lunedì 6 febbraio 2012

Nero a primavera - 21 marzo 2010

Un’altra tornata di scrittori italiani, in questo primo giorno di primavera (anche se il tempo e il clima generale sembrano molto più foschi della stagione promessa). Dovrebbe tornare il sole… Speriamo. Allora visto che non c’è la luce, torniamo al buio, al nero, anzi al “noir”. Lanciamo innanzi tutto un’invettiva generale su queste collane che escono a ripetizione, proponendo titoli su titoli, a volte anche interessanti,  ma di sicuro spesso fuori misura. Prendiamo quest’ulteriore collana di Repubblica: Scerby è un noir che non si discute, mentre Augias è tutto fuori che. Ammaniti a me sembra altro. E qui la fermo, poi la riprenderò. Sono comunque libri leggibili, anche se Ammaniti mi ha un po’ stancato, e Augias è standard, senza troppi svolazzi. Il grande padre è invece sempre all’altezza.
Cominciamo allora da quello più antico (di lettura) e che meno mi è piaciuto.
Niccolò Ammaniti “Come Dio comanda” Noir Repubblica euro 7,90
Primo titolo (ed anche qui è passato quasi un anno) della serie Noir di Repubblica 2009. Ritengo sia un libro che vada letto, ma non mi è piaciuto, né come altri di Ammaniti, né come altri vincitori del Premio Strega. L’impianto è il noir come nel migliore “Io non ho paura”. Sbandati, emarginati, rottami della vita e bimbi, forse adolescenti, che crescono, nonostante tutto il letame che hanno intorno. Nessun personaggio positivo, nessun ammiccamento. Tristezza e mal di vivere nella pianura emiliana. Un po’ di critica sociale (perché tanti emarginati? Le fabbriche chiudono e la gente si arrangia). Un po’ di tentativi di dare corpo a delle ombre. La storia della morte della piccola Lucia e del non saper risorgere dal male da parte del padre. Perché le donne sì, invece? Ed i silenzi. Mai che si affrontino a viso aperto i problemi. Allora tutto si ingarbuglia. Si pensa Tizio agisca così perché Caio, mentre Caio pensa che Tizio. E via ammatassando. Una veloce, anche se non breve fotografia. Uno spaccato dell’Italia che si vuole senza speranza. Con la costante ricerca del momento più doloroso. Se qualcosa deve andare male, lo va nel modo peggiore. Un po’ di Mazzantini alla paprika. Quello che poi meno mi è piaciuto è la discesa agli inferi di Quattro Formaggi (chiamato così per la sua passione della pizza omonima) che scivola via verso i suoi istanti di follia, forse senza ragione, certo senza speranza. In fondo, poi (a parte il Cristiano che non può fare troppo il cattivo data l’età) è papà Rino che, nella sua abiezione, mostra gli unici momenti di umanità. Finito poi così a bere e sopravvivere, perché non c’è speranza in questo mondo senza lavoro. Uffa…
Per fortuna a Novembre, tra altri e bassi, mi deliziò questo romanzo.
Giorgio Scerbanenco “Traditori di tutti” Noir Repubblica euro 7,90
Un classico Scerby. Magistrale. Amaro. Non molto “giallo”, ma molto nero. E soprattutto pieno, permeato del grande Duca Lamberti e dei suoi tormenti. Già lo incontrammo quando, mossa da pietas medica, decise la dolce morte per la sua ormai troppo anziana e sofferente paziente. E nel tormento dell’espiazione carceraria. Nel timido aprirsi a colei che, per salvarlo, venne a sua volta sfigurata nel corpo come lui nell’anima. Qui siamo al secondo passo, quello che lo porterà a tutti gli effetti a fare il terzo e definitivo: da medico a poliziotto. In una notte di nebbia, sull’orlo dei Navigli una ragazza spinge una macchina con due ubriachi ad affondare nelle acque oscure. Lì dove pochi mesi prima un’altra ne affonda. Lì dove poco dopo una terza viene sventagliata di mitra e gli occupanti uccisi. Il Duca si muove con cautela in questa Milano nera, cerca appigli, trova riscontri. E pagina dopo pagina si delinea una vicenda tipica del sottobosco milanese, con le radici che affondano nell’ultima guerra, e che si dipanano per vent’anni, tra piccoli e grandi tradimenti. Tra truffe, prostituzioni e droga. Non si è ancora invasi dalla cattiveria che viene dall’Est, si è ancora dei cattivi autoctoni. Ma quanto cattivi! Certo il colpo finale viene dall’esterno, la chiave che mette tutti i puntini sulle i, ma il teorema Lamberti era già sul tavolo con tutti i cattivi al loro posto. E con i buoni che poi così buoni non sono mai (citazione al contrario). Un noir dove, come dal titolo, non ti puoi fidare di nessuno, perché ognuno tradisce qualche d’un altro. Grazie Scerby della bella foto di una Milano anni Sessanta, con quelle vie, quegli odori, quella prossimità con la campagna che ormai sono spariti. Affonda con le tue lame nella cattiveria d’un tempo, e ci ricorda che quella, la cattiveria, può mutare di pelle, ma ancora non è scomparsa. Ed allora, alla prossima Duca!
