mercoledì 22 febbraio 2012

Saggi di fine stagione - 29 giugno 2010

Lo so che oggi è festa solo a Roma per il santo patrono, ma avendo un arretrato di trame che lievita come le discariche napoletane, ne approfitto per tirare fuori una tripletta (av-)vincente. In onore di Pietro e Paolo, ci occupiamo di saggi, diversi, compositi, ma molto affascinanti. Il primo perché parla di quel mondo pittorico a me caro fin dall’infanzia, di quegli impressionisti che cominciai ad amare con Cézanne allo Jeu de Pomme nei miei (lontani?) diciassette. E ne parla non solo e non tanto dal punto di vista pittorico, ma da quello della vita, intrecciando le vicissitudini umane di questo irripetibile gruppo. Il secondo perché parla con le parole del grande saggio della moderna difficile vita, appunto delle difficoltà di questa vita che sfugge da tutti i buchi possibili. Ed il terzo, altro modernista, perché affronta il tema del “dimenticare”, soprattutto, nel mio immaginario, dimenticare per vivere.
Sue Roe “Impressionisti” Laterza euro 12,50 (in realtà, scontato 6,25 euro)
[in: 04/10/2009 – out: 01/02/2010]
Quello che mi aveva attirato era il sottotitolo “Biografia di un gruppo”. Ed avevo visto giusto, era esattamente quello che mi aspettavo di leggere. Non un trattato di arte (anche se si parla di quadri, di colori, di idee) ma soprattutto il lato umano, oggi verrebbe quasi da dire il lato “gossip” dell’impressionismo, anche se il libro è molto più serio di una rivistina di terz’ordine. Ma loro, il gruppo degli impressionisti (anche se poi possiamo discutere se e come fossero un gruppo), facevano parlare di sé, per i quadri, ma anche per la loro tipologia di vita. È impressionante (scusate il bisticcio) vedere questi ventenni intorno ai primi anni sessanta del ‘800, che si affannano, cercano idee, dipingono, cercano di sbarcare il lunario, amano, insomma, gli anni sessanta sono sempre interessanti, anche scegliendo un secolo a caso. Poi qui la buona scrittrice inglese ci fa immergere anche nella Parigi dell’epoca, quella che viveva la trasformazione da città “imperiale” a “ville moderne”, con gli arditi interventi urbanistici del barone Haussmann. E noi, pian piano, cominciamo invece a seguire le vite ed il loro intrecciarsi di questi scalcinati bohemien, di Monet che cerca di andare a scuola di pittura per poter essere riconosciuto come “pittore ufficiale”, e lì incontra Pissarro, e Bazille (che morirà a 24 anni nella guerra franco-prussiana). Gli scontri per entrare al Salone Ufficiale dei Pittori, quello dei Corot e dei Delacroix, dove si agganciano a Manet (che sarà sempre ritenuto il capo anche se non esporrà mai con gli impressionisti). E l’italo-francese Degas (figlio del barone napoletano De Gas caduto in disgrazia) e l’italo-inglese Sisley. Poi arriverà dalla provincia un timido Cézanne che farà per tutta la vita la spola tra Parigi e Aix-en-Provence. E Caillebotte con i suoi lucidatori di parquet ed i suoi canottieri. E l’unica donna del gruppo, Berthe Morissot, infatuata di Manet, che però è già sposato, e dopo lungo patire ne sposerà il fratello. Pissarro è sempre l’anarchico che vive ai margini, quello che accoglie tutti, la spinta politica del gruppo. Dai caffè e dai Moulin di Montmartre si affiancherà uno degli altri assi portanti, Renoir, quello che si sposerà tardi con la dolce Aline che gli darà pace e figli (tra cui il famoso regista). Anche Pissarro ne avrà, e ben cinque (e forse un paio morti giovani). Poi ci sono i mercanti d’arte, quelli soli che, anche se pochi, credono in questa nuova pittura. I Durand-Ruel, che sempre sosterranno il gruppo, fino ad rischiare la catastrofe, ma che ce la faranno, e porteranno (ma solo dopo la metà degli anni ’80) un po’ di benessere ai martoriati artisti. O Hoschedè che invece andrà in rovina, e vedrà poi la dolce moglie Alice e i suoi tre figli andare a vivere con Monet, la moglie di lui ed i suoi figli: che scandalo! Le liti, il bisogno di soldi (Monet che cambia casa di continuo inseguito dai creditori), le incomprensioni. Il passaggio di meteora di Gauguin, che fa in tempo a litigare con tutti. Fino a consegnare il bastone negli anni ’90 ai Toulose-Lautrec, ai Suerat, ai Signac, ma soprattutto a Van