sabato 10 dicembre 2011

And the short again ... - 08 marzo 2009

E restiamo ancora sui corti, con un’altra tornata di racconti. Come dicevo la volta scorsa, i primi usciti erano interessanti, particolari, pieni di spunti anche quando scrivevano classici (e più sotto lo si nota in Hemingway). Poi si deve riempire la serie, i commenti sono un po’ tirati, le scelte si fanno scontate. Insomma, gli inizi promettono sempre. Ma sono i finali quelli che solo i maestri riescono a mantenere alla stessa altezza. Qui, tra l’altro, i nomi sarebbero di garanzia. Ma… Cominciamo e finiamo con gli americani, allora, e ci mettiamo in mezzo qualche inglese.
Diamo il primo giro di vite.
Henry James “Gli amici degli amici” Repubblica Short Stories euro 4,50
Molto ma molto datato. Tipica vicenda ottocentesca, con fantasmi, presunti tali, apparizioni, presunte apparizioni, e via discorrendo. E la vicenda in sé non lascia un grande strascico. Un fidanzamento, due domande senza risposta, e poi? Quello che si coglie di positivo, è lo stile dell’autore, che qui risalta data la brevità, rispetto a momenti, anche più lunghi ma forse di più difficile decifrazione. Un lavoro di giustapposizione, di cerchi concentrici che a poco a poco fanno vedere qual è il centro della vicenda, e che in questo caso appare tutt’altra dal narrato. Il centro è la descrizione del passaggio dei sentimenti attraverso una persona (e come spesso in James, una donna). Tristezza, gelosia, ripicca, agnizione. Questo certo è si ben colto che si ammira piacevolmente nella costruzione della frase in inglese. Non posso dire di essere (essere stato) un assiduo lettore di James. Forse qualche trasposizione cinematografica ben fatta. Alla fine un buon prodotto, che si legge tuttavia con la testa e non con il cuore.
Amo il toro viaggiatore, anche se questo pezzo è un colpo basso.
Bruce Chatwin “Un colpo di Stato” Repubblica Short Stories euro 4,50
Sta un po’ scadendo la serie, non per i contenuti, quanto per l’impostazione editoriale. Chatwin si ama e basta, ma questo raccontino l’avevo già letto in quanto parte di “Che ci faccio io qui?”. Certo, c’è anche la versione inglese. Si apprezzano alcuni passaggi dal colloquiale al descrittivo. Infondo Chatwin sa scrivere e dalla pagina vengono fuori i paesaggi, gli umori, i luoghi tutti dei suoi viaggi. O del suo vagabondare alla ricerca di sé stesso. Qui siamo nell’Africa pura e dura, durante un (forse) colpo di Stato nel Benin. In momenti in cui la vita delle persone vale quanto la lama del pugnale che le uccide (ricordate il Ruanda?). Ma non è un “tipico esempio di short stories”, come vorrebbe la filosofia della serie. In fondo, la collana si è ben venduta, ha raggiunto picchi interessanti. Questo continuare a fare uscire altri raccontini è, per l’appunto, marketing puro, tanto che anche l’introduzione (dove di solito vengono dati spunti sul racconto presentato), questa volta punta più sul descrivere Chatwin ed altri suoi scritti, che entrare a fondo in questo. Ma Chatwin è Chatwin e non si discute, si ama.
Rimaniamo in Inghilterra con uno dei pezzi che più mi hanno fatto infuriare.
Julian Barnes “Controcorrente” Repubblica Short Stories euro 4,50
E invece non ti puoi permettere, caro prefatore, di prendere un pezzo organico ed estrapolarlo dal libro. Questo grido di dolore mi sorge spontaneo dalla lettura dell’introduzione di questa Short tra le minori del lotto. In effetti, come capitolo del libro di Barnes (“La storia del mondo in 10 capitoli e mezzo”) ha un senso ed una logica. Decontestualizzata, perde efficacia. Rimane la storia di uno  scontro di civiltà (lo show-business americano alla ricerca del cinema verità e gli indiani dell’Amazzonia, che non concepiscono cosa stiano facendo questi bianchi con il loro grande occhio scrutatore). La costruzione classica attraverso le lettere del povero attore alla sua amante che non risponde. La discesa agli inferi nella giungla, nelle zanzare e nell’Orinoco. La risalita alle spiagge caraibiche. Questo anche è molto datato. Ed il libro ha, infatti, una ventina d’anni. Sì la maestria c’è. E si coglie nella versione inglese, piena di spunti anche semantici, di rimandi, gergalità, discorsi diretti ed indiretti, zeppi di “phrasal verbs” che hanno arricchito il mio bagaglio. Ma come operazione racconto, è veramente poco riuscito. In fondo, poi non è che mi aspettassi molto di diverso (e spero che Barnes mi smentisca se e quando leggerò cose più organiche), si tratta sempre di uno scrittore inglese di quella banda di intellettuali cui fa parte la Byatt, altro mostro che non riesco a digerire. Cestino.
Ne ho parlato male pur essendo un capricorno!
Ancora l’isola, ed ancora un autore tra i miei meno favoriti (non a tutti piacciono le stesse cose).
Ian McEwan “Travestimenti” Repubblica Short Stories euro 4,50
