Amin Maalouf “Un mondo senza regole”
Bompiani s.p. (ALE)
[in: 25/12/2009 – out: 24/03/2010]
È
difficile per me accostarmi ad un testo di Maalouf senza una benevolenza dovuta
al fatto che sono venti anni che i suoi scritti mi accompagnano, da quando,
ancora ignoto in Italia, ne scovai tracce in una libreria di Beirut durante i
miei primi viaggi in Libano. Anche questa fatica si ascrivi quindi ai meriti
dell’intellettuale franco-libanese, anche se irto di difficoltà. Non nel senso
del leggere come in altri, ma della materia trattata e della sua visione del
mondo. Che in gran parte condivido, ma che, nei risvolti operativi mi lascia,
purtroppo, perplesso. Diviso in tre grandi meditazioni sul mondo attuale, parte
da quelle che chiama vittorie fallaci, lì dove l’Occidente sembra aver
conquistato qualcosa nei confronti del resto del mondo. Per poi accorgersi che,
appunto, questi passi avanti nascondono insidie e pericoli. Passa poi per
quelle legittimità smarrite, che mi fanno tremare rispetto ad un fosco futuro.
Ovunque, ma qui in Italia se ne sente ancor di più il peso, si sregola il
mondo, e poi si pretende uno scettro di potere, che, al più e al meglio, si
fonda solo sull’interesse economico, ma che sta smarrendo il senso del divenire
punto di riferimento. In questa parte, c’è una bellissima, lunga e da me molto
apprezzata, analisi della nascita, crescita e caduta del potere di Nasser in
Egitto. Passando, ed arrivando, a quella guerra dei 6 giorni che non solo fece
da svolta per i Paesi Arabi ma che è di fondamento di alcune delle attuali (e
forse non tanto consistenti) legittimità israeliane. Per finire infine con
quelle certezze immaginarie, che, appunto, ci fanno ipotizzare che il mondo
attuale possa continuare così, senza nessun nostro intervento, a rischio del
suo decadimento ambientale. Anche qui, fa un ragionamento che trovo
lucidissimo: non sappiamo se l’analisi del catastrofismo ecologico sia
corretta, ma se lo è il mondo sta correndo verso la sua rovina, e già i nostri
figli ne subiranno conseguenze; ma anche se non lo è e facciamo qualcosa, la
vita sarà comunque più vivibile. Certo la fine è, come il suo porsi da
intellettuale in questo mondo, un po’ di testa, con l’appello alla buona
volontà ed ai giusti del mondo. Questa è la parte che mi convince meno. Rimane
tutto il bagaglio di ragionamenti sulla convivenza, che ritengo questa sì sia
da approfondire ed allargare. Se l’Occidente e l’Oriente si sforzassero di
applicare all’esterno quei principi che a volte ritengono sacri al proprio
interno, forse si potrebbe trovare una via per il rispetto e la convivenza
reciproca. In grossa parte Maalouf continua a sottolineare quanto avevo intuito
proprio in quel primo viaggio, che soltanto insediando industrie in loco nel
terzo mondo si poteva fare si che si riequilibrasse l’andamento dei paesi che
si stanno evolvendo, senza depauperarli, e senza immettere forze
incontrollabili nei paesi che si stano stazionando. Un esempio mi rimane forte,
quando l’immigrata algerina chiede ad una municipalità olandese di poter
istituire un luogo di raccolta per le donne immigrate. Richiesta legittima, che
poteva permettere di integrare immigrati e di riscattare qualcuna dal giogo del
maschio comunque comandante. E della risposta della municipalità che rigetta la
richiesta, non per un qualche motivo “occidentale” ma per aver chiesto
consiglio all’imam immigrato che lo sconsiglia. Certo la richiesta veniva dal
rispetto verso la comunità, ma questo rispetto diventa in questo modo
controproducente. Una storia da meditare. Come, e finisco en passant, quella di
uno dei pochi colonizzatori europei che sembra aver fatto qualcosa di buon per
ipopoli africani, e che per questo viene ostracizzato e, forse, ucciso dai
poteri coloniali. Quell’italo-francese tal Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, di
cui forse sapete il nome della città da lui fondata. Alla fine, una gradita
lettura, da discutere e portare avanti davanti ad un mezzé con molto arak.
