Cominciamo dal Nobel, ribadendo
che gli ultimi premi assegnati dagli Accademici di Svezia mi lasciano
perplesso. Continua a ritenere che un Amos Oz sia molto più meritevole. Ma
veniamo allo scritto.
Herta Müller “Lo sguardo estraneo” Sellerio
euro 9
[in: 20/01/2010 – out: 03/05/2010]
Che
cos’è? Racconto? Riflessioni ad alta voce? Invettiva contro ignoti? E i
collage? Ci si capisce poco, e mi domando: è colpa mia o dell’editore? Anche la
prefazione di Sofri mi ha lasciato perplesso. Parla delle pagine che si vanno a
leggere o dell’autrice in generale? Sofri mi pare parli della seconda, certo
prendendo spunto da quello sguardo estraneo di cui si dovrebbe narrare,
restituendoci un’immagine, quella del fermo cinematografico, che può essere una
chiave della lettura della Müller, se uno ne avesse letto. Questo è il primo
testo dell’ultimo premio Nobel cui mi avvicino, e mi da una sensazione strana.
In alcune parti, alcune frasi prende, avvince, ti fa star lì come quando ti
danno un pugno sulla spalla, ma forte, non da amico. In altre, vaga tra le
parole, ne perdo il filo, non seguo più. Poi ogni tanto, sulla pagina destra
compare un collage di parole e disegni (fortunatamente con la traduzione in
calce che si sa che il tedesco non è proprio il mio forte). E lì sono proprio
fuori. Lo leggo, non lo capisco e soprattutto non ne capisco il legame con il
resto. Ci sono momenti che il resto, quello che almeno capisco, scorre, ne
percepisco l’andare, lo sforzo di comunicare questa sensazione di vuoto che si
aveva un dì al di là del muro. Perché poi, nel mio inconscio, ruota tutto lì.
Alla vita insensata che si poteva vivere in un mondo insensato. Ma ora, qui,
per caso sta tornando? Ora, qui, nel mondo che sempre è stato libero, quanto ci
sta diventando il contrario di familiare? Vedo gente parlare di cose
televisive, di sport, di ruberie, di un mondo che dovrebbe essere familiare, ma
che non capisco, o non capisco più. Mi diventa estraneo? Forse ridiventa
familiare, quando diventa ignoto, quando si va da un’altra parte, lì dove sono
sempre diretto, altrove. E nell’altrove di Tunisi, di Granada, di Timbuctù, il
mondo mi torna familiare. In finale la Müller cerca di spiegare anche il
fulmineo sottotitolo, ma a me ritorna l’ansia del collage. Perché “la vita è
una scorreggia in un lampione”? Alla fine, appunto, mi viene il sospetto che,
nell’ansia delle celebrazioni l’editore si sia trovato questa trentina di
paginette tra le mani ed abbia deciso di pubblicare così, tanto per sfruttare
il momento. Insomma grosso punto interrogativo. E non so se cimentarmi in altre
sue letture. Per ora si ha tanto arretrato poi si vedrà.
“Per me estraneo non è il contrario di noto,
è il contrario di familiare. Ciò che è ignoto non dev’esserci necessariamente
estraneo, ma può diventarlo ciò che è noto.” (32)
“Dovevo guardare con attenzione, il che non
significa necessariamente vedere. Soltanto dare contemporaneamente un senso a
ciò che si è guardato significa vedere” (38)
Passiamo
ora alla (per me troppo) esaltata scrittrice francofona.
Muriel Barbery “Estasi culinarie” E/O euro
8
[in: 21/03/2010 – out: 05/05/2010]
Per
quanto il riccio mi era piaciuto fino ad un certo punto, questo mi ha lasciato
al quanto indifferente. Cominciamo dal titolo orrendamente tradotto: “Une
gourmandise” l’avrei reso con “Una ghiottoneria” che è quella che va cercando
il grande esperto di cucina sul suo letto di morte. Perché le estasi culinarie
ci sono, vero, ma sono il filo su cui scorre il racconto. Una serie di
siparietti in cui il sempre grande critico ci fa immergere in sapori, trovando
le auliche parole per raccontarli. Ma non si capisce (o non capisco io) quanto
ci sia di ironico (perché l’uso di quelle metafore potrebbe indurre) e quanto
di falsamente vero. I grandi critici culinari si riempiono letteralmente la
bocca di queste parole, di assonanze, di rimandi, per cercare di “suscitar nel
cuor la meraviglia”, quando il cibo lo suscita di per sé, senza bisogno di
grandi voli (e leggete quando parlo del buon Sapo in altre trame per un
confronto). Per esemplificare ne riporto il brano sul crudo giapponese: “ Il
vero sashimi è croccante, eppure si scioglie sulla lingua. Invita ad una
masticazione lenta e flessuosa che non ha lo scopo di far cambiare natura
all’alimento, ma soltanto quello di assaporarne l’aera morbidezza. Già la
morbidezza: né morbidezza né mollezza, perché il sashimi, polvere di velluto
simile ala seta, porta con sé un po’ di entrambe e, nella straordinaria
alchimia della sua essenza vaporosa, mantiene una densità lattiginosa che le
nuvole non hanno.” Ecco, dopo alcune pagine di questa scrittura mi viene voglia
di farne un falò, utilizzando il gambero rosso come combustibile. Ma certo,
direte voi, questa è una delle nervature della storia, perché l’altra, la più
