Cominciamo quindi con due libri
della ormai storica Banana, letti al finire dello scorso anno.
Banana Yoshimoto “Sonno profondo”
Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 4,87 euro)
[in: 25/07/2010 – out: 02/12/2010]
Non mi aspettavo tre racconti,
ma, come dice poi Banana, sono in fondo legati da un filo: la notte e la presa
di coscienza. Ho imparato a poco a poco ad apprezzare la scrittura delicata e
forte di Banana, che a volte sembra veleggiare su degli inafferrabili haiku, ed
altre volte affonda coltelli incandescenti nei nostri corpi addormentati. Devo
dire che, all’inizio, mi ha un po’ sbalestrato. Stavo tornando infreddolito e
stanco, da una settimana sotto la neve a Merano, ed inizio a leggere questo
“Sonno profondo”. E mi appassiono alla storia della donna sull’orlo della
narcolessia (ricordi Luana?). Dei suoi tentativi di uscirne, ma soprattutto del
suo rapporto con questo uomo dolce, presente ma assente (è sposato ma la moglie
è in coma da qualche parte). Sto finalmente entrando in sintonia con i suoi
ritmi, e con lo sforzo di prendere una decisione (in fondo, è abbastanza
trasparente il dormire per non scegliere), quando poco dopo inizia un nuovo
capitolo. Data la mia ostinata ritrosia a leggere la quarta di copertina non mi
ero accorto che erano 3 racconti. Mi sono allora fermato, quasi bloccato nel
“disinganno”. E sono dovuto arrivare a Bologna per riprendermi ed affrontare il
secondo scoglio. Qui lo scoglio della protagonista è duplice: una donna
occidentale ex-fidanzata del fratello morto ed una quasi-cugina che si sente
colpevole di quella morte. La scrittura è più lieve, anche se più dolorosa. Non
succede gran che, tutti piccoli passi, abbracci, sorrisi, pensieri. Neve che
cade. Tentativo di far vedere un possibile incontro ed un reale scontro fra
diversi modi di affrontare la vita (occidentale ed orientale, tanto per
banalizzare). Ma mi sono ripreso, e dopo Firenze ho affrontato lo scoglio
dell’alcolizzata. Questo è più duro, anche perché è una sensazione a me aliena
(ricordo solo una clamorosa sbronza, a casa di Giuzzo, ma sono ormai passati
decenni…). Anche perché nell’alcol cerca di esorcizzare fantasmi di uno strano
rapporto a tre ormai passato, ma che ha lasciato le tracce del non detto. Terribile
andare avanti quando si doveva dire qualcosa a qualcuno e questo qualcuno
muore. Ma anche qui, come contro-altare c’è un bravo ragazzo, che aiuta senza
imporre, e che (si spera anche se non si sa) la aiuterà ad uscire dal tunnel.
Questo alla fine, mi sembra il messaggio forte che ne esce: siamo solo noi che
riusciremo ad uscire dai nostri demoni. Non può esserci salvezza che non ci
nasca dentro. Tre racconti, tre donne ad un bivio, tre donne che si sentono
colpevoli di qualcosa, e tre persone morte, che sono più ingombranti di macigni
vivi. Ed ognuna, alla fine, usa qualcosa che non può venire che dal proprio
interno, per trovare una via. Non sappiamo (i racconti finiscono sempre due
passi prima) se ci riusciranno. Ma intanto quella è la via su cui pongono i
primi timidi passi, per… e qui lascio i puntini, che ognuno sa cosa saranno per
lui quei puntini. Io non posso che augurare a tutti (ed a me per primo) di
trovare sempre qualcuno che ci sorregga se scivoliamo e ci sorrida se ci vede
andare verso un briciolo in più di serenità. Alla fine, una prova onesta ed una
riprova, che faccio bene a continuare a leggere della nostra amica giapponese.
Banana Yoshimoto “Tsugumi” Feltrinelli euro
7 (in realtà, scontato 5,25 euro)
[in: 01/10/2010 – out: 28/12/2010]
Uno
dei libri più osannati di Banana, ma che a me ha fatto più pensare ad
un’occasione perduta. Intanto risente dall’essere uscito a puntate
nell’edizione giapponese di “Marie Claire”. I vari capitoli sono tutti
ugualmente lunghi (12 pagine ognuno) ed ognuno deve (per la natura del romanzo
a puntate) avere una micro-storia, come fossero 12 racconti imperniati sugli
stessi protagonisti. Che poi sono l’io-narrante, anche in questo testo di nome
Maria, e Tsugumi, l’alter-ego della scrittrice. Come se Banana si scindesse tra
il narratore onnisciente e il protagonista pieno di tutti quei caratteri
(positivi e negativi) che ne fanno un personaggio. Certo non dimentico che, pur
essendo il quarto libro della Yoshimoto, l’autrice all’epoca ha solo 25 anni.
