Non che proprio siano dei bei libri, neanche profondamente ironici, ma i primi due (opera di due scrittori ben oltre i settanta anni) hanno dei pigli ironicheggianti (anche se poi il primo risulta datato come scrittura) ed il terzo mi è caro come continuazione delle imprese dell’ispettore Archibugi nella Roma dei primi anni post-papalini (intorno al 1875 più o meno). Sono comunque gialli italiani, un filone che come si sa, da sempre seguo con interesse. Ripeto, salverei il solo Pietroselli, ma intanto sono utili compagni per viaggi in treno.
Cominciamo da Donati, ariete del ’33, ben altrimenti noto come sceneggiatore.
Sergio Donati “Il sepolcro di carta” Mondadori euro 4,20
[in: 05/02/2010 – out: 08/05/2010]
Una rivisitazione “ironica” dei gialli americani anni ’50? Night-club, ricatti, belle pupe, giornalisti che sanno tutto, poliziotti che arrancano. Forse un po’ troppo fine a sé stesso, ma con qualche ideuzza finale che un pochino riscatta il piattume del resto. Fortunatamente, si legge d’un fiato e non lascia molti sedimenti dietro di sé. Ma poi mi si ribalta tutto, perché cercando notizie scopro che il libro è stato scritto nel ’56 da quel tal Sergio Donati che ha fatto poi cose più egregie, dedicandosi alla sceneggiatura, e diventando la mano feconda di Sergio Leone in molti rimarchevoli film (da Il buono, il brutto, il cattivo a C’era una volta il West). Qui, Donati ancora non venticinquenne, si cimenta quindi con il giallo americano, quello prima della decadenza di Chandler, ancora immerso nelle atmosfere post-belliche alle Piers Marlowe. Ma seppur la penna scorre, l’autore non ha la facilità né il sorriso dei gangster americani. Il giornalista che mette in moto la valanga che travolgerà tutto è simpatico, ma niente di più. Il buono è buono e non si capisce che ci stia a fare. La bella è come al solito (e non c’è bisogno di scomodare Il falcone maltese) un po’ finta ingenua un po’ doppiogiochista. Insomma niente di nuovo sotto il sole. Anzi, ora che so il dato della data (mi sembra di fare il verso a Pinketts) perde ancora qualche punto. L’unica consolazione è appunto quel paio di idee per finali e sottofinali, che sono le uniche note un tantino innovative anche per l’epoca. E non ve le dico (forse se me le chiedete con gentilezza...). Per fortuna c’è un piccolo saggio in coda al romanzo, che ho letto con più allegria di tutto il romanzo. Scritto anch’esso da un più cinematografico che letterario Claudio Farina, campiona alcuni esempi di ironia nel giallo. Ed in poche e brevi pagine ci fa “ironicamente” sorridere tra Arsenio Lupin (il primo ovviamente), Lemmy Caution ed alcune righe di Fruttero e Lucentini. Viene voglia di prendere questi esempi, di rileggerli e di tirarsi fuori dalla finta ironia di Donati. Perché qui si voleva sottolineare l’ipotetica ironia del romanzo, che, ripeto, è solo triste. Ma per trovare quel vero sguardo sarcastico e dissacrante che tende a decostruire le atmosfere cupe, ripenso allo sguardo di Cary Grant in “Intrigo Internazionale” di Hitchcock, e mi riappacifico con il mondo.
Nel mescolare dei generi, continuiamo con Arruga, gemello del ’37, anche lui altrimenti noto per la sua attività base di musicologo, e qui con un divertimento un po’ melomane.
