venerdì 9 dicembre 2011

Di quelli corti, but short… - 01 marzo 2009

Dopo una settimana dedicata ai libri di oltre 600 pagine, torniamo invece ai veloci corti dei testi a fronte di Repubblica. Con alcune punte di assoluto godimento, ma dove si cominciano a vedere le crepe di questa collana (ne parlerò più avanti, in qualche trama futura). Per chi avesse dimenticato gli short precedenti, questa era un’iniziativa di Repubblica con raccontini e testo a fronte. Utili (per me di basic english) per approfondire qualche modo di dire. Ed utili per conoscere grandi autori nella loro piccola dimensione (piccolo è bello?). Visto che son corti, ne tramo di più.
Cominciando con la lettura che più mi è piaciuta.
Alice Munro “Ortiche” Repubblica Short Stories euro 4,50
Forse comincio a ripetermi, ma questa collana (per quello letto fin qui) mi piace. Mi da anche modo di assaggiare autori che non conoscevo e di cui volevo attaccare qualcosa, senza avere però il coraggio di cominciare da cose impegnative. Ottimo questo aperitivo canadese, che (per quello che ho letto di lui e di lei) mi sembra senz’altro più meritevole del Nobel dato a Le Clézio (e mi sembra che lo stia dicendo di molti autori). Si leggeranno altri libri di entrambi, tuttavia ad ora il giudizio è netto. Qui si trova un bel raccontare, che anche in una dimensione minuta come quella del racconto (e la Munro è ritenuta la maestra di questa lunghezza di scrittura), riesce ad evocare un’atmosfera piena da romanzo compiuto, costruendo, sopra la storia di una donna di cui man mano si intuisce il dramma di voler vivere a costo di lasciare famiglia e figlie, tutta una serie di rimandi che poi, miracolosamente, nel volgere di poche pagine, riesce a chiudere. Da un tramezzino al ketchup (che credo sia una delle cose più orrende che si possano immaginare) si salta indietro all’infanzia, ed ai rapporti tra bimbi (belli ma anche duri), ai primi aneliti d’amore, al matrimonio, alla fuga, alla vita solitaria di scrittrice, per poi tornare al tramezzino, risolverne le contraddizioni, rimanerne toccata (forse bruciata come da quelle ortiche in cui inavvertitamente si avvicina), ma che pur nella fine realistica, rimanda (se si tiene traccia nel ricordo) a passaggi iniziali, in cui righe di serenità rimangono impigliate in brandelli di memoria. Forse pensate che vi ho narrato tutto, ma non è così, il racconto è pieno di altro, soprattutto di natura, di parole (leggendo la versione anglo-canadese) che si affastellano e che portano il tutto alla sua conclusione, in un narrare che molto gusto mi da (letto in un pomeriggio di ottobre, attendendo). Finisco con un ultimo plauso alla versione inglese, alla traduzione ed alle note (questa volta non all’introduzione che mi ha deluso un po’). A presto, Alice.
Passiamo ora ad un inglese puro.
Graham Greene “Assassinio per la ragione sbagliata” Repubblica Short Stories euro 4,50
Erano anni che non leggevo più qualcosa di Greene. E in fondo non ne sentivo tanto la mancanza. Scrittura un po’ datata, con qualche sentore di guerre ancora da venire. Questa storia breve, nel suo piccolo, ha comunque elementi di interesse. È vero che, come dice la presentazione, ti avvolge con la sua narrazione e non ti lascia sino allo scioglimento, alla scoperta non dell’assassino (che fin da metà si capisce) ma di alcuni risvolti che lo portano allo strano gesto. E si capisce che quel gesto si sarebbe dovuto (potuto?) fare anni prima per la giusta ragione. Non ora, magari per una ragione sbagliata. Gli elementi poi sono pochi e poveri, un morto, poliziotti che indagano, fili di memoria che portano indietro nel tempo, ad una storia di amore e povertà. Qualcosa, sul finire, rimane poco detto, ma va bene così, peccato veniale. Una parola ancora sulla lingua. Bella, tornita, scorrevole, e con quel tanto di slang che fa capire l’agire dei personaggi nella Londra anni ’30. Infine, una sempre lodevole menzione alle note di traduzione che, anche didascalicamente (ma per me vanno bene) spiegano costruzioni proprie dell’inglese, facendo capire più in profondità lo scrittore e la sua ricerca (esplicita o meno) dell’espressione.
Ed ora un moderno, che pur se nato in Olanda, ha fatto nascere in Australia la sua scrittura.
