Ma andiamo in ordine di lettura,
cominciando con uno degli ultimi libri da recensire letti lo scorso anno.
Jonathan Coe “Donna per caso” Feltrinelli
euro 6,50 (in realtà, scontato 4,88
euro)
[in:25/07/2010 – out: 19/12/2010]
Il
primo libro di Coe, in cui già si vede il modo di scrivere che mi piacque molto
ne “La famiglia Winshaw”. Qui, però, è messo al servizio di una storia che più
triste non si può… Intanto, mettiamo un punto a favore proprio sulla scrittura.
O meglio, sul modo di porsi dell’io narrante rispetto alla storia. È una sorta
di voce fuori campo, che accompagna tutto il film, non con intenzioni
didascaliche quanto da demiurgiche. L’impressione mia è proprio di assistere ad
un film della vita di Maria (nome omen) in una sala ben riscaldata, dove un
sapiente commentatore ci fa vedere il susseguirsi delle scene, ce le commenta,
e, poiché conosce già la storia, va su e giù per il testo, citando cose che
verranno e ricordando cose successe. È un po’ l’atteggiamento che altrove
citavo dell’autore che sa tutto, e si sente in diritto/dovere di punzecchiare
sia i personaggi dello scritto sia i lettori. A volte i risultati sono godibili
(qui lo sono in alcuni passi), altre volte rimangono freddi esercizi (e spesso
mi verrebbe da interromperlo, di fare una discussione, perché autore commenti
così l’atteggiamento di Maria? E se invece si potesse interpretare…). Ma se la
scrittura può essere discussa, ed è un elemento positivo del testo, quello che
mi ha depresso è l’argomento. Lo scorrere della vita di Maria, cui non
succedono cose particolarmente belle e/o significative (forse a parte vincere
il concorso di ammissione ad Oxford) e che trascina la sua esistenza, in
maniera casuale, cioè rispondendo, ma senza vigore, al caso che le viene
addosso. Il caso che le fa incontrare A prima di B, che le fa bere vino invece
di tè, e via di accidente in accidente, ogni volta il caso le porta qualcosa di
ancora più deprimente, e lei non solo non fa nulla, ma scivola nella vita, come
se appartenesse a qualcun altro. E così fa una vita sbagliata ad Oxford, fa un
matrimonio sbagliato, una gravidanza sbagliata, un fidanzamento sbagliato. Ma è
tale l’ignavia del suo modo di affrontare la vita, che la seguiamo per 15 anni,
fare un giro a tutto tondo per tornare al punto di partenza (più o meno). Ma
fai qualcosa, cribbio! Urla, piangi, sorridi, corri. È vero che l’autore ci
sottolinea che non c’è nulla che la smuove, apaticamente abulica. Ma perché,
allora, dovremmo seguirla per tutte queste pagine (che in fondo non sono tante,
ma lo diventano)? Perché Coe la mette in tutta una serie di situazioni in cui
noi diremmo: allora fai così, allora dici questo, e così via. E Maria non lo
fa. Anzi, ogni volta, come perversamente, dovendo scegliere tra due
alternative, immancabilmente sceglie la più funesta per la sua vita successiva.
Pagina dopo pagina, aspettavo un riscatto: ora le succede qualcosa di bello,
ora avrà un po’ di fortuna, ora si riscatta. Ma lei no. Maria continua a
scendere le scale dell’inesistenza (cioè di un’esistenza senza nessuno sbocco).
Riuscendo anche a sbagliare anche il suicidio. In fondo però sarebbe stato un
colpo di coda troppo forte. Ed allora forse Coe ci presenta questo mondo come
il contrario di quello che dovrebbe essere per avere un briciolo di felicità.
Come quando Maria ascolta la musica al buio o fa le fusa con il gatto. Ma
questi episodi di pseudo-felicità sono ben presto lasciati, perché la
partecipazione di Maria era tutto fuorché con la testa. Avrei dato un po’ più
di voti al romanzo, se almeno avesse virato nelle procellose acque del comico
(come avrebbe fatto se a scriverlo fosse stata che so la Campo che un po’ usa
la stessa tecnica di scrittura). Ma no, niente risate. Ed alla fine, solo una
grande, immensa tristezza, neanche rischiarata da un barlume di speranza
interna. Però Coe non mi dispiace ed alla fine penso che tornerò a leggerne.
“Era fermamente contraria ad essere contenta o eccitata senza motivo”
(15)
“Non c’è nulla di più deprimente del ricordo della felicità … non c’è
nulla di più piacevole dell’attesa della felicità” (36)
“Non voglio che tu sia educata. Voglio che tu sia mia amica” (125)
Passiamo a Fabio, ed alle sue
turbe amorose.
