mercoledì 27 dicembre 2006

SETTE

La platea delle trame si allarga e do il benvenuto ai nuovi lettori.
Vediamo un po’, allora, se oggi si riesce a parlare di qualcosa di meno triste.
Parlo di Erri De Luca “Tre cavalli” Feltrinelli euro 6,50.
De Luca è uno scrittore strano. Ne conosco il nome dai tempi delle lotte e dell’università. E ne conosco alcuni scritti che ogni tanto leggo. Scrive in modo agile, svelto. A volta usa immagini che non mi appartengono e ci sono libri che non sono riuscito a leggere, che mi hanno respinto. Altri che mi portano a rileggerlo.
Questo è uno di quest’ultimi. La storia (che al solito non racconto) prende le mossa da un detto popolare (credo ligure): “tre anni, una siepe; tre siepi, un cane; tre cani, un cavallo; tre cavalli, un uomo”.
Questa è la durata della nostra vita. E De Luca narra in presente e flashback di almeno due cavalli. Vita strana, errabonda, dolorosa, gioiosa. Un po’ come tutte.
E leggendo mi domandavo dei miei cavalli.
Ma c’è un altro pezzo, che mi ha colpito e voglio condividere con voi. In un suo momento di ricordi (andando in treno), ripensa alla giovinezza. Ed in poco più di una pagina mi ha fatto rivivere le gioie dei momenti di amore, che tutti abbiamo avuto, abbiamo e d avremo.
Buona settimana a tutti con i tre cavalli
 
A vent'anni tento qualche amore scarso. Per una ragazza mi piglia desiderio di andare insieme a un ci­nema, per un'altra di passeggiare in un'altra città. Le cerco, mi evitano, scrivo loro qualche lettera.
Mi mancano ma non smuovono amore.
Mi scordo di loro imparando a scalare montagne.
Poi incontro Dvora d'estate.
Ci sono creature assegnate che non riescono a in­contrarsi mai e s'aggiustano ad amare un'altra perso­na per rammendare l'assenza. Sono sagge.
Io a vent'anni non conosco gli abbracci e decido di aspettare. Aspetto la creatura assegnata. Sto vigile, imparo a scorrere le facce di una folla in pochi istanti. Ci sono sistemi che insegnano la lettura veloce dei li­bri, io imparo a leggere una folla al volo.
La setaccio, la scarto tutta, neanche un grano di quelle facce resta nella retina. So sempre che lei non c'è, lei, la assegnata.
Non ho un ritratto in testa da far combaciare so­pra una faccia, no, l'assegnazione non dipende dagli occhi, anche se non so da cosa. Aspetto d'incontrarla per saperne la figura.
Aspettare. Questo è il mio verbo a venti anni, un infinito asciutto che non sbrodola di ansia, non sbava speranza. Aspetto a vuoto.
Incontro Dvora in montagna. Io sto sulla parete del pilastro della Tofana di Rozes. E mezzogiorno e la mia cordata di due sta nella sezione dei tetti.
Dvora sale una via ferrata dirimpetto al pilastro. Sbuca da dietro e in un punto si trova affacciata da­vanti alla muraglia dove due omini stanno in piena parete collegati a una corda spessa un centimetro, che da lontano deve sembrare un filo per i panni.
Io sto faccia alla roccia e sto scavalcando il secondo tetto. Quando gli pianto il piede sopra Dvora grida il suo saluto, limpido più del mezzogiorno: "Olé". La vo­ce mi piglia alle spalle e io la riconosco, è lei, la mia asse­gnata, lo so subito e mi pare anche di saperlo da prima che non è una faccia, ma una voce il segno che aspetto.
E mi volto verso l'alto e c'è solo cielo e verso il basso e c'è il vuoto e lei dalla cima di fronte ripete lo squillo del suo olé e alza un braccio e io torco il collo e vedo un puntino di vita che sta dritto su un abisso di rocce sfasciate.
E mi levo il fazzoletto dal collo e lo sbatto mentre sto ancora in linea di strapiombo e non importa se l'al­tro braccio soffre a reggere per due e a non salutare.
E poi lancio in aria il fazzoletto rosso e quello pla­na e precipita come un'ala colpita.
E grido anch'io olé e il compagno di cordata stril­la di sbrigarmi ad arrivare a un ancoraggio, ma io so dire e fare solo olé per un minuto e poi grido il nome del rifugio dove si scende di ritorno dalle scalate. E non la vedo più.
Tocchiamo cima in due ore, dopo un'arrampicata sforzata veloce. Ci buttiamo in discesa come quando scaricano i fulmini e invece è primo pomeriggio e sole pieno. E arriviamo al rifugio, lei non c'è. Il mio compagno se ne torna a valle. Io resto seduto, spalle alla
porta perché aspetto la voce.
E arriva. Ecco Dvora, sento api nel sangue, un orso nel cuore, ogni battito è una zampa che sfascia l'alveare.
Mi da la mano, io so che non gliela lascio più
.”

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