Michel Faber “Una torma di donne dai cappelli enormi, in marcia” Repubblica Short Stories euro 4,50
Credo di aver letto anni fa “A voce nuda”, ma non mi fece una grande impressione (tant’è che lo ricordo a mala pena). Poi più niente del romanziere del nuovo secolo, dell’acclamato autore del Petalo Cremisi (che prima o poi affronterò nonostante le mille pagine). Per ora mi accontento di questo racconto, che, come dice l’introduzione, è fatto di niente (o di poco), ma che piacevolmente si scorre. Non c’è messaggio, non c’è qualcosa da lasciare ai posteri. Solo una bella rassegna di fotografie, viste con l’ottica della storia dalla parte dei non-protagonisti. Seguiamo con piacere la storia del bimbo Henry, prima trapiantato dalla natia Australia alla Londra di inizio Novecento. Poi alle prese con il mondo dei grandi, di cui a 7 anni poco si capisce, e soprattutto nella grande storia della madre Sophie (la stessa del Petalo) e della “zia” Poss. Come dimenticare che durante la grande marcia del 21 giugno ad Henry scappa la pipi? In fondo è tutto lì, nel narrare quieto del vecchio novantenne alla soglia della morte e del nuovo secolo verso il bambino di inizio secolo. Gustosamente costruito l’inglese si affastella in lunghe frasi ma dal tocco lieve, che (ulteriore merito della collana) gradevolmente contrappuntano la vicenda. Un bel Martini aperitivo (non un forte Martini Cocktail)!
Torniamo alle donne, ad una maestra della scrittura (vero Cecilia?)
Virginia Woolf “La signora Dalloway in Bond Street e altre storie” Repubblica Short Stories euro 4,50
Che dire? Si sa che nella scrittura della Woolf in pratica non succede niente. Così è in “Miss Dalloway in Bond Street” e “The Lady in the Looking-glass”, forse un po’ meno in “The Duchess and the Jeweler”. Si sta lì a seguire i pensieri avanzare sulla carta, a vedere le frasi formarsi con la casualità del pensiero. Quanto lavoro dietro a ciò, quanta bravura. Ma poi, poi mi rimane poco. La passeggiata della signora Dalloway, con i pensieri tra la da poco finita guerra, i passanti, il vigile, la commessa. Il gioielliere che cerca (trova?) il modo per far fare uno scatto di qualità alla sua vita (ma se per lui la qualità è il denaro, quale sarà lo scatto agognato?). Forse solo quelle lettere sul canterano, che aspettano il ritorno della vecchia signora che le leggerà, e che la casa spera siano racconti di viaggio, ma forse son solo conti e fatture. Tristi fotografie di un mondo triste. Apprezzo fino all’ultima riga il suo inglese, e l’ho letto e riletto perché scorre, significa, si sente vivo. Ma non c’è la cupa angoscia di “Una gita al faro” o di altre prove dove la lunghezza non serviva per allungare il brodo (ah ah) ma per arrivare a quella misura di equilibrio, per far uscire dalla pagina il sentimento, così come traspare dalle cose e dai pensieri, senza l’intervento diretto dell’autore deus ex-machina. Insomma, qui ritorna il mio dilemma sulla difficoltà (assolutamente personale) di star dietro alla dimensione racconto. Ed al mio ritorno, appena si può, alla lettura almeno del romanzo breve, se non al tomo indigeribile. Interlocutorio.
Andiamo in America, ringraziando sempre Luana per le sue piccole spinte.
John Fante “Uno di noi / Casa, dolce casa” Repubblica Short Stories euro 4,50
Piombati direttamente nella casa e nei costumi degli italo-americani della prima o al massimo seconda generazione, se ne sente tutto il nascere, crescere ed in fondo essere diversi. Questo mi piace di Fante, certo con un grosso lavoro mentale dietro. Leggere righe come se fossero ancora lì, nelle campagne vicino a Chieti, ed invece aggirarsi a Denver. Per questo, poi, la versione a fronte restituisce in maniera schietta il senso di tutto ciò. Si sente (si vede) la lingua uguale ma diversa, e si vede il lavoro che Fante ci costruisce intorno, per staccarsi da quel mondo, ma poi per trovarne ancora le radici. Qui, poi, ci sono due racconti brevi, entrambi tratti da quel campionario di italo - americanità che è “Dago Red” (nome gergale per il vino rosso degli immigrati). La morte del cuginetto, con tutto il contorno di tristezza, ma anche di vivida fotografia della realtà (imperdibile la madre che si aggiusta la giarrettiera scendendo dal taxi). Ed il ritorno a casa, idillica nel ricordo, poi pian piano sempre più concentrazionaria, tanto che, non a caso, Fante ne scappa appena può. In questo secondo, poi, c’è tutto un campionario da grammatica americana sull’uso del futuro nelle sue varie sfumature. Certo, non ci ritrovo i sapori forti di “Aspetta primavera, Bandini”, o di tutto quel combattere il padre solo perché poi si sa che si sarà come lui, alla sua età (ce n’è un accenno in “Home, sweet home”, che poi svilupperà meglio in romanzo). Un buon risultato, non eccelso, ma interessante.
