Luis Leante “La luna rossa” Feltrinelli
euro s.p. (regalo di Alessandra)
[in: 07/05/2010 – out: 06/06/2010]
Al
secondo libro del simpatico spagnolo, mi ci sono incartato ben bene. Anche
perché si parla di libri, di scrittori, di amori e di Istanbul. E allora come
si fa a tirarsi indietro? Anche qui il tema dell’amore perso – ritrovato –
incompreso - impaurito e via aggettivando è forse il tema di fondo, ma bello e
complicato dalla storia della scrittura e degli scrittori. E la luna non è la
mitica barca, ma un onesto bar di Istanbul. Certo la storia in sé sembra
semplice e complicata al tempo stesso. Con uno svolgimento che coinvolge
Spagna, Germania e Turchia. E seguiamo prima con ansia, poi con un po’ di
schiaffi sul collo perché dovrebbe essere meno scimunito, la vicenda del traduttore
in spagnolo del grande scrittore turco Emin Kemal. E su un doppio binario
seguiamo anche la vita di Emin, delle sue fortune, del suo essere turco ed
innamorasi di una ragazza ebrea, del suo scrivere, della sua fragilità, del suo
rapporto con la bella Derya. E poi riprendiamo la vita di René, figlio di madre
spagnola e di padre tedesco, che l’ambasciata destina ad Istanbul. E René con i
suoi amici turchi, con il padre adottivo che lo seguirà sempre senza giudicare
(e forse intervenendo poco?), con la madre sempre più stralunata tra gatti e
quadri, con il suo amore per la bella Tuna che gli regala un libro di Emin. E
via in un valzer tra letteratura e realtà, con la misteriosa Aurelia che entra
ed esce dalla storia riportandoci ad uno dei miti di Emin, il grande francese
Gérard de Nerval. È come se seguissi due molle che si sviluppano spiraleggiando
l’una cercando di elevarsi verso l’alto senza averne la forza, l’altra
sprofondando verso il basso senza averne la volontà. Questa volta, mi sembra
che Leante maneggi meglio la materia rispetto al primo libro che ne lessi
(anch’esso regalato, sarà un caso?). È più sicuro, anche se ogni tanto si
prenderebbe René per il collo e si vorrebbe tanto sbatterlo contro un muro. In
fondo, sia Emin che René lasciano che le cose accadano, facendo ribollire di
rabbia chi intravede possibili uscite positive anche se dolorose ma che nessuno
imbocca. Sembra proprio che agiscano come ad un certo punto dice Ismet Asa,
l’amico tipografo di Emin, che descrive il grande scrittore come uno che si
accorge delle cose che accadono solo quando ne scrive. Bella e mi rimarrà nella
testa, l’immagine del caffè “La Luna Rossa”, che nel mio immaginario
ricongiungo con quel caffè, pieno di tè e narghilè, subito dietro al cimitero
mussulmano, un po’ prima del Gran Bazar di Istanbul, dove si andava con Emilio
e Rosa a bere, fumare e riprendersi un po’, anche dal grande freddo del
Capodanno turco. Ma finiamo con la nota positiva del buon Salih, che ci
consiglia di smettere di passare tutto il tempo a pentirci degli errori che
facciamo. Li facciamo, bene, ci dispiace, bene, ma bisogna superarli in avanti,
altrimenti diventano come le menzogne che ingigantiscono e non se ne riesce più
ad uscire. Una bella fumata al tabacco di mele in un divano in fondo alla sala,
con le immagini spagnolo – turche che ci frullano in capo. Buona lettura.
