domenica 25 marzo 2012

Un bocadillo - 07 novembre 2010

Che poi sarebbe un sandwich, visto che abbiamo autori contemporanei, due spagnoli regalati -prestati che fanno da contorno ad un duro americano. Il primo, spagnolo della Murcia, è entrato nella mia libreria a fronte di regali, e non è un caso che abbia anche lui 47 anni. L’americano è il solito, roccioso Cormac di cui sto a poco a poco leggendo gli scritti (ma questo mi è piaciuto meno). La fetta finale viene dal tanto osannato Zafon, che tuttavia non è che mi faccia tanto impazzire.
Luis Leante “La luna rossa” Feltrinelli euro s.p. (regalo di Alessandra)
[in: 07/05/2010 – out: 06/06/2010]
Al secondo libro del simpatico spagnolo, mi ci sono incartato ben bene. Anche perché si parla di libri, di scrittori, di amori e di Istanbul. E allora come si fa a tirarsi indietro? Anche qui il tema dell’amore perso – ritrovato – incompreso - impaurito e via aggettivando è forse il tema di fondo, ma bello e complicato dalla storia della scrittura e degli scrittori. E la luna non è la mitica barca, ma un onesto bar di Istanbul. Certo la storia in sé sembra semplice e complicata al tempo stesso. Con uno svolgimento che coinvolge Spagna, Germania e Turchia. E seguiamo prima con ansia, poi con un po’ di schiaffi sul collo perché dovrebbe essere meno scimunito, la vicenda del traduttore in spagnolo del grande scrittore turco Emin Kemal. E su un doppio binario seguiamo anche la vita di Emin, delle sue fortune, del suo essere turco ed innamorasi di una ragazza ebrea, del suo scrivere, della sua fragilità, del suo rapporto con la bella Derya. E poi riprendiamo la vita di René, figlio di madre spagnola e di padre tedesco, che l’ambasciata destina ad Istanbul. E René con i suoi amici turchi, con il padre adottivo che lo seguirà sempre senza giudicare (e forse intervenendo poco?), con la madre sempre più stralunata tra gatti e quadri, con il suo amore per la bella Tuna che gli regala un libro di Emin. E via in un valzer tra letteratura e realtà, con la misteriosa Aurelia che entra ed esce dalla storia riportandoci ad uno dei miti di Emin, il grande francese Gérard de Nerval. È come se seguissi due molle che si sviluppano spiraleggiando l’una cercando di elevarsi verso l’alto senza averne la forza, l’altra sprofondando verso il basso senza averne la volontà. Questa volta, mi sembra che Leante maneggi meglio la materia rispetto al primo libro che ne lessi (anch’esso regalato, sarà un caso?). È più sicuro, anche se ogni tanto si prenderebbe René per il collo e si vorrebbe tanto sbatterlo contro un muro. In fondo, sia Emin che René lasciano che le cose accadano, facendo ribollire di rabbia chi intravede possibili uscite positive anche se dolorose ma che nessuno imbocca. Sembra proprio che agiscano come ad un certo punto dice Ismet Asa, l’amico tipografo di Emin, che descrive il grande scrittore come uno che si accorge delle cose che accadono solo quando ne scrive. Bella e mi rimarrà nella testa, l’immagine del caffè “La Luna Rossa”, che nel mio immaginario ricongiungo con quel caffè, pieno di tè e narghilè, subito dietro al cimitero mussulmano, un po’ prima del Gran Bazar di Istanbul, dove si andava con Emilio e Rosa a bere, fumare e riprendersi un po’, anche dal grande freddo del Capodanno turco. Ma finiamo con la nota positiva del buon Salih, che ci consiglia di smettere di passare tutto il tempo a pentirci degli errori che facciamo. Li facciamo, bene, ci dispiace, bene, ma bisogna superarli in avanti, altrimenti diventano come le menzogne che ingigantiscono e non se ne riesce più ad uscire. Una bella fumata al tabacco di mele in un divano in fondo alla sala, con le immagini spagnolo – turche che ci frullano in capo. Buona lettura.