Non mi è piaciuto proprio per niente. Confesso che di fondo, McEwan è uno scrittore con cui non vado d’accordo. La sua visione dell’infanzia come orrore della vita, seppur interessante, a me crea soltanto angoscia su angoscia. Soprattutto, quando i sentimenti infantili vengono descritti ed interpretati da adulti, a loro uso e consumo. Diciamo inoltre che lo scritto è del 1975, ed i suoi 30 e passa anni li dimostra tutti. Non scorre, si incanala verso le tenebre interiori del tormentato rapporto tra l’adulto rimasto orfano e la zia attrice in declino. Che lo isola dal mondo, in una claustrofobica mania di averlo tutto per sé. Sino ad inscenare teatri privati al sacro momento della cena inglese. E la zia Mina continua a tormentarlo, quasi a no volerlo far integrare al mondo degli altri fanciulli, provocandolo fino ad ubriacarlo. E nei fumi dell’alcool si intravede una possibile ribellione, aiutato dalla ragazzina di turno, sia una possibile discesa ancora più agli inferi. Con quello che l’introduzione riporta come pezzo di bravura, un flusso di coscienza dell’ubriaco che cerca di connettersi ad un mondo il cui senso gli sta sfuggendo. Tutto ciò per far sopravvivere una collana che, ripeto e sottolinea, aveva una buona idea di partenza ed un buon inizio, ma i cui ultimi libretti stanno mostrando palesemente e duramente che, come diceva Sofri, è difficile smettere bene. Filologico, per la parte in lingua.
L’ultimo inglese, anche se questo viene dalle colonie.
Rudyard Kipling “Toomai degli Elefanti” Repubblica Short Stories euro 4,50
Se rileggete quel che ho scritto poco sopra su McEwan, non vi stupirete che in questo successivo racconto, non possa che aumentare la dose di pessimismo e negatività. Il racconto, estrapolato dal contesto del Libro della Giungla, resta un esercizio di piccola vita esotica vissuta, con indiani da film degli anni ’30, ed inglesi che ancora non hanno capito la lezione di Foster. Un racconto per bambini sarebbe stato più appropriato, almeno qualche inventiva, qualche sorpresa. L’umanità dell’elefante. E la bellezza di essere giovani di dieci anni a contatto con queste bestie sagge, come il Toomai del titolo. Che gli elefanti adottano, e solo a lui fanno vedere la loro danza segreta. Si qualche accennino di caratterizzazione dei diversi tipi indiani. Il conducente di elefanti, il cacciatore di elefanti selvaggi, il buon amministratore, quello messo lì dai padroni inglesi. Forse l’unico momento interessante, è la canzone ninna-nanna, con Shiva che dà da mangiare a tutti gli animali, ed il bimbo si addormenta tra le tette della mamma. Un’introduzione che cerca di recuperare un senso al buon inglese (premio Nobel di 100 anni fa). Ma non tutto si può recuperare. Rimane una lettura minore, che consiglierei ai più di evitare. Magari concentrandosi su altri pezzi più organici di Kipling, o meglio per leggere il quasi contemporaneo Tagore. Che per ora preferisco e di molto.
E finiamo con il primo, e con il grande maestro della frase corta.
Ernest Hemingway “La breve vita felice di Francis Macomber” Repubblica Short Stories euro 4,50
Un racconto che è un racconto. Questo era il primo degli ormai più di venti libricini dell’Espresso. E ripeto, i primi, e questo in particolare, sembrano avere il senso duplice: un racconto ed una prova di inglese (o americano). Questo ne è un esemplare maestro. Pur non avendo sempre una propensione per Hemingway, ho sempre trovato piacevole il suo modo di scrivere, di svolgere le frasi, di avere un’idea in testa e di percorrerla sino in fondo. Come questa della caccia in Africa, del venir fuori la paura nei confronti della belva feroce, paura che fa scappare Macomber davanti al pericolo. Sono questi i momenti in cui, buttando tutto al di là, viene fuori la natura di sé stessi. Come dice Wilson poi, magari la paura si supera, e forse viene l’esaltazione di averla vinta. Si diventa imprudenti. Ci deve essere da qualche parte un giusto crinale tra paura e temerarietà. Poi la storia si evolve, si approfondiscono (in poche righe, in poche pagine) i caratteri dei tre protagonisti: l’americano pauroso-temerario, la moglie che dipende da lui, il cacciatore esperto. Arriveremo poi all’epilogo, alla caccia i bufali, e lì si vedranno uscire i sentimenti profondi: la paura di essere abbandonati, la coscienza che il pericolo, in una regione altra come l’Africa, è sempre dietro la porta. Ripeto, pur non trovando sempre eccezionale Hemingway, qui porta le due tre strade che intraprende all’inizio, le porta sino alla fine, con coerenza, tenendoci lì a rimuginare sulla natura umana. Inoltre, l’americano è bello, scorrevole, senza sussulti, ma si vede che è opera di chi di penna e di lingua sa. Bello, da sorbettare con un karkadè gelato in mano.
“no pleasure in anything if you mouth it up too much”
Ed allora via per questa settimana piena di impegni e di possibilità.

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