Ma
cominciamo con ordine, e con ordine viaggiamo.
Evelyn Waugh “Quando viaggiare era un
piacere” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato 8,25 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 05/08/2010]
Ed
era cosa buona l’andare, più che il viaggiare come si intende ora (e dice il
titolo originale “going was good”), in quegli anni trenta per chi poteva ed era
curioso del mondo. E sapeva renderlo in modo efficace, da ottimo scrittore
quale sicuramente era. Waugh riprende, manipola e raccorda varie esperienze dei
suoi viaggi di gioventù, fatti dai 26 ai 33 anni di età. Non è il viaggio di
scoperta, alla Burton, né quello, più tardo, del contatto con l’uomo e la sua
specie, con il nomadismo di Chatwin. Sono viaggi a zonzo per il Mediterraneo, o
in Africa abissina, o in Brasile, fatti da un benestante curioso del mondo, e
che, con onestà e coerenza, ce ne riporta il senso sul filo delle parole. Sono
momenti di incontri con gli altri (bellissimi gli armeni che lo accompagnano
all’incoronazione del ras etiopico), di descrizione di posti dove non è comodo
stare, disagevoli, ma intensi. Incontri con europei sparsi per i quattro angoli
del globo. Ma quello che più mi ha attirato di questo mastodontico libro (più di
400 pagine) è proprio la capacità di meravigliarsi di tutto, di essere contento
di una buona cena sull’orlo sperduto di una pista africana. O di aspettare un
treno per il Brasile che non passerà. O di attraversare l’Africa dall’Eritrea
verso il Congo perché forse lì c’è una nave che torna in Europa. Certo, questo
è un po’ lo snobismo del giramondo britannico, ma non è mai alterigia. E quella
bellissima frase che riporto sotto, mi dà il senso di questo viaggiare. Quando,
tornato in patria, viene coinvolto in una cena in un pub londinese, con quanta
grazia, ma con quanto infinito rimpianto, ripensa al caldo di Zanzibar o
all’ospitalità delle più sperdute taverne della Tanzania. Così io ripenso e
rivado a quelle cene ad Amman sui panchetti del ristorante Al-Quds, o alle
crèpes di Orléans davanti alla statua della pulzella, o al pollo di colore
indefinito nelle valli dell’Hadramut yemenita o alla cena da Wharton a Londra.
Meglio un’aragosta ben cotta a Bruxelles o del pesce quasi crudo a Pukhet? Ai
postumi (della sbronza) l’ardua sentenza, io torno a sedermi sulla mia panchina
(e un giorno se ne parlerà) ripensando a Waugh e rimandandogli che going is
always good!
“Io non ho mai aspirato a essere un grande viaggiatore. Sono stato, più
semplicemente, un giovane tipico del mio tempo: si viaggiava perché ci veniva
naturale farlo” (15)
“mi rendo conto che, qualunque cosa possa accadermi, e per quanto io
possa dispiacermene, … non riuscirò mai a diventare, nella realtà, un ‘uomo di
mondo’, di quel tipo che si legge nei romanzi” (199)
“Mi trovavo di nuovo… [a Londra]
in un posto dove andavano tutti … [ma] dove il caldo era più insopportabile di
quello di Zanzibar, il fracasso più assordante di quello del mercato di Harar,
e le regole della decenza e dell’ospitalità più disattese che nelle taverne di
Kabalo” (271)
“Quando si viaggia (e anche quando ci si innamora) non lo si fa certo
per collezionare materiale. Lo si fa semplicemente perché fa parte della vita”
(273)
“Esistono pochi piaceri più completi, e almeno per me più rari, di
quello che arreca il fare acquisti sfrenati a spese di qualcun altro” (363)
Passiamo
alla vita avventurosa del californiano, che ben si riflette nel caleidoscopio
di questo vagabondare.
