Allora questa settimana
cominciamo dal Nord.
Alessandro Baricco “Emmaus” Feltrinelli
s.p. (regalo di Alessandra)
Deluso? No, ma molto perplesso.
Che vuol dire? Cosa cerca di dirci? Alla fine, mi è sembrato un pasticcio
inutile. Dovrò pensarci su. Lo stile è il suo, quello del Baricco che mi piace,
ed il nodo legato al titolo è forse l’unica cosa che veramente mi è piaciuta.
Tanto che lo riporto: “Un episodio dei Vangeli testimonia che, qualche giorno
dopo la morte del Cristo, due uomini camminavano verso la cittadina di Emmaus e
parlavano di quello che era successo a Gerusalemme. A un certo punto, si
avvicinò un uomo e chiese loro di cosa stessero parlando. I due lo misero al
corrente di tutto e, siccome si faceva tardi, lo invitarono a restare con loro,
a mangiare insieme. L’uomo accettò, mangiò con loro, spezzò il pane.
Guardandolo, i due capirono che quell’uomo era il Messia e, a quel punto, il
Messia sparì. Rimasero soli, chiedendosi come non avessero potuto capire che si
trattava del Messia. Eppure era stato con loro tutto quel tempo...” Ecco,
l’idea è quella, di come sia sempre, in tutti i tempi, difficile vedere. Com’è
stato possibile? Com’è possibile che non riconosciamo e comprendiamo davvero le
persone che abbiamo intorno? Mangiano con noi, vivono con noi, eppure non li
riconosciamo. Ma per dimostrare questo assunto, Baricco ci racconta la storia
di questi quattro amici, negli anni ’70 di una Torino cattolica, bravi ragazzi,
che fanno la carità, vanno in Chiesa, stanno con le ragazze ma senza oltre
passare la soglia. E poi si incontrano con il mondo, che è altro, che non
capiscono, e ne sono travolti, fino a scenderne tutti i gradini ed esserne
disintegrati. Ma tutta questa storia è raccontata come se fosse controvoglia,
senza farcene assumere il pathos, la voglia, tutto scorre così. Da un lato la
tradizione, dall’altro… Forse la perdizione, ma anche lì, senza che con
cognizione si veda quello che si sta facendo, lo si capisca. Sempre rimanendo
dietro un velo, di non detto, di non fatto. Ed ora ripercorrendolo con la
memoria, mi accorgo che non lascia traccia, non lascia emozioni, non lascia la
voglia di farsi quella domanda che il più delle volte mi fa amare un libro: e
poi? E cosa succede, oltre ed al di là di tutto ciò? Nulla invece, il vuoto, la
delusione. Insomma, un libro che furbescamente ammicca, di cui ho letto dopo
critiche che ne trovano i risvolti intessuti della realtà odierna. Ma io sono
drastico. Se mi piace lo dico. E questa l’ho trovata un’operazione furba,
natalizia, forse all’inseguimento di qualcosa che non esce fuori, che non
capisco. Alla fine dei conti, dalla perplessità iniziale, posso serenamente
passare al biasimo finale.
“Siamo pieni di parole di cui non conosciamo il significato, e una è la
parola dolore. Un’altra è la parola morte. Non sappiamo cosa indicano, ma le
usiamo.” (28)
“Adesso che era lì, di colpo mi ricordavo come mi era mancato il suo
corpo in ogni istante dopo quella notte” (102)
Veniamo al doppio Erri che
contornano il viaggio in Mali: uno finito la notte prima di partire, l’altro
iniziato il giorno del ritorno. Chissà se avrà un senso tutto ciò?
Erri De Luca “Il peso della farfalla”
Feltrinelli euro s.p. (regalo di Paola)
Un
bell’apologo il primo racconto che titola il libro. Una palla il raccontino.
Solo il sospetto che, come altrove Baricco, qui De Luca ogni tanto “faccia il
furbo”. Ma veniamo al bel racconto. Dove si narra del re dei camosci, animale
ormai stanco. Solitario e orgoglioso, da anni ha imposto al branco la sua
supremazia. Forse è giunto il tempo che le sue corna si arrendano. Dalla valle
sale l'odore dell'uomo, che gran parte della sua vita ha passato a cacciare di
frodo le bestie in montagna. A ritmi alterni entriamo nelle due solitudini, e
soprattutto nei due tramonti della vita. Quella del camoscio che ha imposto la
sua legge al branco, anche se il suo è un branco diverso, più coeso di altri
che scorribandano le alte vette. E quella dell’uomo che dal branco è fuggito,
che ha avuto una vita di là, ma che ha deciso che non era più la sua. Così come
decide di uccidere di frodo solo certi animali, ed in un certo modo. Quasi con
rispetto dell’altro, così come fa intuire che non aveva rispetto prima, nel
branco. Si intuisce che ha fatto qualcosa, forse di riprovevole, certo non
lineare. Il camoscio sa che ormai è alla fine della sua vita, ma non vuole
cedere ai giovani camosci, non vuole che sia sparso del sangue inutile. Ed il
cacciatore sa che per quel camoscio che da tanti anni cerca e che gli sfugge,
avrà rispetto fino in fondo, fino a farci capire la pietà interna che può
scaturire da una vita per altri versi, forse, sbagliata-sballata. Ecco, questo
mi rimane delle sessanta paginette che in un volo di farfalla ho letto prima
della partenza di Capodanno. La solita scrittura lieve, si forse con qualche
concessione all’ammiccamento del dire e del non dire. Ma a me è piaciuto. Meno,
anzi nullo è il piacere, per quelle ultime dieci pagine sulla storia
dell’albero, che, ove notoriamente si sa la mia scarsa affinità con questa
botanica, mi lasciano proprio freddo e distante. Forse quando canuto e bianco
cercherò anche io miei spazi solitari e silenti, ove la mia scrittura sia per
me sola e per me conforto, potrò recuperare tutto ciò. Ma ora, preferisco il
peso di una farfalla che sola può far crollare mondi interi.
