sabato 31 marzo 2012

Tra romanzi e viaggi - 12 dicembre 2010

In attesa di capire se si parte per capodanno, torniamo a qualche lettura classica. Un viaggio tra i romanzi, buona occasione forse mancata, un romanzo che mi fa viaggiare di nuovo in Africa, ed una puntata in Turchia, luogo mai troppo alieno dalle mie simpatie. E cominciamo dal sessantenne scrittore francese.
Laurence Cossé “La libreria del buon romanzo” E/O s.p. (regalo di Silvia)
[in: 07/05/2010 – out: 20/07/2010]
Ma il libro del buon romanzo è un buon romanzo? Si fa leggere, ma sono rimasto “delusino”. Perché in fondo la trama è interessante, almeno lo spunto. Ma poi si perde in troppe, troppe pagine, volendo cercare di fare un libro raffinato sulle orme di Zafon, rovesciandolo in salsa francese. Ma non ne ha ancora tutte le frecce. Cerca poi di “prendere in prestito” humour ed altro ad altrettanto grandi scrittori. Ma, tanto per dirne una, il tentativo di camuffare il nome di cose e persone alla maniera di Boris Vian risolta un po’ goffo (tipo chiamare “le Bigaro” il quotidiano “le Figaro”, e così via). Ribadendo quindi che è molto impregnato di salsa francese, e che difficilmente se ne colgono aspetti al di fuori, sia della Francia che del mondo letterario, l’idea di base è quasi carina. Anche se possiamo cominciare a discuterne ora e finire più o meno mai. Un gruppo di persone (una con i soldi, un libraio con le idee, e poco altro) decide di aprire una libreria che venda soltanto dei romanzi “buoni”. Il primo scoglio è capire come fare a definire buoni i romanzi, chi lo deve scegliere. I nostri eroi decidono di nominare un comitato di persone, ignote tra loro, che elenchi 600 libri ritenuti da loro “buoni romanzi”. E questi verranno venduti nella libreria che si va ad aprire vicino a place de l’Odeon. Ogni anno, il Comitato sceglie ulteriori 50-60 libri per aggiungere le novità. Questa è la trama di fondo. E su questa idea (al di là dello svolgersi della storia) già si potrebbe cominciare a discutere. Scelta elitaria? Chi escludere? Il best-seller è per forza brutto? Dan Brown o Anna Maria Ortese? Questo è un po’ il dibattito tra le parti buone del libro. Che risolvono la questione così: è una scelta di parte, qui troverete sempre un buon romanzo, anche se poco conosciuto; se non c’è quello che volete possiamo cercarlo, trovarlo, e così via. Diventa più un circolo di lettori, alla maniera di anobii, più che una libreria in senso stretto. E comunque su questo spunto si può cominciare e continuare a discutere per ore. Poi, invece, prima e dopo, l’autrice cerca di costruire un “vero” romanzo. Con i cattivi che cercano di soffocare l’iniziativa, prima a colpi di pubblicità negativa, poi alla fine anche a colpire in modo vero e proprio i nostri “buoni”. E così per le 400 pagine si svolge questa lotta tra la buona e la cattiva editoria. Tra le librerie artigianali e le grandi catene di distribuzione. In tutto inframmezzato da siparietti descrittivi di alcune situazioni di vita dei vari romanzieri, che, a mo’ di raccontini nel grande fiume del romanzo, hanno la loro dignità.  Ma dopo un po’ tutto questo stanca, non tiene la corda, è un po’ ripetitivo. Anche il “mistero” su chi stia scrivendo il romanzo che stiamo leggendo diventa un altro modo di allungare il brodo. Alla fine manca il sale e tutto risulta un po’ sciapo. Insomma ci si poteva aspettare di più. Ci potevano essere innamoramenti e colpi di cuore,  che in parte ci sono, ma tracciati con una levità che non lascia traccia neanche sulla sabbia più asciutta. Ci poteva essere una netta vittoria dei buoni, o una loro altrettanto netta sconfitta. Un modo di schierarsi di qua o di là. Più che un buon romanzo, alla fine direi, una buona occasione. Ribadisco però che l’idea della libreria che vende solo buoni romanzi è da discutere, magari legandola a quella (anche se ormai sfruttata) della “Formica con le ali” di parigina memoria.
