venerdì 16 marzo 2012

Etica - 12 settembre 2010

Come ogni tanto, passiamo una settimana a parlare di saggi, e soprattutto di etica, cioè di comportamento, nostro nel nostro mondo. Ho aspettato molto prima di tornare su questi scritti, e li ho volutamente riuniti, provenendo da tre differenti visioni del nostro mondo, ma che (e qui ritorna un mio pallino di anni di girovagare) su tante cose sono comuni ed unisone. Ed ancora mi chiedo perché non spingiamo sulle cose che ci uniscono invece che sforzarci di sottolineare le cose che ci dividono. Inoltre, e lo sottolineo per onestà, ho cercato di trarre dalle letture elementi che sono immanenti, non avendo la capacità di entrare in dibattiti altri. Spero che questo mio sforzo sia tenuto nella giusta considerazione, ora che andiamo a parlare di un libro che descrive la sua visione del mondo del libanese Maalouf, dell’ultima enciclica di Benedetto XVI e di un libro di storie chassidiche dell’ebreo Martin Buber. Ma andiamo soprattutto a parlare del nostro comportamento, di come viviamo e nell’essere quello che noi siamo.
Amin Maalouf “Un mondo senza regole” Bompiani s.p. (ALE)
[in: 25/12/2009 – out: 24/03/2010]
È difficile per me accostarmi ad un testo di Maalouf senza una benevolenza dovuta al fatto che sono venti anni che i suoi scritti mi accompagnano, da quando, ancora ignoto in Italia, ne scovai tracce in una libreria di Beirut durante i miei primi viaggi in Libano. Anche questa fatica si ascrivi quindi ai meriti dell’intellettuale franco-libanese, anche se irto di difficoltà. Non nel senso del leggere come in altri, ma della materia trattata e della sua visione del mondo. Che in gran parte condivido, ma che, nei risvolti operativi mi lascia, purtroppo, perplesso. Diviso in tre grandi meditazioni sul mondo attuale, parte da quelle che chiama vittorie fallaci, lì dove l’Occidente sembra aver conquistato qualcosa nei confronti del resto del mondo. Per poi accorgersi che, appunto, questi passi avanti nascondono insidie e pericoli. Passa poi per quelle legittimità smarrite, che mi fanno tremare rispetto ad un fosco futuro. Ovunque, ma qui in Italia se ne sente ancor di più il peso, si sregola il mondo, e poi si pretende uno scettro di potere, che, al più e al meglio, si fonda solo sull’interesse economico, ma che sta smarrendo il senso del divenire punto di riferimento. In questa parte, c’è una bellissima, lunga e da me molto apprezzata, analisi della nascita, crescita e caduta del potere di Nasser in Egitto. Passando, ed arrivando, a quella guerra dei 6 giorni che non solo fece da svolta per i Paesi Arabi ma che è di fondamento di alcune delle attuali (e forse non tanto consistenti) legittimità israeliane. Per finire infine con quelle certezze immaginarie, che, appunto, ci fanno ipotizzare che il mondo attuale possa continuare così, senza nessun nostro intervento, a rischio del suo decadimento ambientale. Anche qui, fa un ragionamento che trovo lucidissimo: non sappiamo se l’analisi del catastrofismo ecologico sia corretta, ma se lo è il mondo sta correndo verso la sua rovina, e già i nostri figli ne subiranno conseguenze; ma anche se non lo è e facciamo qualcosa, la vita sarà comunque più vivibile. Certo la fine è, come il suo porsi da intellettuale in questo mondo, un po’ di testa, con l’appello alla buona volontà ed ai giusti del mondo. Questa è la parte che mi convince meno. Rimane tutto il bagaglio di ragionamenti sulla convivenza, che ritengo questa sì sia da approfondire ed allargare. Se l’Occidente e l’Oriente si sforzassero di applicare all’esterno quei principi che a volte ritengono sacri al proprio interno, forse si potrebbe trovare una via per il rispetto e la convivenza reciproca. In grossa parte Maalouf continua a sottolineare quanto avevo intuito proprio in quel primo viaggio, che soltanto insediando industrie in loco nel terzo mondo si poteva fare si che si riequilibrasse l’andamento dei paesi che si stanno evolvendo, senza depauperarli, e senza immettere forze incontrollabili nei paesi che si stano stazionando. Un esempio mi rimane forte, quando l’immigrata algerina chiede ad una municipalità olandese di poter istituire un luogo di raccolta per le donne immigrate. Richiesta legittima, che poteva permettere di integrare immigrati e di riscattare qualcuna dal giogo del maschio comunque comandante. E della risposta della municipalità che rigetta la richiesta, non per un qualche motivo “occidentale” ma per aver chiesto consiglio all’imam immigrato che lo sconsiglia. Certo la richiesta veniva dal rispetto verso la comunità, ma questo rispetto diventa in questo modo controproducente. Una storia da meditare. Come, e finisco en passant, quella di uno dei pochi colonizzatori europei che sembra aver fatto qualcosa di buon per ipopoli africani, e che per questo viene ostracizzato e, forse, ucciso dai poteri coloniali. Quell’italo-francese tal Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, di cui forse sapete il nome della città da lui fondata. Alla fine, una gradita lettura, da discutere e portare avanti davanti ad un mezzé con molto arak.