“Un uomo che non frequenta donne dimentica che hanno di superiore la
volontà. Un uomo non arriva a volere quanto una donna, si distrae, si
interrompe, una donna no. … Un uomo che non frequenta donne è un uomo senza.”
(35)
“Non era pentito, non poteva risarcire il torto, poteva rinunciare. I
debiti si pagano alla fine, una volta per tutte” (40)
Erri De Luca “Non ora, non qui” Feltrinelli
euro 6 (in realtà, scontato 3,90 euro)
Il primo racconto lungo di De
Luca, d’or son 20 anni. La scrittura è già quasi lei. Così come la tristezza.
Forse qui molto accentuata. In fondo è un libro fato di niente, osservare una
foto sul filo dei ricordi, e ripercorrere qualcosa: lo sguardo della madre, gli
occhi sempre più deboli del padre, un po’ di Napoli, prima molto misera, poi un
po’ imborghesita. A me, ha riportato alla mia di infanzia, ed al dolore sotteso
(in questi casi mi viene sempre in mente quell’attacco fulminante di Aden,
Arabia di Paul Nizan “Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che
questa è la più bella età della vita”) di tutte quelle cose che ora, con il
distacco del tempo e dell’età, magari ci fanno sorridere. Ma mentre le stavamo
vivendo, ahi quanto dolore ci portavano dentro. La difficoltà di trovare le
parole per dire quello che si sentiva. L’amore che c’era (perché c’era) per le
figure dei genitori, ma che anche lì non trovava il modo di esprimersi. Ed ora
che avremmo le parole per dirlo, magari non abbiamo più il soggetto a cui
dirle. Un’immagine mi torna potente dalle parole di Erri: quel camminare in
famiglia, i genitori avanti, e lui, adolescente che deve andare con loro,
qualche passo indietro, come a sottolineare con lo spazio fisico una presa di distanza
sulle cose e sugli avvenimenti. Mi viene in mente una foto della mia
giovinezza, della prima volta a Parigi con i miei, a camminare per Saint
Germain, io non dietro ma di lato, ed un po’ scostato, quasi a far vedere che
non faccio parte di quel gruppo lì, di quella madre preoccupata del freddo, di
quel padre sempre a ragionare di cose più grandi di me, di quel fratellino che
non si capisce che sia venuto a fare, se non a farmi perdere il ruolo centrale,
di unico essere amato nel consesso familiare. Ecco di questo mi parla il
libricino. Perché se lo riprendo in mano, e lo sfoglio di nuovo, non ci sono
grumi di parole che mi si attaccano al cuore od al cervello. C’è questa vaga
tristezza della difficoltà del crescere, dell’incapacità dello stare, della
felicità di trovare momenti propri a me soli, che non condividevo con nessuno.
E del dolore di gridare amore a qualcuno che non c’è più. Cercate, miei giovani
amici, miei figli di amici, di non far passare invano quei momenti. Cercate di
dire, anche lì dove non ci sono parole. Se le cose si sentono, le parole ne
prendono la forma. E si fanno capire.
“Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta
che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge:
d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quella interrogazione, forse
anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a
risponder ad essa con tutta la vita” (60)
“Papà aveva ragione, ero un bambino che non sapeva domandare” (66)
Come da tradizione la prima trama
del mese riporto l’elenco dei libri letti in febbraio, in cui ricompaiono saggi
che non si leggevano da tempo.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
1
|
Sue Roe
|
Impressionisti
|
Laterza
|
12,50
|
2
|
Lucia Etxebarria
|
Amore, Prozac e altre curiosità
|
SuperPocket
|
5,90
|
3
|
Gyles Brandreth
|
Oscar Wilde e i delitti a lume
di candela
|
Sperling & Kupfer
|
9,50
|
4
|
Henning Mankell
|
Il cervello di Kennedy
|
Mondadori
|
9
|
5
|
Marcela Serrano
|
I quaderni del pianto
|
Feltrinelli
|
7,50
|
6
|
Valerio Varesi
|
La casa del comandante
|
Noir Repubblica
|
7,90
|
7
|
Clive Cussler Craig Dirgo
|
La pietra sacra
|
TEA
|
8,90
|
8
|
Zygmunt Bauman
|
Modus vivendi
|
Laterza
|
6,90
|
9
|
Andrea Camilleri
|
La rizzagliata
|
Sellerio
|
s.p.
|
10
|
Mark Crick
|
Il sifone di Sartre
|
Ponte alle Grazie
|
s.p.
|
11
|
Sergio Atzeni
|
Il figlio di Bakunin
|
Sellerio
|
8
|
12
|
Amadu Hampatè Bà
|
Il Saggio di Bandiagara
|
Neri Pozza
|
14
|
Ed ora ad affrontare un’altra
settimana non dico difficile, ma intensa. Si ritorna a Brussels, si aspettano notizie
sulla salute del Presidente, e quasi senza passare per il via ci si avvia (si
finisce come si comincia) verso uno strampalato congresso spagnolo.
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