Storie di uomini, di donne,
intrecci, scritture mediterranee, scritture anglosassoni, scritture messicane.
In questa festa di fine giugno (anche se festa solo per noi romani) ci
dedichiamo alle storie, di quelle narrate, partecipate, belle o brutte non so,
ma con qualche cosa, un accenno, un sorriso, una frase, che me li fanno vicini,
anche se non proprio piacevoli. Infatti, mi aspettavo di più da Oz, che in
genere mi coinvolge di più, così come mi aspettavo di più da Mastretta, che in
genere mi lasciava belle immagini femminili di rabbia, mi aspettavo di più da
McCarthy, che in genere è più asciutto, mi aspettavo di più da Coe, che in
genere è più ironico. Ma tante frasi sono rimaste nella mia testa.
Amos Oz “Conoscere una donna” Feltrinelli euro 8,50 (in realtà,
scontato 6,37 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 20/02/2012 – T: 21/02/2012]
[titolo: השיא תעדל (To know a woman); lingua: ebraico; pagine: 253; anno: 1989]
Per quanto voglia bene e mi
faccia sempre piacere leggere di Oz, questo libro mi ha lasciato alquanto
perplesso. È strano, dolente, ed in realtà non è che succeda nulla. Tutto sta
nell’atmosfera, nel porsi reciproco delle persone, nell’attesa di un disvelamento
che, in realtà, non c’è, non arriva mai. È un libro, per me, difficile, tutto
fatto di chiaroscuri, ben diverso da altri e più brucianti libri di Oz. Incanto,
molto si gioca sul contrappasso. Perché, nonostante il titolo, tutto il libro
racconta l’impossibilità di questa conoscenza. Yoel, il protagonista, è una
gente dei servizi segreti israeliani, sempre in giro per il mondo. La morte,
strana e accidentale, della moglie Ivria spalanca a Yoel un mondo inatteso.
Scopre quindi di non sapere chi fosse in realtà la moglie. Ed anche tutte le
persone a lui vicine lo pongono in dubbio. Tanto da mettere in gioco anche la
domanda su chi sia lui stesso. E mentre da agente erano i suoi occhi che lo
guidavano. Attenti, capaci di cogliere sfumature negli estranei che lo
circondano. Ora deve ricorrere ad altri sensi. In primis, la memoria. E quindi,
tutto il romanzo è percorso da flashback, che fanno emergere bolle di passato.
Ognuna studiata, percorsa e ripercorsa in attesa di un’illuminazione. Si
dimette da spia, va a vivere in un villino con la figlia (colpita da una strana
forma di epilessia) e la madre. Conosce strani vicini canadesi. Fa amicizia con
l’agente immobiliare che gli ha venduto casa. Indaga il quotidiano, percorre il
vuoto intorno a lui, tra le tisane mute della figlia, le uscite in barca, la
cura del giardino, le notti con Annmary. E ripensa all’altalena del suo amore
con Ivria. I silenzi. Le assenze. Gli anni di appostamenti e di interrogatori
si rivelano inutili a capire l’essenza della donna che ha scelto come sposa ed
è il vuoto generato dalla scomparsa a porre l’accento sulla distanza
incolmabile verso colei che avrebbe invece dovuto essergli più prossima di
chiunque altro. Amos Oz sembra schernirlo col suo curriculum da spia, quasi a
sottolineare che conoscere intimamente sia una missione più ardua che operare
in qualità agente dei servizi segreti israeliani in lungo e in largo per cinque
continenti, tra nomi in codice, trattative riservate e attentati da sventare.
Mi piace il dubbio che sempre pone Oz verso l’universo femminile: come
d’altronde essere certi di poterlo penetrare, noi, maschi ed altri da voi,
donne? Donne inaccessibili, misteriose, che Yoel, con tutta la sua autoanalisi
non riuscirà a scalfire. E scivoliamo lunga la sua lunga autoanalisi, al fine
senza un vero approdo. Soltanto con la consapevolezza che, una volta tanto,
bisogna anche ricominciare dal se. E questo (sembra, credo, mi auguro) è quello
che farà Yoel dopo che avremmo chiuso l’ultima pagina e lo avremmo lasciato
andare a curare il suo giardino. Ho faticato in lettura, e non ne sono uscito
completamente vincente. Vedremo altro, del simpatico toro del kibbutz, sperando
che prima o poi si possa fregiare del Nobel, che secondo me merita.