“Sei una persona molto fortunata ma ho l’impressione che tu non sappia godere delle cose che la vita ti regala” (154)
“Le menzogne quando ingigantiscono, diventano sempre più difficili da correggere” (159)
“Sai molto di libri, di poesia, di romanzi… Perché non hai mai scritto nulla?” (165)
“’Ci sono due categorie di persone… quelle che fanno sì che il mondo si muova e quelle che riflettono su come debba muoversi il mondo. Entrambe sono necessarie. Altrimenti cesseremmo di esistere.’ ‘Ed io a quale categoria appartengo?’ ‘Alla seconda, amico mio’ ‘E tu? ’A nessuna delle due. Io mi sono perso per strada’” (165)
“Rabbrividii un istante al pensiero che forse tutto il passato che ricordavo aveva poco a che vedere con la realtà” (187)
“Metti via la gelosia e abbi fiducia negli amici, perché è l’unica cosa che hai oltre alla tua famiglia” (209)
“Commettiamo errori tutti i giorni, non possiamo passare il tempo a pentirci” (254)
“Adesso scrivo più di quanto non viva. E so che non è un bene” (262)
“Ci sono molte cose delle quali tu ed io non parliamo da un pezzo” (262)
Cormac McCarthy “Il guardiano del frutteto” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato 9,60 euro)
[in: 23/04/2010 – out: 07/07/2010]
Nella lunga riproposizione degli scritti di McCarthy finalmente avevo trovato ed ora ho letto il primo scritto dell’autore diventato cult dopo i fratelli Cohen.  La scrittura è già quella delle sue opere più dure e mature. Qui, forse, c’è ancora un po’ di difficoltà nello svolgimento. I fatti, gli accadimenti, le vicissitudini, si mescolano un po’ troppo e si fa fatica a rintracciarne il senso compiuto. Certo, come si dice di McCarthy, quello che emerge è il senso, il sentimento di una certa America di frontiera, del modo di vivere di gente che non sta a New York, a San Francisco o a Chicago, ma a Knoxville nel Tennessee, abbarbicata sui monti Appalachi, vivendo con il fucile accanto non solo perché l’altro è “cattivo” ma perché la natura è ancora selvaggia. Ci sono puma e procioni che attaccano. E non solo. Alla fine si capisce che la storia è ambientata durante la Grande Depressione, dove il modo di vivere più lucroso è fare il contrabbandiere di whiskey. E dove si può uccidere per un quarto di dollaro, tanto la vita vale veramente poco. Ma escono anche gli altri temi tipici di McCarthy: la natura (con quelle descrizioni che mi lasciano sempre basito, ad esempio dove si parla di sommacchi ed altre piante ignote), la solidarietà tra gente che non ha nulla da perdere (come i due dollari che John va a restituire a Marion in carcere), i racconti dei vecchi ormai incartapecoriti dagli anni e dalla vita (bella la storia di Ather e del piccolo puma, bella nella solidarietà di frontiera e nella durezza). E lì tra le montagne, le trappole per i visoni, i ruscelli, le macchine che sbandano, si intrecciano le storie del vecchio Ather che custodisce per sette anni uno scheletro in una vasca di colma in alta montagna, di Marion che forse è l’assassino dello scheletro, del padre di John che forse è il morto, e di John che diventa amico di Marion e del vecchio. E che non saprà mai la storia del morto. Il tutto appunto condito da micro - racconti trasversali, e da personaggi nessuno, mai, positivo. Men che mai i cattivi poliziotti, che già sono cattivi in città, figuriamoci là sperduti, dove avere un ruolo, che sia poliziotto, o gestore dell’emporio del paese, pone di una spanna al di sopra delle altre persone. Pur tuttavia, trovando già tutte le tematiche del McCarthy più maturo, rimane una slegatura, un fondo di irrisolto. Che rende difficile leggere il libro. Insomma più una lettura di completezza che di piacere vero e proprio. Interessante, non bello. Ma da leggere, come tutto McCarthy, per capire di quell’America che non esce fuori sui giornali. Di quella che rimane lì nascosta nel profondo cuore del continente. Quella dove decenni dopo usciranno i massacri di Columbine o le mal pensate di strane sette non tanto segrete. E non diciamo “anche questa è America”, perché in realtà bisogna dire “questa è l’America”.
