venerdì 30 marzo 2012

Indignati - 08 dicembre 2010

Come da qualche festa in qua, approfitto di questa infra-settimanale per smaltire un po’ di arretrato. Ed approfitto anche del momento di malumore generale e di disagio mio, per affrontare dei libri appunti indignati. Contro il razzismo strisciante, contro le rotte dei clandestini gestite dai ricchi della terra, contro le mafie, contro la mafia, contro il distorto modo di vedere e affrontare il futuro.
Cominciamo dal siciliano di cui altro scrissi per una sua prova romanzata, e che qui si trova a parlare della degradazione sottesa all’immigrazione clandestina.
Davide Camarrone “Questo è un uomo” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato 8,50 euro)
[in: 03/04/2010 – out: 25/06/2010]
Breve, brevissimo, si legge in una sera, ma rimane addosso. Un leggero apologo (leggero per numero di pagine non per intensità) sul problema dell’immigrazione clandestina e su tutte le problematiche connesse. Anche qui si cerca di entrare dalla parte degli altri, non con la lievità anche se dolente di quel CPT con vista stadio, letto un paio di anni fa. Né con quella crudele verità dei reportage dal vero, di quelli che, se non li avete letti, bisogna leggerli: dal primo, il più antico, “Faccia da Turco” di Günther Wallraff del 1984, all’intensissimo “Bilal” di Fabrizio Gatti, passando per “I fantasmi di Portopalo” di Giovanni Maria Bellu. Qui siamo in realtà, dalla parte della finzione, si narra non si descrive, m ogni parola pur se inventata può essere, (è) forte come un pugno nello stomaco. Dove si narra dell’Odissea del nero Boucouba, giornalista laureato in Inghilterra di passaporto italiano, che, da reporter del “Corriere della Sera” decide di far il viaggio inverso, da clandestino, verso le origini delle vie del dolore. Riuscendo a vedere cose che altrimenti sarebbero “nascoste” proprio per quel suo essere di colore. Ciò che vedrà e scriverà è quello che tutti sappiamo esserci in questa degradazione del mondo. La lotta per la vita, il sopruso del debole sul più debole, il sotterraneo mondo di chi poi in queste miserie trova il proprio tornaconto, e la propria ricchezza macchiata di sangue. Tanti, troppi. Viene una rabbia sorda, di impotenza, mescolata al fatto che, con l’altra parte del cervello sto leggendo Gomorra ed altra rabbia si accumula. Cosa si può fare? Come fare perché le parole possano aiutare ad uscire da questo budello di orrore? Da questa miseria infinta, che a Camarrone ricorda (e ci ricorda) quegli orrori segnalati dal titolo del racconto. Da quel rimandare a Levi ed alla sua cruda storia della deportazione nazista. Che pena, aver trascorso anni ed anni a cercare il filo della giustizia e ritrovarsi qui, ora, in questo millennio da poco iniziato, dove ancora la giustizia è ben lontana da essere non dico raggiunta, ma intravista. Dove non si riescono più ad avere strumenti per ribaltare a spallate questo stato di cose. Un ulteriore merito del libro, passando ad un tono più “leggero”, è la descrizione della vita e della storia di Fatima, la donna-memoria, la “griotte” di etnia Woloff cui vengono lasciate le tracce degli accadimenti del mondo da chi non può trovare altro modo di comunicarli, di tramandarli. Con quella bella descrizione della genesi del termine “griot”, il cantastorie che gira lungo il fiume Niger, derivante il suo nome dal portoghese “criado”, servo, come “criate”, domestiche erano le fantesche in terra di Sicilia. Ecco, voglio finire con questo tocco di speranza, che le parole di uomini e donne memoria riescano a non farci dimenticare mai quello che sta accadendo.
Ma come dicevo con l’altra metà del cervello leggevo Saviano, che ho finito pochi giorni dopo.