Fabio Volo “È una vita che ti aspetto” Mondadori euro 9 (in realtà,
scontato 7,20 euro)
[in: 23/04/2010 – out: 19/01/2011]
[titolo originale; lingua italiano; anno 2003]
Ci voleva un buon libro, non
impegnativo, ma neanche proprio “a tirar via”. Qualcosa di leggero, senza
giallo intorno. Ho scoperto che, anche se con andamento ad altalena, non mi
dispiace leggere di Fabio Volo ogni tanto. È un buon interprete di sentimenti
“giovanili”, dove tuttavia si tratta di modi di essere che sono poi senza
tempo. Inoltre, qua e là ci sono momenti comici tra cui una sequenza memorabile
(ho riso da solo per 5 minuti) sul primo appuntamento di Francesco e Ilaria
(che fortunatamente non hanno nessun tratto dei più famosi coniugi Totti!).
D’altra parte è Francesco che ci guida attraverso i turbamenti dei suoi
trentanni, con i dubbi sulla vita, sul rapporto con gli altri, con le altre,
sul significato di avere dei genitori, sul lavoro che ti succhia dentro, giorno
dopo giorno, tutta la linfa vitale. Come dice ad un certo punto un panettiere
con cui chiacchiera, è bellissimo aver un lavoro che ti piace. Direi che è
bellissimo e, purtroppo, non molto facile. Certo, ogni tanto si pontifica un po’,
ma senza pedanterie, così come viene che si possa fare. Soprattutto quando si
ha il coraggio di dire le cose. Anche qui ci sarebbe bene un purtroppo: che
spesso abbiamo paura/vergogna di dire quello che pensiamo in fondo, sembrando
di volta in volta, sterile, futile, sciocco, o altro. O magari pensiamo che
così gli altri si stufino di noi. Francesco mi ri-verifica la verità che per
stare bene con gli altri devi stare bene con te stesso. E devi star bene, saper
stare, con te stesso. Francesco passa così dal generico disagio (“Sto male e
non so perché”), attraverso fasi ipocondriache, verso la consapevolezza che sta
male perché non vive, non affronta le cose che lo fanno star male. E così, pur
non avendo la forza di cambiare lavoro, cerca di averne un rapporto diverso. E
così con gli amici. E così con le donne. Scoprendo una grande verità, che
quando sei ricettivo ed aperto senza pre-concetti, lì è il momento che
succedono cose. Sta a noi capire se vale la pena o meno di seguirle. Ma in
genere sì. Mollando finalmente (parlo per me) quel freno a mano che spesso fa
finire male tutte le gite in auto. Un po’ troppo consolatorio nel finale, ma ci
può stare. Anche io, ora, avevo bisogno di un finale così. Detto un mondo di
buone parole, un piccolo appunto. Tutta la parabola (che comincia con un
accenno a pagina 84 e viene ripresa più volte sino alla fine) sul camminare nel
proprio spazio interno, lì dove non si è portato o fatto entrare nessuno è
presa paro paro da “Nel cuore nell’anima” della buona Equipe 84 (guarda la
coincidenza con la pagina) dove si diceva che “c'e' un prato verde che mai nessuno
ha mai calpestato, nessuno; se tu vorrai conoscerlo cammina piano, perché nel
mio silenzio anche un sorriso può far rumore” (ed il testo era dell’ottimo
Mogol). Alla prossima, Fabio.
“Se vuoi essere felice, se vuoi essere libero, impara ad amare. Ad
amare, e a lasciarti amare.” (27)
“Avevo una struttura che mi impediva la meditazione. Fisicamente
destinato alla superficialità.” (32)
“Ho deciso di lavare i piatti … Purtroppo tra i piatti c’era anche lo
spremiagrumi. E solamente chi ha avuto a che fare con uno spremiagrumi
incrostato di arancia può capire la fatica che si fa per ripulirlo. Ci
vorrebbero i petardi. … Se dovessi scrivere un elenco di consigli per la
casalinga, questo sarebbe fra i primi cinque. Dopo aver fatto la spremuta
risciacquare subito.” (50)
“Insomma, impari una cosa, ma vale solo per la persona con cui l’hai
imparata. Le donne sono tutte diverse.” (93)
“Non è un caso che la voglia di cambiare il mondo mi sia venuta proprio
quando ho maturato la consapevolezza del mio futuro. … Volevo cambiare il mondo
e alla fine ero cambiato io. Ho cercato di capire solamente quando era avvenuto
il baratto. … Forse perché ci sono entrato un po’ alla volta. Forse perché ho
avuto la presunzione di pensare di poter entrare in acqua senza bagnarmi. E
così, lentamente, giorno dopo giorno, ho fallito e sono caduto nella rete
anch’io.” (115)
“Volevo dare delle carezze, ma siccome non le davo alla giusta velocità
diventavano schiaffi. Volevo dividere con gli altri quello che avevo scoperto…
Invece, nel mio approccio diventavo presuntuoso. Sembrava volessi imporre le
mie idee come uniche e assolute.” (128)
“Avrei voluto dirle un milione di cose e l’ho fatto. L’ho fatto stando
zitto e abbracciato a lei.” (173)
E terminiamo ancora con Coe e con
quello che meno mi è piaciuto.