“Contrariamente a quanto si ritiene di solito, l’errore secolare delle potenze europee non è stato quello di aver voluto imporre i propri valori al resto del mondo, ma esattamente l’inverso: di aver rinunciato costantemente a rispettare i propri valori nei loro rapporti con i popoli dominati.” (58)
“Ogni essere ha bisogno che gli si fissino dei limiti. Ogni potere ha bisogno di un contropotere per proteggere glia altri dai propri eccessi, e anche per proteggersi da se stesso.” (183)
“Quando un paese è in pieno marasma, si può sempre cercare di emigrare. Quando l’intero pianeta è minacciato non si ha l’opzione di andare a vivere altrove.“ (200)
“Una grande lezione del secolo da poco conclusosi è che le ideologie passano e le religioni restano“ (207)
 “Ciò che cerco di dire è che si passa acanto all’essenziale ogni volta che si tralascia di vedere l’emigrato dietro l’immigrato. E che si commette un grave errore strategico quando si valuta lo status degli immigrati in funzione del posto che occupano nelle società occidentali, cioè spesso in fondo alla scala sociale, anziché in funzione del ruolo che hanno, e che potrebbero avere cento volte di più, nelle loro società di origine, quello di vettori di modernizzazione, di progresso sociale, di liberazione intellettuale, di sviluppo e di riconciliazione” (248)
Benedetto XVI “Caritas in Veritate” Libreria Editrice Vaticana euro 2
[in: 20/01/2010 – out: 15/04/2010]
Da riflettere. E da leggere, a prescindere. Ne escono fuori due considerazioni: dal punto di vista della forma e da quello del contenuto. La forma non mi piace, non mi è propria. In ogni punto si prende e si rimanda ad altro scritto, quasi riportandone passi interi, come a voler giustificare (spiegare?) il proprio scritto con l’autorevolezza dello scritto di altri. È un modo che (scusate il paragone irriverente) ho trovato anche nei libri del mio amico Luciano e che anche lì non mi ha convinto, mi ha lasciato più dubbi che risposte. Il contenuto ha alti e bassi, cioè momenti in cui non si può non aderire globalmente ed altri da cui ci si distacca, altrettanto globalmente. Questi ultimi sono forse troppo legati ad una visione della Chiesa, una visione della donna, e dello stare insieme, che non condivido. Ma gli altri mi spaventano, perché se qualcuno fosse realmente coerente non potrebbe che portarli avanti con tutta la forza che io non penso di poter mai avere. Dalla visione (mutuata da Paolo VI) della costruzione della propria vita che dipende sempre e soltanto da noi stessi (e rimandiamo al più tardo Buber). Dalla spietata analisi dei guasti della globalizzazione con quella domanda che anche qui leggo e rileggo, senza trovare risposte. Siamo più vicini, ma siamo più fratelli? Dalle considerazioni (mutuate da Giovanni Paolo II) sula necessità che i diritti siano controbilanciati dai doveri, soprattutto negli uomini di potere. Ecco, tutta questa parte etica è di una forza pura, dove cristalline volontà nella loro applicazione potrebbero di certo portare a modi nuovi di vivere e di convivere. Quel che di dubbio rimane è la difficoltà di passaggio tra teoria e prassi (e ricordo discussioni e discussioni che già più di trenta anni fa anche se in altri contesti facevamo su questo punto). Ed alcune delle frasi che riporto potrebbero benissimo essere uscite dal libro di Maalouf. Comunque è stato un bel momento di riflessione leggere questa enciclica, perché, come diceva Pennac, il lettore ha il diritto di leggere qualsiasi cosa.
