domenica 1 aprile 2012

I primi decenni… - 19 dicembre 2010

… del secolo scorso. Libri datati, ma sempre validi, chi più chi meno, ovviamente. Ma tutti e tre mi aiutano ad iniziare questa settimana natalizia. Il buon londinese che viaggiava negli anni Trenta mi riporta alle atmosfere dei miei viaggi. Il grande californiano anche lui, inconsciamente, mi riporta ai viaggi, che il libro mi fu consigliato dalla mia sorellina durante uno di questi. La buona viennese, infine, mi riporta a quell’indimenticato film che tante volte vidi in gioventù.
Ma cominciamo con ordine, e con ordine viaggiamo.
Evelyn Waugh “Quando viaggiare era un piacere” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato 8,25 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 05/08/2010]
Ed era cosa buona l’andare, più che il viaggiare come si intende ora (e dice il titolo originale “going was good”), in quegli anni trenta per chi poteva ed era curioso del mondo. E sapeva renderlo in modo efficace, da ottimo scrittore quale sicuramente era. Waugh riprende, manipola e raccorda varie esperienze dei suoi viaggi di gioventù, fatti dai 26 ai 33 anni di età. Non è il viaggio di scoperta, alla Burton, né quello, più tardo, del contatto con l’uomo e la sua specie, con il nomadismo di Chatwin. Sono viaggi a zonzo per il Mediterraneo, o in Africa abissina, o in Brasile, fatti da un benestante curioso del mondo, e che, con onestà e coerenza, ce ne riporta il senso sul filo delle parole. Sono momenti di incontri con gli altri (bellissimi gli armeni che lo accompagnano all’incoronazione del ras etiopico), di descrizione di posti dove non è comodo stare, disagevoli, ma intensi. Incontri con europei sparsi per i quattro angoli del globo. Ma quello che più mi ha attirato di questo mastodontico libro (più di 400 pagine) è proprio la capacità di meravigliarsi di tutto, di essere contento di una buona cena sull’orlo sperduto di una pista africana. O di aspettare un treno per il Brasile che non passerà. O di attraversare l’Africa dall’Eritrea verso il Congo perché forse lì c’è una nave che torna in Europa. Certo, questo è un po’ lo snobismo del giramondo britannico, ma non è mai alterigia. E quella bellissima frase che riporto sotto, mi dà il senso di questo viaggiare. Quando, tornato in patria, viene coinvolto in una cena in un pub londinese, con quanta grazia, ma con quanto infinito rimpianto, ripensa al caldo di Zanzibar o all’ospitalità delle più sperdute taverne della Tanzania. Così io ripenso e rivado a quelle cene ad Amman sui panchetti del ristorante Al-Quds, o alle crèpes di Orléans davanti alla statua della pulzella, o al pollo di colore indefinito nelle valli dell’Hadramut yemenita o alla cena da Wharton a Londra. Meglio un’aragosta ben cotta a Bruxelles o del pesce quasi crudo a Pukhet? Ai postumi (della sbronza) l’ardua sentenza, io torno a sedermi sulla mia panchina (e un giorno se ne parlerà) ripensando a Waugh e rimandandogli che going is always good!
“Io non ho mai aspirato a essere un grande viaggiatore. Sono stato, più semplicemente, un giovane tipico del mio tempo: si viaggiava perché ci veniva naturale farlo” (15)
“mi rendo conto che, qualunque cosa possa accadermi, e per quanto io possa dispiacermene, … non riuscirò mai a diventare, nella realtà, un ‘uomo di mondo’, di quel tipo che si legge nei romanzi” (199)
 “Mi trovavo di nuovo… [a Londra] in un posto dove andavano tutti … [ma] dove il caldo era più insopportabile di quello di Zanzibar, il fracasso più assordante di quello del mercato di Harar, e le regole della decenza e dell’ospitalità più disattese che nelle taverne di Kabalo” (271)
“Quando si viaggia (e anche quando ci si innamora) non lo si fa certo per collezionare materiale. Lo si fa semplicemente perché fa parte della vita” (273)
“Esistono pochi piaceri più completi, e almeno per me più rari, di quello che arreca il fare acquisti sfrenati a spese di qualcun altro” (363)
Passiamo alla vita avventurosa del californiano, che ben si riflette nel caleidoscopio di questo vagabondare.