Scrittrice precoce, invero, con le sue caratteristiche peculiari (tocchi lievi,
pochi momenti esteriori, molti movimenti interiori). Ma non dimentico altresì
che siamo nel tumultuoso per l’Occidente 1989, e laggiù in Giappone nulla
arriva dei grandi movimenti storici di quell’annata. I movimenti sono interni,
come detto. In una trama, che si srotola in una cittadina di mare, durante
un’intensa estate che segna una crescita forte dei protagonisti. Di Maria, che
finalmente vede i suoi genitori sposarsi ed andare a vivere insieme. Insieme a
Tokyo, dove non arriva l’odore del mare. Il mare che ha caratterizzato tutta la
giovinezza di Maria, ed il suo rapporto con la cugina Tsugumi. Cugina che
sappiamo malata (ma non di cosa) e sempre con il pericolo di perdere la vita.
Per questo è arrabbiata, per questo tratta in modo che non possiamo non
definire strambo gli altri esseri umani, che non hanno il suo problema di non
sapere se ci sarà un domani. Ed in riva al mare, e sul filo dei ricordi,
ricostruiamo le pietre miliari della loro storia di vita: il rapporto con il
nonno, con i cani, i lavoretti, la figura del padre che torna i fine settimana
(ancora non aveva divorziato), fino all’amore per il giovanotto simpatico (ma
dal nome impossibile). In tutto ciò, si stabilisce questo legame profondo che
fa in modo Maria essere l’unica ad andare oltre le parole ed i gesti di
Tsugumi, per capirne i motivi e le espressioni. Ed anche per giudicarli, nel
bene e nel male. Non sappiamo se poi Tsugumi morirà presto, il romanzo ci
lascia prima (altro tratto di Banana questo di finire i romanzi ed i racconti
uno o due passi prima). Ma ci lascia con la certezza che queste ragazze hanno
fatto un salto in avanti. Tsugumi accettando la sua condizione, e vivendola
senza compatimenti. Maria comprendendo che il mare (la giovinezza,
l’incoscienza) è passata ed ora si deve costruire un futuro solido nella grande
città, nella grande università. Ho parlato di occasione mancata, perché da
questo che ho tirato fuori, che mi rimane delle altre 150 pagine? Poteva venire
una storia forte, un intreccio, anche, minimale, un modo di guardare dal basso
i grandi problemi (come accenna il giovanotto che confessa di riflettere sui
grandi temi della vita quando sta con Tsugumi, ma poi non ci dice quali e
come). Invece, tutto scorre un po’ così, con quelle piccole pennellate da
acquarello giapponese, bellino ma un po’ lezioso, a me che servono emozioni,
impressioni forti alla Van Gogh. Quindi minore, ma sempre con l’abilità
gradevole di chi sa costruire belle frasi (e mi unisco ai ringraziamenti finali
ad Alessandro Giovanni Gerevini che mi sembra abbia fatto una degna
traduzione).
“-Tu hai un animo molto forte e una grande tenacia, così che se anche
dovessi rimanere qui per sempre, riusciresti a vedere molte più cose tu, di
quelli che fanno il giro del mondo. … -Mi sono innamorata di te.” (81)
“Per quanto uno possa invecchiare, l’amore è qualcosa che nel momento
in cui te ne rendi conto, ormai lo stai già vivendo. Ce ne sono di due tipi,
quelli di cui si riesce a vedere la fine e quelli di cui non è possibile. Siamo
soltanto noi stessi che possiamo dire di quale dei due si tratti.” (91)
“Mi piace così tanto che quando
lo guardo negli occhi, mi viene voglia di spiaccicargli un gelato in faccia.”
(92)
“Le cose ci passavano davanti agli occhi, e noi diventavamo grandi.”
(104)
“Quando penso a lei, senza
accorgermene, mi viene da riflettere su cose più grandi di me … I miei pensieri
vanno ad impegolarsi in questioni immense. Come, per esempio, la vita o la
morte. Ma non perché lei è debole fisicamente. Quando la guardo negli occhi …
vengo pervaso da un senso di rigore.” (131)
Segnalo quindi la scoperta di
Murakami, autore noto per altre e ben più strane prose, che qui mi ha coinvolto
(e così la sua musica).