Jack London “Il vagabondo delle stelle”
Adelphi euro 13 (in realtà, scontato 9,75 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 06/09/2010]
Preso
su input di Rosa, e con ragione: bellissimo. Un vero “classico” e come tutti i
classici, un po’ inclassificabile. Giocato su due registri che la sapiente
penna di London riesce a far convivere (abbastanza) armoniosamente. La storia
“reale” ed immanente, di Darrell Standing, il condannato a morte per futili
motivi, e di tutta la sua vita carceraria. Carcere dove entra non per futili
motivi (uccide un uomo per amore) ma dove si scontra con l’ottusità di quel
mondo, con le sue false regole, con il direttore ed i secondini che cercano in
tutti i modi di fiaccarne la caparbietà. Questa è la parte di denuncia, nata
dalla volontà di London da una parte di descrivere un mondo da lui sfiorato in
gioventù e dall’altra di dare una mano ad un suo amico, Ed Morrell, realmente
imprigionato e che realmente vive le quotidiane angherie di carcerieri e
carcerati. Su questo filone, si innesta la poesia del detenuto che, per
sfuggire a queste torture trova il modo di “uscire da sé stesso”, quasi di
auto-ipnotizzarsi. Ed in questo stato “comatoso”, di rivivere tutte le sue vite
passate. Qui bisogna fare un piccolo salto nel percorso piano della logica,
accettando questo spirito vagante, che attraversa tutte le ere del mondo. Non è
nelle corde del reale. E non è neanche nelle corde di filosofie
orientaleggianti sottese alla metempsicosi (tra l’altro, qui London fa un po’
di tirate filosofiche che sono forse la cosa che meno mi è piaciuta del libro).
Ma una volta accettato questo modo di fuggire dal presente per non esserne
travolto, quanta bellezza in tutte queste vite che si innestano una sull’altra,
andando su e giù per il tempo e per lo spazio. Quanto sono belli tutti questi
micro-racconti che come rami vivi di un grande albero, si innalzano per
raccontarci le tante (anche se non tutte) storie dello spirito-Darrell. Come
altri meglio di me hanno scritto, sembra di avere tra le mani un martirologio,
dove in ogni storia dello spirito-Darrell c’è sempre qualcosa che va male. In
fondo, in tutte le sue vite Darrell non fa che morire ogni volta. Più o meno
crudelmente. Più o meno di sua volontà. E quando non muore di morte violenta,
quasi ne cita i passi salienti ma sorvola un po’. Quasi che il suo interesse
sia proprio quello di far vedere la sofferenza. E l’ottusità dell’uomo. Sia
dell’uomo Darrell, che a volte ottusamente va verso la morte. Sia del resto
dell’umanità. Volano le sue vite, dalla Francia settecentesca, dove muore in
duello, al Missouri ottocentesco, dove muore massacrato dagli indiani, da
un’imprecisata Corea alla bella storia del vichingo diventato soldato (e cittadino)
romano e del suo incontro con Pilato e Gesù nella Gerusalemme occupata (e
questa è forse la storia più intensa, dove London, oltre a sentirsi partecipe,
non cade nel trabocchetto letterario di cambiare il passato; non è sua
intenzione fare un’ucronia, ma raccontare degli uomini e delle loro passioni).
Fino a riecheggiare il Robinson del naufragio ed altri archetipi letterari.
L’immagine più tenera a me l’ha data comunque quando, troglodita ai tempi della
tigre dai Denti a Sciabola, la sua donna si stringe a lui per non farlo andare
in situazioni di morte certa. Che dolcezza in quella stretta. Dolcezza che poi
permette a London di fare anche una bella tiratina sulle donne e sul fatto che,
in realtà, sono poi loro il motore della vita. La sua penna riesce a saltare
dallo ieri e dall’altro ieri al presente, con moti di scivolamento che non
danno nessuna rottura all’unitarietà della trama. Insomma, mi è piaciuto, l’ho
trovato leggibile anche a distanza di quasi cento anni. E mi ha rimandato due
cose: l’immutabilità (purtroppo) di certe situazioni carcerarie (così come, pur
lievemente, ho avuto modo di toccare durante i miei seminari) e la forza di
volontà del proprio essere, che, di fronte al bivio tra perire o soccombere,
trova il modo di volare via e, in definitiva, di non morire mai.