“In un racconto breve di Cechov o in un romanzo di Balzac c’erano … più
misteri che nelle storie poliziesche o di spionaggio.” (39)
“Tu sei una persona molto intelligente … e anche perbene. … Però ti
mancano tre cose serie: uno, non hai passione. Due, non hai gioia. Tre, non hai
pietà.” (161)
Angeles Mastretta “Donne dagli occhi grandi” Giunti euro 5,90
[A: 29/07/2011 – I: 31/03/2012 – T: 31/03/2012]
[tit. or.: Mujeres de ojos
grandes; ling. or.: spagnolo; pagine: 197; anno 1990]
Ho sempre avuto un moto
d’affezione per l’ottima messicana che scrisse un libro tanti anni fa, di cui
mi innamorai (e chi non lo ha letto, vada di corsa a comperare « Strappami
la vita »). Mi aspettavo qualcosa di simile, dato anche il bel titolo, e non
solo, anche la bella confezione che riporta in copertina una foto giovanile di
Julia Roberts (che come molti sanno, a me sta molto simpatica). Invece, altro.
Altro, perché non è un romanzo, ma sono brevi bozzetti di donne, la cui caratteristica
principale è di vivere a Puebla, non lontano dalla capitale (130 km), ma non
nella capitale. E le cui caratteristiche secondarie sono di essere tutte
chiamate zie (vezzo spagnoleggiante o dovuto all’influenza del [don] Giovanni
bolognese?) e di avere sempre qualche particolarità. Un’idea, un modo di
essere, una maniera di affrontare i rapporti con le altre persone. Mastretta,
in poco meno di 200 pagine ci presenta poco più di una cinquantina di donne.
Intanto, torniamo su Puebla, che è la più spagnola e la meno india delle città
messicane (con un bellissimo centro storico patrimonio Unesco, compresa l’alta
cattedrale). Ed è forse per questo che Mastretta riesce a far muovere le sue
donne più liberamente che altrove. Le donne che (come da uno dei brevi
racconti) non nascono (solo) dalla sua fantasia, ma fanno parte della sua
costellazione familiare. Pare che l’idea le sia venuta durante la malattia di
sua figlia piccola. Per distrarla, comincia a narrare le storie delle donne
“Mastretta” in modo che non se ne perda il ricordo. Da lì a farlo diventare una
galleria di personaggi da presentare al mondo, il passo è stato breve. Attenta
come al solito alla donna ed al suo ruolo, che non può, non deve, non sarà mai
di secondo piano (come vorrebbero machi latini e sudamericani). Donna che
rivendica il diritto di pensare. Di essere intelligente anche quando si
innamora come un’idiota. Che fugge con l’amante. Che rimane con il marito, ma
si tiene l’amante. Che per un’idea d’amore è disposta a sacrificare tutto. Che
alleva i figli della sorella morta. Che fugge a Parigi per ritrovare l’amore ed
una volta trovatola si accorge che era l’idea quella che cercava. E l’idea è
sempre distante dalla realtà. Che coltiva l’amicizia e la solidarietà tra
donne, anche quando sembra impossibile. Anche quando serve a far star meglio il
proprio uomo. Ed allora ecco che ci scorre davanti la galleria delle zie: zia
Charo e i suoi problemi con il prete, zia Eugenia che per far felice il suo
uomo lo divide con Georgina, zia Natalia che mangia le nespole con il cugino,
zia Fatima, zia Pilar, zia Jacinta, e via con tutte le altre. Non ve le dico
tutte, anche se ne avrei voglia. Più che per elencarle che per narrarle. Il
tratto poi che più mi piace della nostra messicana nata un 9 di ottobre (sempre
bilance, eh!) è la sua totale assenza di giudizi. Non giudica, non pontifica.
Descrive le donne passate e presenti della sua costellazione familiare. I loro
difetti, i loro pregi, le loro manie. Così come si descrive un quadro. Ma anche
un quadro non va giudicato. E se lo descrivo bene, lo rendo così che sarai tu
che potrai decidere di giudicarlo. Oppure di guardarlo perché è bello e
conservarlo nel ricordo. Alla fine, non sono soddisfatto completamente da
questo libro, anche se ne parlo a lungo e bene, che idee ne ha messe tante
sopra il fuoco. Ma sono piccole pennellate sulla tela. Ed io avevo bisogno di un
affresco corale, di un murales di Diego Rivera, anche se queste miniture di
Frida Khalo hanno sempre il loro interesse e piacere. E dopo questa citazione
colta, vi lascio decidere se leggere queste favole. Anche se non tutte
riuscite, io le leggerei.