Haruki Murakami “Norwegian Wood” Einaudi
euro 12
[in: 04/03/2011 – out:
20/03/2011]
[tit. or.: Noruwei no mori; ling. or.: giapponese; anno 1987]
Grazie alla curiosità seguita ad
un cenno in un libro di Licalzi (ed ai ricordi di discussioni con Rosa) ho
finalmente affrontato Murakami (metto il nome nella giusta prospettiva europea:
prima il nome, Haruki, poi il cognome, Murakami). E, nonostante le quasi 400
pagine, l’ho letto in un fiato. Bello, complesso nei sentimenti, ma come facevo
a lasciarlo lì? E poi così pieno di musica, tanto che mi verrebbe la voglia di
farne una compilation (tra l’altro, ho letto il libro solo ora perché non mi
piaceva il primo titolo italiano di Feltrinelli, Tokyo blues, che non rispettava
la colonna sonora dei Beatles che punteggia il romanzo, e soprattutto ne
falsava un’interpretazione, se ben vi ricordate i primi due versi di John
Lennon). Non posso dire di conoscere Murakami, e, soprattutto (dalle poche
notizie sullo scrittore di Kyōto, capricorno del ’49), mi pare di capire che
questo sia un romanzo atipico della sua produzione. Non solo perché parla
d’amore, ma anche perché venne scritto in Europa, tra Atene e Roma, dal
trentasettenne scrittore, che lascia la sua traccia proprio nell’incipit
(“Avevo 37 anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747”). Da questo ricordo,
parte un lungo flashback sulla formazione del protagonista, che ci fa piombare
nel suo primo biennio universitario a Tōkyō, ed in tutta l’elaborazione per la
costruzione di un’identità adulta. Certamente, la bella introduzione di Giorgio
Amitrano (nonché la sua traduzione, a parte un punto da chiarire di cui dirò in
finale), e che io, al solito, avrei spostato come postfazione, chiarisce molto
meglio di me sia la genesi che la scrittura del romanzo. Ed accenna ad analisi
(altrove approfondite) sul parallelismo tra questo libro e sia il David
Copperfield di Dickens che il Giovane Holden di Salinger (entrambi citati in
omaggio nel testo). Ma non è su questo che volevo tramare. Solo prenderne
spunto, ribadendone il carattere di “libro di formazione”. E poi passare al
testo, ai personaggi. A Tōru, il protagonista, l’io-narrante, che inizia a
parlare della sua formazione, e sa già dove andranno a finire i personaggi, ma
non ne anticipa mai lo sviluppo, con un grande equilibrio tra il sapere ed il
narrare. Tōru, che come Holden, è un alieno nel Giappone della fine degli Anni
Sessanta (epoca del romanzo), perché non è imbevuto di samurai e tradizione
(anche se li conosce), ma legge libri occidentali, segue corsi universitari su
Euripide, e, soprattutto, ascolta jazz, rock e pop della migliore qualità. Si
aggira per la città, e per la campagna, facendo quello che un po’ fan tutti i
suoi coetanei (beve, scopa, studia, e così via), ma con una sua idea di fondo,
etica e morale, sul trovare qualcosa di giusto per sé, senza cedere alle
lusinghe del facile e dell’apparire. Qualcosa che lo realizzi, cercando di fare
il meno male possibile agli altri, anche a costo di non figurare, di non stare
sempre in primo piano. Per questo (ed è una cosa che mi ha fatto un piacere
enorme) tace se non ha niente da dire. Cerca, nei limiti del possibile, di
essere sincero. Anche a costi dover rimediare ad errori (bello e terribile
quando non si accorge della pettinatura di Midori). Ma pagare per i propri
errori è proprio la cresta dell’onda morale su cui viaggia. Anche a costo di
dire le cose sbagliate, o di far capire di non avere un’opinione sulla domanda
che gli si rivolge. E Tōru attraversa questa sua formazione incrociando due, o
forse tre, donne, che avranno peso e sostanza per farlo maturare. Naoko, il
lato-ombra della vita, la donna del suo amico Kizaki che si è suicidato a 17
anni senza un motivo, cui si lega affettivamente ed emotivamente. Anzi, direi
che se ne innamora. Che vuole tirarla fuori dalla cupezza che ne avvolge la
vita. Perché Naoko non capisce la morte di Kizaki, e questo condiziona tutto il
suo modo di essere. Con quella difficoltà di articolare un discorso ben
formato, che troppe parole ed idee le affollano la testa ed a cui non riesce a
mettere ordine. Ordine di uscita. Per cui tace. E le passeggiate silenziose di
Tōru e Naoko per la città sono bellissime. Midori, il lato-luce della vita,
anche lei con problemi (la famiglia, la morte della madre per un tumore, e via
discorrendo), ma che li affronta e li supera (o cerca di farlo). Come quando,
accorgendosi di non volere più tanto bene al suo ragazzo, decide di lasciarlo
senza prospettive, perché, in un certo senso, non sa fingere. E lei parla,
inventa, tira fuori storie e coinvolge Tōru in avventure pazze, tra cinema
pornografici, terrazze notturne, visite a malati. Tōru viaggia tra questi due
poli, cercando di capire, dove dirigere la sua bussola, e facendo anche lui
delle scelte, difficili, dolorose, ma scelte. Poi c’è la terza, la “vecchia”
Reiko (che quando loro hanno 20 anni già sta sui 37), che diventa amica di
Naoko, e poi amica, confidente e mentore di Tōru, cui (un po’ come il deus
ex-machina del suo amato Euripide) tirerà fuori quello che Tōru sa di avere
dentro, le sue decisioni. E nei colloqui con Reiko riesce a chiarirsi. La vita
continuerà a non essere facile, ma sono arrivato contento all’ultima pagina.
