martedì 7 febbraio 2012

Europei di Pasqua - 28 marzo 2010

Dopo un po’ di trame dedicate all’Italia, torno ad uscire dai nostri confini, e mi dedico ad alcuni autori europei (anche il primo, benché olandese di nascita e australiano di adozione). Un giudizio generale che non mi trova molto positivo: l’irlandese è un po’ furbetto (e la trama/favola la trovo insostenibile), il tedesco qui è ancora acerbo e l’austro-olandese lo trovo dispersivo, anche se, nel lotto, è quello che mi ha interessato di più.
Michel Faber “Il petalo cremisi e il bianco” Einaudi euro 15 (in realtà, scontato 10,50 euro)
Non si lascia il lettore sospeso, a meno che non ci sia una valida ragione. E qui non c’è! Perché già si è faticato a portare a termine le quasi 1000 pagine, e poi si arriva ad una fine che non è una fine. Certo, l’autore è libero di gestire al meglio i suoi personaggi, ma qui si lasciano tante ombre, che sembra quasi voler dire: io so, e non ve lo dico!!! E poi, se si leggono racconti successivi, si scoprono filoni ed altri pezzi che riannodano le fila. Ma andiamo con ordine. A leggere le numerose recensioni e a vedere il considerevole spazio che la stampa gli aveva dedicato, si poteva pensare che il romanzo di Michel Faber fosse uno dei casi letterari più importanti degli ultimi anni e che il suo autore sarebbe diventato uno dei massimi talenti di recente scoperta. Ma “Il petalo cremisi e il bianco” non è assolutamente il capolavoro che ci volevano far credere, né è di così appassionante lettura: anzi, non sono rari i casi di una scrittura inutilmente insistita e magari anche un po’ tirata per i capelli. Detto questo, non si può tuttavia negare che si tratti di un libro interessante, da vari punti di vista, e che la storia e l’ambientazione riescano ad esercitare una certa presa, se ci si lascia affascinare dalla ricostruzione. Il petalo non è quindi un cattivo libro, ma un libro che vale la pena di leggere. A partire proprio dall’ambientazione. Londra 1875. Dall'esile candela della sua stanza nel bordello della terribile Mrs Castaway, Sugar, una prostituta di diciannove anni, la più desiderata in città, cerca la via per sottrarsi al fango delle strade. Dai vicoli luridi e malfamati Michel Faber ci guida, seguendo la scalata di Sugar, fino allo splendore delle classi alte della società vittoriana, dove violiamo l'intimità di personaggi terribili e fragili. Come Rackam, il giovane erede di una grande fortuna che diverrà l'amante di Sugar e da questa forza trarrà prima la sua vittoria e poi la sua rovina, e sua moglie, l'angelica e infelice Agnes. Con tutto il dipanarsi delle vicende. L’ascesa e caduta di Rackam, del fratello, la fuga verso l’oblio della pazzia di Agnes (ma poi sarà così?). E Sugar che resiste imperterrita ai buoni ed ai cattivi venti. Ma poi non potrà che essere travolta dalla sua stessa felicità. Nell’epoca vittoriana, una prostituta rimane sempre una prostituta, ed in un impeto moralista, Rackam distrugge la propria vita, quella di Sugar nonché della povera figlia sua e di Agnes (ma chi ha voglia di annodare i fili, poi si legga “Donne in marcia…” un racconto posteriore di Faber che riprende ed annoda alcuni fili). Certo, a volte sembra che Faber voglia costruire un best-seller, a scapito della coerenza interna e della sua adesione ai personaggi. Ma, ripeto, la sua capacità di farci vedere le contraddizioni di un’epoca di passaggio dal pre al post-industriale è ammirevole. Pur tuttavia alla fine, non posso dare un giudizio completamente positivo. Troppe le ombre che rimangono. Troppe le cose che, sospese, lasciano l’amaro in bocca. Provaci ancora, Michael.
Daniel Kehlmann “Io e Kaminski” Voland euro 14 (in realtà scontato  9,10 euro)
Piaciucchiato. Il primo libro del buon Kehlmann, in cui si cominciano a travedere quelli che saranno i temi fondanti dei successivi e più noti romanzi. Quel mescolare storia e fantasia, o verità e leggenda, quel raccontare di vita inventata come fosse realtà e viceversa. Qui si parla di un giornalista scarsetto che si occupa del mondo dell’arte che cerca di intervistare il grande pittore, ora in declino (tanto che gli viene da chiedersi se non sia meglio farlo morire per farne uscire la prima biografia postuma…). Si prende in giro il mondo dell’arte con i suoi facili entusiasmi per delle bufale pazzesche. Ci mancherebbe solo il periodo “nero” di un artista, per poter esaltare quadri tutti neri che sotto contengono chissà quali meraviglie… C’è un po’ di suspense sulla vita giovanile dell’artista. Cosa fece nelle miniere di sale? Perché il suo amore lo lasciò? Ma soprattutto c’è