Gogh. Ma questo appunto è il tessuto sociale, immerso come detto in quella Parigi che parte dalle trasformazioni del barone, attraversa la guerra del ’70, il grande sogno della Comune, per arrivare epigona, all’Esposizione Universale del ’93, quella della Torre Eiffel per intenderci. Poi c’è il tessuto pittorico. L’idea che il colore è nell’occhio di chi guarda, che le prospettive servono a far vedere il mondo com’è. Come diceva Degas “traccia una linea storta fino a che darà l’impressione di essere dritta”. Ecco, banalmente è questo quello che mi rimane di loro, come quel Salmone di Manet, dove non ci si mette a contare le scaglie come farebbero i fiamminghi del ‘600. Ma per terminare nel personale della nascita del mio amore per loro, dobbiamo fare un salto all’indietro di quarant’anni, quando il vostro tramatore si aggirava a Parigi studiando la lingua ed immergendosi in tutto quello che c’era, dal classico al nuovo. Anche allora, gli impressionisti non erano di casa nei saloni ufficiali (non lo sono mai), al Louvre c’è la Gioconda, c’è Rubens, c’è Rembrandt. Loro sono allo Jeu de Pomme, una casina di riposo dei principi ai margini delle Tuilleries. Lì ci si trovano ammassati alle pareti tutti i quadri più incredibili di quegli anni. E lì continuavo a tornare, non essendone mai sazio. Perché la prima volta, salendo tra piano terra e primo piano, lì sulle scale, c’è un quadro piccolo, due colpi di pennello, un albero di Cezanne. Ne sono rimasto folgorato. L’ho guardato per decine di minuti, e ci sono tornato e ritornato. E me ne sono innamorato. Ed è l’unica cosa cui rimango fedele appunto da quarant’anni. Finiamo col ricordare l’accattivante scrittura della Roe, che, fortunatamente, non ci lascia per strada, annodando i fili delle storie e chiudendole tutte, in un bouquet finale che mi rimanda alle Ninfee, di … (non ve lo dico, vediamo se siete preparati) ed all’indice degli autori citati che, meritoriamente, segnala anche i loro quadri.
“Lasciarlo sarebbe crudele, mi accontento di ingannarlo (Mary che parla del marito al suo amante Edouard Manet)” (274)
Zygmunt Bauman “Modus vivendi” Laterza euro 6,90
[in: 27/11/2009 – out: 16/02/2010]
Cioè come viviamo nel mondo di oggi? E non scordiamoci il sottotitolo “Inferno e Utopia del mondo liquido”. Da poco ho scoperto il pensatore polacco, e la sua visione del mondo fa suonare in me le corde della risonanza. Quando, con il suo sguardo attento, si aggira per i meandri della nostra vita, mi rende più chiari elementi di disagio che a volte non focalizzo. Con la sua idea forte nel fondo e sempre presente in tutti i suoi scritti, il mondo attuale, fatte crollare le barriere istituzionali ed economiche, è un mondo liquido, dove le cose da un lato prendono la forma del loro contenitore (e non viceversa) dall’altra è difficile rapportarvisi perché, come tutti i liquidi, scivolano via. Nei primi quattro capitoli, che sono più organici, questa lente analitica viene usata per guardare alcuni momenti forti della vita attuale, come la produzione industriale dei profughi, lo spostamento verso il basso dell’uso della politica dovuto ad una distorta interpretazione dell’uso del suffragio universale. Fino alla bella analisi degli stati d’animo di mixofobia e mixofilia, della paura e dell’amore verso lo straniero, verso l’altro (e che per versi opposti mi rimandano a Camarrone e Saviano). Stati che a volte, come tutte le cose complesse, coesistono all’interno di ciascun abitante delle città invase dagli “esterni”, da quelli che vengono cacciati dai loro posti di vita perché non c’è lavoro, c’è solo miseria e morte. E non vengono, non possono venire accolti. Da nessuna altra parte. L’ultimo capitolo è un po’ appiccicato, si sente che è frutto di una lezione universitaria, quindi risulta scollegato dal resto. Anche se lì è contenuta un’altra metafora della vita, o meglio del cambiamento della vita attraverso gli anni e i secoli. Dove l’uomo, anzi il progredire dell’atteggiamento umano maggioritario, viene paragonato prima a quello del guardiacaccia, che deve impedire ad altri di venire a cogliere i frutti del proprio territorio. Frutti che comunque vanno coltivati. Un guardiacaccia ha sempre cura degli animali che