirato Bonifacio VIII a proclamare il primo Giubileo storico nel 1300.
Dopo di che, durante il sacco di Roma del 1527, il velo scompare.
Questa breve digressione serve ad introdurre
una serie di personaggi, senza motivi apparenti legati alla Chiesa, che nel
corso dei secoli cercavano tracce del velo. L’autore ipotizza che ce ne
potessero essere informazioni durante l’inaugurazione del porto di Cherbourg in
Francia nel 1786. Ma le persone allora coinvolte non ne vennero a capo. Poco
dopo, le stesse, non avendo giurato fedeltà al potere civile, vennero bollate
come “preti refrattari”, ed espulsi dalla Francia.
Alcuni ripararono in Italia, smistati in
vari conventi. Sarà un amanuense che, copiando un testo, ritrova traccia del
velo. Ne parla ad un suo amico cieco, che a sua volta sparge la voce. Ed ecco
che i refrattari riprendono vigore, magari alleandosi a nuove forze,
cardinalizie e civili.
Tuttavia, tutta la costruzione di Franco è
debole assai. Non si trova traccia del libro in copia. La maggior parte degli
attori della vicenda, se non è già morta, ora all’epoca di Verzi, ha dagli
ottant’anni in su. Ed è un età che non era raggiunta da molti nell’Ottocento.
Insomma, tutta la costruzione delle morti su cui indagano Verzi e soci si basa
su di un presupposto talmente labile che si fa molta fatica a seguire il corso
della vicenda, a capirne i nessi, ed anche ad arrivare alla comprensione delle
motivazioni.
Resta, e questa è di sicuro un punto a
favore, la ricostruzione del periodo storico, la puntuale fotografia della Roma
di quegli anni (ed io mi aspetto che si arrivi anche a parlare del 1848 e della
Repubblica Romana), nonché alla descrizione degli usi e costumi del tempo
(bella la parte dedicata alla Suburra). Ma ancor migliore è la trovata
iniziale, del morto vicino alla fontana “Meta Sudans”, che era una fontana
prospicente il Colosseo (e che rottura, l’autore filologicamente lo chiama
Anfiteatro Flavio), di forma particolare, già in rovina all’epoca dei fatti, e
poi definitivamente distrutta durante il fascismo per poter disegnare la via
dei Fori Imperiali (uno dei tanti scempi mussoliniani).
Vorrei finire soltanto con una punta di
dispiacere musical-filologico. Uno dei morti è frate Attenni, che, come dissi
nel primo libro, va di sicuro ricordato nella mia mitologia privata come uno
dei finti sponsor di quella banda musicali di miei amici folli, i Niente di
Precyso di Vito Asta. Il frate muore, ma Vito, quest’anno, riesce a cantare in
televisione. Un mito, per me.
Sottofinale: le due frasi che mi sono
rimaste nella penna sono anch’esse da ricordare. La prima, per bocca di
monsignor Verzi, credo sia un assunto “alla Catalano” mirabile. Il secondo mi
riporta invece ad un altro mio amico, ed alla sua attività in quel d’Abruzzo.
“Più cose so, meno sono quelle che
ignoro.” (71)
“[Padre Antoine] veniva da Morrovalle.”
(84)
Nella solita alternanza tra trame e
citazioni, visto che vi ho inondato di giallo, vado a passare sul registro
serio dei pensieri con due signori autori. Il primo da me molto amato (grazie
anche ai suggerimenti della mia amica Luana) è Paul Auster, che nel
mirabile “Timbuctù” esprime un pensiero che farebbe la mia
felicità:
“È
tutto quello che ho sognato… Migliorare il mondo. Portare un po’ di bellezza
negli angoli grigi e monotoni dell’anima. Ci puoi riuscire con un tostapane, ci
puoi riuscire con una poesia, o tendendo la mano a uno sconosciuto. Non importa
la forma. Ecco, lasciare un mondo un po’ migliore di come l’hai trovato. È la
cosa più bella che possa fare un uomo.” (50)
Il secondo, con i suoi alti e bassi, che non
sempre convincono, è Philip Roth che in “Pastorale americana”, un
libro che a me non è piaciuto, comunque dice alcune cose mirabili:
“Ho
passato i sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le
stesse prospettive che aveva da ragazzo.” (27)
“Scrivere
ti trasforma in una persona che sbaglia sempre … [con] l’illusione che forse un
giorno l’imbroccherai.” (74)
“Perché
le cose sono come sono? Una domanda senza risposta, e fino a quel momento era
stato così fortunato da ignorare addirittura che esistesse la domanda.” (99)
“La
vita è solo un breve periodo nel quale sei vivo.” (266)
Una giornata cupa, che tutti non avremmo voluto vedere. Spero che la forza della ragione porti consigli per fermare una valanga che a tutti fa paura. O almeno a me ne fa tanta. Ragionare con i muscoli è un modo che mi ha sempre visto dall’altra parte. Mi affido alla seconda parte del ragionamento gramsciano su intelligenza e volontà. Ma troppo ci sarebbe da ragionare in proposito, non essendo qui la sede, né avendone io le capacità, mi limito a mandare un pensiero positivo a tutti, accompagnato da un grande abbraccio.
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