Lorenzo Arruga “Suite Algérienne” Mondadori euro 4,20
[in: 21/01/2010 – out: 25/12/2010]
Ho impiegato quasi un ano per convincermi a leggerlo, e mentre lo leggevo ho avuto più volte la sensazione del déjà vu. Non è niente di entusiasmante, ma è un gradevole passatempo, ad esempio per questo Natale un po’ in toni bassi. Ci sono alcuni personaggi da bel voto: sicuramente Carlone detto Charlie, il poliziotto in pensione (forse per questo mi sta simpatico?) che si ricicla come detective per una radio privata dedicata alla musica classica, ma soprattutto ha il dono di saper disegnare persone e facce (e servirà alla soluzione del mistero); e poi la segretaria Eleonora, un po’ svagata, ma con il tic delle citazioni, una per ogni occasione, ma in ordine alfabetico (se ieri si cita Giuditta oggi si passa a Hugo e domani a Ionesco…). La storia invece è banalotta e un po’ stantia. Un morto ritrovato in una custodia di contrabbasso, un’orchestrale di fila che muore, un direttore d’orchestra rampante che scompare, la responsabile della radio bella e ricca, l’altro direttore tedesco ed invidioso. Un cocktail abbastanza interessante. Ma poi ne esce fuori un beverone classico, tipo un Negroni con molto gin, forse anche buono, ma senza sapori di novità. La storia scorre senza sussulti e si arriva all’ovvia conclusione che tutti si aspettava fin dall’inizio. Ma negli alti e bassi che si citavano, si inserisce la vena natia di Arruga, ben altrimenti noto come musicologo, ed in particolare esperto di operistica. Ora, tutti sanno che sul cantato ho delle difficoltà, ma apprezzo le sue citazioni colte ed alcuni dietro le quinte sapientemente sparsi (non ultime le incisioni storiche che il buon Charlie tiene in ufficio). Quello che più ho gradito (e che sono andato a cercare subito in rete) è la Suite del titolo, pezzo musicale fin ad ora a me ignoto, di cui è autore un francese di poca fama, ma di interessanti brani. Sono così andato a trovare Camille Saint-Saëns e questa piccola suite, che mi ha riportato alla mente le visioni di Algeri, soprattutto nel movimento dedicato a Blidah. Tuttavia così si divaga un po’, e per tornare allo scritto, ribadisco il giudizio limitativo che ne davo all’inizio. La cosa che più mi ha lasciato perplesso, è che mentre ne leggevo mi tornava alla mente, come se ne avessi già sfogliato le pagine, e ne avessi rimosso la lettura. O forse mi rimandava ad altri testi che usavano scenari ed atmosfere simili? Non sono riuscito a sciogliere il dilemma. Certo il libro è stato parcheggiato un bel po’ in libreria, ma l’impressione era proprio di aver letto qualcosa di simile altrove. Ma ricerche accurate non mi hanno fatto fare passi avanti. Rimaniamo così, un po’ sospesi in attesa di chiudere questo stanco 2010.
“Anche nel fare l’amore … quel vizio di esclamare alla fine ‘anche questa è fatta’ … ancora adesso al pensiero gli pesava un poco” (92)
E terminiamo con la terza puntata (ed ho già narrato delle prime due) dedicata alla Roma del ’76 (1800, ovvio).
Massimo Pietroselli “L’affare Testa di Morto” Mondadori euro 4,20
[in: 06/10/2010 – out: 30/12/2010]
Finiamo questo turbolento anno con lettura distensiva, a tratti divertenti. Ritrovo con piacere le atmosfere della Roma ottocentesca di Pietroselli, con gli ispettori Corrado Archibugi e Onorato Quadraccia. E con una vicenda che si svolge tutta (o buona parte) intorno a casa mia. Tra Castel Sant’Angelo e lo Spirito Santo, tra piazza dell’Oro e Tor di Nona, con una puntata all’allora appena costruito Hotel Bristol di Piazza Barberini. E solo i migliori conoscitori possono godere del rinfrescarsi dell’ispettore alla fontana di Scossacavalli, dopo aver visitato il ferito all’Ospedale del Santo Spirito (perché nel 1876 la fontana non stava, come ora, davanti a Sant’Andrea della Valle, ma stava … vediamo chi lo sa!!!). Il solo rimpianto è che per metà romanzo, anche se in modo funzionale alla trama, il buon Corrado scompare. A me sta simpatico, con quella sua aria sempre un po’ problematica, ed il sigaro in bocca appena possibile. Ed ancor di più il suo innamorarsi (reciproco) della bella Lucrezia (e giovane diciottenne, lui che invece sta già sopra i trenta). Mi piace infine tutto il montaggio della storia, dove si ricostruisce in controluce (si sa, stiamo dalle parti del romanzo e non del saggio) una parte degli intrecci che vedevano la luce dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia (e dopodomani comincia il 150°). I Borboni cacciati da Napoli e rifuggiatisi presso il Papa, i francesi a difesa del Vaticano, gli Italiani (ma qui ancora si chiamano piemontesi) a cercare il bandolo della matassa, ed i briganti a cercare di approfittare della situazione, per l’unico tornaconto di cui capiscono l’utilità: il denaro. E nasce tutto dalla comparsa di un orologio a forma di Testa di Morto (come in altro romanzo dannunziano compare ad Andrea Sperelli) appartenuto al brigante Barbazza. Da lì, come in un sano romanzo d’appendice, di quelli ottocenteschi di scuola francese, tutto si diparte. La vedovella e la ciumachella, la perpetua e il carnacciaro, l’onorevole abruzzese ed il suo fido bravo manzoniano. Ma soprattutto vien fuori l’ottimo segugio Quadraccia, ex-sbirro pontificio ora passato sotto il Re. Quello che conosce i bassifondi come le sue tasche e vi ci si muove come fosse del ramo. E fino a quando sta lì, le cose funzionano bene. Quando, per la scomparsa di Archibugi, deve “salire ai piani alti” non riesce a seguire il passo, e commette qualche errore di troppo, che sarebbe sfuggito al non presente Corrado. Tuttavia, e grazie Massimo, i fili non si perdono, le morti hanno un senso e tutti ritrovano il loro posto nella città e nella storia. Vediamo già quei fili che le altre due storie di Pietroselli avevano seminato (soprattutto quelli che porteranno al crollo della Banca Romana). Vediamo i volta-gabbana che faranno cascare il governo Minghetti (niente di nuovo sotto il sole, una volta si affossa ed una volta si salva, ma sempre lì, alla compravendita dei deputati si finisce…), dato che siamo in febbraio ed a marzo sarà Depretis a guidare il governo. Insomma, ripeto, una bella lettura distensivo-natalizia, che rilassa la mente in questi giorni convulsi forieri o prefiguratori di prossime alte vette da raggiungere. E poi, l’autore ci lascia un po’ di sospensione finale, per cui, con lui, possiamo dire, alla prossima…
Siamo già alla seconda domenica di gennaio, domani comincia ufficialmente il nuovo anno, dal punto di vista degli impegni pubblici e sociali. Lasciamoci con una bella carica per affrontare il nuovo (promettente?) anno.
Cominciamo da Donati, ariete del ’33, ben altrimenti noto come sceneggiatore.
Sergio Donati “Il sepolcro di carta” Mondadori euro 4,20
[in: 05/02/2010 – out: 08/05/2010]
Una rivisitazione “ironica” dei gialli americani anni ’50? Night-club, ricatti, belle pupe, giornalisti che sanno tutto, poliziotti che arrancano. Forse un po’ troppo fine a sé stesso, ma con qualche ideuzza finale che un pochino riscatta il piattume del resto. Fortunatamente, si legge d’un fiato e non lascia molti sedimenti dietro di sé. Ma poi mi si ribalta tutto, perché cercando notizie scopro che il libro è stato scritto nel ’56 da quel tal Sergio Donati che ha fatto poi cose più egregie, dedicandosi alla sceneggiatura, e diventando la mano feconda di Sergio Leone in molti rimarchevoli film (da Il buono, il brutto, il cattivo a C’era una volta il West). Qui, Donati ancora non venticinquenne, si cimenta quindi con il giallo americano, quello prima della decadenza di Chandler, ancora immerso nelle atmosfere post-belliche alle Piers Marlowe. Ma seppur la penna scorre, l’autore non ha la facilità né il sorriso dei gangster americani. Il giornalista che mette in moto la valanga che travolgerà tutto è simpatico, ma niente di più. Il buono è buono e non si capisce che ci stia a fare. La bella è come al solito (e non c’è bisogno di scomodare Il falcone maltese) un po’ finta ingenua un po’ doppiogiochista. Insomma niente di nuovo sotto il sole. Anzi, ora che so il dato della data (mi sembra di fare il verso a Pinketts) perde ancora qualche punto. L’unica consolazione è appunto quel paio di idee per finali e sottofinali, che sono le uniche note un tantino innovative anche per l’epoca. E non ve le dico (forse se me le chiedete con gentilezza...). Per fortuna c’è un piccolo saggio in coda al romanzo, che ho letto con più allegria di tutto il romanzo. Scritto anch’esso da un più cinematografico che letterario Claudio Farina, campiona alcuni esempi di ironia nel giallo. Ed in poche e brevi pagine ci fa “ironicamente” sorridere tra Arsenio Lupin (il primo ovviamente), Lemmy Caution ed alcune righe di Fruttero e Lucentini. Viene voglia di prendere questi esempi, di rileggerli e di tirarsi fuori dalla finta ironia di Donati. Perché qui si voleva sottolineare l’ipotetica ironia del romanzo, che, ripeto, è solo triste. Ma per trovare quel vero sguardo sarcastico e dissacrante che tende a decostruire le atmosfere cupe, ripenso allo sguardo di Cary Grant in “Intrigo Internazionale” di Hitchcock, e mi riappacifico con il mondo.
