Cominciamo allora on il bolognese
Enrico, che non poteva che scrivere anche di Vasco.
Enrico Brizzi “La vita quotidiana a Bologna
ai tempi di Vasco” Laterza euro 10
[in: 04/09/2009 – out: 14/03/2010]
Un
po’ ambivalente. Bella, intensa, la prima parte sulla giovinezza bolognese. Un
po’ palletta la parte finale sulla Bologna odierna. Ne capiamo i problemi, ma
poi si perde il filo di Vasco e diventa un pamphlettino sui mali odierni. Senza
più lo scanzonato che si aggira per una Bologna che comincio anche a
riconoscere. Sempre grazie comunque all’idea di questa collana ControMano, che
continua a portarmi in luoghi e situazioni italiche che si devono vedere. Che
senso ha, altrimenti, andare in giro per il mondo e rifiutarsi di girare anche
l’Italia? Ed allora, ben venga questa Bologna, che nasce e cresce ai miei occhi
sull’onda della musica di Vasco, che fa da sottofondo alla nascita e maturità
del bolognese Brizzi che nasce e cresce sull’onda dei successi di Vasco.
Infatti, Enrico è del ’74, e ricordo anche io, i primi anni ottanta, con le due
apparizioni da ultimo in classifica di Vasco, con due canzoni che, diciamolo,
hanno uno spessore rispetto a tutta la produzione sanremese di ben diverso
tono. Ohi, stiamo parlando di “Vado al massimo” e “Vita spericolata”, mica c…i.
E mentre Rossi spicca il volo dalle discoteche agli alti lidi attuali, Enrico
fa altrettanto verso i suoi (e come dimenticare l’emozioni che si può provare
quando Brizzi, maturo del suo primo libro, non a caso con la citazione sugli
Red Hot Chili Peppers, intervisterà il suo mito?). Ma narrandoci nel contempo
l’evoluzione cittadina e storica della sua città, che passa dal comunismo duro
e puro ai guasti del macellaio Guazzaloca. Nell’ultima parte, l’ansia di dire
qualcosa sul e contro il degrado di una città che si sente essere amata da
Brizzi, un po’ fa perdere il filo. Fermiamoci qui, allora. Usando la mappa
della sua evoluzione come mappa per andare in giro in questa città che per
molto tempo ho misconosciuto e che ora, grazie anche a Luana ed altre locali
conoscenze, recupero e riporto a dimensioni a lei più consone. Partendo da
Porta Saragozza, e poi snodandosi dal Dall’Ara a Piazza Maggiore, da Piazza
Santo Stefano all’Arcoveggio, per finire (oh bella) sempre dalle parti di Porta
Mascarella… Buona lettura.
“Credetti di intuire che gettarsi nelle situazioni a testa bassa
potesse essere una buona tecnica per non covare rimpianti.” (77)
Continuiamo verso il Nord, in una
quasi dimenticata Trieste.
Mauro Covacich “Trieste sottosopra” Laterza
euro 9
[in: 20/01/2010 – out: 07/05/2010]
Sempre
ottima la collana Contromano. E dopo la lettura di Covacich vien voglia di
tornare nella città giuliana da cui si manca da molto tempo, magari per
guardarla con questi occhi interni, tra il Castello, il Caffè, l’acqua e le
osmizze. Inoltre, in questo volume della serie si ritorna un po’ alle origini,
a quel raccontare la città da parte di chi la vive, mettendoci, ed è ovvio,
ricordi ed immagini, ma con un onesto bilanciamento tra i due. Nella prosa di
Brizzi su Bologna, ad esempio, c’era molto di lui ed anche della città, che però
diventava una sua appendice. Qui abbiamo Covacich che comunque è presente, va
in giro, parte dal castello di Miramare, passa alle spiagge rocciose dove si va
ad appartarsi, non si dimentica i momenti duri della Risiera di San Saba o
delle foibe, entra ed esce per i caffè, si aggira cercando Svevo e trovando
Joyce, restituisce con durezza la storia del deportato di Piazza Oberdan, sale
a Villa Revoltella, ed alla fine si perde a cercare il vino della casa nelle
osmizze collinari (e qui ci vuole una digressione perché questi “locali” mi si
ricollegano alla descrizione letta da non molto nei libri del tedesco triestino
Heinichen dove proprio tra le osmizze si aggira per cercare quieta alla calura
il buon commissario Laurenti, e leggendo di Trieste scritta da un triestino,
riapprezzo quella che sembrava falsa ma che invece di gemella a questa scritta
da un tedesco). Ed in quest’essere presente non si dimentica di sé stesso,
della sua infanzia nei ricreatori (e non oratori, da bravi asburgici laici)
fino alla tenerezza delle nonne istriane costrette a fuggire dai “titini”, ma
che conservano un’umanità immutabilmente dolce pur nel dolore. Ma nel contempo
ci fa vedere la Trieste di oggi, quella che lui chiama con una felice immagine,
la Trieste di Sissi con il piercing all’ombelico (e bella è anche la
digressione sulla principessa). Ovvio (ma chi mi sa non ne poteva dubitare) che
mi ha incuriosito tutta la parte sul caffè e sui caffè. D’altronde non ci si
dimentica che resta sempre la patria di Illy! Insomma un bel libro che riesce
ad accompagnare una visita non rituale ad una città strana, che come ho detto
sopra, meriterebbe di essere tornata a visitare (per finire una buona volta
quel carrello di bolliti che ancora mi torna alla memoria). E non perdetevi le
prime pagine sulla bora, e sul suo utilizzo per misurare la veridicità
dell’informazione televisiva.