Carlos Ruiz Zafon “Marina” Mondadori euro 19,50 (prestito di Alessandra)
[in: 30/05/2010 – out:10/07/2010]
Si legge di un fiato, ha un bel ritmo, ma… Non mi aveva convinto molto il primo che ho letto. E questo, pur se con dei momenti di interessi, non è da meno. Si sente, sino in fondo, che Zafon è più che altro uno scrittore da adolescenti, un po’ del genere Rowling con delle punte di Myers. Perché poi, stringendo, stringendo, la storia non è gran che, in bilico tra fantastico reale. Forse l’unica nota positiva è quel camminare per Barcellona, dove si sente ancora il passo di Gaudì e non c’è ancora lo stravolgimento olimpico. Assistiamo alla presa di coscienza del buon Oscar, fanciullo di collegio, con famiglia assente, che trova una famiglia di assunzione nella compagnia del vecchio Germàn e della bella figlia Marina (quella del titolo). E Zafon cerca di intrecciare questa storia, che è la storia di una crescita, di un adolescente che, affacciandosi alla soglia della possibile età adulta si trova di fronte i primi “seri” problemi ad altra fantastica e improbabile. In questa si affrontano i problemi “reali”: il rapporto con gli altri, e soprattutto con l’altra, la donna, che sempre ci attrae e ci innamora. Ma la storia di Oscar e Marina è già chiara fin dalle prime battute, dalla bella descrizione dei quadri di Germàn che vorremmo volentieri ammirare. La storia altra, è talmente improbabile da risultare un po’ fastidiosa. Anche se la scopriamo a poco a poco, la vicenda di Michail che dalla natia Praga si ritrova nella Barcellona ante-guerra (ma lì c’era anche la guerra civile, che neanche si sfiora), meravigliare e far fortuna con le protesi per i malati. Che si innamora della bella Eva dalla voce argentina (di timbro, visto che è russa). Ma è tutto un déjà vu, un mescolare il Golem praghese con “Il fantasma del palcoscenico” di Brian De Palma. A metà tra Romero e Rohmer, alla fine tutto lo zibaldone della vicenda fantastica non è solo improbabile, ma forse dannoso. Certo pone al lettore la domanda sulla natura umana, sull’eugenetica, sugli interventi attuali sul DNA. Ma l’impianto descrittorio mi lascia freddo e distante. Per non parlare delle frasi un po’ lapidarie come quelle che riporto, o di quando Oscar dice che vuole fare l’architetto nel paese di Gaudì e costruisce un modellino in legno di una cattedrale (Sagrada Famiglia docet). Preferisco quando Oscar e Marina si addentrano per le vie di Barça, per il Barrìo Gotico, le Ramblas e la via Layetana. Se entravano anche nel Barrio Chino gli davo un bacio, ma non lo fanno. O ancora, quando vanno in giro sulla vecchia Tucker (ma riesce una macchina del ’56 a mettersi in moto nel ’79 senza manutenzione?) verso il mare ed il bellissimo castello di Sant Elm. Ecco questo mi rimane, il resto è scivolato via, senza troppi segni. D’altro canto, si sente che è un libro di 15 anni fa, girato e rimaneggiato sull’onda del successo posteriore. Ricorda un po’ la Baubery ed il suo primo libro. O McCarthy ed il suo. A volte vale la pena andare avanti, perché le prove successive sono migliori degli esordi. Non tutti, non sempre hanno esordi fulminanti e poi continuano il successo. Ci sono onesti scrittori che impiegano del tempo a trovare stile e modi espressivi. Ma non per questo vogliamo loro meno bene. Insomma, un’onesta prova da ombrellone estivo, con una bibita gelata a portata di mano (analcolica perché ci sono i ragazzi).
“La verità non si trova, è lei che trova noi.” (132)
“Chi non sa dove è diretto non arriva da nessuna parte” (152)
“Il nostro corpo comincia a morire nel preciso istante in cui nasciamo” (248)
Chiusura di saluti e di speranze. Speranze che sia un’altra settimana positiva come le ultime. Per tutti. Personali e pubblici. Lavori e amori. D’altra parte l’estate di San Martino ha sempre portato fortuna a noi umili portatori d’acqua. Un raggio di sole a tutti gli umili  …

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