Jonathan Coe “Questa notte mi ha aperto gli
occhi” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato 5,63 euro)
[in: 01/10/2010 – out: 22/01/2011]
[tit. or.: The Dwarves of Death; ling. or.: inglese; anno 1990]
Mi
era piaciuto il primo che lessi ed il primo che scrisse (pur con dei puntini di
domanda). Questa seconda prova, invece, mi è andata di traverso. Per il
contenuto e per la confezione italiana. Intanto se avessero tradotto il titolo
“I Nani della Morte” invece di svolazzare sulla “morale” finale, sarebbe stato
meglio. I Nani, si scopre ad un certo punto, sono un oscuro complesso punk, che
ha realizzato un paio di 45 giri all’epoca d’oro del punk inglese. Ed hanno una
stretta connessione con la vicenda. Aprire gli occhi, cioè capire le
stupidaggini di cui si è vissuto sin lì, quasi venticinquenne in cerca di
gloria musicale, è forse quello che capita al protagonista William, dopo una
notte in cui vede, uno dopo l’altro andare in fumo i suoi sogni musicali, i
suoi sogni amorosi, financo i suoi sogni amicali. Ma il titolo anticipa troppo,
e forse male. Secondo punto dolente, se qualcuno rileggesse le traduzioni, a
pagina 34 il protagonista si lancia in una dissertazione distruttiva sulla
musica plagiaria di Andrew Lloyd Webber, citando alcuni furti. Ma tra questi,
come si fa a confondere “O mio babbino caro” dal Gianni Schicchi di Puccini,
con un anonimo “O mio bambino caro”? Terzo elemento della confezione, in questa
edizione 2008 viene premesso uno scritto di Coe sui suoi rapporti con la musica
(senza nessuna spiegazione) e viene lasciata una coda di un racconto di poche
pagine che usa nomi e personaggi del romanzo. È un caso? Un tentativo di dare
una confezione diversa ai prodromi e ai postumi del romanzo? Questa fine è
scritta otto anni dopo il romanzo. Ma perché appiccicarla lì? Veniamo ora al
contenuto. Purtroppo l’ho letto ora, e, ora, sembra una compilation di scritti
tra Nick Hornby e Fabio Volo, passando per David Trueba e Gianluca Morozzi
(scusate i paragoni estremi). Peccato che questi quattro abbiano scritto libri
“intonati” a Coe tra il 1995 ed il 2003, e questo lo precede di 5 anni. Forse
letto subito avrebbe avuto altro effetto. Qui, la storia del musicista sfigato,
che non riesce a dar spazio né alla sua vena artistica né alle sue pulsioni
amorose è annegata nel clima dei primi film di John Landis (“Blues Brothers”,
“Un lupo mannaro…” e “Tutto in una notte”). Ma non decolla mai. William rimane
passivo per tutto il romanzo, subisce e non capisce, anche se alla fine sembra
aver aperto gli occhi. E tutte le storie rimangono lì, un po’ sospese. Nessun
filo terminale che ricuce i destini dei complessi musicali (la Alaska Factory o
gli Unfortunates), che ci dia conto della sparizione di Chester, o del futuro
di Karla. Anche il promettente rapporto a bigliettini con Tina non viene
chiuso. E poi chi è veramente Madeline? Ecco, l’unica cosa che mi è piaciuta
sono gli exergo degli Smiths. Un po’ poco. Mi sa che per un po’ il buon
Jonathan tornerà a poltrire negli scaffali, accanto ai suoi amici della
generazione Blair.
Allora bagagli in preparazione,
contatti presi, gruppo formato (e qualche buon amico di accompagnamento).
Infine, un grazie ad Ennio per la pubblicazione della mia lettera su Linus.
Certo le mie soluzioni sono contorte, ma mi ha fatto in ogni caso piacere
vederla lì (ed ora aspetto qualche feroce critica sulla loro contorsione…).
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