“Non rovinare il presente lamentandoti per il passato o preoccupandoti
per il futuro.” (43)
“Nessuno può uccidere la parte di sé che ha fatto vivere negli altri.”
(88)
“La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne
intelligenti: come un’idiota.” (175)
“Gli assenti si sbagliano sempre.” (181)
Cormac McCarthy “Suttree” Einaudi euro 15 (in realtà, scontato 11,25
euro)
[A: 02/06/2011 – I: 22/04/2012 – T: 02/05/2012]
[titolo: Suttree; lingua: inglese; pagine: 560;
anno: 1979]
Sono d’accordo anche questa volta
con Baricco, sulla potenza della scrittura del quasi ottantenne McCarthy,
tuttavia qui ho avuto molta difficoltà a portare a termine questa fatica di
trenta anni fa. E non perché la scrittura sia datata, ma per quegli
inserimenti, tra flusso di coscienza e descrizionismo aulico, che non sono
presenti nelle altre sue opere. Certo, il suo modo di scrivere rimane
peculiare, e può anche non piacere. Niente dialoghi espressi, ma comunque
evidenziati. Nessuna concessione all’uso del presente narrativo, della terza
persona, dell’autore onnisciente. Sempre un grande rimescolio. E tuttavia,
pagina dopo pagina, qui come altrove, esce fuori la storia. E con essa un
dipinto, un brano d’America che ci viene incontro. Siamo ancora negli anni
Cinquanta, come in altri suoi romanzi. E siamo sempre nell’America profonda.
Qui, siamo a Knoxville, Tennessee, dove McCarthy allestisce una sua
balzacchiana commedia umana, intorno alla figura di Cornelius Bud Suttree. Uno
spostato, come molti personaggi dell’autore. Uno che vive ai margini, che cerca
di guadagnare dei soldi solo per campare alla giornata. Magari per ubriacarsi.
E, scandalo, scandalo, magari bere insieme a dei negri. C’è di tutto (ed in
fondo sono quasi 600 pagine) in questo condensato d’abisso americano. C’è
appunto Suttree, con passaggio in prigione per qualche ubriacatura molesta. Che
ora vive di piccola pesca e di vendita di pesci gatto. Ma l’inverno non si
pesca sul fiume, e Knoxville si arriva a 15 gradi sottozero. Come fare a
sopravvivere? Lui un po’ soffre il freddo, un po’ cerca fortuna altrove, ma poi
torna, un po’ sembra trovare un amore (ma quanti anni ha? In fondo è
imprecisata l’età, anche se il degrado lo mina nel fisico, e probabilmente
finirà prima del previsto). Ma niente dura nelle sue mani. Né l’amore, né il
pesce, né il cappotto nuovo. Ed alla fine ricomincerà a cercare di arrivare
all’indomani in qualche maniera. E tutto intorno a lui, i comprimari della
commedia. Primo fra tutti lo stralunato Gene, che si ritrova suo compagno di
detenzione (era stato arrestato per aver sodomizzato un’anguria). Sempre pieno
di idee bislacche per far fortuna. E sempre idee che lo portano un passo più
vicino alla catastrofe. Dove, infatti, finirà, tornando in carcere, dopo aver
cercato di rubare i soldi ai telefoni pubblici (un reato gravissimo per i puritani
americani). E poi il cenciaiolo che non vuole invecchiare. L’indiano che mangia
le tartarughe. I neri BigJohn e OceanFrog che sono più spesso ubriachi che
sobri. La maga – fattucchiera che legge il futuro e prepara improbabili amuleti
contro o per tutto. I commercianti della città, che quando non sono anche loro
sul filo della birra, a volte riescono ad essere compassionevoli e magari fanno
anche credito. Le puttane, piccole o grandi, che circolano per la città e che
presto cercano (se ci riescono) di fuggirne. La polizia, sempre dura e cattiva,
così come duri e cattivi sono i secondini delle varie carceri. E Ab Jones, un
duro che vedendo avvicinarsi il declino, decide di sfidare i poliziotti, magari