Jack London “Il vagabondo delle stelle” Adelphi euro 13 (in realtà, scontato 9,75 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 06/09/2010]
Preso su input di Rosa, e con ragione: bellissimo. Un vero “classico” e come tutti i classici, un po’ inclassificabile. Giocato su due registri che la sapiente penna di London riesce a far convivere (abbastanza) armoniosamente. La storia “reale” ed immanente, di Darrell Standing, il condannato a morte per futili motivi, e di tutta la sua vita carceraria. Carcere dove entra non per futili motivi (uccide un uomo per amore) ma dove si scontra con l’ottusità di quel mondo, con le sue false regole, con il direttore ed i secondini che cercano in tutti i modi di fiaccarne la caparbietà. Questa è la parte di denuncia, nata dalla volontà di London da una parte di descrivere un mondo da lui sfiorato in gioventù e dall’altra di dare una mano ad un suo amico, Ed Morrell, realmente imprigionato e che realmente vive le quotidiane angherie di carcerieri e carcerati. Su questo filone, si innesta la poesia del detenuto che, per sfuggire a queste torture trova il modo di “uscire da sé stesso”, quasi di auto-ipnotizzarsi. Ed in questo stato “comatoso”, di rivivere tutte le sue vite passate. Qui bisogna fare un piccolo salto nel percorso piano della logica, accettando questo spirito vagante, che attraversa tutte le ere del mondo. Non è nelle corde del reale. E non è neanche nelle corde di filosofie orientaleggianti sottese alla metempsicosi (tra l’altro, qui London fa un po’ di tirate filosofiche che sono forse la cosa che meno mi è piaciuta del libro). Ma una volta accettato questo modo di fuggire dal presente per non esserne travolto, quanta bellezza in tutte queste vite che si innestano una sull’altra, andando su e giù per il tempo e per lo spazio. Quanto sono belli tutti questi micro-racconti che come rami vivi di un grande albero, si innalzano per raccontarci le tante (anche se non tutte) storie dello spirito-Darrell. Come altri meglio di me hanno scritto, sembra di avere tra le mani un martirologio, dove in ogni storia dello spirito-Darrell c’è sempre qualcosa che va male. In fondo, in tutte le sue vite Darrell non fa che morire ogni volta. Più o meno crudelmente. Più o meno di sua volontà. E quando non muore di morte violenta, quasi ne cita i passi salienti ma sorvola un po’. Quasi che il suo interesse sia proprio quello di far vedere la sofferenza. E l’ottusità dell’uomo. Sia dell’uomo Darrell, che a volte ottusamente va verso la morte. Sia del resto dell’umanità. Volano le sue vite, dalla Francia settecentesca, dove muore in duello, al Missouri ottocentesco, dove muore massacrato dagli indiani, da un’imprecisata Corea alla bella storia del vichingo diventato soldato (e cittadino) romano e del suo incontro con Pilato e Gesù nella Gerusalemme occupata (e questa è forse la storia più intensa, dove London, oltre a sentirsi partecipe, non cade nel trabocchetto letterario di cambiare il passato; non è sua intenzione fare un’ucronia, ma raccontare degli uomini e delle loro passioni). Fino a riecheggiare il Robinson del naufragio ed altri archetipi letterari. L’immagine più tenera a me l’ha data comunque quando, troglodita ai tempi della tigre dai Denti a Sciabola, la sua donna si stringe a lui per non farlo andare in situazioni di morte certa. Che dolcezza in quella stretta. Dolcezza che poi permette a London di fare anche una bella tiratina sulle donne e sul fatto che, in realtà, sono poi loro il motore della vita. La sua penna riesce a saltare dallo ieri e dall’altro ieri al presente, con moti di scivolamento che non danno nessuna rottura all’unitarietà della trama. Insomma, mi è piaciuto, l’ho trovato leggibile anche a distanza di quasi cento anni. E mi ha rimandato due cose: l’immutabilità (purtroppo) di certe situazioni carcerarie (così come, pur lievemente, ho avuto modo di toccare durante i miei seminari) e la forza di volontà del proprio essere, che, di fronte al bivio tra perire o soccombere, trova il modo di volare via e, in definitiva, di non morire mai.