l’irritazione per questo giornalista dai tempi sbagliati, dai modi sbagliati, che non si sa rapportare alla sua donna (che, infatti, lo sta lasciando), che vede in ogni essere femminile un corpo da portare a letto (e non ci riuscirà mai), e che in ogni consesso pensa di essere al centro dell’attenzione (sempre a far capire di essere il più bello, il più bravo, il più intelligente, quasi fossi io stesso a parlare, ma ovviamente io sono VERAMENTE il più bello, il più bravo, il più intelligente…). Con quella scentratura che, ben presto (anzi dopo solo 4 o 5 pagine) me lo fa andare di traverso. Alla fine ovviamente il pittore sarà il più forte di tutti, perché è veramente egotista, e non lascia spazio alla vita degli altri. Però si zoppica un po’ nella lettura che non mi ha fatto urlare dalla gioia. Un libro leggiucchiabile poco di più. Un giudizio altalenante su Kehlmann, che in ogni sua prova mi piace a tratti ed a tratti mi irrita. Meglio comunque di chi solo mi irrita…
“se hai intenzione di sedurmi, dovresti farti la barba e non dovresti indossare un pigiama…” (128)
“ognuno racconta una cosa diversa, la maggior parte di quello che è accaduto è stata dimenticata e tutti si contraddicono l’uno con l’altro. Come faccio a scoprire qualcosa? – Forse non dovresti.” (129)
John Boyne “Il bambino con il pigiama a righe” BUR euro 10 (in realtà, scontato 6,50 euro)
In realtà l’ho trovato più furbetto che bello. Non mi ha “divertito” molto, ed in fondo non mi ha neanche mosso a quella commozione che fin dalle prime righe cerca di far trovare nel lettore. Certo, l’idea di vedere un momento delicato e doloroso della storia dell’umanità attraverso gli occhi di un bambino è senza dubbio interessante. Mettersi completamente dalla sua parte per osservare quello che ti succede intorno in quei primi sei mesi del 1944 è interessante. Un bambino di 9 anni certo non capisce, fino in fondo, cosa sia una guerra, cosa sia un lager, cosa sia un ebreo e che differenza ci sia un ebreo e un tedesco. Un bambino gioca (dovrebbe giocare), fa l’esploratore del suo mondo noto, della sua casa, della sua scuola, dei suoi amici. E non capisce la differenza tra Berlino ed Auschwitz, dove segue il padre che ne assume il comando. Si domanda soltanto cosa siano quegli strani signori, al di là del filo spinato, che invece di indossare panni caldi, sono tutto il giorno con addosso un pigiama a righe. Lontano dal mondo noto, cerca solo qualcosa che glielo ricordi, che glielo riporti, trovandolo solo nel buffo bambino, quello del pigiama, che, casualità, è nato il suo stesso giorno. E la favola si dipana intorno a queste mini-scoperte del mondo, con i soldati troppo “seri”, la mamma un po’ esagitata, la sorella “Caso-Disperato” di 13 anni, la mancanza della nonna che faceva l’attrice. E nessuno si aspetta che una favola così congeniata possa avere un lieto fine. Certo non sappiamo quale sia, ma sappiamo (la storia ce lo insegna) che non c’è (comunque) un lieto fine in quella vicenda. Detto questo, che potrebbe avere anche un segno positivo, rimane la sensazione che lo scrittore abbia giocato a fare il furbetto con questi sentimenti. Quanto è lontana la favola triste di Benigni o quella allegro-amara del “Train de vie”. Ma quelle erano favole sentite. Questa è costruita. L’autore è irlandese (e certo avrebbe ben altre tragedie di cui parlare anche in prima persona), lontano da quel mondo tedesco-polacco in cui ci fa immergere. Vuole solo strappare lacrime, ed usa questo artificio che, se poi si guarda con occhio fermo, è di un improbabile da paura. Un figlio di un alto ufficiale tedesco può mai girare indisturbato ai margini di un lager? Può un ufficiale portarsi appresso la famiglia, come fosse una gita in campagna, quando va a guidare lo sterminio di uomini e uomini? Queste ed altre dieci, venti, piccole improbabilità rendono la favola appunto una favola. Ma non un La Fontaine, neanche un cattivissimo e triste Dahl. Nulla. Solo un trampolino di lancio, forse per un film altrettanto strappa-lacrime ed ammicchevole. Lo leggo in questo gennaio che si avvicina al giorno della memoria, e penso che diverso peso ha lo scritto di Anna Frank. E qui mi fermo. Leggete altro, se volete tornare a pensare a quegli anni.
Oggi son le Palme e tutti siam più buoni. Tra sette giorni è Pasqua ed avrem tanti doni. Per ora il mio è sapere se domani si sfonderà il muro del 9. E poi aspettare tranquillamente il passare di questi sette giorni. Il vostro tramista necessita di molto riposo (sarà l’età? Sarà lo stress? Sarà perché…?).

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