Nel mescolare dei generi, continuiamo con Arruga, gemello del ’37, anche lui altrimenti noto per la sua attività base di musicologo, e qui con un divertimento un po’ melomane.
Lorenzo Arruga “Suite Algérienne” Mondadori euro 4,20
[in: 21/01/2010 – out: 25/12/2010]
Ho impiegato quasi un ano per convincermi a leggerlo, e mentre lo leggevo ho avuto più volte la sensazione del déjà vu. Non è niente di entusiasmante, ma è un gradevole passatempo, ad esempio per questo Natale un po’ in toni bassi. Ci sono alcuni personaggi da bel voto: sicuramente Carlone detto Charlie, il poliziotto in pensione (forse per questo mi sta simpatico?) che si ricicla come detective per una radio privata dedicata alla musica classica, ma soprattutto ha il dono di saper disegnare persone e facce (e servirà alla soluzione del mistero); e poi la segretaria Eleonora, un po’ svagata, ma con il tic delle citazioni, una per ogni occasione, ma in ordine alfabetico (se ieri si cita Giuditta oggi si passa a Hugo e domani a Ionesco…). La storia invece è banalotta e un po’ stantia. Un morto ritrovato in una custodia di contrabbasso, un’orchestrale di fila che muore, un direttore d’orchestra rampante che scompare, la responsabile della radio bella e ricca, l’altro direttore tedesco ed invidioso. Un cocktail abbastanza interessante. Ma poi ne esce fuori un beverone classico, tipo un Negroni con molto gin, forse anche buono, ma senza sapori di novità. La storia scorre senza sussulti e si arriva all’ovvia conclusione che tutti si aspettava fin dall’inizio. Ma negli alti e bassi che si citavano, si inserisce la vena natia di Arruga, ben altrimenti noto come musicologo, ed in particolare esperto di operistica. Ora, tutti sanno che sul cantato ho delle difficoltà, ma apprezzo le sue citazioni colte ed alcuni dietro le quinte sapientemente sparsi (non ultime le incisioni storiche che il buon Charlie tiene in ufficio). Quello che più ho gradito (e che sono andato a cercare subito in rete) è la Suite del titolo, pezzo musicale fin ad ora a me ignoto, di cui è autore un francese di poca fama, ma di interessanti brani. Sono così andato a trovare Camille Saint-Saëns e questa piccola suite, che mi ha riportato alla mente le visioni di Algeri, soprattutto nel movimento dedicato a Blidah. Tuttavia così si divaga un po’, e per tornare allo scritto, ribadisco il giudizio limitativo che ne davo all’inizio. La cosa che più mi ha lasciato perplesso, è che mentre ne leggevo mi tornava alla mente, come se ne avessi già sfogliato le pagine, e ne avessi rimosso la lettura. O forse mi rimandava ad altri testi che usavano scenari ed atmosfere simili? Non sono riuscito a sciogliere il dilemma. Certo il libro è stato parcheggiato un bel po’ in libreria, ma l’impressione era proprio di aver letto qualcosa di simile altrove. Ma ricerche accurate non mi hanno fatto fare passi avanti. Rimaniamo così, un po’ sospesi in attesa di chiudere questo stanco 2010.