“la memoria è quella cosa con cui si
dimentica” (56)
“la presenza di una donna nella vita di un
uomo spiega molte cose” (96)
“se parlando di una donna, l’unica
difficoltà fosse quella di renderne il fascino, mi proverei ad offrire una
descrizione di Miriam, ma come si fa a trasformare l’emozione in parole?” (263)
“Io sono il risultato dell’intero mio
passato” (299)
“a volte penso che la storia dell’uomo sia
la storia del suo amore per la donna. Queste stesse memorie che oggi vado
scrivendo sono il ricordo del mio amore per lei. Nelle diecimila esistenze che
ho vissuto, nelle forme che ho prese, l’ho sempre amata e tuttora la amo. Il
mio sonno se ne nutre, le fantasie che mi colgono da sveglio possono muovere
chissà da dove, ma è sempre a lei che mi conducono” (352)
Finiamo
con l’austriaca (ma quegli erano anni pan-tedeschi) ed il suo primo e celebrato
romanzo, prima che si trasferisse ad Hollywood armi e bagagli.
Vicki Baum “Grand Hotel” Sellerio euro 14
(in realtà, scontato 11,90 euro)
[in: 03/04/2010 – out: 03/11/2010]
Piccolo
classico, impreziosito nella memoria dal ricordo del bellissimo film Premio
Oscar nel 1932, con la Garbo, i fratelli Barrymore e la Crawford. Uno di quei
film del mio immaginario privato, rimastomi incollato per quella bellissima
battuta finale: “Grand Hotel, gente che va gente che viene. Tutto senza scopo”
(questa è la versione del film italiano, mentre nell’originale la voce fuori
campo diceva “Grand Hotel... always the same. People come, people go. Nothing
ever happens.”). Mentre, qui, nel libro, uno scopo ce l’hanno i sei personaggi
in cerca di … Vedremo di capire cosa. Ma cercano, il dottore, la ballerina, il
barone, il direttore generale, il contabile e quella che con termini attuali
potremmo chiamare “escort”. Uno scopo, un modo di esistere, un modo di fuggire
i propri fantasmi personali (e tutti li hanno). Il dottore che non si rassegna
di non essere morto in guerra e di continuare a vivere con la faccia deturpata.
La ballerina sul viale del tramonto, di cui ben vede i contorni, ma che, come
tutta la gente di spettacolo, non sa come affrontare; e l’amore del pur giovane
barone darà forza ad affrontare quel viale che in altri film ben fu presentato.
