Ma veniamo alle cose che
insegnano questi classici, due degli anni cinquanta, due francesi, ma non sempre gli stessi due. Alcune foto che
sebbene sbiadite ai bordi sono di un’attualità che mi ha fatto venire i
brividi.
Cominciamo con un classicissimo
che mi ha riportato alle letture della mia giovinezza, quando gli preferivo il
buon vecchio Asimov.
Ray Bradbury “Fahrenheit 451” Mondadori
s.p. (regalo)
Un
classico, ma ci sono alcuni punti in cui è dice cose che anche dette oggi fanno
paura. Risente i suoi quasi sessanta anni, ma sono contento di averlo in un
certo senso riletto ora, carico d’anni e di esperienze. La storia è ormai un
eponimo e sembra quasi banale riportarla, ma ha delle pieghe interessanti. In
un imprecisato futuro, l’informazione giornalistica viene bandita (e uno), le
case diventano dei grandi televisori (e due), dove chi è benestante si permette
di avere un salotto con quattro pareti tutto schermo, diventando parte
integrante degli spettacoli televisivi (interagendo anche con essi). I libri,
che potrebbero far riflettere la gente su quanto di guasto sta avvenendo
vengono prima considerati pericolosi (e tre), poi a loro volta proibiti, ed
infine viene istituito un corpo speciale dedito al loro incenerimento (ed a
quello delle persone che li leggono). È da paura quanto tutto ciò suoni
attuale! Il fuochista Guy Montag, non si sa come e perché, inizia a riflettere
su questo stato di cose, trova il coraggio di ribellarsi, e prospetta un futuro
dove… si tornerà alla lettura. Guy dovendo scegliere tra bruciare libri e
bruciare il suo capo, sceglie di dar fuoco a quest’ultimo e poi fugge per
unirsi ai ribelli. Il tutto con una guerra che sembra esserci ma che (avendo
tolto l’accesso all’informazione) nessuna sa di sicuro. Se invece di guerra con
armi, ci mettiamo la crisi economica sembra di leggere la cronaca dei gironi
nostri. Dobbiamo trovare il coraggio delle piccole azioni, della ribellione allo
strapotere televisivo che annienta le voci fuori dal coro. Bisognerebbe
prendere tutta la parte centrale del libro che spiega il passaggio dai libri al
monopolio televisivo e farne un monumento. Alla fine si arriva veramente
stremati. E lì che andremo a finire? DICIAMO DI NO!!!
“Guy voi avete davanti un vigliacco. Io
vedevo la piega che stavano sempre più prendendo le cose, ma molto tempo fa; ma
non ho detto nulla; sono uno degli innocenti che avrebbero potuto parlare
chiaro e tondo quando nessuno era disposto a da rette al ‘colpevole’ ma non ho
aperto bocca, diventando così colpevole a mia volta.” (96)
“i libri sono odiati e temuti … perché
rivelano .. la vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, …
inespressive. Viviamo un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori
invece di nutrirsi di buona pioggia” (98)
Mi
aveva incuriosito il film perché c’è la per me bellissima Michelle, ma poi non
l’ho visto ed ho preferito leggerne.
Colette “Chéri” Newton Compton euro 6 (in
realtà, scontato 3,90 euro)
Il
classico degli Anni Venti. Donna con amante giovane e tutto il resto, che ora,
novanta anni dopo, sembra normale e forse trito, ma che scandalo allora! La
prima cosa che leggo della scrittrice francese (e forse ne prenderò qualcosa in
lingua per sentirne l’accento veritiero). Della scrittrice scandalo, che fa
anche l’attrice, che si sposa più volte, ma che ha anche una lunga relazione
con la marchesa di… Qui ricostruisce bene quel tipo di mondo mondano delle
signorine che si fanno mantenere da uomini un po’ attempati, ma anche che
riuscendo a mettere da parte piccoli o grandi patrimoni, poi decidono di
concedersi una carne più fresca. Questa par essere la vera storia di Lea, che,
ora ricca, si tiene per sette anni come amante il bel “Chéri”, caro. Verrebbe
di pensarlo in traduzione con un italiano “Tesoro”, che può sostituire il nome
della persona cara/amata, diventando nome e lasciandosi dietro l’aggettivo. E
tutti sanno quanto questo mi sia difficile, io che penso alla persona amata con
il suo vero nome, senza orpelli, perché è lei che amo, non il tesoro, o altro.
Bene si segue (e si comprende) tutta la parabola: l’amante per non dare
scandalo deve sposarsi, Lea per non dare scandalo sparisce per un po’, “Tesoro”
quando torna Lea non riesce a starne lontano (ma è vero amore, o capriccio?), e
Lea capisce che sta invecchiando e che, in fondo, si è innamorato del “Tesoro”
cui, bene o male, ha fatto da Pigmalione. Qui escono fuori anche le righe
migliori, quelle dell’invecchiare e dell’interrogarsi su questo passo, cui
tutto (inconsciamente) aspiriamo per (grazie Rosa) non morire giovani. Alla
fine, tuttavia, rimane così, sul limitare tra il bello ed il sublime, senza
decisamente volgere la vela verso il fronte del capolavoro. Mi viene bene anche
un pensiero al contrario (che rimanda ad alcune pagine del Petalo Cremisi): e
nel viceversa, che sembra essere più usuale, riusciamo a penetrare i pensieri
dell’uomo che invecchia e si contorna di giovin fanciulle? Ricordo, in chiusa,
i due estremi: la Lolita di Nabokov, e quel bellissimo film di molti anni fa
“Harold e Maude” (ve lo ricordate?).