Finiamo con l’onesto artigiano della penna.
Corrado Augias “Il fazzoletto azzurro” Noir Repubblica euro 7,90
Tutt’altro che noir, ma gradevole, per una lunga giornata passata sul letto di dolore (dopo aver terminato di vagare tra le dune maliane). Infatti, Augias mi ha riportato a Roma. Ad una Roma del 1915, con le parti centrali già formate ed omologhe alle attuali (Piazza Venezia, via della Mercede ed altri), ma con dintorni e contorni diversi (e la campagna che inizia tra Piazza del Popolo e Ponte Milvio). Certo, quando il protagonista Giovanni si ritira sulla sua casa, in un attico a Borgo Angelico, il mio cuore sussulta di ricordi e mestizie. Quattro anni passati in quell’oasi, forse unica da me cercata, scelta, messa in piedi. Gli anni in cui mi allontanavo dalla casa avita, entravo nel mondo del lavoro, e cercavo la mia prima famiglia. Poi altro si è fatto, e senza rimpianti. Solo la casa a Borgo ogni tanto rimanda qualche fitta al petto. Ma torniamo al libro, che invece, come detto, pur mettendo tanta carne al fuoco, è quanto di più lontano si possa pensare da un noir. Riprende, passati anche qui quattro anni, i protagonisti del primo libro. Ed imbastisce una storia di piccoli omicidi senza importanza, negli ambienti cupi dello spionaggio pre-1915, quello più alla Mata Hari che allo James Bond. Servizi segreti che tramano per tirare l’Italia dentro o fuori la guerra. Francesi e tedeschi che usano il suolo romano per scaramucciare sul futuro della nazione italiota. Con Giolitti e Salandra che si battagliano dentro e fuori il Parlamento. In tutto questo ritorna il buon Giovanni, con il disincanto di chi, non potendo aderire completamente al servizio di uno Stato che va alla deriva, cerca comunque di “metterci delle pezze”, magari da esterno. Coinvolgendo ancora una volta il buon commissario Marchisio, segugio di Stato, teneramente coccolato dall’Ersilia in quel suo star lontano dall’amata Torino (e dall’amata moglie). E coinvolgendo il suo amore inespresso, la bellissima Paolina, cui mai riesce a dire parole di tenerezza (mi ricorda qualcuno…). Per soprassalto, ci si mettono anche i Russi, con la loro anarchia rivoluzionaria che sta correndo verso il ’17. Lo scioglimento è un po’ banale (l’inchiostro simpatico una trovata ingenuotta), anche se, come nei più classici scioglimenti, non tutti i cattivi avranno le loro punizioni. Anzi, forse solo quelli cattivelli. Gli stronzi matricolati riescono sempre a trovare una via di fuga. Finendo così, per me, con quelle immagini della Stazione Termini invasa da terni e passeggeri che tanto mi rimanda comunque alla memoria. Un libro di passaggio, non molto di più. Una menzione finale al sillogismo sofista che riporto sotto. Una chicca nel mare delle parole.
“Giovanni si considerava un uomo del tutto normale, non fosse stato per il fatto di sentire a volte che una seconda vita viveva dentro di lui, non altrimenti avvertita che nell’improvviso desiderio di essere altrove” (87)
“- Che cosa vuoi sapere da me questa volta? – Non da te, ma di te voglio sapere – Che cosa? – Quello che fai – Ma questo allora l’hai già visto – Vorrei sapere anche quello che non si vede” (112)
“C’era stato un tempo in cui … aveva pensato che Giovanni fosse il compagno ideale per un viaggio lungo la movimentata corrente della vita” (113)
“Non ci si dovrebbe permettere di esprimere giudizi se non si sono passati i quarant’anni, prima si è troppo impazienti, troppo crudeli e anche troppo ignoranti” (190)
“Il presente è il lato più doloroso dell’esistenza, ma ha il vantaggio di passare in fretta” (191)
“Fate conto che manchi un minuto a mezzogiorno e che qualcuno vi chieda che ore sono. Se rispondete ‘Sono le dodici precise’, dite il falso. Se invece affermate ‘è un’ora compresa tra le undici del mattino e l’una del pomeriggio’ dite una cosa vera. Eppure l’asserzione falsa è più vicina alla verità di quella vera, oltre ad essere certamente più utile per capire che ore sono veramente. … Non sempre le cose false sono anche sbagliate. Meglio ancora, non sempre le cose vere sono utili” (227)
“Sono un uomo che ha dietro di sé solo equivoci madornali e dovrei vergognarmi” (250)
La Pasqua si avvicina a grandi passi, per ora affrontiamo in apnea una settimana musicale. Troppo ho detto nelle trame, poco riporto ancora. Anche perché scottato dalle troppe patate del Belgio che sulla bilancia avranno di sicuro effetto.

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