Ma cominciamo con un nipote,
meglio del Negus che di Mubarak.
Andrea Camilleri “Il nipote del Negus” Sellerio
euro 13
[in: 10/05/2010 – out: 18/10/2010]
Una
delle storie vigatesi di Camilleri. Non mi ha entusiasmato gran che.
Scorrevole, di facile lettura, anche piacevolmente umoristica, ma poco di più.
Scritta sullo stile de “La concessione del telefono”, con lettera, dispacci,
frammenti di notizie ufficiali, e frammenti di colloqui, dove, in controluce e
senza addentarla direttamente, si assapora ed intuisce la storia in se. Storia
che lo stesso Camilleri ammette essere un po’ bislacca, un po’ ricalcata su alcune
(brevi) vicende para-storiche e molto inventata per mettere alla berlina la
stupidità del potere. Nella fattispecie, siamo intorno al 1930, ed una missiva
urgente impone alla Scuola Mineraria di Vigata la presenza di uno studente
etiope, ma non uno studente qualsiasi, ma niente meno che il nipote del Negus
Ailé Selassié. Su questo ordito, si attorcigliano le storie di Vigata. Il
potere, impersonato dalla polizia, dai federali e dai nobili, con un lontano
accenno a quelli di Roma che qua e là intervengono, che cerca di favorire il
negro al fine di mettersi in buona luce con il Duce e con le sue pretese di
colonie d’oltremare. Il buon negretto, che non si capisce mai se poi sia o meno
un nipote vero, ma sicuramente ha ingegno (soprattutto nel trovare i soldi da
spendere) ed appetiti sessuali notevoli, tanto da sconvolgere il quieto
andamento delle signorine vigatesi. I giovani, tra Ninetta che si innamora del
fusto nero ed il biondo tedesco dagli appetiti non “regolamentari”. Nonché le
donne da marito, che vedono o sognano o cercano un futuro diverso. Alla fine
l’etiope avrà la meglio sulla stupidità, in quanto, benché con l’intelligenza
monodiretta, riesce a metterla a frutto ed a cavarne guadagno. Gli altri ben
poco. Gli onesti ma deboli finiranno al solito stritolati dalla macchina messa
in moto. I disonesti e gli arroganti avranno comunque modo di trarne dei loro
piccoli vantaggi, almeno scaricando il massimo delle colpe sui primi. Ma il
tutto, benché piacevolmente scorrevole non morde più di tanto. Non c’è una
storia come ci abitua in altri scritti. Né tante storie che si intrecciano,
come anche lì in più fortunati tentativi di scrittura. Certo, aumenta la
cosmogonia vigatese, ma rimane comunque monca e non “compiuta” come quella del
lago di Como di Vitali. Si segue la storia, se ne capiscono i risvolti, ma, ad
esempio, tutta questa sarabanda di messaggi tra questori, questurini, federali
ed altro ogni tanto si perde, perché bisogna ogni volta ricordarsi chi è il
personaggio che scrive, ed a chi scrive. Così che alla fine, almeno io l’ho
letta un po’ lasciando correre questi riferimenti e rimandi. Sono d’accordo che
quegli anni erano pervasi da tante correnti, e che l’arroganza che occupava il
potere non poteva essere più ridicola. Ma la storia si ripete, ed anche ora
assistiamo ad occupazioni di posti significativi da parte di persone quanto
meno scarsamente degne. Ed il ridicolo, prima tracima in farsa, poi, purtroppo,
dilaga in tragedia. Avrei preferito qualcosa di più compatto. Forse sarebbe
stata una buona lettura estiva, ma ora, alle soglie del freddo inverno, merita
poco più della sufficienza. Speriamo nella prossima, Andrea.
Dalla Sicilia un grande salto
verso l’Appennino tosco-emiliano.