“Sono in molti ad ospitare in sé qualcuno che non gli somiglia affatto, non trova? … Qualcuno molto più sgradevole o molto più simpatico” (43)
“Dio sa quanto amo le donne, quanto le ho amate e quanto alcune abbiano desiderato rimanere con me. Quel che sono in grado di offrire io non è abbastanza reale perché una donna possa immaginare di farne qualcosa…ho sempre proposto più instabilità che sicurezza. La vita in comune e tutto ciò che ne consegue è una via che non sono in grado di percorrere…da parte mia non è una scelta, è una incapacità…so troppo bene che darei una delusione a che si fida di me” (117)
“Ora so come fare la corte a qualcuno che non crede più in sé stesso, so che bisogna essere pazienti e fiduciosi nonostante tutto, e che la cosa può durare un pezzo” (401)
Qui, invece, si ritorna in Africa, e sopratutto nell’Arabia Saudita, patria del buon Ahmed.
Ahmed Abodehman “La cintura” epoché euro 14
[in: 19/01/2010 – out: 24/08/2010]
Acquistato sull’onda del ritorno maliano, attirato da quelle notizie su deserto, Arabia Saudita e altro si copertina, letto ora, sulla soglia della partenza sudafricana, altri ritmi suscita. Intanto, tuttavia, citiamo la casa editrice, “epoché”, un’altra benemerita, con ILISSO e JOUVENCE, che pubblica autori africani (e in fondo al volume c’è una bella scelta di altri autori). Diciamo invece che mi aspettavo un ritmo diverso dello scritto, anche se non disdegnevole. Certo, pesa, e molto, il fatto che l’autore dalla natia Arabia sia passato a Parigi, e sia diventato un autorevole giornalista di giornali arabi. Quindi c’è tutta un’onda di ricordi che si svolge non dico con un filo di rimpianto, ma certo con l’occhio di chi si è allontanato. Nonostante questo, l’autore cerca (e spesso riesce) di farci rivivere la possibile atmosfera magica di questo villaggio dei monti arabi, isolato e pieno di storie. Che ad un tratto il governo decide di modernizzare, inviando maestri e didatti. Una delle pagine per me più toccanti è quando il ragazzo impara a leggere e chiede al padre di leggergli il Corano, come faceva da piccolo. Ma il Corano del figlio non è leggibile dal padre, che legge solo il suo. Perché? Perché quello lo ha imparato a memoria, e conosce la scrittura come immagine mentale. Non sa in realtà leggere, ma riconosce i segni e li canta. Così come tutto il villaggio canta. Canta la madre quando va per i campi. Cantano lo stuolo delle sorelle in tutte le vicende della vita. Sorella-mia-memoria, sorella-che-mi-ama, sorella-me, sorella-madre, sorella-padre. E via elencando tutte le possibili intersezioni di queste famiglie allargate, dove l’importante non è il grado di parentela in sé, ma la comunità ed il suo senso. E poi le storie che animano ogni oggetto. I campi, il toro, le nuvole. La cintura con il coltello, che fa di te un uomo (e riecheggiano gli echi del vicino Yemen). Fino all’impatto con la città dove il buon Ahmed andrà a studiare, in quanto uno dei migliori del villaggio. La città dove tutto è difficile. Ma soprattutto dove bisogna usare questa strana entità che è il denaro, mentre lì, a casa, altri erano i modi di scambiarsi il procedere della vita. È un libro pieno di immagine che piacerà alla mia sorella-amica, pieno di spunti, ed anche di ginn. Ma soprattutto della comunità verso gli altri e verso le cose. Quel vivere in sintonia che si è sempre più andato smarrendo. Quando ferire un albero era un’offesa molto peggiore di rubare un paio di scarpe. Non ci si stupisca del paragone “povero”, ma in un mondo senza nulla, questi erano (sono) valori da ricordare. Un bel tuffo in un ambiente da cui si manca da troppi mesi e cui prima o poi si cercherà il ritorno. Anche con il rimpianto che purtroppo lì, in Arabia Saudita, non ci si possa andare. Un bel caffè al cardamomo per meditare sull’altrove e sul diverso.
“Per Hizam un uomo senza barba era un bugiardo. … Agli occhi di Hizam gli uomini glabri non erano che donne mancate. … E la pancia di un uomo per lui doveva essere piatta come quella di un lupo. Hizam stava a piedi nudi in modo da non separarsi mai dalla terra” (42)
“Al villaggio nessuno si è mai sposato secondo i propri desideri, come oggi possono fare certi ricchi. Il matrimonio è un dovere, una necessità, è per la vita. Il divorzio infatti è poco frequente, e di solito sono le donne a chiederlo” (112)
E poi, infine, si ritorna in Europa, in un altro splendido cammeo della mai tanto celebrata Sellerio, anche se qui ha perso dei punti.