“Sei una persona molto fortunata ma ho l’impressione che tu non sappia
godere delle cose che la vita ti regala” (154)
“Le menzogne quando ingigantiscono, diventano sempre più difficili da
correggere” (159)
“Sai molto di libri, di poesia, di romanzi… Perché non hai mai scritto
nulla?” (165)
“’Ci sono due categorie di persone… quelle che fanno sì che il mondo si
muova e quelle che riflettono su come debba muoversi il mondo. Entrambe sono
necessarie. Altrimenti cesseremmo di esistere.’ ‘Ed io a quale categoria
appartengo?’ ‘Alla seconda, amico mio’ ‘E tu? ’A nessuna delle due. Io mi sono perso
per strada’” (165)
“Rabbrividii un istante al pensiero che forse tutto il passato che ricordavo
aveva poco a che vedere con la realtà” (187)
“Metti via la gelosia e abbi fiducia negli amici, perché è l’unica cosa
che hai oltre alla tua famiglia” (209)
“Commettiamo errori tutti i giorni, non possiamo passare il tempo a
pentirci” (254)
“Adesso scrivo più di quanto non viva. E so che non è un bene” (262)
“Ci sono molte cose delle quali tu ed io non parliamo da un pezzo”
(262)
Cormac McCarthy “Il guardiano del frutteto”
Einaudi euro 12 (in realtà, scontato 9,60 euro)
[in: 23/04/2010 – out: 07/07/2010]
Nella
lunga riproposizione degli scritti di McCarthy finalmente avevo trovato ed ora
ho letto il primo scritto dell’autore diventato cult dopo i fratelli
Cohen. La scrittura è già quella delle
sue opere più dure e mature. Qui, forse, c’è ancora un po’ di difficoltà nello
svolgimento. I fatti, gli accadimenti, le vicissitudini, si mescolano un po’
troppo e si fa fatica a rintracciarne il senso compiuto. Certo, come si dice di
McCarthy, quello che emerge è il senso, il sentimento di una certa America di
frontiera, del modo di vivere di gente che non sta a New York, a San Francisco
o a Chicago, ma a Knoxville nel Tennessee, abbarbicata sui monti Appalachi,
vivendo con il fucile accanto non solo perché l’altro è “cattivo” ma perché la
natura è ancora selvaggia. Ci sono puma e procioni che attaccano. E non solo.
Alla fine si capisce che la storia è ambientata durante la Grande Depressione,
dove il modo di vivere più lucroso è fare il contrabbandiere di whiskey. E dove
si può uccidere per un quarto di dollaro, tanto la vita vale veramente poco. Ma
escono anche gli altri temi tipici di McCarthy: la natura (con quelle descrizioni
che mi lasciano sempre basito, ad esempio dove si parla di sommacchi ed altre
piante ignote), la solidarietà tra gente che non ha nulla da perdere (come i
due dollari che John va a restituire a Marion in carcere), i racconti dei
vecchi ormai incartapecoriti dagli anni e dalla vita (bella la storia di Ather
e del piccolo puma, bella nella solidarietà di frontiera e nella durezza). E lì
tra le montagne, le trappole per i visoni, i ruscelli, le macchine che
sbandano, si intrecciano le storie del vecchio Ather che custodisce per sette
anni uno scheletro in una vasca di colma in alta montagna, di Marion che forse
è l’assassino dello scheletro, del padre di John che forse è il morto, e di
John che diventa amico di Marion e del vecchio. E che non saprà mai la storia
del morto. Il tutto appunto condito da micro - racconti trasversali, e da
personaggi nessuno, mai, positivo. Men che mai i cattivi poliziotti, che già
sono cattivi in città, figuriamoci là sperduti, dove avere un ruolo, che sia
poliziotto, o gestore dell’emporio del paese, pone di una spanna al di sopra
delle altre persone. Pur tuttavia, trovando già tutte le tematiche del McCarthy
più maturo, rimane una slegatura, un fondo di irrisolto. Che rende difficile
leggere il libro. Insomma più una lettura di completezza che di piacere vero e
proprio. Interessante, non bello. Ma da leggere, come tutto McCarthy, per
capire di quell’America che non esce fuori sui giornali. Di quella che rimane
lì nascosta nel profondo cuore del continente. Quella dove decenni dopo
usciranno i massacri di Columbine o le mal pensate di strane sette non tanto
segrete. E non diciamo “anche questa è America”, perché in realtà bisogna dire
“questa è l’America”.