“non m’importa nulla di non essere stato il
tuo primo amante. Avrei desiderato… se fossi stato l’ultimo” (51)
“ci siamo lasciati con eleganza, da buoni
amici. Non poteva continuare tutta la vita. … ti confesso … che se non fosse
stato per l’età…” (87)
“Non annoiate gli amici quando siete nei
guai, condividete con loro la vostra felicità.” (108)
“alla mia età non si tiene un amante per
sette anni. … Una relazione che dura sette anni equivale a seguire il proprio
marito … [all’estero] … e quando si torna nessuno ti riconosce” (116)
E
per finire un mito delle mie corde segrete, cantante in uno dei primi LP che mi
comprai.
Boris Vian “La schiuma dei giorni” Marcos Y
Marcos s.p. (regalo)
Troppo di testa. Non ha la
serietà del Disertore o la spensieratezza di Fammi Male Johnny. Pieno di
invenzioni, giochi di parole (tradotti benissimo ma a volte intraducibili). E
come tutte le cose di testa, a volte rischia di stancare. Si può stancare anche
di un idolo come Vian, benché prefato da Fossati e postfato da Pennac. Il libro
è un fuoco di fila di invenzioni, sulla scia un po’ dei dadaisti degli anni
Venti, cercando da un lato di tirar fuori il paradosso della vita, dall’altro
(cadendo in pieno nel tormento esistenzialista) sostenendo a spada tratta la
bruttezza ed inutilità del vivere odierno. La prima parte poi è quanto mai
solare, c’è un cuoco che inventa e reinventa piatti favolosi sulla scia di
ricettari ottocenteschi. E c’è il protagonista che si circonda di invenzioni
favolose, come quella di un piano che suonando mescola gli ingredienti alcolici
(il “pianocktail” in originale) e produce alla fine del pezzo una bevanda non
solo favolosa ma adatta allo spirito della sonata (e qui non mancano i rilanci
all’esperienza jazz di Vian). E come detto giuochi di parole, come quella sul
protagonista Colin che mangia merluzzo (traslandosi dalle nostre parti con quel
diminutivo paesano di Cola e dei suoi collegamenti pescatori e di quelli che si
tuffano nel mare). Fino all’apice dei grandi innamoramenti: Colin e Chloé,
Chick e Alise, Nicolas e Isis. Poi si va giù per la china dell’imbarbarimento.
Chloé si ammala e nessuno riesce a trovare soluzioni al suo male. Chick diventa
sempre più maniaco del suo idolo (Jean-Sol Partre, vi dice qualcosa?) fino a
cercare i suoi vestiti smessi dai più improbabili antiquari. Solo Nicolas
sembra “salvarsi” dalla barbarie, ma solo perché si tira fuori dalla mischia e
se ne va altrove. Dove non sarà felice come prima, ma forse sarà. E via
distruggendo, pezzo dopo pezzo, il bel castello della nostra vita, con tocchi
di una cattiveria bellissima, come il suicidio del topo che chiede al gatto di
tagliarli la testa! Ma sì, certo, grande opera, forse capolavoro nel suo
genere. Ma anche, no perché Vian sarebbe il primo a rivoltarsi di questo
incensamento. Lui appunto che era l’epigono e l’esaltatore dell’effimero e del
momento, ma con la sagacia che ogni momento, se ben vissuto, porta sapienza e
quindi, alla fine gioia. Come con gli altri suoi libri, a volte di una
brutalità sessuale ma che serviva a far saltare in aria sepolcri imbiancati.
Come il suo disertore che rifiuta di andare alla guerra. Come la ragazza che
cerca l’amore forte, ma quando lo trova si spaventa. Come le sue serate pazze,
nelle cantine parigine dando fiato alla tromba (fisicamente) e sfiancandosi di
alcool e sigarette. Fino all’infarto che lo prende a soli 39 anni, durante la
prima del film tratto dal suo “Sputerò sulle vostre tombe”. Infarto che gli
prese appunto vedendo il film fatto dagli americani e sussultando dalla prima
all’’ultima battuta. “Non avete capito niente” e se ne andò, dal cinema e dalla
vita. Amo e amerò sempre Vian, anche dopo questo libro. Ma non per questo
libro.
“L’amore … vale la pena di essere vissuto solo perché è amore, sebbene,
anch’esso, come tutto, sia perituro (postfazione di Pennac)” (263)
Boris Vian nasce poco prima del
citato Ray, nel lontano 10 marzo 1920, ma, come narrato, muore d’infarto a soli
39 anni. Mi ha fatto amare il jazz francese, le canzoni di parole e ne potrei
parlare per ore, ma la mia penna è breve-
Forse non si andrà a Brussels,
causa malefici vulcani islandici, ma sarà comunque una settimana da ricordare.
E mentre si chiude il pezzo (così come nei giornali di una volta), l’arrivo di
tristi notizie costringe a riaprire le rotative, ribadire l’ispirazione del
titolo ed inviare anche da qui un
abbraccio alla nostra dolente amica Maria.
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