“Contrariamente a quanto si ritiene di solito, l’errore secolare delle
potenze europee non è stato quello di aver voluto imporre i propri valori al
resto del mondo, ma esattamente l’inverso: di aver rinunciato costantemente
a rispettare i propri valori nei loro rapporti con i popoli dominati.” (58)
“Ogni essere ha bisogno che gli si fissino dei limiti. Ogni potere ha
bisogno di un contropotere per proteggere glia altri dai propri eccessi, e
anche per proteggersi da se stesso.” (183)
“Quando un paese è in pieno marasma, si può sempre cercare di emigrare.
Quando l’intero pianeta è minacciato non si ha l’opzione di andare a vivere
altrove.“ (200)
“Una grande lezione del secolo da poco conclusosi è che le ideologie
passano e le religioni restano“ (207)
“Ciò che cerco di dire è che si
passa acanto all’essenziale ogni volta che si tralascia di vedere l’emigrato
dietro l’immigrato. E che si commette un grave errore strategico quando si
valuta lo status degli immigrati in funzione del posto che occupano nelle
società occidentali, cioè spesso in fondo alla scala sociale, anziché in
funzione del ruolo che hanno, e che potrebbero avere cento volte di più, nelle
loro società di origine, quello di vettori di modernizzazione, di progresso
sociale, di liberazione intellettuale, di sviluppo e di riconciliazione” (248)
Benedetto XVI “Caritas in Veritate” Libreria Editrice Vaticana euro 2
[in: 20/01/2010 – out: 15/04/2010]
Da riflettere. E da leggere, a
prescindere. Ne escono fuori due considerazioni: dal punto di vista della forma
e da quello del contenuto. La forma non mi piace, non mi è propria. In ogni
punto si prende e si rimanda ad altro scritto, quasi riportandone passi interi,
come a voler giustificare (spiegare?) il proprio scritto con l’autorevolezza
dello scritto di altri. È un modo che (scusate il paragone irriverente) ho
trovato anche nei libri del mio amico Luciano e che anche lì non mi ha
convinto, mi ha lasciato più dubbi che risposte. Il contenuto ha alti e bassi,
cioè momenti in cui non si può non aderire globalmente ed altri da cui ci si
distacca, altrettanto globalmente. Questi ultimi sono forse troppo legati ad
una visione della Chiesa, una visione della donna, e dello stare insieme, che
non condivido. Ma gli altri mi spaventano, perché se qualcuno fosse realmente
coerente non potrebbe che portarli avanti con tutta la forza che io non penso
di poter mai avere. Dalla visione (mutuata da Paolo VI) della costruzione della
propria vita che dipende sempre e soltanto da noi stessi (e rimandiamo al più
tardo Buber). Dalla spietata analisi dei guasti della globalizzazione con quella
domanda che anche qui leggo e rileggo, senza trovare risposte. Siamo più
vicini, ma siamo più fratelli? Dalle considerazioni (mutuate da Giovanni Paolo
II) sula necessità che i diritti siano controbilanciati dai doveri, soprattutto
negli uomini di potere. Ecco, tutta questa parte etica è di una forza pura,
dove cristalline volontà nella loro applicazione potrebbero di certo portare a
modi nuovi di vivere e di convivere. Quel che di dubbio rimane è la difficoltà
di passaggio tra teoria e prassi (e ricordo discussioni e discussioni che già
più di trenta anni fa anche se in altri contesti facevamo su questo punto). Ed
alcune delle frasi che riporto potrebbero benissimo essere uscite dal libro di
Maalouf. Comunque è stato un bel momento di riflessione leggere questa
enciclica, perché, come diceva Pennac, il lettore ha il diritto di leggere
qualsiasi cosa.