Esmahan Aykol « Hotel Bosforo » Sellerio euro 13
[in: 10/05/2010 – out: 18/09/2010]
Leggero, duro quel tanto che basta, abbastanza ironico, senza essere sconvolgente. Un’ottima lettura di transizione (che dopo aver letto il libro di Goliarda di cui prima o poi parlerò, ci vuole del tempo per tornare a letture normali). Una piccola nota preliminare per quanto riguarda la traduzione: il libro è scritto in turco (titolo originale “La libreria”), ma qui ne viene presentata la traduzione dalla traduzione tedesca. Una nota di demerito alla Sellerio. Il libro in sé, comunque, è gradevole. Sia per la parte narrativa in sé che per la parte “d’ambiente”. Ci viene presentata la prima “indagine” della libraria Kati, quarantenne nata in Turchia, poi rifugiata in Germania, ed ora di ritorno da 13 anni nella natia Istanbul, dove corona il suo sogno, aprire una libreria di libri gialli. La sua normale routine di immigrata/integrata viene sconvolta dall’arrivo dell’amica Petra, compagna dei tempi berlinesi, ora attrice che si appresta a girare un film in Turchia. E subito dopo dalla morte del regista del film. Trovandosi sfiorata da queste vicende di cui tante volte legge nei libri che vende, Kati non riesce a fare a meno di intricarsi nella vicenda. E svolgendo a suo modo un’indagine fuori dalla norma, arriva all’altrettanto “a-normale” conclusione, dove i fili del giallo (anche se non con la calma che avremmo voluto) vengono riannodati e riassunti. Ma se questa è la storia, altro, e più interessante, ci riserva il libro. Primo su tutto, Istanbul, intesa come città viva, pulsante, caotica, ma in fondo molto amata sia da Kati che dall’autrice. Che riesce a restituircene caratteri ed odori: il traffico caotico, ma anche la calma delle sale de tè, i difficili rapporti umani, ma anche le amicizie vere, di quelle che se hai bisogno sai che ci sono. E così giriamo anche noi, ancora una volta, per Cihangir, per Ortaköy, per Eminönü, per i vicoli, per i locali a bere una birra, per i caffè, per un kebab vicino all’aeroporto. Vediamo i turchi con il telefonino in mano e la sigaretta in bocca. Vediamo i poliziotti volenterosi ed i criminali gentili della mafia turca. Ma soprattutto vediamo il conflitto tra culture: tedeschi che amano la Turchia e cercano di integrarsi (come turchi che amano la Germania e cercano di integrarsi), ed espatriati (tedeschi, inglesi, spagnoli) che rifiutano di cercare i bandoli del loro vivere ad Istanbul, e ne rimarranno per sempre fuori. Sotteso, c’è anche un discorso su pedofilia e giusta punizione per i crimini, non facile da affrontare, anche se l’autrice, laureata in giurisprudenza, fa trapelare alcune considerazioni. Come affrontato, ma credo verrà ripreso in altre puntate della vita di Kati che non mi aspetto sia isolata a questa sola uscita, il discorso di amore e sesso. Intanto, c’è anche Fofo omosessuale sempre dietro a nuovi amori. Ma c’è anche Kati stessa con le sue attrazioni e ritrosie verso l’altro sesso, e la sua scoperta che, anche a quaranta anni, può nascere amore profondo (ripeto sua, che noi smaliziati sappiamo bene che l’amore nasce quando vuole, a prescindere). Piacevole è quindi farsi prendere per mano da Kati, che in prima persona ci fa salire sulla sua macchina sgangherata, si imbufalisce per il traffico, e la mancanza di parcheggi, ci fa visitare la sua libreria, condendo le pagine con un tocco leggero di umorismo che non guasta. Un libro dignitoso, piacevolmente letto (soprattutto, ripeto, per quel riportarci con gusto ai sapori turchi) e graziosamente da consigliare.
“La differenza principale tra un uomo rifiutato e una donna rifiutata sta nel fatto che lui non perde tempo e mostra subito il suo vero volto. Lei, invece, reagisce in modo più cauto: magari l’uomo non voleva rifiutarla, magari c’è stato un equivoco… Di conseguenza, le donne passano alla fase della vendetta solo dopo il quarto rifiuto, mentre gli uomini cominciano a fare ritorsioni alle prime difficoltà” (185)
“Sono un esempio vivente del fatto che le persone non cambiano” (251)
Un bell’esempio di sovrapposizione libro – realtà, è poi la quarantenne Esmahan Aykol, autrice di gialli e giornalista, in bilico tra Berlino e Istanbul, il cui nome deriva dall’aggettivo turco haymatlos che significa “senza patria”.
Diamo subito a Cesare quel che è di Cesare, facendo auguri a chi doppia la boa di mezzo secolo. Avrei poi voluto essere leggero e dare inizio a danze e libagioni, ma questa settimana (che già si preannunciava complicata e non solo per me), si è ulteriormente intricata con il ricovero odierno di mia madre per un’operazione che avrà luogo martedì. Incrociamo le dita. 

Nessun commento:

Posta un commento