E finiamo con un altro americano
Saul Bellow “Un piatto d’argento” Repubblica Short Stories euro 4,50
Saranno più di dieci anni che non riprendevo uno scritto di Bellow. Non ci sono mai andato troppo d’accordo, mancanza di sintonia, credo. Inoltre (e sono concorde con l’introduzione in questo), Bellow ha bisogno del respiro del romanzo per poter dipanare tutti i suoi fili, tutte le cose che mette in cantiere, pagina dopo pagina. Detto questo, il racconto ha tuttavia sì la dimensione del racconto, ma anche l’andatura da romanzo. Molti caratteri si porgono a margine lungo la strada (il reverendo, la zia Rebecca, le sorelle, la madre, la signora Skoglund), ed ognuno esce fotografato in poche righe e tratti essenziali. Rimane sempre però, per tutto il romanzo, l’amore-odio tra padre e figlio. Il cercare una pacificazione prima della morte dei vecchi ed il trovarla (forse?) dopo. Certo, in cosi poche pagine, il coltello non affonda troppo, ma per quello che affonda lascia cicatrici indelebili. Ma se l’egoismo di un padre può cambiare la vita di un figlio, a questi è lecito chiedersi se poi il cambiamento è o meno positivo. Io, da buon loweniano, risponderei di accettarsi comunque e vivere (e convivere) con il proprio essere, così come si diventa, giorno dopo giorno. Al solito, piacevole e scorrevole la lettura in inglese, anzi in americano, ma d’alto lignaggio, costruito con una capacità di far venire fuori il massimo dalle poche frasi espresse. Ed espresse al meglio, non in quel minimalismo fasullo alla Leavitt che usa poche frasi perché non ne conosce altre. Insomma, una lettura di testa, con qualche graffio al cuore.
“Sono di solito gli egoisti a essere soprattutto amati. Fanno quello che tu neghi a te stesso ed è per questo che li ami [They do what you deny yourself, and you love them for it]. Dai loro il tuo cuore”
Essendo il primo del mese, inoltre, riporto l’elenco dei libri letti nel mese di dicembre 2008.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
1
Oscar Wilde
Il crimine di Lord Arthur Saville
Repubblica Short Stories
4,50
2
Henning Mankell
La leonessa bianca
Marsilio
9,50
3
Salwa Al-Neimi
La prova del miele
Feltrinelli
10
4
Joseph Conrad
La locanda delle due streghe
Repubblica Short Stories
4,50
5
Sam Savage
Firmino
Einaudi
14
6
Carlo Toffalori
Il matematico in giallo
Guanda
13
7
Valeria Parrella
Il premio
Corti di Carta
3,50
8
Dacia Maraini
Il poeta-regista e la meravigliosa soprano
Corti di Carta
3,50
9
Michael Connelly
La memoria del topo
Piemme
11
10
Chiara Gamberale
Una passione sinistra
Corti di Carta
3,50
11
Wu Ming
American Parmigiano
Corti di Carta
3,50
12
Robert Louis Stevenson
Il diavolo nella bottiglia
Repubblica Short Stories
4,50
13
Marcello Fois
In Sardegna non c’è il mare
Laterza
9
14
Elif Shafak
La bastarda di Istanbul
Rizzoli
6,90
15
Jack London
Un’odissea del Nord
Repubblica Short Stories
4,50
16
Fabio Stassi
La rivincita di Capablanca
minimum fax
11,50
17
Alan Bennett
La sovrana lettrice
Adelphi
s.p.
Si entra nel terzo mese, si cerca di mantenere le promesse (ed oggi ho comperato tra pezzi di libreria), ma si è sicuri che si sta andando da qualche parte. Cominciando una nuova terribile settimana

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