“Paolo VI: ciascuno rimane, qualunque siano le influenze che si
esercitano su di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento
(Populorum Porgressio)” (23)
“il sottosviluppo ha una causa ancora più importante … la mancanza di
fraternità tra gli uomini e tra i popoli…. La società sempre più globalizzata
ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (27)
“Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere
ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della
filantropia dei popoli sviluppati. … Oggi le forze materiali utilizzabili per
far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo,
ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei
Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di
liberalizzazione dei movimenti di capitale e del lavoro” (69)
“Giovanni Paolo II: i diritti presuppongono doveri senza i quali si
trasformano in arbitrio” (71)
“All’uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per
custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con
tecnologie avanzate in modo che possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione
che la abita. C’è spazio per tutti su questa nostra terra … Dobbiamo però
avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove
generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e
ulteriormente coltivarla” (84)
Martin Buber “Il cammino dell’uomo”
Edizioni Qiqajon euro 6
[in: 20/01/2010 – out: 22/05/2010]
Cortissimo,
ma denso di pensieri e di pensate (e sarebbe da riportare tutto, ma scelgo solo
qualche frase qui e là). Buber da buon ebreo inanella le sue storielle
chassidiche per ragionare intorno all’umano ed al divino, e bene ha fatto il
priore Bianchi, deus ex-machina di questa collana di testi religiosi emanati
dal convento di Bose, a porlo qui in bella evidenza. Perché in fondo parliamo
sempre di etica e di comportamento umano. Cioè, almeno io di questo riesco a ragionare
e parlare, scegliendo coscientemente (non è mio compito e non ne sono capace)
di non parlare di altri livelli e piani alti. Allora torna modestamente al
punto che mi ha colpito e che mi fa dire, con Hermann Hesse: “lascerò che
questo libro mi parli spesso”. Il punto è il proprio cammino, il proprio stare
al mondo, il trovare la propria via. Quelle frasi sublimi sono da leggere e
rileggere. Non siamo nati per essere altri Mosè, altri Abramo, altri Marx,
altri Van Gogh, siamo nati per essere noi stessi. Per realizzare qualcosa, che
potrà essere un piccolo granello nel corso dell’umanità, ma se lo abbiamo fatto
credendoci fino in fondo, con tutte le nostre forze, sarà di uno splendore
unico e immutabile per sempre. Perché noi viviamo “dove ci troviamo a vivere”.
Ho letto e riletto questa frase. Ed ogni volta ne trovo risvolti nuovi.
Dobbiamo risolvere i conflitti fuggendo? No, ma cercando di trovarne l’origine
in noi. Dobbiamo trattare malevolmente l’altro, il nostro vicino, perché non è
come vogliamo noi? Ma noi come siamo? Parafrasando un non bel film visto in
questi giorni, “questa è la nostra vita”. Ed anche se andiamo altrove, essa
viene con noi. Non ho fatto molte cose nella mia, bene o male di discreta
lunghezza vita, ma mi accorgo che non è mai stato cambiando gli altri che ho
trovato cammini nuovi e miei da percorrere. Ma sempre cambiando me stesso. O
cercando di capirmi. Cercando di trovare il qui e ora che Maria Luisa tanto mi
ha pregato di trovare. E che si perde con una facilità unica. Come al solito,
divago e parlo di me (tanto lo facciamo sempre anche quando facciamo finta di
parlare d’altro). Dovrei tornare a Buber. Ma non riesco a riassumere le sue 50
pagine in meno di altrettante 50. Con una capacità che trovo inimitabile,
racconta piccole storie (le famose storielle ebree) e facendone le esegesi pone
tanti mattoni sulla via da costruirci grattacieli su grattacieli. E continua
sottolineare, così come fa Bianchi nell’ottima introduzione, il valore, per me
etico, di quanto viene detto. Comportarsi secondo la propria coscienza è un
bene che niente potrà monetizzare. Mi resta solo un consiglio. Leggetelo anche
voi.
“non c’è una via unica, occorre invece scegliere la propria, e
scegliere significa anche rinunciare.” (introduzione di Enzo Bianchi, 9)
“per quanto infimo possa essere … ciò che noi siamo in grado di
realizzare, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a
realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze” (26)
“Nel mondo futuro non mi si chiederà ‘Perché non sei stato Mosè?’ ma mi
si chiederà ‘Perché non sei stato te stesso?” (27)
“bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le
situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di
situazioni presenti in lui e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio
conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo
trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate”
(44)
“Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico
quello che penso e non faccio quello che dico” (46)
“cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come
punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé”
(50)
“C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo … lo si può
chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova … è il luogo
in cui ci si trova” (59)
Mi accorgo di aver più volte
usato l’esortazione a leggere e rileggere queste pagine, ma viene come da un moto
dell’anima, quando una volta sola non riesce a colmare dubbi e risposte.
Ma siamo anche verso la metà di
settembre, finisce il Ramdam, qualcuno viaggia ancora, ed io aspetto la fine
del mese per fare un ulteriore visita in quel di Bruxelles. E cerchiamo di
andare verso la risoluzione di molti conflitti, applicando la massima di Buber.
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