Carlos Ruiz Zafon “Marina” Mondadori euro
19,50 (prestito di Alessandra)
[in: 30/05/2010 – out:10/07/2010]
Si legge di un fiato, ha un bel
ritmo, ma… Non mi aveva convinto molto il primo che ho letto. E questo, pur se
con dei momenti di interessi, non è da meno. Si sente, sino in fondo, che Zafon
è più che altro uno scrittore da adolescenti, un po’ del genere Rowling con
delle punte di Myers. Perché poi, stringendo, stringendo, la storia non è gran
che, in bilico tra fantastico reale. Forse l’unica nota positiva è quel
camminare per Barcellona, dove si sente ancora il passo di Gaudì e non c’è
ancora lo stravolgimento olimpico. Assistiamo alla presa di coscienza del buon
Oscar, fanciullo di collegio, con famiglia assente, che trova una famiglia di
assunzione nella compagnia del vecchio Germàn e della bella figlia Marina
(quella del titolo). E Zafon cerca di intrecciare questa storia, che è la
storia di una crescita, di un adolescente che, affacciandosi alla soglia della
possibile età adulta si trova di fronte i primi “seri” problemi ad altra
fantastica e improbabile. In questa si affrontano i problemi “reali”: il rapporto
con gli altri, e soprattutto con l’altra, la donna, che sempre ci attrae e ci
innamora. Ma la storia di Oscar e Marina è già chiara fin dalle prime battute,
dalla bella descrizione dei quadri di Germàn che vorremmo volentieri ammirare.
La storia altra, è talmente improbabile da risultare un po’ fastidiosa. Anche
se la scopriamo a poco a poco, la vicenda di Michail che dalla natia Praga si
ritrova nella Barcellona ante-guerra (ma lì c’era anche la guerra civile, che
neanche si sfiora), meravigliare e far fortuna con le protesi per i malati. Che
si innamora della bella Eva dalla voce argentina (di timbro, visto che è
russa). Ma è tutto un déjà vu, un mescolare il Golem praghese con “Il fantasma
del palcoscenico” di Brian De Palma. A metà tra Romero e Rohmer, alla fine
tutto lo zibaldone della vicenda fantastica non è solo improbabile, ma forse
dannoso. Certo pone al lettore la domanda sulla natura umana, sull’eugenetica,
sugli interventi attuali sul DNA. Ma l’impianto descrittorio mi lascia freddo e
distante. Per non parlare delle frasi un po’ lapidarie come quelle che riporto,
o di quando Oscar dice che vuole fare l’architetto nel paese di Gaudì e
costruisce un modellino in legno di una cattedrale (Sagrada Famiglia docet).
Preferisco quando Oscar e Marina si addentrano per le vie di Barça, per il
Barrìo Gotico, le Ramblas e la via
Layetana. Se entravano anche nel Barrio
Chino gli davo un bacio, ma non lo fanno. O ancora, quando vanno in giro sulla
vecchia Tucker (ma riesce una macchina del ’56 a mettersi in moto nel ’79 senza
manutenzione?) verso il mare ed il bellissimo castello di Sant Elm. Ecco questo
mi rimane, il resto è scivolato via, senza troppi segni. D’altro canto, si
sente che è un libro di 15 anni fa, girato e rimaneggiato sull’onda del successo
posteriore. Ricorda un po’ la Baubery ed il suo primo libro. O McCarthy ed il
suo. A volte vale la pena andare avanti, perché le prove successive sono
migliori degli esordi. Non tutti, non sempre hanno esordi fulminanti e poi
continuano il successo. Ci sono onesti scrittori che impiegano del tempo a
trovare stile e modi espressivi. Ma non per questo vogliamo loro meno bene.
Insomma, un’onesta prova da ombrellone estivo, con una bibita gelata a portata
di mano (analcolica perché ci sono i ragazzi).
“La verità non si trova, è lei che trova noi.” (132)
“Chi non sa dove è diretto non arriva da nessuna parte” (152)
“Il nostro corpo comincia a morire nel preciso istante in cui nasciamo”
(248)
Chiusura di saluti e di speranze.
Speranze che sia un’altra settimana positiva come le ultime. Per tutti.
Personali e pubblici. Lavori e amori. D’altra parte l’estate di San Martino ha
sempre portato fortuna a noi umili portatori d’acqua. Un raggio di sole a tutti
gli umili …
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