In questo giorno multi - doppio (22
maggio del 2011 e 2x11 fa 22 e 22^ trama dell’anno) torniamo ai classici, quelli della biblioteca di
mia madre, come i miei attenti lettori sanno. Ci vuole ogni tanto un respiro
più ampio rispetto all’inseguire libri e notizie sul filo dei giorni. E molto
bello è il respiro tedesco di Bernhard. A me meno congeniali invece, sia il
classico giapponese (che ho letto per tigna più che per piacere) sia il decano
ex-pubblicitario americano, tanto osannato, ma che a me lascia molti dubbi e
pochi momenti di meditato pensiero.
Ma andiamo a cominciare.
Thomas Bernhard “Il soccombente” Repubblica
Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 11/01/2011]
[tit. or.: Der Untergeher; ling. or.: tedesco; anno 1983]
Avevo sempre avuto difficoltà a
leggere Bernhard, ma qui mi ci sono messo di punta, ed ho vinto. Mi spaventava
quel modo ininterrotto di fluire delle frasi, senza respiro, seguendo i
pensieri. Cosa che è ovviamente presente anche in questo, laddove però la trama
e l’idea base mi hanno coinvolto e tenuto appeso alle pagine. Rispetto ad altre
prove, questo, tra l’altro, mi è sembrato anche molto “personale”. Anche
Bernhard come l’io narrante ha studiato musica. Anche Bernhard come i
personaggi che si intersecano, si è ritirato in campagna, e da lì ha scritto
dal ’60 al ’90 i suoi romanzi ed i suoi lavori teatrali. Torniamo però all’idea
di partenza, che coinvolge, oltre all’io narrante ed al soccombente, il terzo
personaggio, il grande genio del pianoforte Glenn Gould. Tra realtà e finzione,
i tre si trovano in gioventù a studiare pianoforte con il grande Horowitz. E le
loro vite ne vengono cambiate e segnate. Glenn diventerà l’astro inarrivabile,
il genio delle Variazioni Goldberg. Loro due, pur ottimi pianisti, ed
eventualmente destinati a carriere di tutto rispetto, ne vengono annientati. In
modi diversi, perché diverso è il narratore dal soccombente, ma distrutti
entrambi. Di fronte alla perfezione assoluta, loro non accettano di essere
secondi, e di conseguenza, abbandonano la musica. L’io narrante, al centro
della scena (me lo immagino già teatralizzata e forse lo è stato, e se non lo è
stato, lo merita), che per 2/3 del libro sta in piedi nella locanda di
campagna, a riflettere ad alta voce (interiore) su questa vicenda che ha
segnato la loro vita. Ora che si ritrova solo, perché Gould è morto di un
ictus, e Wertheimer si è suicidata. Così in questo flusso ininterrotto si viene
a scoprire tutta la vicenda. Dove Gould passa come una meteora, arriva, suona e
torna in America. L’io narrante regala il suo pianoforte e pensa di dedicarsi
alla scrittura. Ma in venti anni non riesce che a cominciare ininterrottamente
(e poi a gettare) un libro dedicato a Gould. Riesce solo a sradicarsi da
Vienna, ed a trovare il suo buon ritiro a Madrid. Wertheimer invece rimane lì,
per dedicarsi alla filosofia. Accudito ma tiranneggiante la sorella, che alla
fine scappa con uno svizzero (e per di più cattolico). Wertheimer era stato da
Gould soprannominato il soccombente la prima volta che si erano visti, con
quella lucidità di giudizio adusa dei geni. E Wertheimer soccombe per tutta la
vita: a Gould, alla filosofia che non riesce a gestire, al mondo cupo di
Vienna, alla campagna dove si ritira ma che non gli dà sollievo. Ed alla fine,
dopo la morte di Gould e la fuga della sorella, ha un ultimo sprazzo di
lucidità, suona per due settimane le Fughe di Bach su di un pianoforte
scordato, poi prende il treno e si impicca davanti alla casa della sorella.
Ecco, tutto qui, con una tristezza infinta del vivere. Con la possibilità di
slanci sempre tarpati, con l’impossibilità di comunicare. Con le maledizioni
che mandano ai loro genitori perché li hanno fatti nascere in un mondo così
senza speranze. È un libro di una tristezza indicibile, e certo non adatto a
momenti di depressione interna. Ci si domanda perché ed in base a quale utilità
vivere in questo mondo (ogni tanto Bernhard si lancia anche in digressioni
sugli austriaci, sui politici, e su altro che, nonostante i quasi trenta anni
trascorsi sono sempre di utilità). Ma non è questa la cifra che mi ha fatto
riflettere (anche se potente). È l’altra, quella di avere un dono (suonare,
scrivere, o altro) e misurarsi con il mondo. E non trovare l’umiltà di portare
la propria piccola briciola nel paniere comune. Io che ho letto tanto, ogni
volta mi trovo davanti a righe che mi piacerebbe aver scritto, ma che so che
non riuscirei mai a scriverle. Eppur continuo a leggere, e continua a pensare
che il mio rimando, flebile e solitario, possa essere di utilità a qualcuno.