Cristiano Cavina “Alla grande” Marcos y
Marcos euro 10 (in realtà, scontato 7 euro)
[in: 13/10/2010 – out: 26/10/2010]
Inserito
rapidamente nelle liste di lettura, per festeggiare la riapertura di
Feltrinelli Repubblica, è balzato presto in sala lettura. Gradevole,
scorrevole, forse mi aspettavo qualcosa in più, ma ci può stare. Cavina non lo
conoscevo, ma leggendone in giro mi sembra che gran parte di questo libro, se
non direttamente autobiografico, sia quanto meno traslatamente incentrato su di
un sé. Che come Cavina, nasce a Casola Valsenio (chi sa dov’è?) e lì trascorre
la sua infanzia e adolescenza. Lo incontriamo sulla soglia delle Scuole Medie,
con tutti i problemi dei giovani tipici sia in generale che nella metà degli
anni Ottanta, epoca del romanzo. Un protagonista intelligente e fantasioso,
pieno di risorse, che tuttavia è inserito in un mondo difficile dove non sa,
non riesce a prendere le giuste distanze. Una madre sola (che fa mio padre? Non
dove sia, ma quale sia l’occupazione, per poter fare a gare con i compagni “il
mio è più bravo del tuo, ecc. ecc.”). Una fantasia sfrenata che gli fa
confondere sogno e realtà. Lui pirata, lui condottiere, lui che vola con la sua
bicicletta, che salva il mondo, o almeno la sua famiglia, che parla a tu per tu
con il Signore (belle e rimembranti le tirate da chierichetto). Cavina riesce a
cogliere in modo lieve una fotografia della provincia di quegli anni. Il prete,
il maresciallo, le case popolari e la fauna che le abita e dall’altra parte
villini e casette di semi-campagna, i sogni adolescenti lontano dalla tv, i
boschi che diventano giungle, ed altri piccoli tocchi degni di un bel quadro di
fine Ottocento sulla campagna toscana (vabbè qui siamo in Emilia, quanto siete
precisi). E soprattutto i conflitti tra gli adolescenti ed i giovani, lì dove
4-5 anni diventano un abisso. E dove la violenza dei più grandi è vissuta con dolore
e con impossibilità di ribellione. Al centro, la figura del Casaccia, detto
Bla, perché parla sempre, sogna, inventa, costruisce castelli e poi li
distrugge, segue il filo del primo innamoramento ed altre turbe che tutti
abbiamo passato, che, nel suo modo disordinato, vuole bene a tutti, anche alla
diversamente abile, allo sfigato, ed a tutta la fauna che potrebbe costituire
la sua flotta di pirati, se lui fosse un pirata. Mi sono deliziato al suo
possedere un unico volume dell’enciclopedia, quello che contiene le lettere C-D
e cercare in quello tutte le risposte. Mi è piaciuto molto la facilità delle
descrizioni della ciurma di Bla, da Fattura a Bomba, da Donna a Milena. Due
righe e li vediamo, sgraziati, inadeguati, ma comunque veri e pronti a saltare fuori
dalle pagine. Scritto sul filo dei trentanni, mi sembra una buona prova di
scrittura, ed una buona prova di coraggio delle edizioni Marcos y Marcos
(pubblicare esordienti non è mai cosa facile, ma questa casa editrice piccola
ma non minuscola ha sempre mostrato un buon coraggio). Insomma, leggere e
prendere spunti per capire quello che eravamo e non siamo più e quello che ora
sono loro ed a volte non li capiamo.
E terminiamo con Torino, anche se
da Baricco mi aspettavo qualcosa di più e meglio.
Alessandro Baricco “City” Feltrinelli euro
8
[in: 01/06/2010 – out: 07/12/2010]
Continuiamo
sul lato moscio del buon torinese. Nel senso che anche qui non ho capito bene
cosa voglia dire, dove vuole arrivare. In altre prove, più scarne, più
essenziali, era discretamente chiaro il messaggio sotteso, anche quando è solo
un messaggio di ironia, o di malessere, o di fotografia della vita (penso a
Novecento piuttosto che Questa storia). Quando, come in questo caso, si imbarca
in vicende complesse, ogni tanto mi sembra si faccia prendere la mano
dall’affabulazione. Tant’è che sul finire tutte le storie accumulate si
smagliano e vanno a perdersi in un glissando che a me lascia poca contentezza.