“Paolo VI: ciascuno rimane, qualunque siano le influenze che si esercitano su di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento (Populorum Porgressio)” (23)
“il sottosviluppo ha una causa ancora più importante … la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli…. La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (27)
“Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. … Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale e del lavoro” (69)
“Giovanni Paolo II: i diritti presuppongono doveri senza i quali si trasformano in arbitrio” (71)
“All’uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita. C’è spazio per tutti su questa nostra terra … Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla” (84)
Martin Buber “Il cammino dell’uomo” Edizioni Qiqajon euro 6
[in: 20/01/2010 – out: 22/05/2010]
Cortissimo, ma denso di pensieri e di pensate (e sarebbe da riportare tutto, ma scelgo solo qualche frase qui e là). Buber da buon ebreo inanella le sue storielle chassidiche per ragionare intorno all’umano ed al divino, e bene ha fatto il priore Bianchi, deus ex-machina di questa collana di testi religiosi emanati dal convento di Bose, a porlo qui in bella evidenza. Perché in fondo parliamo sempre di etica e di comportamento umano. Cioè, almeno io di questo riesco a ragionare e parlare, scegliendo coscientemente (non è mio compito e non ne sono capace) di non parlare di altri livelli e piani alti. Allora torna modestamente al punto che mi ha colpito e che mi fa dire, con Hermann Hesse: “lascerò che questo libro mi parli spesso”. Il punto è il proprio cammino, il proprio stare al mondo, il trovare la propria via. Quelle frasi sublimi sono da leggere e rileggere. Non siamo nati per essere altri Mosè, altri Abramo, altri Marx, altri Van Gogh, siamo nati per essere noi stessi. Per realizzare qualcosa, che potrà essere un piccolo granello nel corso dell’umanità, ma se lo abbiamo fatto credendoci fino in fondo, con tutte le nostre forze, sarà di uno splendore unico e immutabile per sempre. Perché noi viviamo “dove ci troviamo a vivere”. Ho letto e riletto questa frase. Ed ogni volta ne trovo risvolti nuovi. Dobbiamo risolvere i conflitti fuggendo? No, ma cercando di trovarne l’origine in noi. Dobbiamo trattare malevolmente l’altro, il nostro vicino, perché non è come vogliamo noi? Ma noi come siamo? Parafrasando un non bel film visto in questi giorni, “questa è la nostra vita”. Ed anche se andiamo altrove, essa viene con noi. Non ho fatto molte cose nella mia, bene o male di discreta lunghezza vita, ma mi accorgo che non è mai stato cambiando gli altri che ho trovato cammini nuovi e miei da percorrere. Ma sempre cambiando me stesso. O cercando di capirmi. Cercando di trovare il qui e ora che Maria Luisa tanto mi ha pregato di trovare. E che si perde con una facilità unica. Come al solito, divago e parlo di me (tanto lo facciamo sempre anche quando facciamo finta di parlare d’altro). Dovrei tornare a Buber. Ma non riesco a riassumere le sue 50 pagine in meno di altrettante 50. Con una capacità che trovo inimitabile, racconta piccole storie (le famose storielle ebree) e facendone le esegesi pone tanti mattoni sulla via da costruirci grattacieli su grattacieli. E continua sottolineare, così come fa Bianchi nell’ottima introduzione, il valore, per me etico, di quanto viene detto. Comportarsi secondo la propria coscienza è un bene che niente potrà monetizzare. Mi resta solo un consiglio. Leggetelo anche voi.
“non c’è una via unica, occorre invece scegliere la propria, e scegliere significa anche rinunciare.” (introduzione di Enzo Bianchi, 9)
“per quanto infimo possa essere … ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze” (26)
“Nel mondo futuro non mi si chiederà ‘Perché non sei stato Mosè?’ ma mi si chiederà ‘Perché non sei stato te stesso?” (27)
“bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni presenti in lui e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate” (44)
“Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico” (46)
“cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé” (50)
“C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo … lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova … è il luogo in cui ci si trova” (59)
Mi accorgo di aver più volte usato l’esortazione a leggere e rileggere queste pagine, ma viene come da un moto dell’anima, quando una volta sola non riesce a colmare dubbi e risposte.
Ma siamo anche verso la metà di settembre, finisce il Ramdam, qualcuno viaggia ancora, ed io aspetto la fine del mese per fare un ulteriore visita in quel di Bruxelles. E cerchiamo di andare verso la risoluzione di molti conflitti, applicando la massima di Buber.

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