Forse non lo sapremo mai, ma rimandare agli altri qualcosa che si è sentito
dentro, anche se non sarà Gould, anche se sarà il soccombente Wertheimer,
potrebbe far sì che, il ricevente ne faccia un miglior uso. Ed allora grazie
Bernhard, anche per questa tristezza. Ed io tramerò ancora un po’.
“Ha ragione chiamandomi sempre camminatore di strade asfaltate … è vero
che io cammino solamente sull’asfalto, in campagna non cammino … mi annoia
infinitamente” (27)
“Dopo aver superato la soglia dei cinquant’anni, ci sentiamo infami e
senza carattere … si tratta di vedere quanto ancora riusciremo a sopportare un
simile stato. Molti si uccidono nel corso del loro cinquantunesimo anno.” (34)
“Esistere, in sostanza, non significa che questo: essere disperati”
(46)
“Non appena esaminiamo un argomento qualsiasi, rischiamo di soffocare
nell’enorme quantità di materiale che in ogni campo è a nostra disposizione … e
pur sapendo tutto ciò, riesaminiamo da capo i nostri cosiddetti problemi
intellettuali e ci lasciamo sedurre da un’idea impossibile: creare un prodotto intellettuale.
Questa si che è follia!” (64)
“Chi non è capace di ridere non va preso sul serio” (77)
Yukio Mishima “Confessioni di una maschera” Repubblica Novecento euro
4,90
[in: 2003 – out:
04/02/2011]
[tit. or.: Kamen no hokuhaku; ling. or.: giapponese; anno 1949]
Mi ricordavo che Mishima mi era
ostico (dopo tanti anni non ho ancora digerito “Il sapore della gloria”), ed
ora posso ribadirlo con forza: una palla mega-galattica. È vero che bisogna
scindere due momenti della lettura di un testo “storico” come questo: il testo
nel contesto (scusate il bisticcio) dell’epoca in cui è stato prodotto e il
testo in sé, atemporalmente recepito. Ora, se è vero che la prima lettura dà
forza e sostanza allo scritto, la seconda me lo ha reso talmente lontano che,
devo dire, l’ho finito solo per tigna. Comunque, è un merito, rispetto ad altri
testi storici che ho dovuto abbandonare prima di prendere a male parole
l’autore o la sua memoria. Dicevo forza e sostanza, perché è un testo del 1949,
scritto dall’autore allora di 24 anni. Che cerca, con tutte le difficoltà che
potrebbe avere un ragazzo analogamente oggi, di capire prima la sua sessualità,
e poi di accettare la sua omosessualità. Ed immagino lo scandalo di un tale
testo nel Giappone da poco uscito dalla guerra, con una sconfitta che ha
scardinato tutti i principi secondo i quali da millenni viveva la società
giapponese. Con questo ragazzo che vede cadere le bombe su Tokyo e si preoccupa
di più sul fatto che vedere una donna nuda non lo eccita. Penso sia stato un
vero pugno nello stomaco. L’idea che appunto qualcuno potesse nascondersi
dietro una maschera, e cercare di portare avanti una vita rispettosa dei canoni
ufficiali, ma che dentro aveva tutti altri sentimenti. Ma detto questo, il
testo in sé mi è pallosamanete scorso via. Come non pensare a manierismi ed
effettacci quelli per cui si comincia citando qua e là Oscar Wilde, si passa
per una disamina approfondita del San Sebastiano di Guido Reni (sempre per
brancolare tra sacro e profano) e si vibra di turbamento al vedere le ascelle
pelose del compagno di scuola. Effettacci gay un po’ scontati, forse troppo
scontati. E quando si arriva alla soglia dei ventanni, e si dovrebbero
affrontare (certo con turbamenti, ma almeno con serietà) i propri sentimenti, ecco
tutta la seconda parte del libro incernierata sull’infatuazione (finta e di
maniera) per l’ambigua Sonoko. Il tentativo di capire fino a dove arriva la
propria maschera. L’incapacità di decidere. La ricerca che qualcuno trovi una
soluzione al suo posto. E via discorrendo. Lasciando intendere che scegliere di
sposare Sonoko avrebbe continuato a mascherare il proprio essere. E scegliere
di lasciarla l’avrebbe ferita in modo insopportabile. Non vi anticipo la scelta
di Mishima, anche se so che pochi avranno la voglia di leggerlo dopo queste
parole di incoraggiamento. Ma se ne può riparlare, magari con qualcuno che ebbe
il coraggio (che io non ho avuto) di leggerlo in gioventù. Sarà che anche qui
si ribadisce la mia lontananza con le modalità di ragionamento e di
atteggiamento verso la vita che hanno gli orientali, e che io non capisco, ma
mi riesce molto più facile leggere pagine crude di Pasolini, o anche di
Tondelli, piuttosto che questo mattoncino in salsa sushi. Speriamo di tornare
alla brava Banana, che, pur in questa diversità, riesco a comprendere.