“la memoria è quella cosa con cui si dimentica” (56)
“la presenza di una donna nella vita di un uomo spiega molte cose” (96)
“se parlando di una donna, l’unica difficoltà fosse quella di renderne il fascino, mi proverei ad offrire una descrizione di Miriam, ma come si fa a trasformare l’emozione in parole?” (263)
“Io sono il risultato dell’intero mio passato” (299)
“a volte penso che la storia dell’uomo sia la storia del suo amore per la donna. Queste stesse memorie che oggi vado scrivendo sono il ricordo del mio amore per lei. Nelle diecimila esistenze che ho vissuto, nelle forme che ho prese, l’ho sempre amata e tuttora la amo. Il mio sonno se ne nutre, le fantasie che mi colgono da sveglio possono muovere chissà da dove, ma è sempre a lei che mi conducono” (352)
Finiamo con l’austriaca (ma quegli erano anni pan-tedeschi) ed il suo primo e celebrato romanzo, prima che si trasferisse ad Hollywood armi e bagagli.
Vicki Baum “Grand Hotel” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato 11,90 euro)
[in: 03/04/2010 – out: 03/11/2010]
Piccolo classico, impreziosito nella memoria dal ricordo del bellissimo film Premio Oscar nel 1932, con la Garbo, i fratelli Barrymore e la Crawford. Uno di quei film del mio immaginario privato, rimastomi incollato per quella bellissima battuta finale: “Grand Hotel, gente che va gente che viene. Tutto senza scopo” (questa è la versione del film italiano, mentre nell’originale la voce fuori campo diceva “Grand Hotel... always the same. People come, people go. Nothing ever happens.”). Mentre, qui, nel libro, uno scopo ce l’hanno i sei personaggi in cerca di … Vedremo di capire cosa. Ma cercano, il dottore, la ballerina, il barone, il direttore generale, il contabile e quella che con termini attuali potremmo chiamare “escort”. Uno scopo, un modo di esistere, un modo di fuggire i propri fantasmi personali (e tutti li hanno). Il dottore che non si rassegna di non essere morto in guerra e di continuare a vivere con la faccia deturpata. La ballerina sul viale del tramonto, di cui ben vede i contorni, ma che, come tutta la gente di spettacolo, non sa come affrontare; e l’amore del pur giovane barone darà forza ad affrontare quel viale che in altri film ben fu presentato. Il direttore generale, messo in un posto che non è capace ad affrontare, con l’ombra del suocero su ogni sua azione, che cerca di affermare le proprie esigenze, ma che (con critica feroce) la Baum demolirà pagina dopo pagina. Il barone, spiantato, bello e senza quattrini, ma con un animo pieno a volte di slanci impensati, quasi di pietà; pietà per la ballerina, che poi si trasmuta in amore, pietà per il contabile, in fondo pietà anche verso il sé stesso che è diventato (ed un inciso, anche lui un po’ da chicca: durante una scorribanda in macchina con la ballerina, imbocca il lungo rettifilo della prima autostrada a pedaggio del mondo, l’AVUS di Berlino, a me ben noto come sede di uno dei primi Gran Premi automobilistici di F1, anche se ante-literam, vinto da quel grande pilota tedesco che era Rudi Caracciola, il primo ad essere soprannominato “mago della pioggia”). Il contabile, l’unico che sa veramente cosa vuole cercare, ma non sa cos’è; quella vita che i dottori hanno detto ormai breve, ma che con la sua brevità lo porta a rovesciare tutte le sue abitudini, tutti i suoi luoghi comuni. Cosa si finge a fare di mantenere i cocci, quando non si saprà come riempirli. E