Roberto Saviano “Gomorra” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[in: 21/03/2010 – out: 29/06/2010]
Parafrasando un suo passo, alla fine di questa  emozionante lettura, mi viene da dire “Io so. Ma non ho le prove”. A quasi 4 anni dalla sua uscita, ho aspettato di poterlo leggere senza l’urgenza mediatica e con la sua uscita in economica scontata. E nel frattempo, non ho neanche visto il film. Ebbene, se ne esce sconvolti. Perché sono fatti alla luce di tutti, eppure lì nero su bianco, e messi tutti insieme raggiungo una forza dirompente. Dove purtroppo non si sa cosa fare. Lo sappiamo, quello che succede in Italia. Lo vediamo tutti i giorni, nei tribunali, negli uffici pubblici (un giorno vi narrerò le vicende dell’INPS di Piazza Augusto Imperatore), nelle televisioni, nei giornali. Ma pochi hanno il coraggio della maestra di Mondragone, che non abbassa la testa, che vede gli assassini, che li denuncia. Lei, una rosa nel deserto. E come quelle rose, dopo la denuncia, rimane nel deserto, abbandonata dal fidanzato, dagli amici, dalla città. Da incorniciare, e far discutere in tutte le scuole e gli oratori, le pagine così dolenti e grondanti di pianto e rabbia, dove si narra la storia del martire Don Peppino Diana! Le storie che ci racconta Saviano, ormai in questi 4 anni sono diventate oggetto di discussione, e non hanno il sapore della novità. Sappiamo tanto anche del sarto di Arcella, dell’AK-47 di Massimo, delle morti assurde a 15 anni. Ma non è questo che mi ha colpito. Un pugno lo dà l’intrecciarsi di tanti fili, che non si riesce a sbrogliare. Lo dà la rabbia. Ed uno, definitivo, lo dà l’arroganza del potere. Come togliersi dalla testa le ultime pagine sulle discariche napoletane e sulla demagogia che poco dopo ne tira fuori il Silvio Imperator! Come togliersi dalla testa (Io so, non ho le prove) che ci sia stata anche una lotta tra mafia (che appoggia la politica) e camorra (che appoggia l’economia)? E come qualcuno abbia preso a cuore gli interessi di… E qui lascio puntini perché, non ho le prove. Ho messo tutte le stelle possibili per dare il mio parere su questo libro. Per il coraggio ed i contenuti. Meno per la scrittura, dove dal punto di vista “solamente letterario”, a volte si incarta un po’. Certo un peccato veniale, che gli perdono facilmente, cercando di salire con lui sulla sua vespa con il naso all’aria e l’occhio vigile, per vedere quello che succede a Casal di Principe, a Mondragone, a Villa Literno, fino ai posti a me comunque cari del litorale domiziano (dove ho visto con i miei occhi le ville bunker ed altre oscenità). Un libro da leggere e rileggere per trovare il modo di fare. Ottime le cinquanta pagine finali, dove vengono riportate recensioni del libro apparse in varie parti del mondo. Così apprezziamo anche la diversa ottica con cui si guarda a questa scrittura, da quella appassionata e partecipe di francesi, tedeschi e nord-europei a quella straniante dell’America, il cui cruccio maggiore è non sapere se etichettare il libro come “fiction” o “non-fiction”. Quanto è importante per gli anglo-sassoni mettere etichette. Soprattutto ad un libro che è tutto il contrario di qualcosa etichettabile. Che denuncia, usando i toni del romanzo e la scrittura di un saggio. Peccato manchino i commenti italiani, in particolare di quei giornali che sostengono il libro aver dato un’immagine distorta del nostro bel paese. Ma gli editori di quei giornali sono anche editori del libro… Mi verrebbe allora da dire, boicottiamo gli interessi perversi che intrecciano capitali leciti ed illeciti. Smettiamo di guardare la televisione. Smettiamo di comprare libri Einaudi e Mondadori. Smettiamo di fare la spesa nei super-market “chiacchierati”. Chissà fino a dove dovremmo continuare a smettere. Avremo la forza di farlo? Non lo so, poi penso alla maestra e mi dico: c’è ancora qualcuno con la coscienza civile di tirare fuori qualcosa. Di non mettere la testa sotto la sabbia. Speriamo, speriamo, speriamo.
“Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere” (323)
Zygmunt Bauman “Vita liquida” Laterza euro 8,50 (in realtà, scontato 7,23 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 19/09/2010]
Bello, e difficile, come tutti i libri di Bauman. E con la solita “colpa” (ma che deriva sempre dalla mia speranza) di non avere poi soluzioni. L’analisi è circostanziata, si fa (passo dopo passo) un viaggio su alcuni aspetti del mondo attuale (la cosiddetta modernità) ma poi… Certo, forse non è questo il suo compito, e forse avere (e dare) degli strumenti che permettano di leggere i motivi degli attuali accadimenti è già un bel passo. Partendo sempre dal concetto di fondo della sua analisi (il mondo attuale è liquido, cioè si muove e si adatta alle forme del contenuto, e non più solido come era lo stato di cose precedenti che prevedeva la visione inversa e cioè che erano le cose che si modellavano intorno all’esistente) guarda ad una serie di fatti, cerca di rivoltarli per farceli vedere a tutto tondo, e mentre lo fa, capisco (o intuisco) alcuni malesseri che vivo (che viviamo). Anche perché il motivo aggiuntivo di questo scritto rispetto ad altri è per me l’accento che viene posto sulla commercializzazione degli aspetti