Rimpiangendo di aver aspettato questi 20 anni per leggerlo. Ma, come so bene
dentro di me, la formazione non finisce mai. Guai se finisse. Qui finisco la
trama, ahi quanto lunga, ma sarei rimasto a parlarne ancora. Non vorrei solo
togliere il piacere a chi sarà spinto da me a prendere in mano il libro, se non
lo ha già fatto. Termino rispettando la promessa iniziale, con una domanda al
traduttore. A pagina 258 si parla di ragazzini che giocano a baseball (uno
degli sport nazionali giapponesi), ma si traduce qualcosa con “un gioco pieno
di falli e fuorigioco”. Ora, se c'è una cosa che NON esiste nel baseball sono
proprio i fuorigioco (tipici del calcio in genere). L’unica cosa fuori nel
baseball, sono i fuoricampo, che sono uno dei punti vincenti di una delle due
squadre. Ebbene, se ha tradotto fuoricampo con fuorigioco, merita un 2- in
traduzione; se invece ha tradotto qualcosa d’altro forse arriviamo a 3, ma non
molto. Certo, una riga su 379 pagine può sfuggire, ma, si sa, io sono maniaco.
“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono
uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)
“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che
li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo
stesso modo” (41)
“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la
cosa più seria del mondo.” (93)
“Comunque sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo bacio
della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne so, a
cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per la
prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la
biancheria?” (221)
“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me,
per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è
tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai,
dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che
pensi.” (337)
“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che
questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo,
cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che
dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può
lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità,
forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa
che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza,
possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo
insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci
colpirà all’improvviso.” (349)
Essendo inoltre la prima trama di
maggio, riporto l’elenco delle numerose letture del mese di febbraio, con una
punta assoluta nel bellissimo libro di padre Bianchi e con due illeggibili
libri della Biblioteca del Novecento di Repubblica.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Marco Malvaldi
|
Il re dei giochi
|
Sellerio
|
13
|
3
|
2
|
Michael Connelly
|
La bionda di cemento
|
Piemme
|
11,50
|
4
|
3
|
Yukio Mishima
|
Confessioni di una maschera
|
Repubblica Novecento
|
4,90
|
1
|
4
|
Håkan Nesser
|
Carambole
|
TEA
|
8,60
|
2
|
5
|
Petros Markaris
|
La lunga estate calda del
commissario Charitos
|
SuperPocket
|
5,90
|
3
|
6
|
Ellery Queen
|
Il re è morto
|
Repubblica Giallo
|
5,90
|
3
|
7
|
Arturo Pérez-Reverte
|
El Húsar
|
Punto de lectura
|
7,95
|
2
|
8
|
Åsa Larsson
|
Tempesta solare
|
Marsilio
|
12
|
2
|
9
|
Don DeLillo
|
Rumore bianco
|
Repubblica Novecento
|
4,90
|
1
|
10
|
Patricia Cornwell
|
L’ultimo distretto
|
Mondadori
|
9,50
|
3
|
11
|
Antonio Pennacchi
|
Stregati da Pennacchi
|
Limes
|
12
|
2
|
12
|
Lello Gurrado
|
Assassinio in libreria
|
Marcos y Marcos
|
12
|
3
|
13
|
Henning Mankell
|
Il cinese
|
SuperPocket
|
5,90
|
4
|
14
|
Enzo Bianchi
|
L’altro siamo noi
|
Einaudi
|
10
|
5
|
15
|
David Herbert Lawrence
|
L'amante
di Lady Chatterley
|
Repubblica Novecento
|
4,90
|
3
|
16
|
Ryszard Kapuscinski
|
In viaggio con Erodoto
|
Feltrinelli
|
7,50
|
4
|
17
|
Elias Canetti
|
Le voci di Marrakech
|
Adelphi
|
9
|
4
|
Come si diceva sopra, da poche
ore si è ritoccato il suolo italico, dopo due settimane di intensa lontananza,
fortunatamente senza notizie volte a turbare il godimento dei posti nuovi
visiti e (ri-) visitabili. Ancora troppo vicino è il viaggio per parlarne in
tutti i suoi risvolti, ma sono contento di averlo fatto. Ora comincia Maggio ed
altre prove ci attendono.
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