per esserne ucciso ed uscire così di scena. E il truffatore che convince
Suttree ad imbarcarsi in un’improbabile ricerca di perle di fiume,
sottraendogli un po’ di denaro, per poi pentirsene alla morte della moglie e
restituirglielo. E tanti, tanti altri personaggi. Così come personaggi sono il
fiume che scorre lente con le sue barche strane, le montagne intorno, le grotte
della città, le strade polverose. Quei paesaggi che fanno tornare in mente
tante immagini di film americani: le strade percorse con la moto da Marlon
Brando, le desolate vallate dell’Eden con James Dean, il tardo west che uscirà
dalla pellicola di Wenders. Insomma un libro forte, che ci restituisce con
vigore l’immagine di questa America che magari solo ora riusciamo a vedere. Che
l’America non è solo (o non è per nulla) le grandi città, New York, San
Francisco, Los Angeles o Boston, ma è Knoxville, è Flagstaff in Arizona, è
Owensboro nel Kentucky o Cedar City nello Utah. Lì dove le vicende altre, anche
quelle della nostra civiltà occidentale, bella ed europea, non arrivano. Lì che
si vive e si muore per una bevuta di whisky. Detto quindi il bene possibile del
libro (pur con i limiti miei di avvicinamento ad alcuni brani come detto sopra)
passo a lanciare il solito grido di dolore contro curatori ed estensori. Perché
la quarta di copertina lo definisce “esilarante”? Che ci sarà da ridere in
questa triste e sconsolata vita dell’America profonda? Rimango sempre con il
dubbio se chi ha scritto le note sia andato oltre pagina 50. Peccato (per lui).
“Avessi mai conosciuto un uomo che ha tutto e che non si dimentica da
dove veniva prima. … Che pensa che quando sarà arrivato andrà tutto alla
grande. Ma non si arriva mai. Non importa chi siamo. Una mattina ti guardi e
sei vecchio.” (243)
“I giorni di un vecchio sono ore.” (307)
“Lo shopping per uomo. Lo trovo sexy.” (474)
“Lei gli si era inginocchiata accanto e gli mordicchiava l’orecchio. Il
seno morbido contro il suo petto. Allora perché questo senso di solitudine?”
(483)
Jonathan Coe “Circolo chiuso” Feltrinelli euro 8,50
[A: 17/05/2011 – I: 04/05/2012 – T: 08/05/2012]
[titolo: The Closed Circle; lingua: inglese; pagine: 403;
anno: 2004]
La banda dei Brocchi – venti anni
dopo. Un po’ come il Visconte di Bragelonne in salsa londinese. Troviamo i
protagonisti cresciuti, ognuno magari sviluppando lati della personalità.
Comprimari che vengono in primo piano. Protagonisti che hanno ruoli marginali,
se non quasi scomparsi. Un’operazione che si regge abbastanza se ci si ricorda
del primo libro (e che viene felicemente riassunto in appendice). Un po’ meno
come libro in sé. Tuttavia preferisco questa scrittura di Coe ad altre sue
prove (tipo “Donna per caso”) perché mi sembra sia più in grado di reggere la
dimensione corale del racconto. Rinverdendo i fasti iniziali di quella
“Famiglia Winshaw” che rimane per me uno dei suoi libri migliori. Certo, a
volte si fissa su questo o quell’aspetto che non sempre ci fanno partecipi,
dilungandosi in esegesi tutte inglesi su città emarginate (Birmingham), crisi
economica (la vendita della Rover da parte della BMW), sedute del Parlamento ed
altre digressioni (quelle che fanno un po’ strabordare le pagine). Ma gestisce
meglio le varie personalità. Spiace forse il tentativo finale di riconciliare
tutto e di dare a tutto una spiegazione. Togliendo tutti i (possibili) misteri
l’efficacia complessiva ne risente sicuramente. Ritroviamo però i vari capisaldi
dei brocchi. I fratelli Trotter, ancora ognuno a seguire la propria strada.