Qui poi, ci sono ben tre filoni che, con diverso peso, si vanno srotolando per
le (forse troppe) quasi trecento pagine. La storia cardine, del piccolo genio
Gould che bazzica meno che quindicenne le università, dove già gli si
prospettano Nobel a breve, ma che vive da solo con un padre militare presente
solo al telefono, una madre (probabilmente) in una casa di cura ed una
“badante”, ma più che altro una ragazza dai piedi per terra che cerca di
riportare tutto e tutti alle minute cose. Poi c’è la storia della boxe (forse
inventata da Gould o forse no) e della folgorante carriera di Larry “Lawyer”
Gorman e del suo maestro Mondini. E poi ci sono i racconti western di Shatzy
Shell, con la storia della città cui viene rubato il tempo, e dell’orologiaio
che trova il modo di farlo ripartire. Certo, l’estro di Baricco ogni tanto
viene fuori dalle righe (le citazioni di Jack La Motta tipo “La boxe la fai se
hai fame” sono impagabili, i dialoghi hanno sempre quel tocco di ironia che a
me piace) ma è un po’ un esercizio di stile, una bravura che non si può negare
a chi, e ne sono convinto, del talento ne ha. E quando affabula in altri
contesti (quanto amavo Totem o le divagazioni su Omero!) raggiunge quel giusto
mix tra le cosiddette culture “alte” e “basse” che consentono di toccare
poliedrici argomenti e tirarne fuori dei ragionamenti interessanti. Ma qui,
come detto, lo perdo un po’. Certo, l’uso paradigmatico della boxe come maestra
di vita è esso stesso interessante (ma forse un po’ scontato’). La ripresa di
“stereotipi” del western (il pistolero stanco, il dropout che risolve il
mistero, le gemelle anziane, il vento che spazza la prateria, il barista che sa
ma che non dirà mai, le partite di poker, la donzella di facili costumi ma di
grande cultura) è degna di buona resa, ma, a parte il nodo legato al
bell’orologio ed al tempo che si ferma, non riesce a prendere. O forse sì, ma
annegato tra un mare di altre cose, si perde e si annacqua. E poi rimane il
filone centrale, il piccolo genio e soprattutto il saggio del prof. Kilroy
sull’onestà intellettuale (che riporto integralmente). Le storie intrecciate di
Gould, Shatzy, il generale, e poi la madre, e Diesel e Poomerang sono lì, ben
scritte, visibili. Ma non è che riempiano il tutto di una grossa voglia di
scrivere. Se da una parte è un libro che ha tutto un suo mondo dietro (ed un
sito web interessante www.labcity.it)
dall’altro rimane questo messaggio disperante: forse per mantenere la propria
onestà intellettuale in questo mondo poco onesto, il meglio è tacere. Non lo
so. Si apra morettianamente un dibattito.
“è così quasi sempre: si scopre alla fine che il dolore, tutto quel
dolore, era inutile, che si è sofferto come bestie, ed era inutile, non era né
giusto né ingiusto, non era bello o brutto, era solo inutile, tutto quello che
puoi dire alla fine è: era un dolore inutile” (19)
“Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì
che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei
mai.” (37)
“di colpo, ti viene in mente quella domanda, chissà come sto, IO?, vorrei
sapere solo questo, come sto, IO? Qualcuno sa se sono buono, o vecchio,
qualcuno sa se sono VIVO?” (130)
“SAGGIO SULL'ONESTA' INTELLETTUALE: 1. Gli uomini hanno idee. 2. Gli
uomini esprimono idee. 3. Gli uomini esprimono idee che non sono loro. 4. Le
idee, una volta espresse e dunque sottoposte alla pressione di un pubblico,
diventano oggetti artificiali privi di un reale rapporto con la loro origine.
Gli uomini le affinano con tale ingegno da renderle micidiali. Col tempo
scoprono di poterle usare come armi. Non ci pensano su un attimo. E sparano. 5:
Gli uomini usano le idee come armi, e in questo gesto se ne allontanano per
sempre. 6. L'onestà intellettuale è un ossimoro. Conclusione: Un’altra vita,
saremo onesti. Saremo capaci di tacere.” (161)
Come non sapete, il viaggio verso
Chennai è ormai appeso ad un filo. Non c’è molta gente che ha tempo e voglia di
staccare per un marzo indiano, anche se il tempo è uno dei migliori per il
viaggio. Non so se quindi si farà. Ma spero di partire comunque. Perché ho
bisogno di mettere la testa su altri cuscini, magari tra le nuvole.
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