della vita. Ogni capitolo, come detto, guarda ad un aspetto attuale e lo approfondisce: si parte ad esempio dal concetto di individuo, quello per cui ci veniva detto che essere individui significa essere diversi gli uni dagli altri. Ma la vita liquida è una vita di consumi, e quindi l’individuo deve diventare altro, ma non massa, quanto diverso eppur uguale, di modo che cercherà nell’esteriorità di un qualche segno di distinguersi. Ma anche altri lo faranno. Ed allora bisogna essere veloci, cambiare, riciclarsi. E dare vita al grande problema dell’età moderna: dove mettere le cose che si consumano? Mi torna in mente come esempio mio di questo passaggio alla liquidità l’affermarsi dello “Swatch” rispetto all’orologio tradizionale e “per sempre”. E quindi altri passi dolorosi: il bisogno di essere celebri quindi, ma non per qualcosa di solido, ma per la notorietà stessa (che bella tautologia), passando per una forte fase di vittimismo (non sono il grande “eroe” che potrei essere perché tutte le cose congiurano contro di me). E quindi il consumatore diventa il perno della nostra società, e per rafforzarne i connotati bisogna diminuire sempre più la soglia dell’inizio del passaggio da persona a consumatore, aggredendo sempre più ferocemente e mercificando quindi anche l’infanzia. E perché tutto si possa tenere, anche l’educazione deve entrare nel circolo del profitto, perché altrimenti porterebbe ad uno sviluppo di una cultura che in quanto tale non può che contrapporsi allo stato delle cose. Allora via andiamo anche a cercare di rendere profittevoli anche gli istituti culturali, e se poi non lo fanno (e non lo possono fare) come non aspettarsi che ci siano scuole che non hanno più soldi neanche per i banchi e fanno lezione per terra. E poi un altro sottoprodotto: la paura. Prima gli individui si aggregavano in comunità e creavano “luoghi” che si fortificavano per paura degli attacchi esterni. Ora che ognuno ha paura dell’altro, si rovescia il sentire, e ci si fortifica nel cuore delle città per lasciare lì il momento violento e noi fuggire altrove, dove non ci sia la paura di essere aggrediti. In una parola, a me veniva la visione di una mancanza di “stelle fisse” che ci illustri la via da seguire. Ora sono stelle mobili, e solo chi le cambia di continuo riesce a vivere in questa realtà. Ma cosa dobbiamo augurarci che venga dopo? Qui mi sono fermato, ed ho fatto un passo indietro anche io, perché molti di questi passi, mentre li leggevo mi hanno fatto fermare a riflettere. Riflettere sulla difficoltà di stare, sul malessere che ci pervade. Da dove viene questo senso di impotenza, di fragilità? Perché pur essendo in grado di fare, di dire, di, in un certo senso, agire, ci viene un sentimento di sconfitta? Bauman, ripeto, non da risposte, non le da mai nei suoi scritti. Lui analizza i meccanismi a volte nascosti nella nostra vita quotidiana. Ma proprio mentre ne discetta mi scatta qualche lampo (pochi che ormai siamo incapaci di avere quelle folgoranti visioni che un tempo ci illuminavano tutto). Qui, ora tutto è veloce, tutto è fatto per essere consumato e dimenticato. Anche la cultura. Ecco ci siamo, ci ritorno, è il punto che più mi duole. Noi si era adusi avere un concetto di cultura in un certo senso trascendente. Qualcosa di solido, con cui raffrontare, confrontare il nostro poco essere attuale. Ma il solido c’era. E nella nostra lotta quotidiana contro l’annientamento, contro la dimenticanza, era un faro, una meta non da raggiungere, ma a cui volgere sereni le nostre imbarcazioni. Ora, quei fari scompaiono, perché la liquidità non vuole cultura stabile, ma transiente. Come dice in un passo, parlando d’altro: “si è celebri per la propria notorietà”. È agghiacciante! Non si costruiscono edifici duraturi, ma momenti, fugaci visioni. Eventi, come direbbe Maria. Passato l’evento, si volta pagina, si cerca, si fa altro. E noi che l’avevamo preso a modello, lo vediamo sparire, sostituito velocemente da altri modelli, ma non abbiamo la loro velocità. Noi si rimane indietro. Diventiamo anche noi obsoleti. Questo non può che portare angoscia, insoddisfazione, incapacità di capire. Non può che portarci a stare male, ed a dubitare di tutto quello che facciamo. Perché quello che facciamo non è funzionale al mondo in cui viviamo, ora. Lo è in quello in cui abbiamo formato la nostra cultura (sì, propria quella). Ma non accattiamo di vederla cancellata ad ogni giro di lancetta. E quindi, alla fine, non possiamo che stare male. Perché io non rinuncio alle mie stelle fisse, e verrò, inesorabilmente, emarginato. Mi sa che ne dobbiamo parlare e parlare e parlare.
“Adorno: il pensiero non è la riproduzione intellettuale di ciò che comunque esiste” (160)
“prima ancora di essere homo sapiens, creatura che pensa, l’uomo è una creatura che spera” (175)
È il giorno che si fanno alberi e presepi, è un giorno di riposo primo dello slancio verso i turbini natalizi e capodanneschi. È un giorno in cui, nonostante tutto, mi sento in pace. È un giorno a cui, con molta riconoscenza, penso ai miei amici e li stringo forte per affrontare, buone o cattive, le sorti che verranno. È un giorno in cui solo alle cose buone darò peso.

Nessun commento:

Posta un commento