L’insicuro Benjamin che da vent’anni sta cercando di scrivere il suo
meraviglioso libro multimediale, che non riesce ad uscire dalla sua dimensione
giovanile, non riesce a crescere, non riesce a decidersi. Tanto che viene (e
giustamente) lasciato dalla moglie. Tanto che la ragazza di cui si invaghisce
finisce tra le braccia del fratello (ed è meglio così, come scopriremo nel
finale). E l’altrettanto smidollato Paul, che ha ogni tanto dei soprassalti di
intelligenza, immersi in mesi se non anni di ignavia, di difficoltà di esprimersi,
anche se viene per ben due volte eletto in Parlamento. Con la sua totale e
proverbiale mancanza di umorismo. Il giornalista Doug che trova la felicità
nella sua famiglia allargata con Frankie ed i suoi quattro figli (due di lui,
due di lei), che passa dall’altare del giornalismo politico alla polvere del
supplemento letterario. Ma che avrà la forza di continuare a lottare e
rimettersi in gioco. L’amica Claire, alla ricerca della sorella scomparsa
venticinque anni prima, ed alla ricerca di una sua dimensione, dopo un divorzio
ed una fuga in Italia per amore di un uomo sposato. Claire che apre e chiude il
libro, consentendo a Coe di aprire e chiudere tutte le parentesi. La utilizza
un po’ come alter ego dello scrittore, e dalla sua bocca, alla fine, sapremo
tutti i retroscena di questa storia (ma anche di quelle in sospeso dei
Brocchi). E poi le storie di Paul, di Steve, di Emily, di Cicely, e via
elencando tutti, protagonisti e comprimari. In una pittura lunga cinque anni
della storia, inglese ma non solo. Dal capodanno del nuovo secolo e dalle sue
promesse, alle Torri gemelle e la lotta al terrore. Dalle tormentate decisioni
sull’intervento in Iraq al conseguente tracollo di Tony Blair. Passando per
trasmissioni alle tv private, grandi feste in costosi ristoranti, visioni londinesi
della grande ruota, immagini di brughiera. Certo, viene molto scoramento sulla
caduta e la perdita delle illusioni, su come ci si ritrovi a decenni di
distanza ad andare avanti, quasi senza fare un bilancio di quello che stai
facendo. C’è molta amarezza, in me che leggo queste righe, che nessuno si fermi
a pensare a quello che poteva e non è stato. Ma alla fine, ognuno tira la sua
carretta, raggiunge quello spicchio di paradiso che c’è concesso durante la
nostra vita. Ed allora, con il mio sano nonché inguaribile ottimismo mi dico
che forse è bene così. Forse non vale la pena tanto fermarsi a compiangere. Ma
accettare quello che si è fatto, magari con qualche rimorso, ma senza nessun
rimpianto. Che comunque questa è la nostra vita, e tanto vale viverla e
prenderne e gustarne tutti i lati positivi. Che vi assicuro, ci sono.
“Ho imparato molto dai miei errori, e sono certo che potrei ripeterli
alla perfezione.” (15)
“È assolutamente affidabile … ha reso il divorzio così poco traumatico
… se mai vuoi divorziare da qualcuno … Philip è l’uomo giusto.” (19)
“Se sei a tuo agio con te stesso – nella tua testa – allora ti senti a
casa dappertutto.” (88)
“C’erano dei sentimenti che non si indebolivano mai, nonostante il
passare degli anni, nonostante tutte le amicizie, i matrimoni e le relazioni
che andavano e venivano nel frattempo.” (109)
“È un appassionato lettore … Ha sempre il naso in un libro. Sta
perdendo la vista, ma continua a leggere … qualsiasi cosa gli capiti a tiro.” (191)
“È un disastro col fai da te. Riesce a distinguere César Franck da
Gabriel Fauré dopo due accordi, ma non riuscirebbe a inchiodare un attaccapanni
nemmeno se ne andasse della sua vita.” (215)
“Un uomo deve lavorare nella consapevolezza dei propri limiti.” (254)
Siamo a
metà di un anno bisestile. Facciamo i dovuti omaggi a tutti i Pietri ed i Paoli
di mia conoscenza. Abbiamo anche raggiunto due ulteriori risultati: più di 100
libri letti in 6 mesi (grazie anche ai tragitti metropolitani) ed un pareggio
delle informazioni tra questa mail volante ed il sito che riporta dall’inizio
tutte le trame scritte (per chi le avesse perse ricordo si trova su giogio53.blogspot.it - Trame e … voilà). Adesso vado che Sara
torna da Cuba e la vado a festeggiare.
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