vivono con lui, perché, appunto gli danno la vita. Poi i territori diventano meno perigliosi, ed il guardiacaccia si trasforma in giardiniere, che ha cura del proprio giardino, e lo fa crescere e prosperare, sa quali piante far crescere e quali “erbacce” estirpare. Fino al rivoltarsi attuale, che lo trasforma in cacciatore, in bieco uccisore e predatore di tutto quello che c’è attorno. E dopo di me, il diluvio. Ecco alla fine l’unico neo, ma molto grosso, delle sue analisi sono appunto queste: sono analisi di situazioni, ma non si interviene, non si riesce a pensare a come modificare il reale. Certo, comprenderlo significa fare un bel passo avanti. Ma è come guardare un bel film-verità che ci svela esattamente com’è il mondo in cui viviamo. Ce ne fa capire i guasti e che così si finirà tutti male. Ma si riesce a fare qualcosa in positivo? Si torna sempre lì, Bauman è scettico anche verso gli interventi locali alla Gesualdi, perché in un mondo globale non esistono soluzioni locali. Anzi a volte, si giustificano malefatte proprie perché (o solo perché) localmente funzionano. Come mettere i profughi nelle mani degli operatori umanitari e dimenticarsi le guardie armate sullo sfondo; come se gli operatori stessi fossero un anello della catena dell’esclusione (e per di più a basso costo). Ma questa è (sarà?) un’altra storia. Intanto facciamoci montare la rabbia leggendone.
“i profughi … non cambiano posto. Perdono il loro posto sulla terra e sono catapultati in un luogo che non c’è … o in un deserto, per definizione una terra inabitata, una terra che non sopporta gli uomini e che gli uomini raramente visitano” (50)
“Dalle Città invisibili di Calvino, Marco Polo dice ‘L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio’” (126)
Marc Augé « Les formes de l’oubli » Rivages euro 5,95
[in: 07/05/2010 – out: 25/05/2010]
Sono contento d’averlo letto in originale, tanto che ho potuto dimenticare il senso dell’italiano e lasciarmi trasportare dal significato delle parole. Infatti mi sono scervellato a lungo su come rendere in italiano il termine ‘oubli’. Perché se da ricordare si può sostantivare il ricordo, da dimenticare come si fa? L’oblio diventa una parola forte, che prende troppo la mano e ci porta nell’omerico paese dei lotofagi. E qui, in questo saggio breve imparo ad amare sempre più lo strano etnologo francese, che, dopo una vita vissuta in Africa, decide di scardinare anche le nostre presenti vite, applicando quella scienza alla nostra vita quotidiana. Nasce così l’etnologo nel metro, la descrizione dei centri commerciali e degli aeroporti come non-luoghi. Ed ora, anche se questo ha già dieci anni, una passeggiata tra psicoanalisi, letteratura ed etnologia per rendere forte l’immagine dell’uso dell’oubli per poter vivere pienamente (passato, presente e futuro). Come un calcolatore un po’ datato, la nostra memoria si saturerebbe subito se non “scegliessimo” di dimenticare. E mi torna in mente quel bellissimo racconto di Borges (Ireneo Funès o della memoria) dove appunto c’era quest’uomo che non dimenticando nulla alla fine non può che scegliere di morire, non potendo sopportare il peso di tutti i ricordi cui veniva a contatto. Cavalcando tra queste discipline, Augé ci porta quindi a riconoscere l’importanza di dimenticare (direi quasi selezionare) i nostri ricordi. Facendoci anche riconoscere che poi questi ricordi sono sempre dei racconti. Cioè non sono mai “esattamente” la fotografia o il video di quello che succede, ma quello che di quell’esperienza vogliamo usare per poter passare da quel passato verso il nostro futuro. Ricorre anche ad una triplice immagine (sostanziata da scritti francesi, ma quasi ovunque noti), delle tre fasi susseguenti l’oubli. Il ricordo (Proust), la sospensione (Stendhal) ed il ri-inizio (Gracq). Soprattutto quest’ultimo mi ha incuriosito, dove si sostiene che  solo dimenticando qualcosa possiamo cominciarne altre, iniziando (ma, avendo dimenticato, ri-iniziando) il cammino. E parafrasando quell’immagine che mi torna da uno spettacolo di Rosa, dove si diceva che invecchiare è l’unico modo per non morire, Augé termina dicendo che dimenticare è il solo modo per restare presenti e ricordare la vita che stiamo vivendo.