Finiamo con il “paesologo”, cioè
il descrittore (parlatore) di paesaggi.
Franco Arminio “Nevica e ho le prove”
Laterza euro 9,50
[in: 21/03/2010 – out: 04/08/2010]
Il
primo ControMano che mi delude un po’, almeno questa è la sensazione che provo
appena chiudo il libro. Non conoscevo Arminio, di cui si parla bene per la sua
prova precedente (“Vento forte….”) dove dispiegherebbe la sua vena di
paesologo. Ma quello non l’ho letto, e questo mi fa rimpiangere il non aver
approfondito a suo tempo l’analogo ma molto più accattivante libro sui matti di
Palermo scritto da Alajmo. Arminio (che ben si capisce ipocondriaco e che ai
miei ipocondriaci amici consiglio) passa dai luoghi alle persone, cercando di
narrare la vita, com’è scorrendo in modo altalenante brevi periodi fulminanti e
lunghi pezzi, un po’ contorti (come quel Diario del porno ansioso che mi ha
lasciato molto perplesso). E dai matti di Alajmo qui si passa ai morti, con
quell’ansia dell’inesorabile morire che porta l’autore (o meglio l’io narrante)
a vivere una navigazione perigliosa intorno alla sua vita, cominciando da
monologhi ed andando sempre più affollando di personaggi e di voci la scena di
questo paese senza posto e senza tempo, che però è senz’altro avvelenato dalla
cicuta, come il nostro. Pessimismo totale, dove i vecchi si decrepitano ed i
giovani non diventano adulti. Come quell’epitaffio doloroso e straniante sulla
morte di A., rinchiuso in una silenziosa agonia, silenziosa come tutta la sua
discreta esistenza. Certo, si nota il poeta, l’utilizzatore della bella frase,
la cura per la parola. Ma l’effetto non è costante. La resa a volte lascia
desiderare, anche se sempre viene fuori il dolore di vivere. La delusione viene
dall’accumularsi di sensazioni dolorose, che non lasciano nulla, che trapassano
e feriscono, ma senza vederne una volontà alcuna. Ferire per curare? Colpire
con uno scopo? Alla fine non lo capisco. Rimangono così mini-racconti del vuoto
di vivere, di cui non amo la brevità e non comprendo lo scopo. Forse (e questo
potrebbe essere un elemento di giudizio) non è in sintonia con la voglia di
sole che ho in questo momento. Lì nevica, ma io preferisco il deserto. (Per
inciso ed in conclusione, comunque ammiro Arminio per il suo impegno civile in
difesa del paesaggio come testimonia il suo blog “Comunità provvisoria”).
“Speravo di arrivare alla vecchiaia con un pessimismo luminoso … ma
nessuno arriva in luoghi diversi da quelli in cui è partito, siamo sempre gli
stessi. … Io sono sempre uno che voleva cambiare la sua vita, adesso ho capito
che la mia vita è stata sempre la stessa” (54)
“Certe volte non litighiamo con gli amici perché abbiamo paura che poi
viene poca gente al nostro funerale” (101)
Che dire di quest’altra settimana
tormentosa? Non so perché ma mi viene alla penna un augurio di tranquillità,
per tutti. Per chi si imbarca in nuove imprese e per chi le termina. Per chi
parte e chi ritorna. Per chi cerca sempre la sua strada. Per chi la sta
trovando.
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