Don DeLillo
“Rumore bianco” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 16/02/2011]
[tit. or.: White Noise; ling. or.: inglese; anno 1985]
Mi ero sempre rifiutato di accostarmi
a DeLillo, che in qualche misura accostavo a Leavitt e Bretton Ellis. Ebbene,
facevo bene a continuare così. Che libro inutile! Ovviamente ha vinto mucchi di
premi, soprattutto in America, e i critici lo accostano pesino a Paul Auster
(!). Io ci sento un abisso. Certo, non è un minimalista, anche perché scrive
sempre romanzi fiume di pagine e pagine. Ma l’aspetto di toccare lievemente le
cose, di stare lì a guardare, un po’ rimane. Ma poi viene preso dal fiume
impetuoso di volere dire e fare. Comincia così ad inzeppare le pagine di tutte
le tematiche calde della fine dello scorso millennio: il consumismo rampante,
la saturazione mediatica, l'intellettualismo spicciolo, le cospirazioni
sotterranee, la disintegrazione e la reintegrazione della famiglia, fino ad
arrivare alle qualità potenzialmente positive della violenza umana. Usando quel
tono tra l’alto ed il basso, tra l’umorista ed il dissacrante. Creando momenti
di piacere (devo confessarlo) ma tutto di testa, quando il protagonista Jack è
preso dai vortici di discussione con il figlio maggiore Heinrich. E tutta la
trama viene imbevuta in questa estremizzazione dei modi, tanto per essere
veracemente americana. Il protagonista è un professore di una piccola
università americana, che si è costruito il suo spazio fondandovi il Centro di
Studi Hitleriani (benché non sappia una parola di tedesco). Ed all’Università è
in continua discussione con il suo amico Murray che cerca di fondare un analogo
centro ma sulla figura di Elvis Presley. È sposata con Babette, sua quinta
moglie, e vivono insieme in una casa con una marea di ragazzi, due figli di lui
e due di lei, poi lui ne ha altri due sparsi per il mondo. E tutto il romanzo
scivola, per le sue quasi 400 pagine, tra questi personaggi che si vivono, che
sentono radio e televisione, che vanno al supermercato (tutti elementi che
producono quel rumore di fondo, quel “rumore bianco” del titolo, che è, questa
sì, una delle caratteristiche negative del mondo moderno), che girano per le
strade e si chiedono se prima dell’avvento della televisione fosse tutto così
perdutamente inutile, che hanno paura di morire e cercano di trovare e provare
di tutto (anche psico-farmaci) per vincere questa paura, che vedono la loro
città invasa da una nube tossica (siamo poco prima di Chernobyl) che però non
fa grandi vittime. Alimenta soltanto le paure e le fobie del bel modo di vivere
americano. Da manuale, l’uscita della famigliola a cena, che compra
cibo-spazzatura e se lo mangia in macchina. Mentre ne scrivo, raccontandone
brandelli, sembra quasi interessante. Quello che mi lascia indifferente è
invece proprio questo. Scivola via, pagina dopo pagina, cercando di toccare emi
eccelsi, ma non lasciandomi una briciola di moto dell’anima da nessuna parte.
Forse i 25 anni passati non sono stati clementi con i temi ed i modi del suo
scrivere (ma quanti scrittori con più e più anni lasciano il segno? E come non
ricordare il coevo “Soccombente” da poco letto…). Per di più, è trascinato nel
mio negativismo la non accuratezza della confezione, che speravo voluta, ma
forse no. Titoli di capitolo a volte in numeri romani ed altri in numeri
cosiddetti arabi, il capitolo XVIII che perde la V, e diventa XIII. No, non mi
è piaciuto. L’ho letto per vedere se, prima o poi, scattasse qualche meccanismo
positivo. Purtroppo, sono arrivato alla fine e l’unica cosa che mi rimane sono
qualche battuta qua e là dei due figli, Heinrich e Denise, che, forti dei loro
14 ed 11 anni, dicono le cose più sensate del libro. Cerco qualcuno, ora, che
mi faccia cambiare idea. Per ora, il buon DeLillo torna nell’ombra cui lo avevo
lasciato per tanti anni.
“Fotografano il fotografare.” (19)
“I medici perdono interesse per coloro che si contraddicono … Gli studi
medici mi deprimono ancora più degli ospedali.” (87)
“Si passa la vita a dire addio agli altri. Come si fa a dirlo a se
stessi?” (316)
Ed ora torniamo alla routine
quotidiana, con un mese di fuoco davanti. Il progetto europeo che da tre anni
mi tiene compagnia si avvia alla sua fine al volgere del mese. Poi si tratterà
di scriverne, di tirarne le fila, e di essere interrogati dalla Commissione
Europea il 23 di giugno. Giusto in tempo, si spera, per poter ripartire per
altri lidi, magari sudamericani.
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