“L’expérience des rêves est à la base de la théorie de l’univers qui se dessine dans les rituels, les comportements et les propos des Indiens Mohaves… Les Européens … ont tendance à oublier leurs rêves – ce qui est impensable chez les Mohaves” [L'esperienza del sogno è il fondamento della teoria dell'universo che emerge dai riti, i comportamenti ed i propositi degli indiani Mohave ... ... Gli europei tendono a dimenticare i propri sogni – cosa impensabile presso i Mohave – Trad. mia] (16)
“Je suis un homme entre deux âges, mais j’ai toujours ignoré lesquels” [Io sono un uomo di mezza età ma ignoro quale sia quella intera – Trad. mia] (29)
“L’oubli est la force vive de la mémoire et le souvenir en est le produit” [Dimenticare è la linfa vitale della memoria e ricordare ne è il prodotto – Trad. mia] (30)
“ [nous vivons dans des récits qui sont] le fruit de la mémoire et de l’oubli, d’un travail de composition et recomposition qui traduit la tension exercée par l’attente du futur sur l’interprétation du passé” [[Noi viviamo in storie che sono] il frutto della memoria e dell’oblio, un lavoro di composizione e ricomposizione che riflette la tensione esercitata dalla speranza del futuro sull'interpretazione del passato – Trad. mia] (55)
“il faut être au moins deux pour oublier” [Bisogna essere almeno in due per dimenticare – Trad.mia] (81)
“les voyageurs … savent … qu’un passant … d’un continent à l’autre, ils ne cesseront pas de vieillir … mais il leur suffit pour ... avoir l’illusion de conjurer l’écoulement du temps en se déplaçant dans l’espace. ” [I viaggiatori sanno ... che passando da un continente all'altro, non smetteranno di invecchiare ... ma questo è loro sufficiente per ... avere l'illusione di scongiurare lo scorrere del tempo spostandosi nello spazio. – Trad. mia] (83)
“les individus, au fur et à mesure de leur vieillissement, laissent apparaître des traits familiaux, qui jusqu’alors étaient restés invisibles sur leur figure” [Gli individui, mano a mano che invecchiano, presentano caratteristiche di famiglia, che fino ad allora erano  rimaste invisibile sui loro volti – Trad .mia] (106)
“La littérature est toujours virtuellement subversive” [La letteratura è sempre virtualmente sovversiva – Trad. mia] (114)
“Il est des pages et des images dont nous sommes naturellement amenés à penser que nous aurions pu en être l’auteur ou, à tout le moins, que nous aurions aimé être l’auteur” [Ci sono pagine e immagini che ci fanno pensare che avremmo potuto esserne l'autore o, almeno, che ci sarebbe piaciuto esserne l'autore – Trad. mia] (116)
“L’oubli nous ramène au présent, même s’il se conjugue à tous les temps : au futur, pour vivre le commencement ; au présent, pour vivre l’instant ; au passé, pour vivre le retour ; dans tous les cas, pour ne pas répéter. Il faut oublier pour rester présent, oublier pour ne pas mourir, oublier pour rester fidèle” [Dimenticare ci riporta al presente, anche se integra tutti i tempi: il futuro, per vivere l'inizio, il presente, per vivere il momento, il passato, per vivere il ritorno, in tutti i casi, per non ripetersi. Bisogna dimenticate per rimanere nel presente, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedele – Trad. mia] (122)
Ho voluto, per mia gioia interna, dare una mia traduzione di queste frasi che mi erano rimaste, per poterle condividere anche con i pochi che (ancora) non parlano il francese. 
Stiamo entrando in un caldo luglio di ricostruzione. Domani si torna ad Augusto Imperatore incrociando le dita delle mani e dei piedi. Continuo a scrivere ai miei corrispondenti dell’altro emisfero. E spero che tutti ci si avvii verso una bella estate. Ed un miglior resto del tempo.

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