importante (secondo i critici esimi) è quella del contraltare tra il delirio
culinario del morente, e le persone che lo hanno accompagnato in vita. La
moglie, i figli, l’amante, la cuoca, i detrattori, gli estimatori, financo la
portinaia Renée (che ben altro spessore avrà nel Riccio). Perché l’idea è
quella di tessere una trama in cui alla fine si possa in controluce vedere la
complessità della persona umana. Non c’era bisogno di tante pagine (anche se
non sono molte) per dimostrare che
ognuno di noi è diverso nella percezione che ogni altro ne ha. E soprattutto
nella propria auto-percezione. Facciamo fatica a conoscere noi stessi? Non sappiamo
chi siamo? Come direbbe la mia maestra Maria Luisa, facciamo a questo punto un
bagno di realtà, e piuttosto che sbudellarla anche in punta di penna,
viviamola. Insomma, l’ho trovato inutilmente pesante, senza un grosso filo
conduttore, una prima scrittura acerba, che sboccerà nel successivo riccio, ma
che qui mi ha francamente annoiato. Un solo punto mi ha rimandato uno sguardo
non estraneo (si vede che ho letto la Müller, eh?, ma si vede anche che la
Muriel è nata in Marocco), ed è quando descrive paesaggi di Rabat, che mi hanno
riportato al bell’albergo che frequentai con vista sul Mausoleo di Hassan.
Tutto il resto, è califaniamente noia.
“Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli
che non ti amano.” (40)
“Mi ricordo la magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa
dalla quale contemplavamo Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che
scorre sotto i bastioni; le stradine variopinte della Medina; le cascate di
gelsomino sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia
dal lusso dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il
sole, che è diversa da tutte le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo
spazio in modo differente … e il pane marocchino, preludio folgorante alle
unioni carnali.” (75)
“Tutti pensano che i bambini non sanno niente. Viene da chiedersi se i
grandi siano mai stati bambini” (79)
Finiamo con l’onesta scrittura
giapponese.
Banana Yoshimoto “Presagio triste”
Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 5,20 euro)
[in: 23/04/2010 – out: 10/05/2010]
Soliti
tocchi da dipinto giapponese, un discreto incastro, forse un po’ “molle”.
Certo, sembra un po’ risentire i più di venti anni dalla sua composizione (è
del 1988), ma questo non fa che ricordarci che Banana è da tanto che scrive.
Appunto la storia è basata su pochi fatti e su molte atmosfere. Anche se
rispetto ad altre prove, ci sono più fatti che altrove. E soprattutto ho
apprezzato quella “discesa in abisso” che ci fa sentire come in una scala a
chiocciola in discesa dove cominciamo a scendere abbagliati dalla luce. Poi al
primo giro il buio. Si comincia ad aver paura di cosa può succedere. Ma siamo
già al primo pianerottolo, e ci si aprono le prime agnizioni. La figlia non è
figlia, ma adottata. E poi ancora giù, pianerottolo verso pianerottolo, una zia
che è una sorella, un fratello che non è un fratello, un bacio che potrebbe
essere. Si arriverà in fondo? Ad ogni giro di scala, alcuni nuovi fatti si
vanno sommando, portandoci a capire la tristezza di fondo che permeava la
protagonista fin dalle prime pagine. Il dolore di sapere i propri genitori
“biologici” morti, ed il dolore, altrettanto grande, di non venir edotta che i
genitori attuali sono adottivi, si potranno mai superare? Belle mi son
risaltate le descrizioni della zia-sorella, con la sua dirittura, la sua
alterità, il suo essere comunque sé stessa senza compromessi. Certo ci si può
trovare enormemente soli in questo stato di cose, ma chi sa stare con sé
stesso, non sarà mai solo. Avrà sempre altro da fare. Un po’ scontato il
rapporto fratello-sorella, con la dolcezza ed il supporto reciproco. E ritorno
quel grande punto interrogativo della differenza tra biologico e naturale. Dove
questo scavalca quello? Grazie Banana per avermi fatto riflettere su questo
grande tema, che da sempre occupa una parte delle mie riflessioni. Il resto non
è poi a livello di altre prove successive, con un finale “minimalista” che non
mi ha dato molta soddisfazione. Ma una buona lettura, mentre aspettavo di
capire, nell’aeroporto spagnolo, se le ceneri islandesi mi facevano volare.
“In realtà, si scappa da casa quando si ha un posto dove tornare” (39)
E mentre redigo queste linee, in
un’altra donna mi imbatto, avendo avuto l’idea di vedere il film della Coppola
premiato a Venezia. E mi viene facile accumunarla alle prime tre, perché
anch’essa (forse come la Barbery) mi ha ben deluso: un film lento, con poche
idee molto diluite e sostanzialmente inutile.
Il vostro criticone qui si
accomiata andando a preparare le valigie per la lunga trasferta belga, speriamo
almeno foriera di qualche buon risultato.
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