“Anche nel fare l’amore … quel vizio di esclamare alla fine ‘anche questa è fatta’ … ancora adesso al pensiero gli pesava un poco” (92)
E terminiamo con la terza puntata (ed ho già narrato delle prime due) dedicata alla Roma del ’76 (1800, ovvio).
Massimo Pietroselli “L’affare Testa di Morto” Mondadori euro 4,20
[in: 06/10/2010 – out: 30/12/2010]
Finiamo questo turbolento anno con lettura distensiva, a tratti divertenti. Ritrovo con piacere le atmosfere della Roma ottocentesca di Pietroselli, con gli ispettori Corrado Archibugi e Onorato Quadraccia. E con una vicenda che si svolge tutta (o buona parte) intorno a casa mia. Tra Castel Sant’Angelo e lo Spirito Santo, tra piazza dell’Oro e Tor di Nona, con una puntata all’allora appena costruito Hotel Bristol di Piazza Barberini. E solo i migliori conoscitori possono godere del rinfrescarsi dell’ispettore alla fontana di Scossacavalli, dopo aver visitato il ferito all’Ospedale del Santo Spirito (perché nel 1876 la fontana non stava, come ora, davanti a Sant’Andrea della Valle, ma stava … vediamo chi lo sa!!!). Il solo rimpianto è che per metà romanzo, anche se in modo funzionale alla trama, il buon Corrado scompare. A me sta simpatico, con quella sua aria sempre un po’ problematica, ed il sigaro in bocca appena possibile. Ed ancor di più il suo innamorarsi (reciproco) della bella Lucrezia (e giovane diciottenne, lui che invece sta già sopra i trenta). Mi piace infine tutto il montaggio della storia, dove si ricostruisce in controluce (si sa, stiamo dalle parti del romanzo e non del saggio) una parte degli intrecci che vedevano la luce dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia (e dopodomani comincia il 150°). I Borboni cacciati da Napoli e rifuggiatisi presso il Papa, i francesi a difesa del Vaticano, gli Italiani (ma qui ancora si chiamano piemontesi) a cercare il bandolo della matassa, ed i briganti a cercare di approfittare della situazione, per l’unico tornaconto di cui capiscono l’utilità: il denaro. E nasce tutto dalla comparsa di un orologio a forma di Testa di Morto (come in altro romanzo dannunziano compare ad Andrea Sperelli) appartenuto al brigante Barbazza. Da lì, come in un sano romanzo d’appendice, di quelli ottocenteschi di scuola francese, tutto si diparte. La vedovella e la ciumachella, la perpetua e il carnacciaro, l’onorevole abruzzese ed il suo fido bravo manzoniano. Ma soprattutto vien fuori l’ottimo segugio Quadraccia, ex-sbirro pontificio ora passato sotto il Re. Quello che conosce i bassifondi come le sue tasche e vi ci si muove come fosse del ramo. E fino a quando sta lì, le cose funzionano bene. Quando, per la scomparsa di Archibugi, deve “salire ai piani alti” non riesce a seguire il passo, e commette qualche errore di troppo, che sarebbe sfuggito al non presente Corrado. Tuttavia, e grazie Massimo, i fili non si perdono, le morti hanno un senso e tutti ritrovano il loro posto nella città e nella storia. Vediamo già quei fili che le altre due storie di Pietroselli avevano seminato (soprattutto quelli che porteranno al crollo della Banca Romana). Vediamo i volta-gabbana che faranno cascare il governo Minghetti (niente di nuovo sotto il sole, una volta si affossa ed una volta si salva, ma sempre lì, alla compravendita dei deputati si finisce…), dato che siamo in febbraio ed a marzo sarà Depretis a guidare il governo. Insomma, ripeto, una bella lettura distensivo-natalizia, che rilassa la mente in questi giorni convulsi forieri o prefiguratori di prossime alte vette da raggiungere. E poi, l’autore ci lascia un po’ di sospensione finale, per cui, con lui, possiamo dire, alla prossima…
Siamo già alla seconda domenica di gennaio, domani comincia ufficialmente il nuovo anno, dal punto di vista degli impegni pubblici e sociali. Lasciamoci con una bella carica per affrontare il nuovo (promettente?) anno.
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