per chi e per cosa riempirli. La segretaria (escortabile) che cerca un modo di agganciare un futuro improbabile, laddove l’unica sua risorsa è il suo bel corpo (e ben ricordiamo in ciò la giovanissima Crawford, certo un po’ tagliata dal perbenismo hollywoodiano). Non si possono dimenticare poi tutti i caratteristi che affollano il palcoscenico alberghiero. Clienti di passaggio subito dimenticati. Portieri di giorno e di notte. Il direttore, con la sua aria assente, ma che tutto sa, vede, conosce. Le cameriere ai piani. Il ragazzo dell’ascensore. Ed alla fine, lui, il vero protagonista, come ben sottolinea l’interessante post-fazione di Mario Rubino, cioè l’albergo. Anzi il Grand Hotel, come lo ribattezzeranno gli americani. Perché è lui che è sempre presente, con la hall e le sue poltrone dove il dottore passa le sue giornate. Con la sala da ballo dove il barone cerca di spiegare il senso della vita al contabile. Con il giardino dove si passeggia. Ma soprattutto, con quella sua porta girevole, che gira, gira, gira, facendo entrare ed uscire le persone. Che saranno cambiate da queste entrate ed uscite. Perché tutti cercano, bene o male, la vita. La storia non la racconto più di così. Chi ha visto il film la sa. Chi non l’ha visto la legga. Certo è ben lunghetta, e costellata anche da digressioni, che l’autrice fa sulla vita e sul sociale di questa Berlino del 1929. Ma interessante e godibilmente da leggere. In fondo, siamo d’accordo con la Baum, quando si definisce “una scrittrice di prim’ordine fra quelle di seconda qualità”. Ed alla fine, rubandolo ad altri contesti, possiamo chiudere dicendo, le persone passano, gli alberghi restano.
“La vita … esiste davvero? Ciò che si vorrebbe si trova sempre da qualche altra parte. Quando si è giovani si pensa: verrà più avanti negli anni. quando si è più avanti negli anni, si pensa: la vera vita era quella di prima” (67)
“Cos’è un peccato? – Che si cominci sempre con la donna sbagliata. Che si rimanga stupidi e che per mille notti si creda che l’amore non possa che andare a quel modo, con quel retrogusto insipido e freddo, sgradevole come un’indigestione. Che la prima donna con cui lo si è fatto non sei stata tu” (177)
“Non si può non danzare, è un’ossessione … intossica quanto il lavoro e il successo. … Il giorno in cui il successo viene meno, il giorno in cui non si crede più alla propria importanza, quel giorno, per una di noi, finisce anche la vita” (184)
“Potrà obiettarmi che la vita non è fatta di caviale, champagne e robe simili. Ma di cos’è fatta la vita? … Io non sono più un giovanotto, sono anche un po’ sofferente; ed allora, ad un tratto, uno è preso dalla paura, una paura terribile, di lasciarsi sfuggire la propria vita. Ecco, io non vorrei lasciarmi sfuggire la vita.” (241)
 “Lungo o breve che sia, è il contenuto di una vita quel che le dà senso; e due giorni di esistenza intensa possono essere più lunghi di quarant’anni di vuotezza.” (408)
Meno di una settimana a Natale. Per tutta la serie di vicende, prettamente private si sa, ma che molti con me hanno condiviso, quest’anno per ora si sta fermi a meditare su "le magnifiche sorti e progressive" delle umane genti di leopardiana memoria (e come un girotondo questa fine mi riporta ai viaggi e della Libia; perché?).
Avendovi stupito con questa fine colta, termino con soliti (ma non rituali) auguri natalizi

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