Il direttore generale, messo in un posto che non è capace ad affrontare, con
l’ombra del suocero su ogni sua azione, che cerca di affermare le proprie
esigenze, ma che (con critica feroce) la Baum demolirà pagina dopo pagina. Il
barone, spiantato, bello e senza quattrini, ma con un animo pieno a volte di
slanci impensati, quasi di pietà; pietà per la ballerina, che poi si trasmuta
in amore, pietà per il contabile, in fondo pietà anche verso il sé stesso che è
diventato (ed un inciso, anche lui un po’ da chicca: durante una scorribanda in
macchina con la ballerina, imbocca il lungo rettifilo della prima autostrada a
pedaggio del mondo, l’AVUS di Berlino, a me ben noto come sede di uno dei primi
Gran Premi automobilistici di F1, anche se ante-literam, vinto da quel grande
pilota tedesco che era Rudi Caracciola, il primo ad essere soprannominato “mago
della pioggia”). Il contabile, l’unico che sa veramente cosa vuole cercare, ma non
sa cos’è; quella vita che i dottori hanno detto ormai breve, ma che con la sua
brevità lo porta a rovesciare tutte le sue abitudini, tutti i suoi luoghi
comuni. Cosa si finge a fare di mantenere i cocci, quando non si saprà come
riempirli. E per chi e per cosa riempirli. La segretaria (escortabile) che
cerca un modo di agganciare un futuro improbabile, laddove l’unica sua risorsa
è il suo bel corpo (e ben ricordiamo in ciò la giovanissima Crawford, certo un
po’ tagliata dal perbenismo hollywoodiano). Non si possono dimenticare poi
tutti i caratteristi che affollano il palcoscenico alberghiero. Clienti di
passaggio subito dimenticati. Portieri di giorno e di notte. Il direttore, con
la sua aria assente, ma che tutto sa, vede, conosce. Le cameriere ai piani. Il
ragazzo dell’ascensore. Ed alla fine, lui, il vero protagonista, come ben
sottolinea l’interessante post-fazione di Mario Rubino, cioè l’albergo. Anzi il
Grand Hotel, come lo ribattezzeranno gli americani. Perché è lui che è sempre
presente, con la hall e le sue poltrone dove il dottore passa le sue giornate.
Con la sala da ballo dove il barone cerca di spiegare il senso della vita al
contabile. Con il giardino dove si passeggia. Ma soprattutto, con quella sua
porta girevole, che gira, gira, gira, facendo entrare ed uscire le persone. Che
saranno cambiate da queste entrate ed uscite. Perché tutti cercano, bene o
male, la vita. La storia non la racconto più di così. Chi ha visto il film la
sa. Chi non l’ha visto la legga. Certo è ben lunghetta, e costellata anche da
digressioni, che l’autrice fa sulla vita e sul sociale di questa Berlino del
1929. Ma interessante e godibilmente da leggere. In fondo, siamo d’accordo con
la Baum, quando si definisce “una scrittrice di prim’ordine fra quelle di
seconda qualità”. Ed alla fine, rubandolo ad altri contesti, possiamo chiudere
dicendo, le persone passano, gli alberghi restano.
“La vita … esiste davvero? Ciò che si
vorrebbe si trova sempre da qualche altra parte. Quando si è giovani si pensa:
verrà più avanti negli anni. quando si è più avanti negli anni, si pensa: la
vera vita era quella di prima” (67)
“Cos’è un peccato? – Che si cominci sempre
con la donna sbagliata. Che si rimanga stupidi e che per mille notti si creda
che l’amore non possa che andare a quel modo, con quel retrogusto insipido e
freddo, sgradevole come un’indigestione. Che la prima donna con cui lo si è
fatto non sei stata tu” (177)
“Non si può non danzare, è un’ossessione …
intossica quanto il lavoro e il successo. … Il giorno in cui il successo viene
meno, il giorno in cui non si crede più alla propria importanza, quel giorno,
per una di noi, finisce anche la vita” (184)
“Potrà obiettarmi che la vita non è fatta di
caviale, champagne e robe simili. Ma di cos’è fatta la vita? … Io non sono più
un giovanotto, sono anche un po’ sofferente; ed allora, ad un tratto, uno è
preso dalla paura, una paura terribile, di lasciarsi sfuggire la propria vita.
Ecco, io non vorrei lasciarmi sfuggire la vita.” (241)
“Lungo o breve che sia, è il contenuto di una
vita quel che le dà senso; e due giorni di esistenza intensa possono essere più
lunghi di quarant’anni di vuotezza.” (408)
Meno
di una settimana a Natale. Per tutta la serie di vicende, prettamente private
si sa, ma che molti con me hanno condiviso, quest’anno per ora si sta fermi a
meditare su "le magnifiche sorti e progressive" delle umane genti di
leopardiana memoria (e come un girotondo questa fine mi riporta ai viaggi e
della Libia; perché?).
Avendovi stupito con questa
fine colta, termino con soliti (ma non rituali) auguri natalizi
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